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Autore: Fanny Jumping Sparrow    07/07/2020    10 recensioni
Com'è germogliato e si è evoluto il profondo sentimento di affetto, attrazione, fiducia, stima, amore che lega i nostri due sweeper preferiti? Hojo ha lasciato molti punti in sospeso, sia sull'inizio, sia sul durante che sul dopo la loro convivenza. Con questa raccolta di one-shot mi propongo di trattare alcuni missing moments, ispirati dalle tavole del manga o da episodi dell'anime, oppure di mia spontanea invenzione.
Commenti e opinioni sono sempre graditi :D
Buona lettura!)
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kaori Makimura, Ryo Saeba
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
Capitoli:
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Salve ^_^
Ritorno ad aggiornare questa raccolta dopo una lunga pausa di cui mi scuso umilmente con i lettori che mi hanno seguito, augurandomi che almeno l'attesa sia valsa la pena e questa shot vi piaccia.
Non sto qui a soffermarmi e a giustificarmi sulle svariate cause concomitanti che mi hanno allontanato dalla scrittura (che ho comunque portato avanti su altri fandom), piuttosto ringrazio quanti si sono preoccupati di chiedermi, incoraggiarmi e farmi avere il loro apprezzamento.
Ho scelto di proposito la soluzione delle shot missing moments (che in origine avrebbero dovuto essere semplici flash) piuttosto che cominciare una long, ben sapendo e temendo che in questo periodo non avrei potuto dedicami con la dovuta cura e concentrazione su una storia più complessa, perciò spero comprendiate le mie future latitanze ^.^"
Questa volta ho voluto riagganciarmi ad un episodio che reputo tra i più importanti del manga e che per fortuna è stato trasposto anche parecchio bene nella versione animata, ovvero l'incontro di Kaori con Sayuri. Alla fine la nostra eroina fa una scelta ben precisa, ma reputo quasi impossibile che non abbia avuto qualche dubbio. E Ryo? Anche lui aveva preso seriamente la faccenda. Insomma, ho cercato di ricamare sul dopo, mi auguro di non aver scritto banalità e di non risultare noiosa.

In fondo troverete qualche nota su delle citazioni che ho voluto inserire.

Grazie infinite ancora a tutti i lettori, alla prossima!)


VIII – Detestabili abitudini

Il volo delle 9:30 della Japan Airlnes con destinazione New York era partito in perfetto orario e dell’enorme Boeing 767-300 non rimaneva altro che la flebile scia biancastra rilasciata dai suoi ruggenti motori, che stava ormai dissolvendosi nell’azzurro sbiadito del cielo ottobrino.
Kaori, ancora avvolta nell’anonimo soprabito che copriva il vestito più costoso ed elegante che avesse mai indossato negli ultimi anni, non riusciva a staccare lo sguardo lievemente inumidito da una nostalgica sensazione di mancanza da quelle soffici nuvole che si muovevano lente e leggere, quasi come galleggiassero sopra di lei, assumendo forme effimere e fantastiche.

Altri velivoli rombavano sulla pista di decollo dell’affollatissimo aeroporto internazionale di Tokyo-Narita, principale scalo per chi arrivava dall’estero o lasciava il Giappone imbarcandosi verso mete lontane che lei finora aveva potuto soltanto sognare di visitare attraverso la televisione, il cinema o le riviste. Di viaggi lunghi o in paesi stranieri non ne aveva mai affrontati, non ne aveva avuta la stringente necessità, né aveva mai provato il desiderio impellente di abbandonare l’immensa città in cui viveva da sempre, di cui amava imprescindibilmente le secolari tradizioni e i numerosissimi contrasti.

Senz’altro non era la prima volta che si trovava ad osservare quel frenetico via vai di gente indaffarata in procinto di salire a bordo di quei giganti dei cieli, per dovere, affari o piacere. Era capitato abbastanza spesso di accompagnare qualche cliente con cui aveva stretto, anche se per pochi giorni, un cordiale rapporto di amicizia, eppure mai prima di allora si era immedesimata tanto profondamente nelle emozioni che avevano potuto dominare l’animo di qualcuno che si trovasse a lasciare a tempo indeterminato la propria terra d'origine, non come le stava succedendo da che aveva scambiato l’ultimo affettuoso saluto con Sayuri Tachiki.
Tra lei e quell’affabile, brillante e forse un po’ troppo apprensiva giornalista si era instaurato quasi subito un legame molto particolare, quasi familiare. Un simile grado di solidarietà femminile non era cosa comune, anzi non ricordava di averlo mai sperimentato in maniera tanto immediata con nessuna delle altre giovani donne per cui si era messa a disposizione, aiutandole a uscire da qualche brutta circostanza.

