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Autore: Carme93    06/07/2020    5 recensioni
"Ti darò un saggio consiglio, se vuoi ascoltarmi: armata di venti remi la nave migliore che c’è,
parti e cerca notizie del padre da tanto tempo lontano" (Odissea, libro I), così Atena sollecita il giovane Telemaco affinché si metta in viaggio e cerchi il padre.
Lo stesso comando sembra, a secoli di distanza, risuonare nel cuore di Samuele un tredicenne che non ha mai conosciuto suo padre, ma non ha mai smesso di desiderarlo. E quando tutto precipita, la verità, a lungo nascosta dalla madre, viene a galla, e Samuele troverà il coraggio di emulare Telemaco.
[Questa storia si è classificata quarta a pari merito ed è vincitrice del premio "Best desiderio avverato" al contest "Wish upon a star" indetto da inzaghina.EFP sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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[Questa storia si è classifcata quarta ed vincitrice del premio "Best desiderio avverato" al contest "Wish upon a star" indetto da inzaghina.EFP sul forum di EFP)





 


La storia di Telemaco
 
 
 






 
Sarebbe da stupidi, non credi? Passare una vita intera a desiderare qualcosa senza mai agire.
(Tratta dal film “Blow”)
 
 






 
Un tuono scosse una piccola villetta, identica alle altre sulla via. Aveva piovuto intensamente per tutta la notte, la primavera, preannunciata dal calendario, sembrava lontana.
«Samuele».
Un ragazzino, che aveva ignorato il suono della sveglia, si rigirò tra le coperte proprio mentre la madre entrava nella sua camera.
«Samuele! Sbrigati! Non ho tempo da perdere».
Samuele sospirò, costatando quanto la madre fosse di cattivo umore, e si azzardò a chiederle: «Non posso rimanere a casa?». Avrebbe voluto parlargliene già la sera prima, ma lei aveva eluso ogni suo tentativo di conversazione e, rassegnato, il ragazzino si era chiuso nella sua stanza a leggere e a immaginare nuove storie.
La madre gli lanciò un’occhiataccia. «Muoviti!» sibilò.
Samuele gemette e tentò ancora: «Mi fa male la pancia». Era una scusa stupida e non avrebbe funzionato, ma era abbastanza disperato. «E ho la febbre» insisté.
«Se non vuoi uno schiaffo, ti conviene vestirti a tempo di record» sentenziò la madre prima di uscire dalla camera.
Samuele sbuffò e obbedì. Un quarto d’ora dopo trovò la madre ad attenderlo in salotto.
Alisia Ferrisi era giovanissima, poco più che trentenne, e di bell’aspetto. Quella mattina indossava un vestito di lana corto, che lasciava intravedere dei collant a rete.
«Mamma, oggi è il 19 marzo» disse Samuele sperando che per una volta comprendesse.
«Sì, lo so. Andiamo».
Il ragazzino sospirò e la seguì.  In macchina, mentre la madre parlava al telefono, chiuse gli occhi tentando d’immaginarsi come avrebbe voluto che fosse iniziata la giornata.
Avrebbe puntato la sveglia prima del solito per preparare la colazione: magari un thè profumato e delicato, una delle bevande preferite del padre, e il latte con il cacao per sé; poi avrebbe preparato un vassoio con fette biscottate, marmellata di ciliegie e nutella. Sarebbe riuscito a salirlo al piano superiore senza rompere nulla, avrebbe svegliato il padre e l’avrebbe abbracciato. Avrebbero giocato un po’ nel letto: lui l’avrebbe solleticato, ben sapendo che non lo sopportava, e poi l’avrebbe coccolato. Infine avrebbero mangiato insieme, ben coperti perché, nonostante la primavera stesse arrivando, faceva ancora freddo.
«Samuele!».
Il ragazzino si riscosse e distolse lo sguardo dal finestrino tutto punteggiato dalla pioggia, che si abbatteva sul vetro ininterrottamente.
«Scendi e cerca di combinare qualcosa di buono a scuola, non come tuo solito».
Samuele si limitò a salutarla, ma sul marciapiede si attardò a osservarla mentre faceva manovra e lo abbandonava lì. Strinse le cinghie dello zaino e si calcò meglio il cappuccio sulla testa. Se fosse stato bel tempo, avrebbe potuto anche provare a defilarsi, invece era orribile e lui aveva un pessimo senso dell’orientamento. Non gli dispiaceva studiare, ma mal sopportava i suoi compagni e gli insegnanti.
Nel cortile esterno non c’era nessuno: quando pioveva gli studenti potevano entrare prima e raggiungere le loro aule per non creare troppo affollamento nel piccolo ingresso.
Quel giorno, però, era diverso essendo presenti anche i padri. Era una tradizione della scuola per festeggiare quella giornata. Ma che bello! Le ore di lezione erano ridotte a due e dalle dieci in poi vi erano una serie di attività da svolgere in coppia, genitore-figlio.
Prese un bel respiro e si mischiò alla folla nell’ingresso. Obiettivo: raggiungere la classe il più velocemente possibile.
«Ehi, dove vai? Dov’è tuo padre?».
Piano fallito.
Samuele fissò annoiato Marco Costoni, in compagnia, come di consueto, dei suoi migliori amici o il suo branco come preferiva chiamarlo lui.
«Vai a quel paese» sbottò e cercò di passare, ma i tre gli bloccarono la strada.
Non aveva senso parlare o ragionare con loro.
«Allora, dov’è tuo padre? Non ha tempo per stare con te? Come dargli torto».
Samuele abbassò gli occhi sul pavimento. Se suo padre fosse stato lì, quei tre stupidi non avrebbero nemmeno avuto il coraggio di avvicinarsi, figuriamoci spiccicar parola. Lo immaginava alto e imponente accanto a lui. La folla si sarebbe spostata e lui avrebbe raggiunto la sua classe senza problemi.
Ma era solo. Chiuse gli occhi in attesa. La tecnica migliore era quella adotta da Hermione Granger nel primo film quando lei e i suoi amici si trovavano intrappolati nel tranello del diavolo: se fosse rimasto calmo e avesse ignorato provocazioni e spintoni, si sarebbero annoiati.
«Oh, ma guardate quant’è stupido! Non reagisce nemmeno!» lo derise Marco.
«È tutto strano» sbottò Riccardo Izzi.
«Dai, andiamo, non perdiamo tempo con lui» sbuffò Augusto Bracci annoiato.
«E va bene» assentì Marco.
Samuele, finalmente libero, raggiunse la sua aula, dove trovò la maggior parte delle sue compagne in compagnia dei padri. Biascicò un saluto e sedette al suo posto in fondo alla classe.
Le due ore successive furono noiose e le professoresse riempirono di moine i genitori presenti. Quella di inglese addirittura fece loro leggere un brano che parlava dei papà. Uno strazio. Samuele, ben presto, si distrasse e cominciò a fantasticare: suo padre, seduto accanto a lui, l’avrebbe aiutato; naturalmente era un uomo colto, quindi conosceva bene l’inglese, e chissà quante altre lingue, molto meglio della professoressa stessa; gli avrebbe lanciato sguardi complici e l’avrebbe aiutato a seguire. Mica come i padri dei suoi compagni che navigavano su internet, spulciavano Facebook e le email.
«Ferrisi».
La voce della professoressa risuonò nell’aula e tutti si voltarono verso di lui. «Continua tu a leggere».
Il ragazzino fissò il libro, ma non aveva idea di dove fossero arrivati. Naturalmente era troppo sperare in un aiuto dei suoi compagni, troppo occupati a mettersi in mostra.
«Ho perso il segno» ammise Samuele.
«Fuori!».
Il ragazzino obbedì: tanto fuori o dentro, sarebbe stato uguale.
«Tanto lui non ce l’ha il padre».
Fu poco più di un mormorio, ma ferì ugualmente Samuele, che, però, non replicò. In fondo era vero: se avesse avuto un padre, la professoressa non si sarebbe comportata in quel modo.
Samuele si assicurò che il corridoio fosse vuoto e si lasciò scivolare a terra. Si nascose la faccia tra le mani per qualche secondo, anche solo per nascondere la luce fredda che non scaldava minimamente e sembrava non poter nulla contro il buio che proveniva dall’esterno. I fulmini facevano un certo effetto, così come i tuoni che scuotevano l’edificio. Samuele non avrebbe dovuto sforzarsi troppo per immaginare quel posto come lo scenario perfetto per un thriller o, ancora peggio, un horror: poteva percepire i passi cadenzati provenire dalle scale alla sua sinistra, nel sottofondo il vociare concitato proveniente dalle classi, dove alunni ignari di quello che sarebbe accaduto facevano finta di seguire le lezioni. Il passo cadenzato era sempre più vicino, poi sarebbe apparso il preside armato di ascia e…
«Ragazzino, stai composto».
Samuele sobbalzò e si voltò verso una bidella. Obbedì e si appoggiò con le spalle al muro. Alle volte s’immedesimava troppo nelle sue fantasie. Rabbrividì. E lui non amava gli horror. Eppure la bidella, che lo fissava torvamente, sembrava proprio una megera… Doveva pur trascorrere il resto dell’ora in qualche modo!
Quando si spostarono in palestra per le attività di squadra, fu più furbo: nascose “Cose che nessuno sa”, il romanzo che stava leggendo, sotto il maglione. Gli stava piacendo perché si ritrovava nei due protagonisti. Osservò per qualche minuto i compagni sfidarsi al gioco della sedia, ma, annoiato, si defilò e si nascose nel bagno della palestra.
 
