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Autore: Melanto    06/07/2020    3 recensioni
[Sequel di 'Malerba']
Un figlio morto, uno che lo odia e una moglie che lo sopporta. Questo è ciò che possiede Akio Morisaki, oltre al suo lavoro, e pensa di non meritare nient'altro.
Ma quando la solidità che gli è sempre valsa il nomignolo di 'sequoia' inizia a vacillare, gli toccherà fare anche quello che non avrebbe mai pensato pur di tenere strette le proprie radici alla terra e capire, perduto nel tempo che aveva creduto di controllare, quanto profonde siano quelle della sua famiglia.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Roots - Capitolo 7

 

 

 

- VII: Così vicini... -

 

Se arrivare fino al cancello gli era sembrato difficile, riuscire a mettere piede in casa si rivelò un’impresa titanica.

Sua madre, dopo essersi sincerata che fosse davvero lui lì fuori, era rientrata per aprire e poi era corsa di nuovo all’esterno per accoglierlo, nemmeno fosse stato l’Imperatore in persona.

Shuzo si era trovato in difficoltà anche solo per fare i pochi metri del vialetto che univa il cancello alla porta. La berlina scura di Akio non c’era stata, quindi aveva calcolato bene i tempi. Dopotutto, nelle poche memorie domestiche che aveva, non ricordava mai che lui fosse tornato a casa prima delle otto di sera. Aveva poi guardato il melograno: ricco di foglie ed esplosioni vermiglie era apparso meraviglioso e se n’era compiaciuto, ma doveva essere tutta opera del giardiniere. Si era chiesto se fosse stato ancora il signor Inoue o magari suo figlio. Chissà.

«Che bella sorpresa mi hai fatto! Non ti aspettavo!» sua madre era euforica e lo precedette in fretta di qualche passo. In un attimo era di nuovo già sulla soglia. «Vieni, entra. Ti preparo del tè? Ho quello del Kokoro. Gyokuro o matcha

«No, ma’. Non ce n’è bisogno. Sono davvero di fretta, un saluto.»

In realtà, la sua idea era stata quella di prendersela con calma e fermarsi di più, ma una volta lì il desiderio di fuggire – come già accaduto in passato infinite volte – era tornato. Lo fece sentire di nuovo adolescente e intrappolato.

Shuzo si fermò fuori della soglia, sua madre già dentro.

«Stavi andando alla KadouEnshu?»

«Ho lezione e dopo c’è la cena annuale con i sensei delle altre scuole della zona.»

«Oh, capisco. Una serata impegnata e all’insegna della socializzazione, proprio come piace a te.»

«Ah, ah. Divertente. Tra te e Mamoru non so chi si sia sprecato di più in battutine a riguardo.»

Yumeko gli fece un altro cenno. «Dai, vieni. Almeno il tempo di un dolce ce l’hai, no? Ho anche del succo di frutta in frigo.»

«Ma quanti anni credi che abbia?»

«Abbastanza per continuare a bere del succo di frutta. Ti fa bene, l’ho fatto io con l’estrattore, mica è roba commerciale. E allora, vuoi entrare o te lo devo portare qui?»

Shuzo, le mani di nuovo affondate nel chiodo nero, prese un profondo respiro ed entrò.

L’odore di casa lo stilettò con un colpo dal basso verso l’alto. Lo sentì tutto e si fermò di nuovo al centro dell’ingresso dopo aver chiuso la porta.

Nei suoi ricordi, quell’odore era stato carico di miso; la signora Sonoko preparava la zuppa ogni giorno, a tavola non mancava mai, né a pranzo né a cena, se non in rare occasioni in cui magari mangiavano western food. A volte aveva avuto l’impressione che quell’odore avesse finito con l’impregnare le pareti, e magari aveva avuto ragione, perché anche se non dominante come un tempo, Shuzo fu in grado di sentirlo ancora. Odore di zuppa calda, tofu, alga wakame e brodo dashi. Forse lo stava solo immaginando.

«Sei ancora lì? Togli le scarpe e vieni in cucina!» Dal fondo del corridoio su cui si apriva casa, Yumeko si affacciò sorridente. «Ti ricordi, vero, come ci si arriva?»

«Non sono mica scemo, ma’», sbuffò Shuzo.

Scemo ci si sentiva, però, mentre era ancora fermo, con le mani nelle tasche, e ritto. Davanti agli occhi l’ingresso che si allargava, il corridoio che indicava le strade da prendere e le eventualità. Dove volevi andare? Cucina, salotto, studio, sala da pranzo, bagno? Oppure salire al piano superiore?

Dove vuoi andare?

Gli occhi di Shuzo puntarono la scalinata che portava alla zona notte. La guardò dal basso con insistenza, la stessa di quando fissi qualcosa che non dovresti vedere né desiderare, tanto non vi potrai accedere più. Eppure, dopo un attimo era lì, che saliva i gradini e le dita scivolavano sul corrimano. La sensazione del legno gli ricordò di quando lui e suo fratello andavano sempre di corsa, tra i rimproveri di Akio e quelli della governante. Ma loro sembravano sordi e nelle gare a chi arrivava primo non ascoltavano nessuno. Gli scalini li mangiavano due alla volta. Le scivolate che avevano preso quando scendevano e non guardavano le ricordò subito tutte; la ciabatta appoggiata male, il calzino che non faceva grip e le loro chiappe che imparavano a memoria lo stesso tragitto, costellandolo di lividi.

Sul piano, la luce entrava dalla finestra sul fondo e poi erano solo porte chiuse.

Camera dei suoi, la prima a destra.

Camera degli ospiti e degli armadi con i futon, i kimono di sua madre, quelli di suo padre e i loro, la prima a sinistra.

Camera della signora Sonoko la seconda a sinistra. Chissà ora per cosa veniva usata?

Camera sua e di suo fratello, la seconda a destra.

Shuzo la raggiunse con un passo che non faceva neppure rumore; il suo sguardo ipnotizzato dalla maniglia d’ottone, accompagnata poche volte e sbattuta tante. Yuzo spuntò dalla sua pancia, correndo con le gambe di bambino che già erano veloci e allenate, e lui dietro, sempre troppo lento.

Arrivò alla maniglia, la toccò.

Primo!

Non vale!

Sì, che vale! Sei tu che non fai sport! Perché non corri con me?

Sarebbero passati anni prima che fossero davvero riusciti a correre insieme e Yuzo sarebbe sempre stato troppo veloce.

Gli venne la nausea e serrò gli occhi. Era da tanto che non sentiva la mancanza fargli così male. Era stato capace di affrontare la sua tomba, di stare con Mamoru davanti a lui, di baciarlo davanti al butsudan e ora quell’assenza che era stato convinto d’aver digerito era tornata prepotente.

Prese un respiro profondo e quando riaprì gli occhi i ricordi non c’erano più e lui era fermo davanti alla porta. Girò la maniglia ed entrò in camera.

L’odore di Yuzo lo travolse. Fu uno shock.

Un’emozione che non avrebbe saputo chiamare per nome, la forza di un pugno dritto allo stomaco o un colpo di catena.

Shuzo si ritrovò schiacciato contro la porta chiusa e gli occhi gonfi delle lacrime che erano risalite troppo in fretta. Scivolò a terra, la mano premuta contro la bocca e respiri presi fino in fondo per sentirlo ancora, ubriacarsi di quell’odore familiare che gli mancava da una vita e ricordarsi com’era quando l’aveva avuto vicino dandolo per scontato o quando Yuzo lo abbracciava o cercava di provocarlo per fare la lotta. Dal letto finivano sempre a terra in un attimo. In quello, non era mai suo fratello a vincere, ma aveva sempre pensato che perdesse di proposito. Almeno quando erano bambini.

Shuzo affondò la testa nelle mani, le dita strinsero i capelli.

«L’avevamo superato o no? Cazzo, l’avevamo superato!»