In compagnia di quella giovane coetanea si era sentita un po’ meno sola e bistrattata, un po’ più sicura delle sue capacità, apprezzata, ma anche protetta. Lei l’aveva voluta trattare come fosse sua sorella, aveva ripetuto più volte quell’amorevole appellativo, in un modo talmente spontaneo e convincente che il suo animo aveva dubitato fosse la pura e semplice verità. E forse lo era. Aveva imparato che certe sensazioni non avevano bisogno del supporto di prove tangibili e razionali per essere comprese.
Sin da quando aveva scoperto di essere stata adottata, sebbene i suoi parenti putativi non le avessero mai fatto mancare nulla e l’avessero cresciuta con amore, aveva vagheggiato di poter conoscere qualcuno della sua famiglia biologica, ma ormai tante cose erano cambiate e, a differenza di quanto aveva immaginato in passato, avere avuto la possibilità concreta di incontrare qualcuno con cui condivideva un vincolo di sangue non aveva avuto l’effetto devastante di una palla da demolizione, andando a sconvolgere tutta la sua esistenza. Anche se aveva trascorso quasi tutta la notte a rimuginare sulle sue ambigue frasi e sui suoi amorevoli slanci, valutando l’opportunità di fare i bagagli e seguirla.

Malgrado la reciproca promessa di tenersi in contatto, sapeva già che la grande distanza e gli impegni quotidiani di entrambe sarebbero stati un ostacolo non indifferente. Se soltanto avesse avuto il coraggio di dire di sì, di lasciarsi semplicemente tutto ciò che conosceva e per cui continuava a vivere e a lottare ogni maledetto giorno alle spalle, a quell’ora avrebbe potuto trovarsi accanto a sua sorella maggiore, a parlare amabilmente del più e del meno e a guardare il mondo da un oblò, come uno di quei tanti passeggeri animati da sogni, speranze, progetti. Avrebbe potuto incominciare una vita diversa, costellata da tante incognite magari, ma mitigata dal conforto della sua premurosa presenza.
Invece, tra reticenze, dubbi, aggressioni e rapimenti, quella settimana era volata via, proprio come quel Boeing, e lei alla fine aveva preferito restare ancorata all’incognita più grande e avvincente di tutte, quella che occupava interamente la sua mente e il suo cuore.

«Hai intenzione di restare qui tutto il giorno a contare gli aerei che decollano?», le si rivolse Ryo, con una certa insofferenza punteggiata di indolente ironia.

Kaori chiuse per un attimo le palpebre inspirando a fondo, per poi voltarsi lentamente nella sua direzione: «Non sei obbligato ad aspettarmi. Puoi anche tornartene da solo», bisbigliò distendendo un debole sorriso intriso di malinconia che in lui ravvivò quel persistente senso di colpevolezza a fior di pelle.

Anche Saeko, che si era fermata poco più indietro a parlottare con lo sweeper, avvertì una latente tensione promanare dal momentaneo allontanamento di quei due e si sentì di troppo: «Io vi lascio, ragazzi. Ho una sfilza di scartoffie che mi aspettano in ufficio», alzò acutamente il tono per richiamare l’attenzione di entrambi, che parevano del tutto assorbiti dai propri logoranti tarli.
Ma, appena ebbe girato i tacchi, percepì la leggera pressione di una mano sulla schiena: «Allora ti accompagno!», si offrì inaspettatamente Ryo, sfoggiando un ghigno da allupato. In un paio di falcate si accostò alla socia: «Ci vediamo dopo», la salutò concisamente, lasciandole le chiavi della sua Mini.
La ragazza le raccolse annuendo appena, senza alcuna delle sue smisurate reazioni di sdegno o di gelosia, e lui dovette camuffare la propria sorpresa, pur persuadendosi che fosse del tutto normale che lei avesse bisogno di stare un po’ con se stessa. La mezza rivelazione di un’insospettabile parentela avrebbe messo in crisi chiunque.

Quella mattina, quando aveva scoperto che la loro ultima speciale cliente era andata via praticamente di nascosto, lo aveva buttato giù dal letto facendo un gran baccano, dandogli a mala pena il tempo di vestirsi e supplicandolo insistentemente di accompagnarla perché ci teneva a dirle addio di persona. Per qualche minuto aveva pensato che fosse solo un timido pretesto, che in realtà volesse partire anche lei con Sayuri, ma non aveva provato a pronunciarsi né a favore né contro la sua decisione finale, perché in fondo non si era mai sentito in grado né in diritto di giudicarla. E perché si fidava ciecamente della sua sincerità. Era troppo affezionata, dannatamente corretta. Se quella fosse stata la sua intenzione, non avrebbe esitato a confidarglielo.