 
«E tu che fai qui?».
Era trascorsa più di un’ora e, naturalmente, nessuno si era accorto della sua assenza, ma il bagno non era un nascondiglio duraturo. La professoressa d’italiano lo fissava seccata e, senza tanti convenevoli, gli strappò il libro dalle mani.
«Non è adatto alla tua età».
«Cosa? Non è vero» si lamentò.
«Invece sì. Lo darò a tua madre quando verrà».
Ossia mai: sua madre odiava i colloqui. «Ma perché?».
«Perché sì. E non discutere ancora o ti prendi una nota! Se continui così, non sarai ammesso agli esami».
Samuele gemette, ma non aveva senso insistere.
 
 
*
 
 
Si svegliò e si rese immediatamente conto che c’era qualcosa che non andava: la camera era illuminata e c’erano delle persone. Si tirò indietro urtando la spalliera del letto. Samuele deglutì, spaventato. In sottofondo il rumore della pioggia, le strilla della madre e i tonfi di quelli che sembravano cassetti svuotati.
«Stai tranquillo».
Samuele osservò la donna che aveva parlato: indossava la divisa dei Carabinieri.
«Samuele, giusto?» continuò lei con un tono di voce fermo e pacato. «Per piacere, vestiti, devi venire con noi».
«Cos’ho fatto?» mormorò il ragazzino turbato.
«Nulla, stai tranquillo. Dai, alzati».
L’altro carabiniere sembrava meno paziente.
Samuele annuì e la ringraziò mentalmente quando lasciò la stanza. Si cambiò rapidamente.
«Prendi un po’ di vestiti e quello che ti può servire» disse il carabiniere.
«Dove andiamo?» gli chiese.
L’uomo esitò, poi rispose: «Non è il momento delle spiegazioni».
Samuele sospirò rassegnato e recuperò il borsone del rugby – sport che odiava – e lo svuotò sul letto, poi lo riempì con un po’ di vestiti e più libri possibili. Infine prese lo zaino della scuola e vi mise i libri e i quaderni. A fatica, lo caricò sulle spalle e agguantò il borsone. «Sono pronto» annunciò. Fece qualche passo avanti ma barcollò per il peso.
Il carabiniere lo fissò scettico, poi allungò una mano verso di lui: «Lo porto io lo zaino» si offrì.
Samuele gliene fu grato. Sarebbe stato magnifico se suo padre fosse stato un carabiniere o un poliziotto: aiutavano gli altri e perseguivano la giustizia.
In salotto ebbe un colpo al cuore: sua madre sbraitava come sempre, ma era ammanettata e sedeva sul divano sorvegliata dai carabinieri. Si bloccò e la fissò: perché? Ma non espresse quella domanda: nessuno avrebbe fatto caso a lui, meno che mai la madre.
Altri carabinieri si aggiravano per la casa svuotando cassetti e mobili. Stavano perquisendo, ma che cosa cercavano?
«Vuoi bere?» gli chiese la donna di prima.
Samuele scosse la testa. Apprezzava la sua gentilezza, ma aveva una morsa allo stomaco. Osservò sua madre: in tv di solito la gente non voleva essere vista quando veniva arrestata e si copriva il volto, ma lei gridava a pieni polmoni e insultava i carabinieri.
Samuele decise di avvicinarsi a lei e nessuno lo fermò.
«Mamma» mormorò a voce bassa, ma lei continuò a strillare. «Mamma» ripeté alzando la voce. Alcuni carabinieri si voltarono verso di lui e sua madre tacque fissandolo fuori di sé.
«Che cazzo vuoi?».
Samuele era abituato a quel genere di risposte, ma in quel contesto lo ferirono più del solito. Sentì le lacrime uscire furiosamente: era solo.
Indietreggiò, in modo da allontanarsi da lei, ma non sapeva dove andare. Smarrito, rimase in mezzo al salotto a piangere come non faceva da tempo. Sua madre aveva ripreso a urlare come se lui non l’avesse mai interrotta.
Samuele sentì qualcuno stringergli la spalla in un gesto che avrebbe dovuto essere affettuoso, ma non sollevò nemmeno lo sguardo per scoprire chi fosse.
In seguito Samuele e la madre vennero scortati fuori dai carabinieri, ma invitati a salire su due macchine diverse. Per un attimo il ragazzino si domandò perché sua madre lo odiasse tanto. Si appoggiò sul sedile posteriore. Presto avrebbe fatto giorno, anche se il cielo era cupo e probabilmente non se ne sarebbe nemmeno accorto.
 