E sapere che avrebbe dovuto fare una telefonata a Kido non lo riempì di gioia, ma quel pensiero lo aiutò a realizzare che lo era, anche se sul momento la prima reazione provata era stata di puro dolore. Ora invece sentiva meglio, se si fosse concentrato senza farsi prendere dal panico e dalla sorpresa, che tutto quel tracimare di emozioni era felicità.

Felice di sentire di nuovo l’odore di Yuzo, felice di aver ritrovato l’angolo di mondo in cui erano cresciuti insieme e poi si erano incontrati a singhiozzo. Fratelli con lo stesso cognome, sotto lo stesso tetto.

Dalla testa, le mani scivolarono di nuovo sulla faccia, massaggiarono le guance dove adesso c’era una barba scura e un po’ selvaggia. Il suo non era più il viso di un bambino e non lo erano gli occhi, che piangevano silenziosi nel focalizzare le scrivanie, i letti, i battenti chiusi del terrazzo.

Yuzo era ovunque, lì, nella stessa sensazione che aveva provato quando era arrivato al Mori no Kokoro la prima volta e i ricordi di suo fratello, la sua presenza, l’avevano circondato. Allora il suo era stato un benvenuto, questo invece era un caloroso ‘bentornato’.

«Ciao, fratello.» Sorrise e prese fiato.

La porta divenne un valido sostegno per tirarsi su e guardare dalla prospettiva dell’adulto il mondo che aveva abbandonato a quindici anni per tornarvi solo come sporadico clandestino. Era stato un mondo bello e problematico allo stesso tempo, che conservava l’eco delle grida ma anche quello delle risate. Nella stanza, soprattutto, riecheggiavano le loro voci ancora, tra le cose di Yuzo che non erano state toccate né messe via e gli scatoloni che contenevano quelle che aveva a Shimizu-ku. Sulla scrivania il portatile era chiuso, ma qualcosa gli diceva che fosse la postazione preferita di sua madre. La propria era sempre stata il balcone; l’aveva fatta diventare una backdoor di comodo: ad arrampicarsi ci metteva un attimo, a scendere anche. Nessuno se ne accorgeva, nessuno lo vedeva.

Lo raggiunse e guardò quello che era stato il suo letto, lì accanto, e poi di Yuzo.

«Stava aspettando che tornassi.» Yumeko era sulla porta.

«Non ti ho chiesto se potessi salire, scusa.» Si asciugò gli occhi e le guance con un gesto distratto e poi si volse, puntellando le mani suoi fianchi per darsi un tono.

«Puoi non considerarla più così, ma questa rimane casa tua. Che permessi dovresti chiedere?»

Shuzo abbassò lo sguardo ai piedi scalzi, si masticò l’interno della bocca.

«Non è stato toccato nulla. Te l’avevo detto che tutto ciò che era suo è tuo adesso.»

«Sta bene qui. Ho già preso abbastanza da mio fratello.» Guardò fuori, mentre sua madre lo raggiungeva e si fermava al lato opposto della vetrata del terrazzo.

«Da dov’è che ti arrampicavi?» chiese, scrutando fuori.

«Ti diceva anche questo?»

«Sapevo tutto delle tue visite notturne. Ti avevo anche fatto spostare il vaso di pietra più vicino, in modo che potessi sfruttarlo come appoggio e non dover fare un salto troppo alto.»

Shuzo annuì, sbuffando un sorriso. «Ti diceva proprio tutto. Era una cavolo di rana dalla bocca larga.»

«Io dovevo sapere cosa facevi, anche se non potevo vederti. Dovevo sapere che stessi bene, che fossi al sicuro.»

«Al sicuro non ci sono mai stato.»

«Ma c’era Yuzo e questo mi tranquillizzava, almeno un pochino.» La carezza di sua madre sulla guancia aveva il sapore degli anni passati e lo stesso odore di suo fratello. Lui la scrollò via con un po’ di imbarazzo.

«Dai, non sono un cane.»

«No, ma sei testardo e antipatico, come i Chihuahua!» Yumeko fece per aprire l’anta del balcone, ma lui la fermò.

«Non c’è bisogno, torniamo giù.»

«Non vuoi affacciarti? Lo facevate sempre. Quante estati avete passato seduti qui.»

«Te l’ho detto, non serve. E poi non voglio contaminare l’odore di Yuzo col mio. Dai, scendiamo.»

«Invece lo voglio io. Ci ho passato giorni interi in questa stanza, a ricordare come fosse la vostra presenza. Ed è ormai da tempo che non sento più l’odore di tuo fratello, perché adesso fa parte di me. Tu, invece, lo hai sentito subito, non è così? Ti ha aspettato per tutti questi anni, affinché questa stanza tornasse ad avere l’odore di entrambi.» Yumeko fece scorrere l’anta e l’aria di inizio giugno invase l’ambiente con la sua potente primavera che già stava cambiando aspetto, presto sarebbe stata estate. Una nuova stagione, nuove piante, nuova vita. «E per quanto io possa aprire questo balcone, non scapperà mai via.»

Dal braccio, la mano di sua madre scivolò nella sua, la strinse e lo tirò con sé, senza forzarlo. Insieme uscirono sulla terrazza dei suoi ricordi. L’aria era tiepida, profumata. C’era una brezza che smuoveva appena i capelli e non era invadente. La veduta del retro di casa era ancora bella come la ricordava: tutto il giardino sottostante, il verde curato, l’angolo dove la sua famiglia faceva le grigliate. Shuzo aveva vissuto solo quelle con i parenti e gli amici delle elementari di suo fratello, alle altre era stato assente ingiustificato, fino a scomparire dalle carte.

Il sole al tramonto brillò sull’acciaio e lui si girò con un guizzo di sorpresa negli occhi e un sorriso che gli apriva le labbra.

«La serra è ancora lì?»

«Sì. Non avrebbe dovuto?» Yumeko aveva i gomiti sulla balaustra e il viso poggiato nelle mani.

«Credevo che Akio l’avesse fatta smantellare subito. L’ha sempre odiata.» Abbozzò un sogghigno. «Certo che è tenuta proprio bene, sembra nuova. Se n’è occupato il vecchio giardiniere, di’ la verità.» Inquadrò sua madre con la coda dell’occhio e sollevò furbescamente le sopracciglia. «Posso sbirciare?»

Nel sole, anche il sorriso di sua madre brillò, l’iride era una nocciola dorata. «Te l’ho detto, non devi chiedermi alcun permesso.»

E allora Shuzo sgattaiolò via, con tutta la sua furbizia e quel desiderio improvviso di correre giù nel giardino, affacciarsi alla serra che da bambino aveva adorato, anche se aveva potuto goderne pochissimo, perché sempre in riformatorio o in fuga da casa. L’aveva vissuta più attraverso suo fratello, cui diceva cosa fare, come disporre le piante. Nelle sue piccole incursioni da clandestino, ci era entrato spesso, invece, sistemando qua e là e facendo trovare a Yuzo qualche pianta nuova ogni volta. Ora aveva lo stesso entusiasmo del bambino che era stato, e attraversò casa dimenticando l’angoscia di sentirsi estraneo. Entrò nella sala da pranzo, aprì la portafinestra e infilò un paio di ciabatte da esterno. Davanti alla serra si sentì il piccolo Shuzo del passato, quello troppo sognatore per i concreti Morisaki. Quello troppo silenzioso e timido, e poi violento e irascibile, con una lingua che tagliava cose e persone. Entrò e si lasciò meravigliare dalle felci appese alla trave, dalle luci calde che accompagnavano il tramonto, dall’ordine del ripiano da lavoro e sul bordo del lavandino, dove erano stati lasciati guanti e zappette pulite, vasi capovolti. Borbottò versi di ironico stupore nel girare attorno al ripiano, sfiorando la superficie con la mano mentre guardava le piante che erano disposte sulle scaffalature perimetrali. Le dita non erano troppo sporche, segno che lì dentro qualcuno ci stava e anche spesso. Si fermò presso la Caesalpinia, ne toccò le foglie felciformi e poi i fiori già aperti, dai petali gialli e gli stami lunghissimi e cremisi.

«Che te ne pare?»