Appurare che non avesse preso alcun borsone con sé aveva smorzato quella strana fitta che gli si era comunque annidata nelle budella. Così aveva guidato infrangendo il limite della velocità massima consentita, pur di esaudire il suo semplice desiderio.
E, invece di ringraziarla per avere scelto ancora una volta di restare al suo fianco, al fianco di un assassino anziché della sua vera sorella, per tutto il tragitto aveva solo saputo inanellare osservazioni banali sul paesaggio extracittadino e sulle condizioni atmosferiche, oltre a fare battute stupide su quello splendido abito tutto pieghe che lei aveva voluto rindossare, così distante dal suo modo di essere, dalla donna grintosa e restia all’esaltazione della sua femminilità che era diventata o che era sempre stata.

«Non pensi che Kaori avrebbe avuto bisogno di te? È molto fragile in questo momento», tornò a pungolarlo Saeko, mentre si stavano avviando al parcheggio dell’aeroporto.
«Fragile? Si vede che non la conosci bene. Kaori è tutto fuorché fragile», si lasciò scappare apertamente lui, rimuginando che, col suo stato d’animo così instabile, percorrere da sola in auto tutti quei chilometri sarebbe stato infinitamente più sicuro che doversi andare a ficcare in un treno, gomito a gomito con un campionario di umanità varia, sconosciuta e potenzialmente molesta. E poi, in quel viaggio di ritorno non avrebbe saputo come riempire di nuovo tutto quello spinoso silenzio che si sarebbe insidiato tra loro senza sparare altre stupidaggini.

«Se lo dici tu …»
Avvertendo l’occhio smaliziato della poliziotta scrutarlo con accondiscendenza da sotto il lungo ciuffo, affrettò con nonchalance il passo, avvistando la sua sfavillante Porsche 930 turbo che spiccava come una rara primula rossa tra tutte le altre modeste automobili parcheggiate ordinatamente in quel vasto spiazzo.
Quell’autovettura sportiva era più bassa, anche se solo di qualche centimetro, della sua Austin Mini, e Ryo dovette piegarsi parecchio per potersi accomodare sul sedile, benché una volta dentro, poté notare come non soltanto la carrozzeria, ma anche tutti gli interni fossero sempre impeccabilmente tirati a lucido. Vantaggi dell’essere figlia di una buona famiglia, si disse, invidiando un po’ il lusso emanato da ogni millimetro quadrato di quel bolide, che però per i suoi affari sarebbe stato sin troppo appariscente.

«Dai, che aspetti? Me li vuoi fare sentire questi fantomatici 300 cavalli?», la sfidò con enfasi sfottente, quando la bella ispettrice si fu seduta con una mossa felina al posto di guida inserendo le chiavi.
Saeko si compiacque: «Allacciati la cintura», lo esortò provocatoria, schiacciando contemporaneamente su frizione e acceleratore per una roboante partenza a tavoletta.


Era già quasi metà mattinata e i morsi della fame cominciavano a manifestarsi prepotenti, ma lei non si sentiva ancora dell’umore propizio per rincasare e affrontare il motivo principale per cui aveva rinunciato ad allontanarsi. La faceva un po’ vergognare che, nonostante avesse assistito alle loro tante accese e violente litigate, Sayuri fosse comunque riuscita a leggere oltre in quei pochi giorni. E ancora di più che lei stessa si fosse tradita così ingenuamente di fronte alla sua insinuazione.
D’altra parte, anche se non ne avevano mai discusso sul serio, era certa che Ryo non si sarebbe opposto ad una sua eventuale partenza. Dopotutto si era offerta lei di diventare la socia di quello sciagurato, lui in quegli anni non l’aveva mai costretta a restargli accanto, né le aveva fatto capire che fosse indispensabile. Anzi, avrebbe scommesso che alla sua prima esitazione non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a tagliare la corda, andandosene a scodinzolare da quella fatalona, che probabilmente gli aveva già rifilato un altro dei suoi casi più rognosi, convincendolo con qualche smanceria ad accettare.

Infastidita da questi pensieri, Kaori trascinò i piedi un po’ indolenziti da quelle scarpe nuove dalla suola rialzata dentro il Cat’s eye, venendo accolta da un caldo e rasserenante aroma di caffè. Il grazioso locale stava lentamente cominciando ad ingranare, grazie alla qualità e varietà dei prodotti, adatti a soddisfare anche i gusti più difficili, e alla scarsa concorrenza riscontrata nella zona, vantando già una ristretta ma fedele clientela di tutte le età che vi trascorreva il tempo libero, chi sorseggiando e chiacchierando in compagnia, chi in solitudine, leggendo, disegnando o scrivendo per hobby o per lavoro.
Quel giorno c’era più gente del solito, probabilmente anche per via del vento freddo e impetuoso che aveva cominciato a flagellare le strade del quartiere.
Il risuonare del campanellino agganciato sopra la porta fece accorrere l’amichevole proprietaria, sempre propensa a regalare un luminoso sorriso di benvenuto a chiunque varcasse la soglia della sua caffetteria: «Hey, Kaori! Che piacere! Era da un pezzo che non ti facevi vedere!» esclamò Miki con una punta di rimprovero che fece spuntare una piccola ruga tra le sue sopracciglia perfettamente disegnate.
L’ex mercenaria dopo la loro breve collaborazione l’aveva sin da subito presa in simpatia e spesso non esitava ad invitarla a fermarsi anche oltre l’orario di chiusura, esonerandola perfino dal pagare degli extra menù che le faceva assaggiare in anteprima.

