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Autore: EsterElle    11/07/2020    3 recensioni
Draco e Asteria, dite?
Un bel matrimonio di pacifica convenienza, un figlio abbandonato, famiglie ingombranti, ideali da nascondere, padri da allontanare. Il sogno di una vita tranquilla, lontana dai riflettori, dalla guerra e da ogni rischio, infranto ancor prima di iniziare, frantumato in mille pezzi, in paure aguzze capaci di penetrare un cuore e renderlo di ghiaccio.
Draco e Asteria, signori, certo: un figlio insieme, famiglie ingombranti, ideali da dimenticare, un matrimonio giunto al capolinea...
O quasi.
Chiudo gli occhi, immaginando ciò che sarebbe potuto essere se solo io non fossi io e lui se stesso, se solo il nostro sangue non fosse stato sempre puro e la nostra infanzia così segnata dalla guerra. Respiro piano, assaporando l’idea che, presto, non dovrò più lottare contro il timore di lasciarmi convincere ad amare.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Astoria Greengrass, Draco Malfoy | Coppie: Draco/Astoria
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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NB: Questa storia rappresenta il seguito di una mia vecchia flash, "Confessioni", che potete trovare a quetso link (https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3833050&i=1). Tuttavia, è possibile leggere la one-shot in maniera autonoma.




 
Oggi, resta
 
 
 