«Non male!» esclamò, guardando sua madre che l’aveva seguito anche lì. «Certo, hai ancora un sacco di spazio da riempire e se vuoi posso anche consigliarti qualcosa, ma, ehi!, potevi dirlo che volevi diventare una killer seriale di piante! E poi perché non ne hai comprata qualcuna da noi?! Sono offeso!» Indicò la Caesalpinia. «Questa comunque ti consiglio di tenerla fuori per tutta l’estate. Diventerà ancora più bella.»

«Non è opera mia», disse Yumeko.

Shuzo era passato alle grasse, giocava con la durezza delle spine di un Ferocactus.

«Allora è vero che se ne occupa Itoue? Ma non è troppo vecchio per fare ancora il mestiere?»

«No, non è neppure opera sua.»

«Suo figlio? Il nipote?»

«Tuo padre.»

Si girò di scatto, la schiena dritta e il sorriso entusiasta del bambino era sparito. Al suo posto, un’espressione dura; di sorpresa, ma dura: quella del bambino costretto a tutti i costi a tenersi alla larga dai propri sogni e desideri.

«È stato tuo padre.»

«Cazzo dici.»

«Saranno state due, tre settimane fa. Si è messo e l’ha ripulita tutta, da cima a fondo. Ha sistemato le luci, comprato le piante, comprato libri. Sta studiando e l’ha rimessa a nuovo.» Parlando, Yumeko lo aveva raggiunto un passo alla volta, con calma. Non era perturbata dalla sua reazione, quasi se l’aspettasse, e lo guardava senza provocarlo né mentirgli. Tutto vero. In quella serra, nei suoi occhi… era tutto vero. Come vere erano state le litigate passate e le parole di disprezzo che gli aveva rivolto per il tempo che trascorreva dietro le piante.

Anche l’odio di suo padre per le piante era vero.

«Mi prende per il culo?»

«No.»

«Sì, invece. Mi prende per il culo. Che cazzo si è messo in testa?!»

«Non chiederlo a me, chiedilo a lui.»

«Col cazzo! Non ho niente a che spartirci! Lo chiedo a te!» Shuzo gettò le braccia in aria, disegnò un mezzo cerchio, girando su sé stesso e d’improvviso stare in quella serra lo fece soffocare. Il cannibale era risalito in un rigurgito: aveva sbarrato gli occhi e con uno strattone si era liberato dalla catena che aveva tenuto tra le mani. Un attimo. Velocissimo e letale; sembrava non aspettasse altro. «Lo sapevo che me ne sarei pentito! Gli stavo dando troppa corda! Cazzo, lo sapevo! Gli ho dato modo di respirare la mia stessa aria e si è montato la fottuta testa!»

«Non sta facendo niente di male.»

«Ah no?! Davvero?! Lo decido io, se permetti! Perché questo, tutto questo», disse brandendo una delle zappette e poi lanciandola in malo modo nel lavello, «riguarda me! È il mio mondo, okay?! Il mio! E lui non ha fatto altro che denigrarlo una vita intera! Per poco non ci avevo rinunciato per sempre, grazie a lui, e ora si improvvisa appassionato?! Non farmi ridere!»

«Sta provando ad avvicinarsi a te, a capire ciò che tu ami tanto.»

«Non gliel’ho chiesto! Non voglio che si avvicini! Anzi, da adesso in poi mi stesse alla larga! Quell’unica concessione che gli avevo fatto può anche scordarsela! Tanto era chiaro che avesse in mente qualcosa! Idiota io a dargli il fottuto beneficio del dubbio! Idiota! Tutti i cazzo di Morisaki hanno sempre un secondo fine! Lui, sua madre! Mi hanno dimenticato per anni e adesso non sanno fare a meno di me?!»

L’espressione di Yumeko si fece dura. «Tuo padre non ha nessun secondo fine, sta solo cercando di fare la cosa giusta dopo averne fatte sempre di sbagliate e neppure questo va bene? Non ha più interferito con nulla che ti riguardasse, ha accettato ogni cosa da te anche quelle che a qualsiasi genitore avrebbero fatto saltare la mosca al naso, come l’acquisto del frutteto per cui si è fatto bastare le tue non-risposte. Ha appoggiato la tua relazione con Mamoru, nonostante la famiglia da cui proviene. Non ti ha mai imposto la sua presenza e ogni volta che lo ‘inviti’ per pura cortesia rifiuta perché sa bene che non lo vuoi intorno. Sono quasi dieci anni che tuo padre cammina sulle uova, con te. Arrabbiarti per questo è ingiusto.»

«Ora quello ingiusto sarei io?! Dopo che mi ha reso trent’anni d’inferno gli dovrei concedere la corona di padre dell’anno?! Dieci anni di purgatorio non sono un cazzo, e tu sei tornata a difenderlo come ai cari, vecchi tempi. Be’, dopotutto ero io a dirti di farlo.» Shuzo le rivolse un mezzo sorriso ironico, mentre allargava le braccia e poi le faceva ricadere lungo i fianchi.

«Non difendo né lui né te. Difendo la mia famiglia e ne fate parte entrambi. A te cerco di mostrare le cose che sai, ma che dimentichi in fretta.»

«Le cose che so?» fece eco, portandosi teatralmente una mano al petto. «Perché ce ne sono altre che ignoro?»

«Certo che sì.»

«Oh, ti prego, fammi ridere. Sono tutt’orecchi.»

«Chiedile a tuo padre. Perché è facile chiederlo a me, arrabbiarti con me, sfogarti con me. Ma è con lui che devi farlo. Affrontalo!»

«L’ho già fatto!»

«E quando? Sei rimasto a dieci anni fa. Fallo ora e ascolta le sue risposte!»

«Non me ne frega di quello che risponderà! Ha avuto la sua occasione e l’ha mandata a puttane ergendosi sul suo solito piedistallo del cazzo!»

«E quindi non ha diritto a una seconda chance? Non ha diritto a imparare e a correggersi?!»

Shuzo girò il viso e guardò verso tutto ciò che Akio aveva costruito. Appariva perfetto, tanto che aveva rischiato di caderci, e invece… invece era un inganno, come tutto. Tutto studiato, tutto una tattica. Certo! A partire dalla sua visita in prigione, quella volta, l’unica. Con le sue parole a effetto, dette al momento giusto e la discrezione, la sua figura che si chiudeva nell’ombra, che non superava mai la linea, che accettava, sì. Accettava. Accettava il pugno, accettava il frutteto senza risposte, accettava di rifiutare gli inviti, accettava la sua omosessualità.

Era sembrato in ogni particolare così dannatamente vero.

Stronzo come tutti i Morisaki.

«No. Non con me» disse infine, guardando sua madre.

Per un attimo l’immagine imbranata dell’izakaya fece capolino.

Anche lì era stato tutto studiato?

Abbozzò un sorriso. Quanto aveva abbassato la guardia per colpa della fottuta felicità?

«E dire che per un attimo mi ero quasi… Che idiota.»

«Cosa? Preoccupato per lui perché ti sembra ‘strano’

Shuzo la guardò negli occhi e vi rivide la stessa fermezza di Yuzo quando si arrabbiava e lui era nel torto. Era sempre stato l’unico a saperglielo far pesare come un macigno. In quel momento, ci era riuscita anche sua madre.

«Chiedigli cos’ha che non va. Poni le domande giuste e non solo quelle che soddisfano il tuo senso di vendetta nei suoi confronti. Affronta tuo padre come farebbe qualsiasi figlio.»

Ma lui, anche quando sapeva di stare nel torto, era sempre stato troppo orgoglioso per mollare.

Affiancò Yumeko, con i pugni stretti lungo i fianchi. Nessun Morisaki meritava le sue eccezioni.

«Ma io non lo sono più da anni, lo hai dimenticato?»

In pochi minuti, con il passo marziale del boia, era già rientrato in casa, l’attraversò facendosi sordo ai ricordi, belli o brutti. Infilò le scarpe, si sbatté la porta alle spalle e dopo anche il cancello. Lungo la strada che portava alla macchina non si guardò mai indietro.