«Mi dispiace, hai ragione. Abbiamo avuto degli incarichi piuttosto impegnativi», si discolpò con sincero rammarico, adocchiando se vi fosse un tavolino libero in qualche angolo appartato, giacché tutti gli sgabelli allineati davanti al bancone erano già occupati e non voleva disturbare nessuno, tantomeno destare l’impressione di ricevere un trattamento di favore rispetto agli altri clienti.

«Saeba ti fa trottare, eh?», intuì la giovane barista, non nascondendo un certo disappunto nei riguardi del grezzo sweeper che le era bastato conoscere per qualche giorno per giudicare un singolare caso umano. «Vedrai che con una bella tazza di cappuccino, ti sentirai meglio! », le schiacciò l’occhio, raccogliendo intanto sul vassoio i resti di altre consumazioni lasciati dagli avventori che si erano accomiatati.

Kaori si sistemò sulla poltroncina: «Non è che avreste anche qualcosa da inzuppare? Non ho potuto fare colazione stamattina …», balbettò impacciata, sperando che il brontolio della sua pancia non si avvertisse troppo, anche perché non voleva elemosinare nulla.

«Certamente!», le assicurò sorridente Miki, intenerita dal suo ritegno a formulare quella piccola richiesta. «Falco?», richiamò quindi il suo compagno di vita e di lavoro, il quale, tutto dedito a lucidare delle stoviglie appena lavate e al contempo a squadrare dalla testa ai piedi chiunque entrasse, quasi come avesse un metal detector incorporato negli occhiali scuri, cadde nell’equivoco quando udì la voce della ragazza pronunciare alternativamente: «Pasticcino? Biscottino?»

Il cranio calvo dell’uomo s’infiammò all’istante, il suo corpo divenne rigido come un ammasso di marmo e la tazzina che stava asciugando si frantumò tra le sue grandi dita.

«Facciamo per il cornetto con la crema al cioccolato», decise ingolosita Kaori, dopo aver spulciato con interesse il ricco elenco di dolci e vivande, suddiviso tra specialità giapponesi, europee e anglosassoni.

Umibozu si sbollentò, capendo di aver frainteso le parole dell’amata che frattanto tornò al suo fianco chiedendogli di riscaldare il pan dolce nel fornetto, così da fargli riacquistare la giusta fragranza, mentre lei tornò a prestare attenzione alle ordinazioni di altri clienti.
In quel contesto pacifico e accogliente un omone grande e grosso con una tempra granitica forgiata dal fuoco di tante battaglie poteva sembrare una nota stonata, ma sotto il tocco gentile e delicato di Miki il burbero e sgraziato soldato in ritiro sembrava un orso ammansito. Tra i due ex guerriglieri c’era un continuo scambio, fatto di discrezione e sintonia, si compensavano e, nonostante la loro considerevole differenza di corporatura, nessuno intralciava o sovrastava mai l’altro. Dai loro gesti trapelavano rispetto e affetto. Era evidente che si conoscessero da anni e che si amassero molto.
Kaori trovò quell’immagine terribilmente romantica e pensò che fossero davvero belli da vedere insieme, checché ne pensasse qualcuno. Di contro si domandò come apparissero dall’esterno lei e quel cavallo pazzo di Ryo, come fosse possibile che qualcuno ogni tanto insinuasse fossero una coppia, quando non facevano altro che azzuffarsi e insultarsi a vicenda, pur condividendo qualche sparuto momento di complicità.
 
«Ma che bel vestito!», commentò Miki ammirata, tornando a portarle una tazza fumante accompagnata da un paio di croissant.

Lei quasi fu tentata di rimettere il cappottino che aveva appena fatto scivolare sulla spalliera della sedia: «Oh, grazie. Fosse stato per me, non lo avrei mai comprato. Non mi ci vedo proprio», balbettò imporporandosi e abbassando il mento sul petto, anche se in fondo pensava che quella raffinata mise meritasse un po’ di ribalta prima di finire inesorabilmente appesa nel dimenticatoio del suo armadio ripieno di felpe e pantaloni.

«Ma che dici? Ti sta benissimo!», controbatté l’amica, trattenendosi dal chiederle di alzarsi in piedi per poterla rimirare meglio, «Non è vero, ciccino?», cercò invece l’appoggio del suo compagno che a quel nomignolo diede in escandescenze, mugugnando versi incomprensibili prima di svanire nel retrobottega.