 
*
 
 
Un lievissimo fascio di luce penetrò sotto la porta del balcone, Samuele si sedette sul letto e si passò una mano sugli occhi, quasi potesse scacciare il sonno e la stanchezza: erano giorni che non dormiva bene e non erano nemmeno le sette. Si assicurò che i suoi compagni di stanza dormissero ancora, non avendo molta voglia di parlare.
Si alzò e si preparò: quel giorno, dopo più di una settimana, sarebbe tornato a scuola. Non ne aveva voglia, ma era stato lui stesso a chiederlo: sarebbe stato un modo per tornare alla normalità. O almeno provarci. Indossò la divisa anche se era sgualcita, ma non gli interessava, tanto i professori avrebbero trovato molti altri motivi per rimproverarlo e così i suoi compagni per deriderlo.
In cucina trovò la signora Giulia, l’educatrice della casa famiglia, intenta a preparare la colazione.
«Già sveglio?» gli sorrise.
La signora Giulia sorrideva spesso, anche quando i più piccoli le facevano perdere la pazienza, come se quel semplice gesto le infondesse coraggio. Sua madre non sorrideva mai o quasi, non con lui comunque.
«Non voglio arrivare in ritardo» rispose, non comprendendo nemmeno lui perché ci tenesse tanto.
Giulia sembrò incupirsi per un attimo, ma poi tornò a sorridere. «Ti accompagno io, vedrai che arriverai in orario». Samuele fu certo che volesse aggiungere qualcosa, ma uno dei più piccoli la chiamò. «Fai colazione».
 
Accompagnarono prima i bambini, ma arrivarono in ritardo anche perché Giulia conosceva la sua scuola solo di fama, perciò ebbe difficoltà a trovarla e Samuele non fu molto bravo a guidarla.
Il ragazzino era sicuro che sarebbe entrato la seconda ora, ma i bidelli all’ingresso si limitarono a lanciargli occhiatacce e l’insegnante della prima ora lo rimproverò soltanto: sembravano quasi sorpresi di vederlo. I suoi compagni ridacchiarono, ma nessuno disse nulla.
Alla fine dell’ora, però, Marco gli passò un bigliettino. Samuele non si sorprese nel vedere uno scarabocchio: il suo viso, molto stilizzato – Marco aveva gentilmente messo una freccia con la quale indicava il suo nome – dietro delle sbarre tutte storte.
In quei giorni aveva riflettuto molto su quanto accaduto, sulle responsabilità di sua madre e soprattutto sulle conseguenze, ma non aveva proprio considerato che i suoi compagni avrebbero saputo. Tutti sapevano. Ma perché si comportavano in quel modo? L’avevano sempre deriso e ora tacevano. Avevano paura di sua madre? Ma era stata arrestata! Per quello che aveva capito Samuele la madre era accusata di truffa aggravata e varie attività fraudolente. Avevano paura dei suoi complici? Tutti avevano dei complici. E alcuni amici di sua madre a lui non piacevano proprio. Ma se così fosse stato, l’avrebbero trattato in modo differente già molto tempo prima.
Nel cambio dell’ora Samuele comprese quanto i suoi compagni trovassero divertente quello che era accaduto, senza preoccuparsi che lui potesse soffrirne.
«Adesso è chiaro perché non hai un padre» disse Marco avvicinandosi. «Sarà in un carcere di massima sicurezza. All’ergastolo».
Samuele si chiese se Marco capisse veramente il significato delle sue parole, ma fu solo un attimo, poi si alzò e spintonò il compagno. «Non è vero» urlò. Suo padre non dovevano toccarlo. Suo padre era sicuramente un colonnello dei Carabinieri o un Questore o un giudice. Suo padre era per la Giustizia. Ne era sicuro.
«Si, che è vero. Sennò sarebbe qui con te» rincarò Marco.
Samuele gli tirò un pugno sulla spalla, ma Marco reagì e lo spinse contro il banco. Riccardo e Augusto ne approfittarono e lo trattennero per le braccia, Marco caricò il pugno, ma l’insegnante di matematica entrò in classe con un bidello.
«Che succede qui?».
Come se ti interessasse davvero, pensò Samuele con rabbia.
«Samuele voleva picchiarmi» rispose subito Marco. «Riccardo e Augusto lo hanno trattenuto».
Gli altri si erano affrettati a prendere posto e non sarebbero intervenuti.
«Non è vero» sbottò Samuele. «È stato lui che …».
«Silenzio! Ferrisi in presidenza» sentenziò il professore.
Samuele lo fissò con odio, ma non replicò ben sapendo che avrebbe parlato a sproposito tanto era furioso. Era stanco, stanco di essere solo. Che cosa ci guadagnavano gli adulti a comportarsi così? Cosa ci guadagnavano a mettere dei figli al mondo e non volerli?
Seguì il bidello senza una parola. Odiava quel posto. Odiava quelle persone.
La sua rabbia si sgonfiò quando entrò in presidenza e trovò la signora Giulia seduta di fronte al preside. Come avevano fatto a convocarla tanto velocemente? Nemmeno si fosse smaterializzata!
Il bidello consegnò al preside il registro di classe sul quale l’insegnante aveva frettolosamente annotato l’accaduto. Il preside si accigliò e riferì alla signora Giulia. La rabbia montò nuovamente in Samuele: nessuno gli avrebbe chiesto la sua versione.  
«Signora, questo non fa che sostenere la mia posizione».
Samuele sbirciò il volto di Giulia, che gli sembrò arrabbiata, e questo lo preoccupò.
«Siamo d’accordo, mi sembra. Non c’è nulla di cui discutere» disse Giulia freddamente.
«Questo è il fascicolo del ragazzo».
«Grazie del suo tempo» ma non sembrava molto grata e non strinse nemmeno la mano che l’uomo le porse.
Samuele la seguì sempre più turbato, ma non fiatò finché non furono in macchina.
«Sono stato sospeso?» le chiese.
Giulia scrutò nello specchietto retrovisore prendendo tempo, poi rispose: «No». Samuele sospirò di sollievo. «Avevo già chiesto il nulla osta e non aveva senso prendere ulteriori provvedimenti».
«Nulla osta?» ripeté sorpreso.
Erano in fila nel traffico e lei si voltò verso di lui, l’espressione più tranquilla. «Io non posso pagare la retta e lo Stato non ha intenzione di farlo».
Altra cosa che non aveva preso in considerazione: non aveva veramente chiaro che cosa sarebbe accaduto. Si accasciò sul sedile e si azzardò a chiedere ancora – sua madre odiava le domande -: «Non andrò più a scuola?». S’immaginava già alla ricerca di un lavoro.
«Certo che ci andrai» replicò Giulia. «Che ti piaccia o meno, dovrai farlo almeno fino a sedici anni».
Samuele giochicchiò con la cintura di sicurezza, ma non disse più nulla. Per il resto della mattina attese che Giulia sbrigasse delle commissioni e l’aiutò a fare la spesa – fu quasi divertente -, poi, quando i piccoli uscirono da scuola, tornarono a casa.
Samuele era molto confuso: Giulia non l’aveva rimproverato per quanto accaduto a scuola, ma d’altronde non era sua madre. Che compiti aveva esplicitamente un’educatrice? Nel pomeriggio si chiuse in camera e vi rimuginò parecchio. A un certo punto fu sicuro di essersi addormentato. Il tempo era ancora nuvoloso e spesso vi erano rovesci improvvisi, anche se non intensi come quelli di qualche settimana prima. Svegliatosi, decise che fosse ora di affrontare Giulia. Aveva bisogno di capire. In salotto trovò i bambini impegnati a giocare con le costruzioni, ma non Giulia, così si diresse verso il suo studio. Non vi era mai entrato, ma, passando dal corridoio, aveva intravisto diversi scaffali pieni di libri. La porta era socchiusa e sentì alcune voci.
«Non so se ce la faccio, non sono abituata con gli adolescenti» disse Giulia.
«Non vuoi provare?» chiese un’altra voce femminile, quella dell’assistente sociale che l’aveva accompagnato lì.
Non era educato origliare, così Samuele si fece coraggio e bussò. Avuto il permesso di entrare, fissò imbarazzato le due donne. «Posso tornare dopo» balbettò.
«No, tranquillo. Io sto andando via» disse l’assistente sociale sorridendo.
«Torno subito» soggiunse Giulia.
Samuele si guardò intorno e, per quanto sapesse che non fosse corretto toccare le cose degli altri senza permesso, non riuscì a resistere e diede un’occhiata ai titoli negli scaffali. Erano per lo più libri di psicologia e pedagogia, ma uno lo attirò più degli altri: “Il complesso di Telemaco” di Massimo Recalcati.
«Ti piace leggere, vero?».
Samuele sobbalzò e balbettò delle scuse riponendo il libro.
«Non c’è problema» replicò Giulia. «È bello leggere, ma questi non sono adatti a te».
Samuele non replicò: quella frase l’aveva sentita un milione di volte.
«Telemaco è il mio personaggio preferito» le spiegò.
«Capisco» sorrise Giulia. «Recalcati, però, è uno psicanalista non un romanziere, anche se è molto bravo».
«Perché parla di Telemaco?».
«Perché usa il mito per rappresentare qualcos’altro».
«Che cosa?».
«Telemaco è colui che cerca il padre e secondo Recalcati la società di oggi deve ritrovare la figura paterna… è un po’ lungo da spiegare».
Telemaco era colui che cercava il padre, per questo era il suo personaggio preferito.
«Comunque io non do fastidio… di solito» specificò Samuele ripensando a quella mattina.
Giulia sedette dietro la scrivania e gli fece segno di prendere posto in una delle due sedie di fronte. «Hai sentito il discorso di prima?».
«Non volevo origliare» si affrettò a dire.
Giulia annuì. «Come vedi tu stesso, sono abituata a prendermi cura di bambini più piccoli. Non ho nulla contro di te».
«Mi dispiace per stamattina» disse Samuele che non aveva voglia di cambiare casa di nuovo.
«I problemi non si risolvono con la violenza, lo sai?».
«Lo so, ma ho perso il controllo. Di solito non reagisco. Li lascio parlare e si stancano». Anche se faceva male.
«Ti infastidivano spesso?».
Samuele si strinse nelle spalle e non replicò.
«A volte si perde la pazienza» disse Giulia comprensiva.
«Quindi posso rimanere qui?».
«Le due cose non sono correlate. Tu vuoi rimanere?».
«Sì» rispose subito Samuele. Non aveva molte altre scelte e Giulia era stato molto gentile e disponibile.
«Bene, allora non c’è problema. Domani ti accompagno nella tua nuova scuola, va bene?».
Samuele annuì.
 