 

«Un’altra bottiglia, qui! Oste! Siamo rimasti a secco!»

«Saito-san, abbassi la voce! Non le sembra di aver bevuto abbastanza? E poi nessuno li chiama più ‘oste’

«Pensa ai fatti tuoi! Devi ancora berne di sakè prima di potermi fare la parte! Oste!»

La sensei si alzò in piedi sulla panca, poggiandone uno contro il tavolinetto. Nella mano brandiva una vuota bottiglia di vino stringendola per il collo, mentre il giovane Ayukawa cercava di tenerla seduta e si beccava tutte le invettive possibili e immaginabili.

E poi aveva pure il coraggio di dire che sua sorella era l’arpia.

Shuzo sbuffò un sorriso nel palmo della mano con cui sosteneva il viso e abbassò di nuovo lo sguardo sul proprio bicchiere; era a metà della seconda birra, ma non era in vena né di bere né di fare chiacchiere. Difatti si era scelto l’angolo più defilato della seconda tavolata che avevano prenotato all’izakaya dove di solito organizzavano quelle cene annuali. Ormai li conoscevano bene, tanto che il cameriere che arrivò con la bottiglia di sakè richiesta dalla sua insegnante non fece una piega, ma gliela servì zitto e muto, e poi si dileguò dopo aver preso qualche ordinazione aggiuntiva.

Lui era troppo immerso nei propri pensieri, non aveva voglia di fare da babysitter anche agli altri. Guardò il giallo dell’Asahi che riempiva metà bicchiere e aveva perso la schiuma di superficie. Dondolò il vetro, e il liquido al suo interno e le parole di sua madre erano tutte a galla.

Se si fosse fermato a pensarci razionalmente, lo avrebbe saputo anche lui che non c’era niente di male: Akio si stava interessando alle piante, e allora? A lui non aveva chiesto nulla né aveva rotto l’anima in alcun modo. E poi alla Festa dei Fiori di Obuchi non ci era neppure andato. Se il suo interesse fosse stato onesto, vi avrebbe fatto un salto come minimo. Lui ce lo aveva pure invitato che volevano di più?

Ogni volta che lo inviti per pura ‘cortesia’ rifiuta perché sa bene che non lo vuoi intorno.

Strinse gli occhi pensando con quanta facilità tutte le sue azioni gli si rivoltassero contro in un attimo se guardate da una prospettiva che, per ovvie ragioni, non poteva essere la sua. I problemi venivano a galla, le convinzioni traballavano come sedie dalle gambe di lunghezze differenti. E lui finiva in un niente dalla parte del torto.

Cazzo, non voleva stare nel torto!

Aveva il diritto di essere arrabbiato, di non volere quell’invasione territoriale, di reputare l’interesse di suo padre una intromissione fastidiosa.

Che diavolo voleva dimostrare Akio? Che sapeva essere bravo e buono?

A lui non importava niente, nemmeno che fosse più vecchio e disorientato. Disarmato.

Shuzo si accorse di non averlo più incontrato da quella volta al ristorante.

L’espressione perse la presa sulla stretta degli occhi e sentì i tratti distendersi di nuovo. Sollevò il bicchiere e bevve.

«Oggi è più lanciata del solito.»

A capotavola, dal lato verso la parete che era rimasto libero perché il più chiuso e scomodo, prese posto il maestro Joji Gaho della Scuola Sogetsu. Bicchierino alla mano e fondo di sakè nella bottiglia. Se ne versò un goccio e lo bevve, mentre lui lanciava una nuova occhiata alla sua maestra, ora intenta ad agitare un ventaglio di carta e a cantare qualche canzone vecchia almeno quanto lei.

«Sì, sta mettendo su un discreto show.»

«Di solito sei tu quello che le tiene testa.»

«Nah, stasera sono in ferie. E poi, è Ayukawa-kun il più giovane maestro della combriccola, ora. Lasci che si faccia le ossa.»

«A prescindere dalla Saito, non mi sei sembrato molto di compagnia durante la cena, sensei

Shuzo raddrizzò la schiena, assumendo una posa meno chiusa a riccio. «Lasci stare l’onorifico; tra noi sono io quello che dovrebbe chiamarla ‘sensei’, Gaho-san.» Lo additò con l’indice. «Volevo farle i complimenti per la mostra a Iwata della scorsa settimana; il suo lavoro col bambù era molto bello.»

«Grazie, Mori-kun. Si è sentita la mancanza delle tue stravaganze, invece.»

«Non ne dubito, credo che Atsuzawa-san si sia un po’ annoiato senza me da attaccare alla prima occasione. Ma conto di rifarmi per la Biennale di Kyoto, ho delle idee su cui volevo lavorare.»

«Ora che me lo fai notare, è vero.» Con fare pensieroso, il maestro picchiettò il bordo del choko in ceramica contro il mento. «Atsuzawa-sensei era più fiacco del solito. Ma ha avuto comunque modo di nominarti, anche se non eri presente.»

«Si figuri. Gli devo essere proprio mancato.» Shuzo sollevò le sopracciglia, prima di vuotare il bicchiere. «Sotto sotto, ha un debole per me. Mi adora.»

«Quindi ci sarai per la Biennale, hai detto?»

«Sì. Devo solo riuscire a conciliare con il resto del lavoro. Non voglio lasciare sempre i miei soci a occuparsi di tutto…»

«A volte dimentico che molti di voi siete così giovani da avere anche un altro mestiere, al di fuori dell’ikebana. Il bar e i terreni non ti rubano troppo tempo?»

«Ho abbastanza energia per occuparmi di tutto!» replicò, con una punta d’orgoglio.

«Siete impegnati con la raccolta del tè, ora. Dovrebbe essere il periodo giusto.»

«Tra una settimana o due faremo la seconda. Nel frattempo, ci stiamo preparando con le susine.»

«Sì, me lo ha detto tuo padre.»

«Ah, se lo è ricord-… Aspetti! Cosa?! Mio padre

Shuzo ebbe un sussulto improvviso e la birra che stava versando si rovesciò in parte sul tavolo. Rivolse al maestro Gaho gli occhi spalancati.

«Sì. Akio Morisaki. È tuo padre, no?»

«S-sì, lo è. Come lo-»

«Che domande. Frequenta la Sogetsu. È mio allievo.»

Il vetro della bottiglia riprodusse un suono cupo e secco quando gli cadde da mano, ma non si rovesciò. Un rumore che non riuscì a sopraffare quello del chiacchiericcio e dei canti della maestra Saito, ma che ebbe l’effetto di farla cantare ancora più forte.

«Ti dirò, sono stato davvero sorpreso che non si sia iscritto alla KadouEnshu, considerando che sei uno dei maestri. Per caso non si fidava dei tuoi metodi?» Gaho lo pungolò col gomito, rise, ammiccò divertito. Lui stava per gridare e ribaltare il tavolo con tutta la roba sopra, ma non lo fece, perché anche il cannibale era rimasto scioccato.

«Akio… fa ikebana?»

«Non lo sapevi? Sono mesi ormai, si è iscritto a marzo. E devo dire che è portato. All’inizio era un po’ rigido, ma poi ha iniziato a capire il discorso che gli ho fatto sul ‘mettere ordine nel caos’. E niente, vi somigliate tanto, non solo nell’aspetto; il vostro modo di approcciarvi alle composizioni è di puro trasporto e non importa quanto risulterà imprecisa nel particolare, il suo insieme sarà sempre emozionante e interessante. Sembra quasi che ce l’abbiate nel sangue!» Gaho si strinse nelle spalle con semplicità, sollevò il bicchierino verso di lui riconoscendogli un brindisi silenzioso e poi si alzò, richiamato da un altro maestro dall’altra parte della stanza.

Lo lasciò frastornato, nell’angolo in cui si era ritirato come eremita volontario e di colpo ancora più estraneo alla baldoria che gli si agitava attorno.