«Se non ti piace, allora perché lo hai messo?», s’intromise l’altra barista, non senza un pizzico di acidità, sparecchiando un tavolo lì vicino.

«Kasumi!», la richiamò severamente l’ex soldatessa, lanciandole un’occhiata di rimprovero.

L’espressione di Kaori divenne sognante mentre soffiava sulla schiuma del cappuccino: «È un regalo. Di una cliente», specificò avvertendo gli sguardi curiosi e interrogativi delle due donne, ma preferì non dilungarsi in altri dettagli e lasciò che le sue intime riflessioni si mescolassero al soffuso chiacchiericcio che permeava l’ambiente.

Un irruento trambusto precedette l’ingresso di un altro dei frequentatori abituali del bar.
«Miki! Kasumi! Il vostro abbagliante splendore anticipa la primavera!», ciangottò buttandosi a pesce sulle due avvenenti more, venendo tempestivamente frenato dal solito vassoio su cui si impresse un calco dei suoi lineamenti.
«Umi … La tua bruttezza invece mi ricorda che Halloween si avvicina», farfugliò indispettito Ryo, tastandosi il naso tumefatto sotto il ghigno sadico e divertito del pelato e le occhiate sconcertate e intimorite di altri clienti che, adducendo varie scuse, cominciarono ad evacuare il locale come fosse scoppiato un incendio.
 
L’incorreggibile seduttore allora si affannò a tentare di rassicurare e abbordare qualche ragazza particolarmente appetibile offrendole da bere, pur consapevole di non avere sufficiente contante in tasca, ma nessuna volle cedere alle sue esuberanti avances.
Impermalito da quel disonorante fallimento, si accasciò di peso su uno sgabello girevole, giochicchiando con le bustine di zucchero e dolcificante, osservando con un sorrisetto sghembo il suo amico/rivale lustrare il bancone acconciato con quel ridicolo grembiulino.
Era l’emblema dell’elefante costretto a muoversi dentro una cristalleria. Non avrebbe mai capito come un uomo riottoso e tutto d’un pezzo potesse cambiare tanto le sue abitudini e convinzioni per una donna, anche se la donna in questione fosse così deliziosamente affascinante e determinata come Miki.

«Comunque Kaori è di là», tuonò Umibozu, innervosito da quel suo muto sbeffeggiarlo, accennando ruvidamente ad un angolo in fondo al locale.

Naturalmente lui l’aveva vista benissimo, ancora prima di entrare. Detestava essere guidato da quell’impulso inspiegabile di sapere se lei stesse bene, data la sua propensione, a causa di quel connubio esplosivo di ingenuità e avventatezza, a non rimanere mai troppo lontana dai guai. Per non farsi scoprire era sempre costretto a ricorrere a svariati sotterfugi, ma solo così poteva essere sicuro che quel loro strano rapporto continuasse in qualche modo a funzionare, senza sfociare in qualcos’altro, qualcosa di molto scomodo, altamente sconsigliabile e difficilmente gestibile.

Fece un giro di 180° gradi sullo sgabello, ostentando una faccia stupita e contrariata cui lei rispose con due occhi scontrosi e accusanti: «Che cosa ci fai tu qui?!», vociarono in coro.
La socia ingerì l’ultimo pezzo di cornetto, pulendosi la bocca con un tovagliolo: «Quello che fanno le persone normali», sostenne ovvia, indicandogli le briciole della colazione che aveva appena finito di consumare. «Tu invece, ovunque vai, offendi la morale e disturbi la quiete pubblica!», parlò con pungente biasimo, alzandosi di scatto e affibbiandosi frettolosamente il soprabito.

«Sono rimasto digiuno anch’io stamattina!», le rammentò immusonito Ryo, parandosi davanti a lei, le braccia incrociate sul petto tronfio di offesa.

Kaori gli piantò le mani addosso, scansandolo in malo modo di lato per passare: «Levati di torno! Sei una persecuzione!», sbraitò con un moto di stizza, correndo fuori dalla caffetteria.

«Accidenti! In questo periodo del mese diventa proprio una belva inavvicinabile!», commentò trasecolato lo sweeper, grattandosi la nuca formicolante di sconcerto per quella sua sfuriata inaspettata e alquanto spropositata. Era una di quelle circostanze in cui faticava a capire come prenderla, perché sostanzialmente non riteneva di avere commesso qualche abominevole misfatto di cui farsi perdonare. Si ritrovò a pensare che forse, invece di restare muto e indifferente, avrebbe dovuto incoraggiarla a salire su quel volo, ma che la sua mancata partenza non fosse dipesa interamente da lui. Non le dava nessuna ragione per continuare quella burrascosa collaborazione.