La mattina dopo era molto ansioso: ci teneva a fare bella figura avendo la possibilità di ricominciare da zero. Indossò un paio di jeans e una camicia felpata con i quali si sentiva a suo agio e si fiondò in cucina dove lo stavano aspettando.
«Sto bene, così?» chiese preoccupato a Giulia.
«Sì, tranquillo» replicò lei con un sorriso.
Come il giorno prima, accompagnarono prima i bambini, dopo si recarono alla nuova scuola. L’ufficio del preside era piccolo, ma pulito ed elegante. Il preside venne loro incontro e strinse la mano a entrambi. Samuele sbirciò intorno a sé notando una libreria e targhe varie, poi focalizzò la sua attenzione sull’uomo, che sorrise leggermente prendendo il fascicolo che Giulia gli porgeva.
«Naturalmente, capirà che è inconsueto accettare un allievo alla fine dell’anno».
«Perfettamente, ma le è stata spiegata la situazione».
Il preside annuì. «Sì, per questo abbiamo deciso di ammettere Samuele». A quel punto qualcuno bussò alla porta e una donna di mezz’età entrò. «Vi presento la professoressa Bernardi, insegnante d’italiano e coordinatrice di classe».
«Piacere» mormorò Samuele intimorito. La professoressa sorrise e lesse il fascicolo del ragazzino.
«Signora, si rende conto, però, che al momento Samuele non è in grado di affrontare l’esame?» domandò il preside.
Samuele si agitò sulla sedia: quel discorso non gli piaceva.
«Capisco» disse Giulia. «Ma è stato un periodo difficile per lui, non potete concedergli un’altra possibilità?».
Il preside, scettico, sollevò lo sguardo sulla professoressa al suo fianco. «Lei che ne pensa?».
La donna scrutò il ragazzino. «Dipende da Samuele, secondo me».
Lui ricambiò il suo sguardo sorpreso. «Non voglio perdere l’anno» disse.
La signora Giulia gli sfiorò la mano in un gesto gentile.
«Ma ti rendi conto che i tuoi risultati fino a questo momento sono stati molto scarsi e non solo negli ultimi mesi?».
Samuele lo sapeva, ma sapeva anche che a volte, mal sopportando gli insegnanti e i compagni, si era chiuso in silenzi ostili che si erano tradotti in una sfilza di insufficienze. «Posso farcela» mormorò.
«Bene, se t’impegnerai sono sicura che ci riuscirai».
«Grazie» disse Samuele ricambiando il suo sorriso.
Gli adulti discussero ancora tra di loro, dopodiché la Bernardi lo accompagnò nella sua nuova classe. In principio Samuele si spaventò: i nuovi compagni erano molto numerosi e, naturalmente, gli occhi di tutti si puntarono sul nuovo arrivato. La professoressa d’italiano, però, gli appoggiò la mano sulle spalle: forse era un po’ meno solo. Dentro di lui, però, sentiva che non era quello che desiderava.
 