Shuzo non vedeva, non sentiva. Aveva il respiro di piombo che non gli riempiva il petto e gli occhi sulla birra rovesciata che seguiva il profilo della base del bicchiere e della bottiglia. La sua mente era fuggita da quella stanza lasciandovi solo il corpo che frantumava, nella stretta dei denti, le domande che lo avevano preso d’assalto. Lui si era asserragliato nella fortezza, il cannibale guaiva e si turava le orecchie. Non sapevano che fare, nessuno dei due, e non sapevano che pensare se non che tutto quello fosse impossibile.

 

Sprofondato nel divano a fare zapping nervoso, ma controllando l’ora ogni cinque minuti, Mamoru stava aspettando.

La telefonata di Yumeko, arrivata nel momento esatto in cui stava abbassando la serranda del negozio, gli aveva preannunciato che quella sarebbe stata una lunga attesa e una lunga notte. Per quanto la scoperta che Akio si fosse non solo interessato alle piante, ma addirittura iscritto a un corso di ikebana, l’avesse reso così felice quasi da commuoverlo davanti alla madre di Shuzo, dall’altra gli aveva presagito in misura matematica che non sarebbe finita bene.

Ci aveva sperato; aveva auspicato che gli anni di terapia, i tentativi di farsi spazio a vicenda l’uno nella vita dell’altro potessero portare a una riconciliazione definitiva e che, nel momento cruciale come quello, avessero potuto mitigare la reazione forte del suo ottuso compagno.

Invece niente, il cannibale – per quanto ci si provasse ad addomesticarlo e sedarlo – continuava ad averla vinta a un passo dal traguardo. Mandava a rotoli anni di lavoro, di concessioni e possibilità per far riemergere quei rancori che non si riuscivano a soffocare né perdonare. Come vecchie braci restavano latenti, e alla prima smossa, ecco riattizzarsi. E bruciare tutto, bruciare chiunque.

Nessuna pietà.

Mamoru si alzò in piedi, abbandonando il telecomando sul divano e il canale su un crime qualunque, che aveva visto e rivisto in repliche continue, per raggiungere il terrazzo. Uscì all’esterno, la sera era tiepida e dolce; l’estate quasi pronta a uscire dal forno come una torta e Obuchi che aveva qualche occhio ancora aperto, ma tutti gli altri già ben chiusi e sprofondati nel sonno. Si sentiva il suono lontano di una macchina distante, poi più nulla. Lui guardò le piante, sfiorando le foglie con affetto, ma si soffermò sul pruno.

Il piccolo bonsai era ancora lì, con il suo carico verdissimo di foglie e la forma perfetta; l’aveva spuntata da poco. A quelle lamelle piene di vita affidò una piccola preghiera: che il danno non fosse così grande da riparare, questa volta. Silenziosamente si affidò a Yuzo perché era l’unico capace di fare miracoli con suo fratello, ma poi tese bene la schiena e le spalle, dicendosi che anche lui era stato capace di fare miracoli, quando era servito. E, anche ora, era pronto a raccogliere i possibili cocci.

Con la stessa impazienza rientrò in casa e tornò al divano. L’orologio sul cellulare segnava la mezzanotte passata da una quarantina di minuti. Mamoru però sapeva come andavano quelle cene, in cui spesso si perdevano in chiacchiere. La maggior parte di loro erano insegnanti che si dedicavano solo all’ikebana; Shuzo e altri due o tre rappresentavano l’eccezione, quindi non si sarebbe sorpreso se avesse tardato ancora, però il girare della chiave nella toppa gli annunciò il rientro in patria del suo Ulisse.

Mamoru si alzò e gli andò in contro, quando la porta venne spalancata con un sol gesto, tanto da sbattere una volta che i cardini ebbero raggiunto il massimo della torsione.

Lui si bloccò e Shuzo fece la sua entrata trionfale cantando a squarciagola, con un braccio levato al cielo e tutto addossato allo stipite per reggersi in piedi, mentre con l’altro si aiutava a entrare nell’appartamento, il palmo aperto sul battente della porta.

«Here we aaare! Booorn to be kiiings! We’re the princes of the Uuuniveeerse!»

Mamoru serrò le labbra e osservò l’intero spettacolino restando in piedi accanto al divano. Shuzo riuscì a entrare, andando da una parte e dall’altra. Riuscì anche a chiudere la porta schiantandoci contro la schiena.

«Here we belooong, fighting to surviiive in a wooorld with the daaarkest poweeer! Yeah!»

«Sei ubriaco?!» La sua voce si levò più alta di quella di Shuzo che solo allora parve accorgersi di lui. Alzò la testa e allargò le braccia, esibendo un sorriso smagliante.

«Gioia! Vieni qui, gioia! Come sono felice di vederti!»

Ma come provò ad avvicinarsi, Mamoru lo spinse indietro.

«Sei ubriaco, Shuzo!»

«Naaah! Brioso! Che vuoi, quando la vecchia si attacca alla bottiglia, cazzo perché non unirsi a lei?» sghignazzò, mentre Mamoru restava immobile come una sfinge.

«Come sei tornato?»

«Che domande fai? In macchina! Non mi sono ancora spuntate le ali.»

«Hai guidato così?! Ma che diavolo ti dice il cervello, sei impazzito?!»

«Aaah! Piantala, non sei mia madre. Non sono ubriaco, queste non sono tre», aggiunse sollevando due dita, «e sono perfettamente in grado di infilare una chiave in un buco. E non solo quello, ti assicuro.»

Mamoru provò il desiderio di strappargli il sogghigno idiota con una manata.

«Sei un cazzo di irresponsabile, avresti potuto fare un incidente! Dovevi farti accompagnare o prendere un fottuto taxi!»

«Ma sì, ma sì. Dovevo festeggiare! Oggi graaande festa!» Shuzo iniziò a ridere così forte da piegarsi sulle ginocchia. «Se te lo dico, manco ci credi!» aggiunse, oscillando fino al tavolo in cerca di un sostegno per reggersi in piedi. «Senti questa, senti! Akio…» e giù l’ennesima risatina. «Akio ha scoperto il pollice verde! E si è messo a fare ikebana! E per giunta in una scuola che non è la mia!» Stridulò le ultime parole, strozzandole nelle risate isteriche; con una mano batteva sulla superficie del tavolo e sembrava avesse dovuto morirne, mentre faticosamente si tirava su, per stare dritto. «Oh, boy. Oh, boy. Tra un poco piscio a terra, giuro.»

Si guardarono, mentre gli ultimi singhiozzi di quella manifestazione sguaiata si spegnevano. Shuzo aveva la smorfia minacciosa e familiare che gli storceva le labbra e ne sollevava in alto solo un lato; la barba non era troppo folta da nasconderla. Lo fissava, dritto negli occhi, e quando lui cercò di avvicinarsi disse: «E tu da quanto cazzo lo sapevi, uh? Aggiungiti alle comiche, forza.»

Mamoru incamerò e rilasciò un respiro profondo.

«È stata mia madre?»

«L’avevo vista per parlare di tutt’altro.»

«Quando?»

«Un paio di settimane fa, circa.»

«Avresti dovuto dirmelo subito, avremmo festeggiato insieme.»

«Shuzo…»

«No, non mi toccare.» Malerba indietreggiò di un passo. Sorrideva, ma l’ironia colava dappertutto.

«Almeno fammi-»

«Cazzo, non toccarmi!»

Con una sola spinta, Mamoru si trovò schiena contro la parete che divideva la cucina dal salotto. Una mano che stracciava il collo della t-shirt e l’altra che lo bloccava al polso con una presa che faceva male.

Gli occhi di Shuzo lo trapassarono di rabbia; poteva vedere il cannibale ringhiare nel fondo delle pupille e quasi sentirlo nel respiro pesante che gli sbatteva sul viso. Puzzava di birra e sakè.

Era tanto che non gli vedeva quello sguardo, pareva una vita fa in cui Shuzo lo chiudeva contro le pareti della piccola serra. Per un attimo, credette che quel ricordo l’avesse inventato, ma tutto ciò che più faceva male era sempre vero.

«Non. Toccarmi.»