«Saeba, si può sapere cosa le hai combinato questa volta?», l’intimazione di Miki gli arrivò come un fucile carico puntato tra le scapole, e voltandosi si accorse che anche gli altri due che avevano assistito a quell’assurda scenata lo stavano fissando con acredine, trovandosi peraltro senza più clienti.

Non aveva alcuna intenzione di spiattellare i fatti propri e magari dar loro occasione di criticarlo ancora di più, perciò se ne uscì con uno dei suoi soliti sciocchi motti di spirito.
«Io?! Niente di niente! Quella matta sragiona! Il povero Ryo stavolta è innocente come un angioletto!», esclamò pervicace, sollevando un palmo come stesse prestando giuramento dinanzi ad un tribunale pronto a condannarlo.

Quei tre severi giudici però avevano già deciso che fosse colpevole, anche in assenza di prove contrarie. Umibozu lo raggiunse, acciuffandolo malamente per il bavero dello spolverino: «Qui non sei gradito», gli alitò trucido, trasportandolo fino alla porta.

«Toglimi le due dannate manacce di dosso!», bofonchiò Ryo scalciando e divincolandosi da lui, «Non sei tu a cacciarmi, sono io ad andarmene. Il servizio è pessimo!», ci tenne a precisare boriosamente, ripromettendosi di pareggiare i conti per quello sgarbo, ma meditando che fosse preferibile per un po’ restare alla larga da quel posto e forse anche dalla sua irascibile partner. Così, come un cane randagio, si mise a vagare su e giù per le frastornanti vie cittadine, passando in ricognizione i suoi luoghi preferiti, sperando di incappare in qualche elettrizzante situazione che lo distraesse da tutto quell’esacerbante rimuginare a vuoto.


Riposto anche l’ultimo bicchiere accuratamente risciacquato nello scolapiatti, Kaori concluse il recupero delle faccende domestiche tralasciate in quegli ultimi due intensi giorni. Aveva cominciato a dare una sistemata all’appartamento tanto per svagarsi, non sentendosi abbastanza energica né dell’umore adatto da indossare una tutina e fare un po’ di ginnastica o andare a correre al parco, anche perché la temperatura non era delle più invitanti e quel sole velato le metteva addosso una pesante svogliatezza.

Il suo intento era impiegare quel tempo libero a fare qualcosa di utile, che in ogni caso nessun altro si sarebbe preso la briga di fare al posto suo, ma anche nel ripetere quelle azioni meccaniche e abituali nella sua mente risuonavano le considerazioni e le osservazioni critiche di Sayuri, il suo sguardo compassionevole e preoccupato nei riguardi del suo stile di vita contrassegnato dall’instabilità e dal pericolo e di quella discutibile convivenza con un uomo tanto irrispettoso e deplorevole come Ryo Saeba.

Ripulendo le tracce di sapone da barba e dentifricio che chiazzavano il lavandino del bagno, si era detta che in quegli anni probabilmente aveva sbagliato su più punti con lui. Era stata troppo tollerante, servizievole, permissiva, su troppe cose, soprassedendo su certe sue cattive abitudini da maschilista, pur non lesinando di rinfacciargli quanto la urtasse il suo comportamento da cavernicolo.

Annoiata dalla sua urlante assenza e dal reiterarsi senza risoluzione di quelle riflessioni, accese la TV e si buttò sul divano. Premendo un tasto a caso s’imbatté in una caustica commedia americana appena iniziata e girata, neanche a farlo apposta, proprio nella sfolgorante New York. Intrigata dapprima solo dall’ambientazione, si soffermò a guardarla. In alcune dinamiche tra i personaggi le sembrò quasi di potercisi rivedere, o comunque di potersi identificare almeno in parte nella combattiva e schietta protagonista, una brillante e caparbia ragazza di belle speranze, refrattaria a sottostare a compromessi pur di fare carriera nel difficile mondo degli squali della finanza1.
Innocentemente immaginò se stessa muoversi con autorevolezza in quei tailleur sagomati dai colori austeri, a digitare numeri e lettere restando dietro una scrivania, a concludere transazioni da migliaia di dollari e magari anche ad innamorarsi, ricambiata, di un fascinoso e ricco agente di borsa.

Immediatamente ripensò alla sua disastrosa esperienza nella redazione del “Weekly news”, a quanto fosse stata maldestra e casinista, inimicandosi tutti quelli con cui aveva avuto a che fare, e si convinse di non avere alcuna attitudine per il ripetitivo e serioso lavoro d’ufficio. Dopo il diploma aveva interrotto gli studi e non si era mai più chiesta se avrebbe ritrovato la volontà e l’abnegazione adeguate per riprenderli o per cercare un’altra occupazione che fosse davvero nelle sue corde. Inoltre era da mettere in conto che sarebbe stata comunque scavalcata da altre concorrenti, più giovani o più preparate di lei.