 
 
 
 
*
 
 
Il cielo era leggermente meno cupo tanto che quella sera si poteva intravedere qualche stella. Quella primavera si stava rivelando più fredda rispetto agli anni precedenti. Samuele era meteoropatico per cui quel tempo contribuiva a renderlo malinconico. Sospirò e tornò a sedersi alla scrivania. Rilesse il tema che aveva scritto e poi preparò lo zaino per il giorno dopo, in modo da non doverlo fare dopo cena.
In quelle settimane si era impegnato molto per dimostrare le sue capacità e ci stava riuscendo abbastanza bene: non aveva avuto difficoltà a mettersi al pari dei compagni.
«Samuele».
Giulia fece capolino dalla porta.
«Ho finito» la rassicurò. Era molto gentile e si offriva di aiutarlo con i compiti, ma lui era abituato a lavorare da solo. Apprezzava il suo interessamento, benché non riuscisse a sciogliersi e a sentirsi pienamente a suo agio con lei e gli altri bambini: era come se ci fosse sempre qualcosa di sbagliato. A volte sperava che qualche parente si facesse vivo e lo prendesse con sé, anche se sapeva fin troppo bene che il legame di sangue non fosse una garanzia.
«L’assistente sociale ha portato questo per te». Samuele osservò lo scatolone che Giulia appoggiò sul tappeto. «Le ho detto che stavi studiando, ti saluta».
«Grazie».
Rimasto solo, si lasciò scivolare sul tappeto, prese un bel respiro e lo aprì. Si trattava dei vestiti che aveva lasciato a casa, una scatola di lego e “Cose che nessuno sa”! Sua madre gliel’aveva sequestrato e non era ancora riuscito a scoprirne la fine. C’erano anche delle vecchie macchinine, una scatola di colori e un album di foto che non aveva mai visto. Lo fissò dubbioso. Probabilmente l’assistente sociale, o chi per lei, aveva preso da casa sua quelle cose che aveva pensato potessero servirgli o che comunque gli avrebbe fatto piacere riavere. Ma quello non era suo. Si sedette sul letto e lo sfogliò curioso: erano foto di sua mamma quand’era ragazzina. Quattordici anni prima, la data era chiara, così come le didascalie. Non avrebbe mai pensato che la madre apprezzasse le fotografie. Chissà dove l’aveva nascosto quell’album e perché non gliel’avesse mai mostrato. In casa non c’erano molte foto. Una volta gli era stato assegnato come compito di scrivere la storia della sua famiglia con tanto di fotografie, ma aveva preso un brutto voto perché la madre non l’aveva aiutato. Gli altri l’avevano preso in giro e il professore non ci aveva creduto: quale bambino non ha nessuna fotografia o non sa nulla della propria famiglia?
Sua madre era carina anche da piccola. C’erano delle foto con quelli che dovevano essere i nonni e forse delle zie; sua madre indossava jeans stracciati e una maglietta che le lasciava scoperto l’ombelico. In altre foto, invece, era in compagnia di alcune coetanee di fronte a un liceo molto famoso della città. Samuele non sapeva nemmeno che lei avesse studiato lì. E allora perché l’aveva scritto in un professionale senza ascoltarlo? In più sua madre odiava studiare, una delle poche cose che gli aveva detto.  All’improvviso in alcune foto estive apparve anche un ragazzo. Sua madre lo abbracciava e lo baciava. Poi l’album finì, solo pagine bianche. Samuele lo sfogliò fino alla fine e trovò una busta spessa, di quelle che si usano per i documenti. Si accigliò e l’aprì: conteneva cinque fotografie, dietro alle quali la madre aveva scritto qualcosa.
Nella prima sua madre e il ragazzo si trovavano in un locale. La scritta recitava:
 
Cristoforo, come sempre avevi ragione tu. Quella sera non avremmo mai dovuto ubriacarci. E naturalmente, è sempre colpa mia.
 
Che cos’era successo? Prese la foto successiva e deglutì: sua madre, accanto a un albero di Natale, era incinta. La girò con le mani tremanti:
 
Ti odio Cristoforo Marchetti. Odio te, i miei genitori e i tuoi che ci tengono lontani. Non volevo questo bambino e lo odio. I miei mi hanno impedito di abortire.
 
«Samuele, che hai?».
Due bambini lo fissavano straniti.
«Niente» si affrettò a rispondere. Si asciugò gli occhi e fece finta di sorridere. Il cuore gli batteva forte.
«Vuoi che chiamiamo Giulia?».
«No, sto bene».
«Possiamo giocare con i lego?».
«Sì». Erano il regalo di una madre che non lo aveva mai voluto. Guardò la foto successiva: ritraeva un bambino appena nato. Lui.
 
Ecco tuo figlio. Ho a malapena diciotto anni e sono madre. Vi odio tutti.
 
La foto successiva era sempre lui un po’ più grande.
 
Dubito che vedrai mai queste foto. Non verrò a cercarti, non voglio più vederti. Me ne sono andata di casa.
 
Nell’ultima Samuele aveva già otto anni e leggeva sdraiato nella sua stanza.
 
Questo bambino è la tua fotocopia. Ti odio con tutto il mio cuore, non ho avuto neanche la possibilità di scordarti!
 
Assomigliava a suo padre! Gli assomigliava!
Sconvolto da quanto scoperto, Samuele si nascose in bagno e si sfogò. La sua vita era riassunta in cinque foto: sua madre lo odiava e suo padre non sapeva della sua esistenza. Chi sarebbe dovuto andare a prenderlo?
 
Trascorse la notte a leggere “Cose che nessuno sa”. Il cuore era in tumulto, ma non se la sentiva di confidarsi con Giulia. Chi era lei? L’aveva accolto, era gentile con lui, ma si conoscevano da poco.
La mattina dormiva letteralmente in piedi. Giulia se ne accorse e lo rimproverò per aver letto fino a tardi, Samuele biascicò delle scuse meccanicamente – e probabilmente lei lo capì. A scuola fu distratto per tutto il tempo e in ogni momento libero cercò di finire il romanzo: anche lui voleva ritrovare suo padre proprio come la protagonista.
«Ma che hai oggi?» gli chiese Nico, il suo compagno di banco.
Samuele si riscosse e lo fissò: era così palese che stesse pensando ad altro? Nico era ossessionato dai giochi della PSP e, se alzava gli occhi dallo schermo in assenza di un insegnante, era grave. Samuele lo soppesò: era un ragazzino tendenzialmente socievole e simpatico, un po’ grassottello e poco incline allo studio – infatti i professori avrebbero preferito che lui sedesse con Cecilia, una ragazzina assennata e studiosa, o con qualche altro compagno più attento.
La protagonista del romanzo chiedeva aiuto per non compiere il viaggio da sola. Lui a chi avrebbe potuto chiederlo? La Bernardi era molto brava e l’aveva preso in simpatia – a quanto pareva apprezzava la sua creatività e il suo amore per la lettura -, ma se le avesse fatto discorsi strani avrebbe sicuramente avvertito Giulia. Gli avevano detto, quasi fosse una minaccia, che sarebbero rimaste in contatto, ma non era un problema anzi era piacevole che tante persone si preoccupassero per lui. A Nico, però, avrebbe potuto raccontarglielo.
«Beh, che hai?» insisté il ragazzino.
«Devo assolutamente trovare una persona, mi aiuti?».
Il ragazzino si accigliò, ma annuì. «Chi?».
«Cristoforo Marchetti».
«E chi sarebbe?».
«È mio padre» ammise Samuele e gli raccontò ogni cosa. Alla fine dell’intervallo Nico lo fissava stranito. «Se non vuoi non fa niente» gli disse, mentre la Bernardi entrava in classe.
«Sì, non c’è problema. Possiamo vederci pomeriggio. Adesso aiutami con il compito di storia o il mio di padre mi ucciderà».
Samuele sorrise leggermente e si costrinse a concentrarsi sulla verifica anche solo per fargli un piacere.
 