«Datti. Una. Calmata!» Mamoru allontanò la mano di Shuzo dalla propria maglietta con un gesto brusco. L’altro gli lasciò andare anche il polso che lui massaggiò, piegandolo da un lato e dall’altro. La stretta di una tenaglia che aveva stritolato la carne per arrivare a sentire il duro dell’osso; la sensazione era stata quella.

Shuzo fece due passi indietro e non distolse lo sguardo da serpente, minaccioso e guardingo. La bocca aveva gli angoli piegati in basso dal disprezzo.

«Calmarmi? Io? Sì, certo. Tocca sempre a me, vero? Io devo calmarmi, io devo accettare, io sono l’ingiusto. Io. Gli sbagli sono sempre i miei, non è così?»

«Adesso stai facendo la vittima.»

«E ne ho tutto il fottuto diritto!» gli urlò contro. «Per l’ennesima volta si è intromesso nella mia vita senza neppure chiedermelo! E dovrei accoglierlo con gioia come fosse un regalo di Natale in anticipo?! Puttanate!»

«Nessuno ha detto neppure questo, ma la tua reazione è esagerata. Cazzo, guardati! Sei ubriaco, mi hai appena messo al muro, ti pare normale?!»

«E voi vi siete fermati anche solo un attimo a mettervi nei miei panni?! A capire cosa significhi per me?!»

«No! Perché tu non dai tempo a nessuno di fare nulla!» gridò Mamoru allargando le braccia. «Tu parti e spari a raffica senza fare prigionieri!»

«È questo che pensi?!»

«Non è quello che penso, è quello che vedo! L’hai fatto con tua madre oggi pomeriggio, l’hai fatto con me adesso!»

«Dovevo immaginarlo che ti avesse telefonato subito.»

«Era preoccupata per te! Sei andato via come una furia, cosa doveva fare?! Sperava che io riuscissi a calmarti e farti ragionare.»

«Se aveste voluto davvero calmarmi, avreste dovuto dirmi fin da subito come stavano le cose. Ma se non lo riesci a capire neppure tu, allora non abbiamo niente da dirci.»

Mamoru lo vide tornare verso la porta con passo di carica e la schiena un po’ curva che lo proiettava in avanti come un missile.

«Invece abbiamo un sacco di cui parlare! Pensi che ti lasci andare così?!» Tentò di frapporsi fra lui e l’uscita, ma una nuova manata in pieno petto lo spinse via e poi lo tenne a distanza, con quell’indice di monito e minaccia al tempo stesso dritto contro la faccia.

«Fottiti, cazzo! Se davvero avessi voluto parlarmi, avresti dovuto farlo prima invece di nascondere le cose. Da mia madre potevo aspettarmelo, ma non da te!» spalancò la porta con tutta la sua amarezza. «Non da te.»

Scese le scale in fretta e furia, senza voltarsi. Da sopra il pianerottolo, Mamoru lo vide arrivare al cancello in un attimo, strattonarlo più volte fino ad aprirlo e poi sbatterlo alle spalle con un rumore metallico che riverberò nella notte di Obuchi. Con la sua andatura storta, Shuzo raggiunse l’auto parcheggiata proprio là fuori. Mise in moto, sgommò e sparì lungo la strada deserta.

 

Akio appoggiò il manuale di potatura sulla scrivania dopo averlo richiuso. Il segnalibro spuntava a una cinquantina di pagine dall’inizio, era arrivato al capitolo sulla cimatura. Su un quaderno segnò degli appunti per alcune ricerche che avrebbe dovuto fare su YouTube – forse avrebbe dovuto ringraziare la signorina Miyoko per aver fatto aggiornare anche un vecchio matusa come lui – e poi si lasciò sprofondare nello schienale imbottito della poltrona. Lo studio era illuminato solo dalla luce di una Emeralite originale del 1916, con il suo paralume verde autentico. L’orologio Ottaviani era una sfera di cristallo su base di legno massiccio che segnava ormai l’una della notte. Sarebbe dovuto andare a letto, perché la sveglia il giorno dopo l’avrebbe atteso al solito orario.

Akio sfilò lentamente gli occhiali e se li lasciò scivolare in grembo dove le dita intrappolarono anche una stanghetta nel loro intreccio.

In quella personale solitudine silenziosa – la porta chiusa lo isolava anche dai rumori della cucina o del salotto – pensò alla strada percorsa e se ciò che stava facendo avesse davvero un’utilità. Fino a quel momento aveva dato ascolto alla parte più debole di sé stesso, quella che voleva credere a Yumeko e al suo ‘tentare ancora’. Quella che era più entusiasta e che si stringeva ancora attorno a Yuzo e all’ultimo ricordo che aveva di lui. Il ricordo dell’addio.

Se avesse scavato a fondo, sarebbe stato proprio quel ricordo a dirgli che doveva provare il tutto per tutto, perché mollare avrebbe significato abbracciare solo il fallimento e il rimorso. E allora sospirò e abbandonò gli occhiali sulla scrivania, certo che il giorno dopo avrebbe ripreso il suo studio. Ignorò di avere anche la certezza del fallimento infilata in tasca.

«Hai visto che ore sono? Dovresti andare a letto.» Yumeko fece capolino sulla porta e lui venne fuori dal proprio rimuginare così assorto e contorto.

Diede una spinta alla testa dei braccioli, appoggiandovi entrambe le mani, e si alzò.

«Sì, ho visto. Infatti stavo andando. Volevo prima fare un salto nella serra.»

Era stata una giornata molto impegnativa in azienda; le riunioni lo avevano tenuto in sede fino alle otto di sera e quando era tornato non aveva avuto tempo per fare un giro tra le piante. Pensarle come qualcosa che apparteneva a lui lo faceva ancora sorridere.

Yumeko annuì. «Ti faccio compagnia.»

Akio si lasciò precedere. Uscirono entrambi dalla portafinestra della sala da pranzo, ma con gli occhi cercò sua moglie più volte. Aveva notato fosse pensierosa, ma non le aveva chiesto nulla e lei non aveva fatto nessun primo passo.

Le luci del giardino li accompagnarono per quella breve distanza, rispettando il silenzio con cui erano usciti di casa. Almeno fino a che non si fermarono davanti alla porta della serra.

«È successo qualcosa?» chiese proprio lui, a un tratto, nel vedere come teneva la testa calata per guardare l’erba scura.

Yumeko si volse ritirando in fretta la mano dalla maniglia. «No!» rispose in maniera brusca. Poi lo ripeté in maniera più pacata, accennando un sorriso. «No. Tutto a posto.»

«Mi sembri turbata da qualcosa.»

Yumeko scosse il capo e nascose il sorriso nel gesto di tirare i capelli dietro l’orecchio. «In salotto mi è preso sonno, e allora…»

«Do solo un controllo e poi ce ne andiamo a letto.»

Akio la superò e fece gli onori di casa per primo, accendendo le luci interne. Le tre lampade si accesero insieme e poi fu la volta di quelle piccoline e decorative. Di sera, con il buio all’esterno, l’effetto era molto suggestivo e romantico: perfetto per l’estate che stava arrivando, e un po’ anche per l’inverno quando sarebbe stato il suo turno.

Akio si sentì soddisfatto del lavoro che aveva fatto; in tutta onestà, non pensava ci sarebbe riuscito e invece gli era bastato solo mettersi lì e provare. Di quante cose si era creduto incapace senza nemmeno fare un tentativo…

Avanzò di qualche passo verso le scaffalature e controllò sommariamente i vasi, ripromettendosi di tornare il giorno dopo con maggiore calma. Si fermò con un sorriso più ampio, ma sempre a labbra chiuse, davanti alla Caesalpinia. Era particolarmente affezionato a quella pianta, perché ricordava quanto ne fossero affascinati entrambi i suoi figli e allora quella loro meraviglia era come se si fosse proiettata anche dentro di lui, fino a fargli sviluppare un legame particolare con quella specie. Ne toccò le foglie e avvertì un odore estraneo ma non sconosciuto aleggiarle attorno che lo disorientò. Durò un attimo, svanì quello dopo. Un odore maschile, di quei profumi pungenti. Avvertì il ripetersi di un déjà-vu che non ricordava di aver vissuto. Esser stato lì e aver compiuto quel gesto, ma non lui.