A dirla tutta, a lei quello di cui si occupava piaceva e molto. Inizialmente era stata una decisione più istintiva che ponderata, ma col passare degli anni aveva maturato una vera e propria dedizione per quel lavoro, talvolta ai limiti della legalità, così interessante, altruistico, stimolante, che non si era ancora stancata di imparare e di ricevere ringraziamenti per l’aiuto che contribuiva a dispensare. La riconoscenza che sprizzava dai sorrisi di chi riuscivano ad aiutare spesso valeva anche molto più dei compensi effettivi.

Percependo il basso brusio del televisore, Ryo capì che la sua socia fosse rientrata e cercò di far cigolare il meno possibile la porta d’ingresso, proponendosi di salire difilato nella sua camera e aspettare che fosse lei a cercarlo. Ma, avendo sete, deviò verso la cucina e si accorse che c’erano diversi fogli sparpagliati sul tavolo della sala da pranzo, volantini pubblicitari, bollette di cui non volle verificare l’importo, una cartolina colorata e la brochure di un’agenzia di viaggio che organizzava trasferte oltreoceano.
Un calpestio in avvicinamento lo sospinse a fiondarsi sul frigo, per non farsi sorprendere a curiosare tra quelle carte.

«Già di ritorno?», lo raggiunse Kaori, facendo capolino con un’espressione neutrale. Ormai stava diventando sempre più difficile eludere i suoi sensi, almeno quando erano in casa. Conosceva troppo bene i vari rumori e forse anche la sua aura.

«Ci vivo anch’io qui, sai», biascicò seccato, aprendo una lattina di coca cola. «E poi è quasi ora di cena. Come mai non hai ancora preparato niente?»

La ragazza lo sorpassò, riaprendo il frigorifero per prendere un vasetto di yogurt alla fragola: «Non mi va. E in ogni caso non ti piace mai nulla di quello che cucino», borbottò con blanda permalosità, infilando un cucchiaino in bocca e ancheggiando imperturbabilmente, nei suoi fascianti fuseaux fucsia, verso il soggiorno.

«Beh, ma … Non sono mica così schizzinoso! Mi sono sempre adeguato!», fu la balbettante smentita di Ryo, che cadde miseramente inascoltata. Quel suo atteggiamento respingente cominciava a procurargli un fastidioso formicolio allo stomaco. O probabilmente era soltanto affamato. Rovistò inutilmente non trovando avanzi di cibo di alcun tipo in giro, e a ragion veduta: si spazzolava sempre tutto!
Mentre schiacciava la lattina ormai vuota, i suoi occhi furono riattirati dal quel mucchio di fogli e buste apparentemente dimenticati sul tavolo. La presenza in particolare di quell’opuscolo con fotografie di città americane e tariffe aeree, con ciò che avrebbe potuto significare, gli infuse un improvviso senso di disagio. La sua verace coscienza però gli suggerì che, tenendo conto di tutto lo schifo in cui era stata coinvolta finora, avrebbero potuto esserci finali molto peggiori di quello e che non poteva stare a sindacare una decisione tanto sensata, per certi versi inevitabile. Non poteva negarle la felicità.
Si sarebbe riadattato alla vita sbandata e solitaria che conduceva prima di essere travolto da lei, e poi sarebbe stato più libero di non dover sottostare a orari, regole, costrizioni ...
Un retrogusto amarognolo gli impregnava il palato, neanche quella bevanda dolciastra e gassata era bastata a scacciarlo. Nascondendo il depliant del tour operator sotto gli altri volantini, scorse di nuovo quella cartolina colma di cuoricini e fiorellini cui aveva prestato scarsa attenzione. Leggendola riconobbe il mittente e in lui cominciò a concretizzarsi una specie di idea, o forse solo di illusione. Quel posto sarebbe stato adatto ad una come lei. Non sarebbe stata troppo lontana da lui, ma comunque abbastanza distante dalla malavita.

Assumendo la sua migliore faccia da poker, entrò in soggiorno, le mani affondate nelle tasche, sbirciando alla finestra: «Hai più avuto notizie di quei ragazzini?»

«Ragazzini?», barbugliò lei dubbiosa, credendo di aver sentito male.

«Sì. Quelli di quell’orfanotrofio … com’è che si chiamava?», continuò a divagare lui, ostinandosi a darle la schiena.

Kaori si tirò sulle ginocchia, appoggiando il busto contro la spalliera del divano: «Quale dei due?», gli domandò fingendosi confusa, intuendo già che lui doveva aver visto quella tenera cartolina arrivata per posta. «Casa fiorita?2».

Ryo si voltò, battendo il pugno sul palmo della mano opposta, come se lei gli avesse risolto chissà quale dilemma: «Non ci sei più andata. Si staranno chiedendo se sei ancora viva … », asserì irriflessivamente, correggendosi subito dopo per quella battuta di cattivo gusto. «Voglio dire … Poverini, penseranno che ti sia dimenticata di loro».