Quel pomeriggio si incontrarono come stabilito. Samuele si sentiva in colpa per aver mentito a Giulia dicendole che avrebbe studiato con Nico. Era la prima volta che mentiva a un adulto: sua madre non lo ascoltava, ai vecchi professori non rispondeva e loro lo interpretavano il suo silenzio a piacimento.
Nico l’aveva effettivamente invitato a casa sua e avevano cercato su internet informazioni su Cristoforo Marchetti, considerando i diversi profili Facebook corrispondenti a quel nome, ma non era facile stabilire chi fosse con certezza suo padre tra quelli. Samuele era molto teso perché aveva così pochi elementi e c’erano altissime probabilità di fallire. A Nico sembrava un gioco. Quest’ultimo aveva pensato di visitare il quartiere dei genitori di Samuele perché non era trascorso troppo tempo e la gente avrebbe potuto ricordarsi dei ragazzi nella foto. Avevano rifilato una scusa alla madre di Nico ˗ Samuele si era sentito doppiamente in colpa perché la donna sembrava fidarsi di lui e considerarlo una buona compagnia per il figlio ˗ e avevano preso l’autobus. Arrivati, si avviarono verso la via Marina dove adocchiarono un signore anziano intento a sistemare una rete da pesca. Samuele salutò gentilmente e gli mostrò la foto.
«È di quattordici anni fa» disse Nico.
Il vecchio aggrottò la fronte e fissò la foto.
Nico era convinto che in un quartiere periferico si conoscessero un po’ tutti.
«Chiedete a mia moglie. È lì alla rotonda che fa taglio e cucito».
Samuele lo ringraziò e si avviò con l’amico. La rotonda non era altro che una piazzetta semicircolare dove c’erano delle panchine sul lato rivolto verso il mare. Samuele si guardò intorno. «Non c’è nessuno che cuce».
Nico gli lanciò uno sguardo rassegnato.
«Che c’è?».
«C’è che forse dovresti vivere un po’ di più nel mondo reale e meno in quello dei libri».
Samuele lo fissò ferito: quel genere di frasi gliele diceva sempre sua madre.
«Taglio e cucito è un’espressione gergale» gli spiegò Nico. «Non avrei mai creduto che arrivava il giorno in cui io spiego qualcosa a te».
«Sarebbe arrivato, avrei spiegato» borbottò Samuele per vendicarsi, ma Nico lo ignorò e si avvicinò a delle signore che chiacchieravano concitatamente tra loro.
«Salve!» trillò Nico. «Chi è la moglie di quel signore lì?».
Samuele gli lanciò un’occhiataccia per i suoi modi rudi.
«Io, perché?» rispose una delle signore fissandolo.
«Perché ci ha detto di mostrare a lei questa foto» rispose Nico. «Cerchiamo il ragazzo. Può aiutarci?».
La donna prese un paio di occhiali dalla borsa e lei e le sue amiche si misero a scrutare la foto con molta attenzione. Erano quasi inquietanti.
«Oh, sì, è Cristoforo» disse la moglie del pescatore.
«Oh, me lo ricordo! L’ho visto quando è sceso a Natale!».
Samuele le fissava in attesa.
«Sì, dov’è che sta? A Rimini?».
«No, Roma».
«E lei è stata arrestata qualche settimana fa».
Fu un pugno nello stomaco per Samuele, che avrebbe dovuto aspettarselo: se riconoscevano lui, avrebbero riconosciuto senz’altro sua madre.
«Sono stati insieme per un po’, ricordate?».
«Oh sì, i genitori di Cristoforo erano disperati».
«Alla fine sono riusciti a farli lasciare».
«Beh, vista com’è finita lei, hanno fatto bene».
Nico roteò gli occhi, ma Samuele era sconvolto da tutta quelle chiacchiere.
«Lui che fa?» chiese Nico, annoiato, interrompendole.
«Insegna all’Università» rispose prontamente la moglie del pescatore.
«Quale?».
«Non me lo ricordo».
Samuele deglutì: suo padre non era un poliziotto, né un carabiniere, né un giudice. Era un insegnante. Non era male.
«Ma voi chi siete?» domandò la signora.
«Amici» rispose prontamente Nico. «Ora dobbiamo andare».
«Grazie» mormorò Samuele.
Nico prese subito il cellulare. «Allora è lui».
Samuele annuì osservando il profilo di Cristoforo Marchetti, tra le informazioni c’era ‘insegnante presso Università degli Studi di RomaTre’.
«Ora che si fa?».
Samuele non lo sapeva. Sarebbe voluto andare subito da lui, ma Roma non era dietro l’angolo.
«Vuoi contattarlo? Possiamo mandargli un messaggio. Posso anche chiedergli l’amicizia se vuoi».
«No, non posso mica dirgli una cosa del genere su Facebook» sbottò Samuele.
«E quindi?».
«Voglio andare da lui» ammise.
«Oh, e che ci voleva a dirlo! Aspetta, vediamo un po’… Ecco, ci sono diversi treni… però il biglietto costa almeno ottanta euro, questo è un bel problema…».
«È un grosso problema» sospirò Samuele.
«Già, a ottanta ci arriviamo ma… centossessanta, no».
«Eh?».
«Te li do io i soldi» disse lui come se fosse ovvio. «Poi me li restituisci, se tuo padre insegna all’università avrà tanti soldi. Mia sorella dice che i professori universitari guadagnano un sacco di soldi. Il problema è che non posso venire con te».
Samuele dovette fermarsi per non scoppiare a piangere, a tredici anni e mezzo non sarebbe stato dignitoso. «Grazie» mormorò quando fu sicuro di riuscire a parlare, ma qualche lacrime sfuggì al controllo mentre tornavano a casa di Nico.
Quella notte Samuele non dormì molto: i dubbi lo attanagliavano. La mattina dopo non riuscì nemmeno a guardare Giulia in faccia: quello che stava per fare non le sarebbe piaciuto.
«Tutto bene?» gli chiese lei quando arrivarono a scuola.
«Sì».
«Sicuro? Se è successo qualcosa a scuola, possiamo parlarne».
«No, tranquilla» si costrinse a rispondere. «La Bernardi ti avrebbe chiamata».
«La professoressa Bernardi» lo corresse lei. «E con i compagni va tutto bene? Nico?».
«Bene. Nico è fantastico» disse con il cuore. «Poi sto conoscendo meglio anche gli altri. Per esempio Cecilia è sempre molto gentile».
Giulia non sembrava convinta, ma lo lasciò andare.
Samuele cercò subito Nico che lo attendeva al solito posto. Si salutarono e l’amico andò subito al dunque passandogli una busta. «Sono cento euro, quelli dell’ultimo compleanno. Il prossimo treno è alle dieci, se ti sbrighi non dovresti avere problemi. Parte dalla stazione centrale e arriva a Roma Termini per le sei e mezza».
«Sei e mezza?».
«È un intercity, gli altri costavano troppo».
«Ok».
«Ho mandato una mail a tuo padre ieri sera».
«Cosa? Sei pazzo? E cosa gli hai scritto?».
«Che sei un nuovo studente e vuoi parlargli prima d’iniziare le lezioni. Ho trovato la sua mail sul sito dell’università».
Samuele era confuso. «E ha risposto? Si è arrabbiato?» Insomma uno sconosciuto può scrivere a un professore universitario?
«Sì, ha risposto quasi subito. Mi ha detto che riceve il giovedì alle 10».
«Ma oggi è martedì! Non posso stare a Roma tutto questo tempo!».
«Lo so e non ti bastano nemmeno venti euro. Gli ho risposto spiegandogli che era urgente e l’ho pregato di vederci prima, magari oggi perché sono fuorisede e devo sistemare la casa».
«Gli hai scritto così?».
«Una specie».
«Ma chi te le dice queste cose?».
«Mia sorella» ammise allora Nico. «La più grande, va all’università».
«Ah, ok. E lei dice che si usa così?».
«Più o meno. Ha detto che le possibilità erano tre: o ti avrebbe ignorato o ti avrebbe mandato a quel paese oppure ti sarebbe venuto incontro».
«E lui?».
«Ha risposto che ha lezione fino alle 18 e poi vi potete vedere. Gli ho detto per le 18:30». Samuele lo guardò sconcertato: quel ragazzino, staccato dalla PSP, era pericoloso. «Non so dove sta RomaTre, ma un taxi ti ci porta. Se fai tardi non fa niente, visto quello che gli devi dire».
Samuele annuì. «Questi sono i compiti di matematica e di antologia. Poi mi restituisci i quaderni».
«Oh, mio salvatore». Gli occhi di Nico luccicarono.
Samuele lo ignorò e continuò. «Dai questo a Giulia se dovesse chiederti di me».
«Ok».
Samuele aveva voluto scriverle almeno un bigliettino per scusarsi e spiegarle che non era un ingrato.
«E tieni questo».
«Ma sei pazzo?». Samuele lo fissò sorpreso: gli stava dando il suo cellulare.
«No, ti serve. Poi me lo dai quando torni. Perché torni, vero? Insomma, come faccio gli esami da solo?».
Samuele annuì. «Sì, torno. Grazie».
Nico corse dentro perché stava per suonare la campanella e Samuele s’incamminò verso la stazione, che non era vicinissima.