Si volse. Yumeko era entrata di un solo passo oltre la porta. Fece per dirle qualcosa, ma poi ci ripensò.

«Akio?» Yumeko lo aspettava, perplessa, e lui alla fine, scosse il capo. Agitò una mano e sorrise.

«No, niente. Anche io devo essere più stanco di quanto credessi. Forza, andiamo a dormire. Controllerò domani con calma.»

Mentre si fermava sulla soglia per chiudere la porta della serra diede un’ultima occhiata all’interno senza riuscire a spiegarsi quella convinzione così insistente, quanto impossibile, che Shuzo fosse stato lì.

 

Aveva provato a chiamarlo fino alle due di notte, ma il cellulare era sempre stato spento. Gli aveva anche lasciato dei vocali su WhatsApp, pur sapendo che non avrebbe ricevuto risposta e difatti non si era stupito nel non vedere le spunte. La preoccupazione era subentrata in fretta, ma con essa anche la consapevolezza che non fosse andato lontano o da nessuna parte di cui si sarebbe pentito. A dispetto di quanto forti sarebbero mai state le sue reazioni, Mamoru poteva dire di conoscerlo, ormai, e se non fosse andato a sfogarsi in palestra perché quell’ora era troppo tarda e lui troppo sfalsato dall’alcool, allora c’era solo un altro posto dove avrebbe potuto rifugiarsi per stare da solo con tutti i suoi dolori. Quando intorno alle due e mezza si era messo a letto, aveva solo sperato che non avesse finito con l’addormentarsi lì: per quanto fosse giugno, dormire in macchina o all’aperto nelle grandi serre non era proprio la scelta migliore del secolo.

Eppure, nemmeno con quelle certezze riusciva a stare tranquillo il giusto per provare a prendere sonno.

Mamoru non faceva che rigirarsi nel letto da un tempo quantificabile nel range che intercorreva tra venti minuti e l’ora.

Era sicuro che Shuzo non si sarebbe cacciato nei guai, ma non gli piaceva l’idea che fosse in giro con tutti quei pensieri per la testa e il cannibale che lo manovrava come un burattino pazzo. E sapere di avere una parte della colpa in quello scatto di collera era l’ennesimo motivo per cui il sonno non voleva farsi vedere e lui si dannava tra le coperte cambiando posizione di continuo.

Aveva una responsabilità, ma anche la certezza che non avrebbe potuto fare diversamente.

C’erano cose che per quanto si conoscessero non spettava a lui rivelare, piccole o grandi che fossero. Non ne aveva il diritto, anche se questo significava nascondere la verità alla persona che amava. Era certo che anche Shuzo lo avrebbe capito dopo che avesse sbollito la rabbia.

Lui, però, non riusciva a darsi pace o a tranquillizzarsi abbastanza per chiudere occhio, tanto che per un po’ li tenne aperti nel buio, abituandosi alla penombra che entrava dalle lamelle delle persiane. Riconobbe ogni forma della stanza a partire dall’armadio, poi le tende, la sedia e la porta socchiusa. La metà vuota del letto.

Era sempre stato così silenzioso quando viveva da solo?

Gli aveva anche allora messo addosso la stessa ansia?

Mamoru non ricordava più come fosse essere immersi nella solitudine, quando la vita veniva vissuta in tempi che appartenevano a lui soltanto e gli spazi avevano solo i suoi ricordi, i suoi odori, i suoi gusti. Ora che ne stava assaggiando solo un bocconcino, il sapore gli parve così amaro da non volerci credere.

Si costrinse a chiudere gli occhi e poi subito dopo li riaprì, perché il rumore della chiave nella porta d’ingresso lo allertò e allo stesso tempo gli diede sollievo: Shuzo era tornato.

A occhi spalancati e immobile restò in attesa, ascoltando i rumori per decifrare i suoi movimenti: il sibilo di qualcosa che veniva strisciato sul pavimento, il silenzio interrotto da qualche tintinnio metallico, passi e la porta che veniva chiusa piano. Più niente per dei lunghi minuti e poi il fragore ovattato dello sciacquone. Di nuovo la porta, di nuovo passi e tornò il silenzio.

Mamoru rimase in attesa nella propria posizione immobile per altri dieci minuti, alzandosi solo quando ebbe la certezza che Shuzo non sarebbe andato in camera; dallo spiraglio aperto della poltra non filtrava alcuna luce.

Scansò le coperte con un moto di stizza e camminò scalzo, abituato al buio. Il salotto apparve nitido in ogni forma grazie ai bagliori della strada che entravano dai vetri della terrazza, dalle tende aperte. E quella di Shuzo spiccava subito, sdraiata sul divano, che dava le spalle al tavolino, ma soprattutto al butsudan. Le braccia incrociate al petto, le gambe piegate verso l’interno e le ginocchia che toccavano lo schienale.

Prese un profondo respiro, senza togliersi l’espressione stizzita e lo raggiunse, sedendosi sul tavolo basso. Poi aspettò. Questione di pochi minuti, in realtà, forse due; l’orologio al muro scandiva un costante ‘tac’ dei secondi e tanto durò anche la pazienza del suo compagno – sempre troppo poca.

«Vorrai restare a fissarmi la schiena ancora per molto?»

«Tutto il tempo che sarà necessario. Sai che ore sono?»

«L’ora che dormi.»

«Se non te ne fossi andato sbattendo la porta come un bambino scemo, magari a quest’ora staremmo dormendo, sì.»

«Non sono tornato per litigare. Che vuoi?»

«Voglio parlare.»

«Io no.»

«Allora resteremo così anche tutta la notte.»

Da Shuzo si levò uno sbuffo lungo e seccato. «Cristo, quanto sei pedante.»

«E tu sei ottuso.»

«Senti, lasciami in pace o finisce davvero male, okay?»

«Ah, ‘finisce male’? Prima invece com’è finita? Vuoi che ti rinfreschi la memoria?»

Le spalle di Shuzo si alzarono e abbassarono più in fretta nell’accelerarsi del respiro. Aveva toccato di proposito un tasto che sapeva dolere e anticipò anche la possibile conseguenza, per questo si mosse all’improvviso e gli fu addosso prima che lui cercasse di alzarsi. Gli infilò un braccio sotto al suo e con l’altro premette sulla spalla, per non farlo muovere. Shuzo ringhiò come una bestia.

«Fanculo, mollami!»

«Perché così puoi andartene un’altra volta? Scordatelo! Resti qui e parliamo!»

«Cazzo, me l’ero fatta passare, imbecille! Allora vuoi davvero il resto!»

«Fatta passare? Un cazzo! Ce l’hai ancora tutta qua, guarda che la sento! La tua rabbia è qui!»

Shuzo strattonò nel tentativo di ribaltarlo e sollevarsi, ma non ci riuscì e allora ringhiò, più frustrato di prima.

«La terapia di questi anni non è servita a niente? Il tuo percorso con Kido, quello che abbiamo fatto insieme, tutto il lavoro… Per che cosa lo abbiamo fatto se reagisci ancora in questo modo? Spiegamelo!»

«Lasciami, Mamoru!»

«No!»

«Lasciami o ti faccio male!»

«Lo faresti? Avanti, minacciami ancora! Avanti!»

Il respiro di Shuzo era un sibilo, affondato nell’imbottitura del divano, che si ingrossava e poi soffocava. Era denti digrignati e sfiato tra le fessure che veniva risucchiato al rifiato successivo. Stava cercando di trattenersi e di trattenere il cannibale così come lui stava trattenendo entrambi.

«Se non lo tiri fuori non te ne liberi. Non lo ricordi più? Tira fuori quello che pensi, io sono qui.» Si chiuse di più su Malerba, tanto da sfiorargli l’orecchio con la bocca. «Parla con me.»