Lei cercò di sondare il suo sguardo sfuggente rivolto alle crepe del tetto. Quando cominciava a parlare in quel modo ermetico, doveva sempre spremersi le meningi per tentare di capire cosa mai gli stesse passando per quel cervello contorto che si ritrovava e quasi mai le sue ipotesi si rivelavano esatte.
«Domani è sabato. Non dovrebbero esserci scocciature. Potremmo andarci e vedere come stanno», si sciolse a proporre esplicitamente il socio, punzecchiato dal suo cipiglio fisso e inquisitorio su di lui.

Kaori titubò sbalordita: «Eh? Tu ti stai offrendo, di tua spontanea volontà, di accompagnarmi da un branco di mocciosi petulanti?», lo interpellò incredula e divertita, pensando che forse voleva semplicemente darle uno spunto di riflessione perché restasse lì, in quella città, in cui non esisteva soltanto lui.

Ryo fece spallucce, non scomponendosi affatto davanti a quegli occhi vispi e brillanti che forse si erano già avveduti del suo espediente: «Ci ho investito anch’io una parte dei miei guadagni nella ricostruzione di quell’istituto, ricordi?»

La ragazza si riadagiò sui cuscini, ricominciando ad armeggiare con il telecomando: «Sì, si può fare», gli accordò quale fosse una gran concessione. In verità aveva già in programma di rispondere a quell’invito, adorava passare del tempo con quegli sfortunati birbantelli e rammentava bene che anche Ryo in mezzo a loro tornava bambino ed era incapace di resistere ai loro giochi e alle loro moine.

«E adesso dove vai?», sussultò insospettita, sentendolo sgusciare via alle sue spalle.
«A cercare qualche anima pia che mi riempia il pancino», replicò pietosamente lui.

Kaori distese le gambe, scattando in piedi: «Scemo, aspetta!», lo richiamò sospirando pazientemente e dirigendosi spedita in sala da pranzo.
Lui appese lo spolverino e la seguì, accomodandosi sulla panca nell’attesa che lei s’ingegnasse a cucinargli qualcosa per mettere a tacere quel persistente brontolio. Assalito da uno strano nervosismo, automaticamente tirò fuori dal taschino il pacchetto di Lucky Strike e l’accendino, ma si guardò bene dal proseguire. Lei lo aveva sempre pregato di non fumare a tavola e quello era uno dei pochi compromessi cui si era piegato.
Ogni tanto era tentato di darle una mano, ma, non sapeva neanche lui spiegarsi per quale ragione, la possibilità che lei potesse ringraziarlo per quell’insolita cortesia lo inibiva anche solo dal muovere un dito.

«Un giorno ci andrai, Kaori», si decise a rompere quella carenza di parole, picchiettata dal suo tramestio con padelle, taglieri e utensili da cucina.

«Uhm?», mormorò lei distrattamente, continuando a sbattere con un frustino qualcosa di cremoso dentro una scodella.

Ryo si schiarì la gola, bevendo a canna da una bottiglia di birra: «Sono sicuro che con la tua tirchieria riuscirai a mettere da parte abbastanza yen per andare a trovare Sayuri», affermò incoraggiante, osservando di nuovo le immagini patinate della così detta Grande Mela che campeggiavano su quella guida turistica.

Lei allora capì da dove gli fosse scaturita quell’affermazione. Aveva voluto prendere quel dépliant per sentirla in qualche modo più vicina. E per adesso le bastava così.

«Io credo sia più facile che avvenga il contrario», mormorò serena, voltandosi con la ciotola tra le braccia, un sorrisetto birichino nell’avvicinarsi a lui, «Sempre che nel frattempo qualche amico farfallone non faccia cambiare idea anche a lei …», chiosò allusiva, dandogli un colpetto di frusta sulla punta del naso e sporcandolo con la pastella che aveva appena preparato per la tempura.

«Ma che fai, stupida!?», si ripulì indignato lui, ignorando quell’ammiccamento e schivando altri schizzi di farina rappresa, «Chiamami quand’è pronto», si allontanò accigliato, portandosi una sigaretta tra le labbra che si tesero impercettibilmente all’insù.


1 Il film che ho immaginato Kaori stesse guardando è "Una donna in carriera" (1989) di Mike Nichols, con Melanie Griffith, Sigourney Weaver e Harrison Ford.
2 L'orfanotrofio "Casa fiorita" è presente solo nell'anime, precisamente nell'episodio doppio "Il più bel regalo di Natale" (2x37 e 2x38); alla fine viene demolito dai cattivi e i due City Hunter si propongono di pagarne la ricostruzione; l'altro orfanotrofio "La casa del sole" è invece presente negli episodi "Non toccate la memoria di Jeff"  (2x27 e 2x28), da cui la domanda di Kaori per capire a quale dei due si riferisse Ryo.
   
 
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