Impiegò ben 45 minuti, ma era ancora in largo anticipo perciò fece il biglietto con calma. E fu una fortuna, perché perse tempo per capire come si obliterasse il biglietto e per trovare il binario giusto. Quando finalmente sedette sul treno, era molto teso. Cercò di rilassarsi leggendo, ma non riusciva a non pensare a Giulia, a Nico, alla scuola: ecco erano le dieci, sicuramente l’intervallo era iniziato e Nico stava giocando con la PSP. Ancora una volta stava agendo, incurante delle conseguenze. Questa volta, però, volutamente: voleva suo padre. Gli dispiaceva, però, per tutti quelli che avrebbe coinvolto: i professori cercavano di aiutarlo e la Bernardi gli aveva detto di non fare assenze se non indispensabili; Giulia si sarebbe preoccupata, si sarebbe arrabbiata e forse non l’avrebbe più voluto; e Nico? Se la sarebbero presa con lui? Sarebbe stato almeno in grado di restituirli i soldi?
Per un momento pensò di essere ancora in tempo per tornare indietro, chiamare Giulia e confessarle tutto, pregandola di andarlo a prendere. Magari l’avrebbe perdonato. Però non si mosse: non poteva rinunciare al quel punto.
Verso le tre il telefono squillò e lui sobbalzò: si era dimenticato di averlo. Era Nico.
«Ehi, tutto bene? Dove sei?».
«Quasi in Lazio, credo».
«Ottimo».
«Qualcuno ha chiesto di me?».
«La Bernardi».
Samuele deglutì. «Allora lo saprà già anche Giulia».
«Non lo so. Io le ho detto che hai la febbre. L’influenza può capitare a tutti, magari non l’ha chiamata».
Samuele non replicò.
«Dai, stai tranquillo. Se hai bisogno, richiamami a questo numero, non a quello di casa. O manda un messaggio».
«Ok, grazie». Chiuse la telefonata e si appoggiò al sedile.
Quando il treno giunse a Roma Termini era quasi buio e pioveva forte. Samuele si coprì con il cappuccio e si avviò fuori dalla stazione. Vi era una gran confusione e si sentì smarrito. Fermò un signore e gli chiese indicazioni per raggiungere l’Università. Erano le sei e mezza passate e aveva paura che il padre si stancasse di aspettarlo.
«Ma sei a piedi?» chiese quello scettico.
«Sì».
«Ci vuole più di un’ora. Ti conviene prendere un taxi o un autobus».
Samuele rassegnato si avvicinò a un tassista, ma prima gli chiese quanto volesse e ammise di avere solo venti euro. Quello rise e coinvolse alcuni colleghi. Spaventato e infastidito, Samuele si allontanò. Era stata una pazzia.
«Ehi, ragazzino».
Un signore si era accostato con la macchina al marciapiede. «Dai, sali».
«No, grazie» mormorò automaticamente Samuele.
«Non essere stupido, ti stai inzuppando. Ti accompagno io a RomaTre».
Samuele costatò che fosse un tassista e decise di fidarsi. «Grazie».
«Senti, RomaTre, ma dove di preciso?».
«In che senso?».
«Quale facoltà?».
«Non ho capito» mormorò Samuele.
«Esistono diverse sedi. Tu dove devi andare?».
«Ehm matematica?». Non era sicurissimo.
Il tassista ci pensò su e disse: «Va bene, vedrai in una mezz’oretta saremo lì».
«Mezz’ora?».
«C’è traffico a quest’ora».
L’avrebbe aspettato? Per tutto il tempo quella domanda lo tormentò.
Arrivarono a destinazione per le sette passate. Il tassista lo portò fino all’ingresso perché non si bagnasse ulteriormente.
«Grazie» disse porgendogli i venti euro.
«Sei da solo?».
«No» mentì.
Il tassista fece una smorfia. «Tieniti i soldi. Ho dei nipoti. E fai attenzione». Samuele provò a insistere, ma quello rifiutò e gli diede il suo bigliettino. «Se hai bisogno di un altro passaggio, chiamami».
Samuele entrò all’interno dell’Università: era molto silenziosa e incuteva paura. Percorse qualche corridoio prima di incontrare dei ragazzi
«Scusate, cerco il professore Marchetti» disse tremando per il freddo e per la paura. Quelli lo fissarono sorpresi.
«Marchetti?» ripeté uno di loro.
«Sì, dai» disse un altro. «Il prof di Fisica I».
«Non so se è ancora qui a quest’ora» commentò il primo.
«Ho un appuntamento».
«Ah, allora devi andare nella sua stanza».
«Ti accompagniamo» propose un terzo ragazzo che era rimasto in silenzio fino a quel momento.
«Grazie». Lo guidarono nei corridoi, probabilmente da solo si sarebbe perso.
«Ecco» dissero indicando una porta.
«Grazie».
Loro lo salutarono e il ragazzino bussò.
«Avanti» fu la pronta risposta. L’aveva aspettato.
Il cuore di Samuele accelerò, mentre entrava tremante. Suo padre era seduto a una scrivania piena di carte e libri. Era identico alla foto, solo un po’ più vecchio.
«E tu chi sei?» gli chiese sorpreso.
Samuele balbettò: «A-abbiamo u-un a-appuntamento».
Lui sembrò ancora più sorpreso. «Tu sei Samuele Ferrisi?».
«Sì».
«È uno scherzo?».
«N-n-o».
L’uomo si passò una mano tra i capelli. «Mi hai scritto tu la mail?».
«U-un m-mio amico».
«Un tuo amico? È lui che si è iscritto in questa facoltà? Dov’è?».
«No». Samuele non aveva idea di come comportarsi.
«Sono stanco» disse Cristoforo, mantenendo, però, la calma. «Non mi dire che tu hai diciotto anni e ti sei diplomato».
«N-no. Faccio la terza media».
«Eh, quindi che fai qui?».
Samuele non rispose.
«Senti, ok, ti hanno detto di venire a farmi uno scherzo? Qualche mio collega? Qualche studente? Molto divertente. Ora puoi andare. Io sono stanco e tu sei bagnato».
«Non è uno scherzo» mormorò Samuele.
«No? Allora cosa posso fare per te?».
«Sono scappato dalla casa famiglia dove vivo».
Lui si accigliò. «Ah, e perché sei venuto proprio qui? Ti piace la matematica?». Era sarcastico, ma non l’aveva detto con cattiveria.
«Sì, ma preferisco l’italiano».
Cristoforo sorrise leggermente, poi raccolse dei libri in una borsa. «Bene, dai, ti accompagno alla casa famiglia, ok? Sei già abbastanza bagnato. Dove si trova?». Samuele rispose e lui lo fissò basito. «Cosa?».
«Non sono di Roma» ripeté il ragazzino.
A quel punto squillò il cellulare. Samuele non sapeva che fare, ma poi si scusò e rispose: «Nico, non ora» bisbigliò.
«Non sono Nico. Dove sei Samuele?». Era Giulia.
Samuele deglutì, poi non sapendo che fare passò il telefono a Cristoforo che lo guardò come se fosse pazzo. «Non sto mentendo. Ascolta».
Cristoforo si presentò e disse a Giulia di non preoccuparsi perché se ne sarebbe occupato lui. «Non so che hai in testa, ma sei in un bel guaio. Vieni» sbottò dopo aver chiuso la telefonata.
«Dove andiamo?».
«A casa mia. O vuoi dormire per strada? La tua tutrice è preoccupatissima».
Non parlarono per tutto il tragitto. Cristoforo sembrava parecchio seccato. Quando arrivarono a casa sua, Samuele scoprì che suo padre era sposato e la moglie aspettava un bambino. I due tentarono di parlargli durante la cena, ma il ragazzino non fiatò: qualcosa si era rotto dentro di lui. Non avrebbe potuto raccontare la verità a suo padre, gli avrebbe rovinato la vita.
La signora gli preparò il divano per la notte, ma Samuele fissò il buio per ore: la signora Giulia l’avrebbe odiato e non l’avrebbe tenuto con sé. Lo sconforto ebbe la meglio e scoppiò a piangere. Cercò di attutire i singhiozzi per non farsi sentire, ma il pianto divenne ben presto incontrollato.
«Stai male?». Cristoforo in pigiama entrò in cucina e si sedette accanto a lui.
Samuele avrebbe voluto scusarsi per averlo svegliato, ma non riuscì a parlare. Cristoforo lo abbracciò e gli massaggiò le spalle per calmarlo. Il cuore di Samuele batté forte a quel contatto inaspettato ma agognato e il pianto si calmò. Cristoforo era caldo e rassicurante. E aveva un buon odore. Samuele non voleva che quell’abbraccio finisse.
«Avanti, svuota il sacco. Perché sei venuto a cercarmi?». Samuele non rispose. «Sei scappato da una casa famiglia a chilometri da qui e sei venuto nel mio studio. Addirittura hai preso un appuntamento con me. Perché?».
Samuele gli raccontò della moglie del pescatore e delle sue amiche e di quello che gli avevano raccontato.
«Mmm, capisco. Ma perché?».
Samuele sciolse l’abbraccio e recuperò la busta con le foto e gliela porse.
Cristoforo l’aprì e le osservò.
«Sei tu il bambino nella foto?». La voce di Cristoforo ruppe il silenzio all’improvviso. Quanto tempo era passato?
«Sì» sussurrò Samuele, si alzò e si avvicinò alla porta del balcone. L’alba doveva essere vicina perché il cielo si stava rischiarando. Sicuramente Cristoforo lo odiava e sua moglie si sarebbe pentita di non averlo avvelenato a cena.
Poco dopo Cristoforo lo raggiunse. «Tua madre è pazza, lo sai?».
Samuele continuò a fissare i palazzi i cui profili divenivano più nitidi.
Cristoforo lo sorprese e lo abbracciò, mentre una giornata, che si preannunciava luminosa, esplodeva su Roma.
 