Avvertì il suo respiro calmarsi, poco alla volta, e dall’essere veloce e ringhiato divenne lento e profondo. Rimasero così per alcuni istanti, poi Mamoru iniziò ad allentare la presa, poco alla volta. Shuzo lo sorprese con un movimento veloce che non riuscì a bloccare né schivare. La sua mano aperta lo prese al lato della testa e lo ribaltò con forza sul divano.

Le loro posizioni furono invertite in un attimo e a sovrastarlo in una posizione dominante fu Shuzo: ginocchio piantato tra le sue cosce, braccia con cui teneva le sue incrociate sul petto. Lo guardava con occhi spalancati e lucidi ai bagliori della strada. Stava facendo il possibile per non digrignare i denti e tenerli nascosti a ridosso delle labbra tese, ma le apriva di tanto in tanto per respirare e contestualmente far evaporare la collera.

«Per favore, parla con me…»

Shuzo lo guardò fisso e poi abbassò il viso, tanto da nasconderglielo. Le mani lasciarono la presa, scivolando in basso poco alla volta, e con la testa si insinuò sotto l’incrocio delle braccia. Tutto il suo corpo gli crollò addosso, esausto, e Mamoru emise un lungo sospiro, accogliendolo nel proprio abbraccio. Intrecciò le gambe alle sue, gli fece tutto lo spazio possibile per tenerlo vicino o impedirgli di scappare ancora, anche se era certo che non sarebbe accaduto.

Il respiro diventava davvero regolare, ora, e non per ingannarlo. Ed era caldo, arrivò in fretta a passare il cotone della t-shirt. Caldo, calmo, poco alla volta. Mamoru gli affondò le mani nei capelli, se li fece scorrere tra le dita; gli carezzò la guancia coperta dalla barba irregolare e morbida.

«Non importa quante terapie potrai fare, rimarrai testardo», disse abbozzando un sorriso.

«Scusami. Scusami per oggi, per prima, per… Scusa.»

«Mh-h…»

«Tutta questa storia mi ha mandato nel panico…»

«Perché? Non è successo niente di male.»

«Non mi fido di lui! Non-» Si interruppe e scosse il capo; pareva gli stesse scavando nel petto per nascondersi dentro la sua carne e tra le ossa. «Non lo capisco…»

«Credo che neppure lui riesca a capire te.»

«Si è avvicinato troppo. Non voglio…»

«Perché?»

«È un bugiardo, Mamoru.»

«Le persone cambiano. Sei cambiato anche tu, e lui mi sembra abbia fatto passi enormi in questi anni. Ricordi la nostra prima cena tutti insieme?»

Shuzo si sollevò con decisione, lo guardò dritto negli occhi. «E allora perché non dirmelo?! Perché fare tutto questo e tenerlo nascosto come il più grande segreto del mondo?! Nemmeno mezza parola! Ti rendi conto? Sono mesi che fa ikebana e io non lo sapevo.»

Mamoru sollevò la schiena e gli prese il viso tra le mani per guardare meglio in quegli occhi smarriti. «Forse perché, come te, anche lui ha paura.»

«Io non ho paura!» Shuzo fece per ritrarsi, ma lui non mollò la presa.

«È la tua balla preferita, devi sempre dirla.»

Al secondo tentativo, Shuzo riuscì a divincolarsi o, meglio, Mamoru gli concesse di andare. Erano entrambi seduti sul divano.

«Così come io non potevo dirti come stavano le cose, perché non spettava a me.»

«Tanto l’ho saputo lo stesso.»

«Un caso. Ora cosa conti di fare?»

Shuzo fece scrocchiare le dita, continuò a guardare da un’altra parte, ma non gli sfuggì la mezza occhiata che rivolse al butsudan. Durò solo qualche secondo.

«Gli ho dato tante possibilità in passato, era allora che avrebbe dovuto fare qualcosa, non adesso. Allora. Quando ancora ci speravo e m’importava qualcosa, ogni volta mandava tutto a puttane.»

«Siete tutti e due cresciuti. Tu non sei più-»

«No. Non sono disposto a rischiare ancora, non ne vale la pena né m’interessa.»

«Shuzo-»

«Lui resta fuori.» Lo disse con l’indice puntato e un tono duro come la pietra. «È la mia scelta e ve la dovrete fare andare bene, sia tu che mamma. Sono io quello che si è visto togliere il cognome, sono io quello che voleva rinchiudere in una scuola militare, sono io quello a cui non ha permesso di vedere suo fratello, a cui ha detto di non essere più suo figlio. Non m’importa quello che sta cercando di fare o quanto nobile possa essere, per me non è abbastanza. E forse non lo sarà mai. Vi sto solo chiedendo di accettarlo.»

Akio aveva troppi punti di svantaggio, se elencati in maniera tanto precisa, e non erano neppure tutti. Mamoru, questo, lo dovette riconoscere. Nemmeno lui sapeva se, trovandosi al posto di Shuzo, avrebbe mai preso una decisione diversa. Dove finiva la fiducia quando te ne privavano da bambino? Quasi di certo non ritornava più.

«Okay», disse, annuendo più volte e con convinzione crescente. «Okay, va bene. Se questa è la tua scelta a me va bene.» Gli passò una mano nei capelli, li smosse massaggiando la nuca e scivolò sull’osso che sporgeva solo per sfiorarlo con affetto. Infine, si alzò. «Domattina ci aspetta un’altra lunga giornata, e noi abbiamo solo… mh, temo solo quattro ore di sonno. Ti odio per questo.»

Nel tentativo di superarlo si sentì afferrare per la vita e trattenere. Le braccia lo avvolsero e strinsero; una mano aperta alla base della schiena, l’altra a circondare il fianco. La testa di Shuzo trovò appoggio contro il ventre. Lo cercava ancora, lo cercava sempre, quel calore e rifugio che poteva offrirgli il suo corpo. Un gesto piccolo che lo faceva sentire indispensabile e ‘casa’, per lui.

«Non sono giustificabile per oggi. Per averti minacciato e aver alzato le mani. Domani chiamo Kido, fisso un appuntamento. Scusami…»

«Se lo rifai ti accoppo.»

«Sei stato scemo a non avermi accoppato anche prima.»

«Nah, eri ubriaco, non volevo mica la vittoria facile.»

Le spalle di Shuzo sussultarono, poi si alzò e Mamoru poté avere la certezza che sulle sue labbra ci fosse – anche se piccolo e sbilenco – un sorriso. Nella penombra i suoi occhi lo guardavano, colpevoli, tanto da sfumare anche quella smorfia divertita.

Gli poggiò due dita sulle labbra prima che il fiato che aveva preso diventasse suono.

«Qualsiasi cosa stai per dire, non dirla. Ti sei giustificato e pianto addosso abbastanza, oggi. Abbracciami e basta.»

Shuzo non se lo fece ripetere e il suo volto sparì subito tra la spalla e il collo. Nella stretta delle braccia, Mamoru avvertì la paura; perché ne aveva avuta e ne aveva ancora, anche se non faceva che negare.

Anche lui lo strinse forte.

«Ma la prossima volta parlami, invece di fuggire, e non smettere mai di fidarti di me.»

 

“Forti piogge mi cadono addosso,

mentre dico il mio ultimo desiderio.

Le cose che mio padre ha fatto davanti a me,

mi stanno ancora suonando in testa.

Tale padre, tale padre…

…tale figlio.”

 

Like Father, Like Son – Struggle Jennings ft. Joshua Hedley

 

 


 

 

Note Finali: …sembra che il perdono non abiti qui.

Di certo, non a casa Malerba.

Shuzo non l’ha presa un granché, Akio ancora non lo sa e Mamoru si trova nel mezzo di quella situazione che è pronta a esplodere in un nuovo casino che non finirà bene.

La paura rende gli uomini facili a commettere degli errori, a cadere e a reagire con forza in decisioni affrettate o solo estreme.

Se poi uno dentro c’ha il cannibale come Shuzo… *nods*

Ci rileggiamo lunedì :* <3

 

 

   
 
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