Rimasero abbracciati finché il cellulare non squillò annunciando l’arrivo di Giulia. Fortunatamente non era furiosa, come Samuele aveva temuto, lo abbracciò stretto e poi lo rimproverò.
Cristoforo intervenne invitandolo a dormire un po’.
Samuele seguì il consiglio. L’ultima immagine che vide, prima che il sonno avesse il sopravvento, fu quella dei due adulti, seduti al tavolo della cucina luminosa, che osservavano insieme le foto.
 
*
 
 
Maggio era stato un mese impegnativo, ma la primavera era finalmente giunta. Il sole brillava e inondava la camera di Samuele quasi ogni mattina. Era bello andare a scuola attraversando viali alberati. La primavera era veramente rinascita. Ormai, però, era agli sgoccioli e l’estate ben presto ne avrebbe preso il posto.
«Samuele Ferrisi».
«Buona fortuna» gli sussurrò Nico.
Samuele borbottò un grazie, ma era terrorizzato. Quelle settimane erano state strane: si era impegnato molto nello studio sia perché ci teneva sia perché voleva fare bella figura con suo padre. Lo sentiva quasi ogni sera, lui lo ascoltava e gli dava consigli.
Eppure quella mattina non sembrava essere cambiato nulla: con lui c’era solo Nico.
Sedette di fronte alla Commissione.
Era agitato e fece fatica a comprendere quello che gli dissero i professori sulle prove scritte. Quando iniziò a parlare della sua tesina incespicò, ma la Bernardi lo incoraggiò. Man mano che procedette, le parole fluirono più liberamente.
Quando lo congedarono, strinse la mano a tutti. Voltandosi scorse sulla porta suo padre e Giulia. Sgranò gli occhi e quasi corse da loro, abbracciando di slancio suo padre. Era lì.
«Hai ascoltato?».
«Sì, quasi tutto. Mi sono perso i primi cinque minuti. L’aereo era in ritardo».
Samuele comprese che l’impegno improrogabile di Giulia fosse andare a prendere suo padre. Scoppiò in lacrime.
«Ehi, va tutto bene, sei stato bravissimo» gli disse sorpreso Cristoforo ricambiando l’abbraccio.
Ma a Samuele non fregava nulla dell’esame: finalmente il suo desiderio si era realizzato.
   
 
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