La porta dello studio si spalanca con forza e malagrazia, strappandomi un sussulto. 
«Signora» borbotta Billy, l’elfo domestico, entrando.
Lo osservo avanzare fino alla scrivania e depositare sul tappeto lo scatolone che sorregge tra le braccia; senza attendere indicazioni, solleva rumorosamente il magiscotch dal cartone e inizia a rovistare all’interno.
Sospiro, infastidita, considerando per l’ennesima volta quanto gli elfi liberati possano rivelarsi un pessimo investimento. Sopportare la supponenza di Billy, pagargli addirittura uno stipendio, è un compromesso a cui i Malfoy si sono dovuti sottomettere. Un sacrificio necessario, uno dei tanti indispensabili per quelle famiglie danneggiate dalla caduta del Signore Oscuro, disperatamente alla ricerca di una nuova immagine, pulita e progressista. Trovo conforto solo al pensiero che famiglie di tutt’altra risma, quelle cosiddette eroiche, riformiste – i Weasley, ad esempio – non potranno mai concedersi il lusso della servitù a pagamento. 
In ogni caso, reputo completamente inutile rimuginare sui bei tempi andati, tanto splendidi quanto premonitori di grandi sventure. Trovo discutibile la disarmante ingenuità con cui certe nobili famiglie hanno affrontato la guerra. Tremo ancora ripensando alla manifesta, sbandierata fedeltà mostrata da mio padre e dai suoi compari purosangue al compianto Lord Voldemort; rabbrividisco al ricordo del giorno in cui sacrificarono ogni cosa in nome di una causa che già una volta era stata persa.
Nel mio piccolo, ho sempre trovato maggiori benefici nell’adottare tutt’altra strategia. Durante gli anni della scuola sono riuscita ad affinare un sesto senso che mi ha permesso di non affezionarmi troppo a ideali, casate o antichi rancori. Ho dovuto farlo per sopravvivere; c’era la guerra, dopotutto, e le persone erano sempre tese, diffidenti, pronte a schierarsi. La spia, così mi chiamavano i miei compagni Corvonero, troppo svegli per non sospettare di quella ragazza seria e taciturna, senza colori e senza bandiera, sempre sola ai pasti e troppo pungente nelle risposte; erano abbastanza furbi, devo ammetterlo, da capire che, seppure non fossi malvagia, c’era qualcosa in me di non propriamente buono. Così, con lo scopo di far cessare il mormorio, la diffidenza e quelle attenzioni morbose, ho imparato ad annullarmi e a cogliere sempre il momento giusto per defilarmi, per tacere o ritrattare, per salvarmi la pelle e la reputazione. In parole meno nobili, ma altrettanto veritiere, ho imparato come abbandonare la nave, voltare la faccia, tradire – la famiglia, gli ideali, la Casa, poco importa. Un’abilità preziosa che ho portato in dote alla mia nuova famiglia il giorno del mio matrimonio, utile a loro – tanto vergognosamente fragili quanto incapaci di adattarsi – e a me, ormai strettamente vincolata al destino e alla persona di Draco Malfoy.  
Se non ti schieri, vinci sempre – un piccolo motto che mi ripeto spesso, come un mantra, anche adesso, mentre tento di riprendere il lavoro, di organizzare le carte che invadono la scrivania da giorni.
«Continuerai più tardi, Billy. Come vedi, adesso ho da fare e desidero restare sola» dico, la voce carica di sdegno.
L’elfo mi guarda di sottecchi: «Billy addobba per il Natale, signora. È tempo», risponde, impertinente.
Per sottolineare le sue parole, afferra dalla scatola una delicata sfera dorata e la sfrega contro la sua camicia di flanella per lucidarla. Per un istante, riesco a percepire i lineamenti del mio viso alterarsi sotto il peso della rabbia e della frustrazione; sollevo una mano, posandola delicatamente sugli occhi chiusi, nel tentativo di ritrovare una parvenza di calma. Dopotutto, non tutte le battaglie meritano di essere combattute.
Impilo con decisione i fogli sulla scrivania e cerco di concentrarmi solamente sul bilancio della fondazione Illustri antenati, vittima, negli ultimi mesi, di innumerevoli ispezioni ministeriali giustificate da presunte soffiate e irragionevoli sospetti. Sono affezionata a quest’associazione: nel tentativo di alleviare la noia delle mie lunghe giornate solitarie, le ho dedicato grandi attenzioni e posso affermare, senza presunzione, di averla vista rifiorire sotto le mie cure. Negli ultimi tempi, tuttavia, a causa delle continue ingerenze del Ministero, è stata a lungo oggetto di polemiche e scandali, rivelandosi un luogo sempre più pericoloso per famiglie come la nostra. Senza dubbio è giunta l’ora di riordinare le carte e battere in ritirata. Sorrido tra me e me: quella sciocca di Pansy Parkison, incapace di scorgere al di là del suo già notevolmente lungo naso, accoglierà con gioia la notizia delle mie dimissioni, dal momento che aspira al mio incarico di tesoriere ormai da anni. Vorrei godermi per qualche istante la gioia amara che mi procura il pensiero della fine a cui andrà incontro l’avida Pansy, quando un rumore di cristallo infranto mi strappa bruscamente dai miei pensieri.
«Nulla, signora! Tutto a posto, signora!» si affretta a gridare Billy, in bilico su una sedia di fronte al caminetto, una ghirlanda ancora stretta tra le mani.
Quell’elfo sciatto e maldestro, pagato coi preziosi scellini dei Malfoy, ha appena urtato il portafoto in argento posato sulla mensola; per un solo istante osservo la foto che ritrae me e Daphne ai tempi della scuola, ora penosamente in pezzi sul pavimento. In silenzio, sfodero la bacchetta, e, storcendo appena le labbra, la riparo.
«Guardi, signora, guardi: come nuova» afferma Billy, con un tono tanto sorpreso da apparire offensivo.
Per mia sfortuna, le punizioni corporali sugli elfi sono state abolite diversi anni fa. Billy ne è pienamente consapevole, ovviamente – sono stati istituiti addirittura sindacati elfici per informare gli interessati dei loro diritti – e non accenna a piagnistei, né ad abbassare lo sguardo con aria mortificata; semplicemente, mi restituisce il portafoto, di nuovo integro, perché io lo ispezioni.
Lo afferro, dedicando solo un’occhiata veloce alla me stessa del passato in divisa blu e bronzo, condannata a replicare quel sorriso senza gioia per l’eternità.
«Vedi di non combinare altri disastri» dico, esausta, prima di far levitare la fotografia nuovamente al suo posto, accanto a quella ben più imponente del matrimonio.
“Chissà come mi sarei sentita se a frantumarsi fosse stata quella”, penso, corrugando leggermente la fronte. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla: dopotutto, non è un caso se quelle immagini si trovano nell’angolo più lontano della stanza e non sulla scrivania, davanti ai miei occhi giorno e notte. Ho sempre ritenuto sciocco soffermarmi col pensiero alle scelte del passato, mentre il presente incombe fosco, minacciando la sicurezza del futuro.
Spinta da queste considerazioni, intingo con decisione la piuma nel calamaio, illudendomi di poter finalmente riprendere a lavorare indisturbata; tuttavia, pochi minuti dopo, un deciso colpo alla porta manda in frantumi quella speranza.
«Che altro c’è ancora?» esclamo, ormai estremamente irritata.
In risposta al mio invito palesemente sgarbato, si affaccia nella stanza un uomo alto e biondo, leggermente stempiato, per nulla sorpreso dai miei strilli: poco dopo, Draco avanza nello studio sfoggiando la più classica delle sue espressioni annoiate.
«Ah», esclamo, con un velo di sorpresa nella voce. «Sei tornato» continuo, senza aggiungere note di particolare gioia.
«Eccomi» annuisce lui, ancora in piedi, a pochi passi dalla scrivania ingombra di carte.
A quello scambio segue un silenzio denso, rotto solo dallo scalpiccio di Billy nei pressi del caminetto: un’assenza di parole piana e quieta, che non risulta sgradevole né a me né a lui. Non temo il silenzio e da sempre preferisco tacere piuttosto che sperticarmi in espressioni prive di senso, fuori luogo o non richieste. Non credo che Draco ne sia infastidito, dal momento che gode del privilegio di non doversi mai impegnare in futili conversazioni di circostanza. Non ha mai cercato in me quelle chiacchiere vane e leggere così tipiche tra moglie e marito, e ancor meno le ho mai desiderate io.
Rimane fermo di fronte alla scrivania, senza sedersi, nell’attesa che io termini di copiare una lunga sfilza di numeri da un documento ad un altro. Solo quando riporto lentamente lo sguardo su di lui, gli pongo la domanda che ha agitato i miei pensieri negli ultimi minuti. Più che una domanda, si tratta di una preoccupazione; la preoccupazione, quella che ossessiona i miei pensieri sin dalla più tenera età.
«Hai avuto problemi durante il viaggio?» gli chiedo, noncurante.
Lui conosce bene il nocciolo della questione, quell’ansia sottile che pervade ogni mia mossa e che sempre, sempre, mi porta a interrogarmi sui pericoli in cui la famiglia può incorrere.
«No», risponde, tranquillo. «Nessuno si è mostrato ostile nei miei confronti. Il signor Garland mi ha presentato la sua collezione, abbiamo preso un tè in salotto e concluso l’affare per il manoscritto. Mi sarà recapitato tra tre giorni, il tempo di ripulirlo di tutti gli incantesimi di protezione che il vecchio gli ha messo su» spiega con chiarezza, guardandomi fisso negli occhi.
Ho sempre provato grande irritazione per quel suo sguardo chiaro e slavato, quei suoi occhi smorti, sottili, impossibili da decifrare. Anche questa volta, distolgo lo sguardo, celando il fastidio; mi accontento di annuire, memore del patto che vige tra noi dai tempi del fidanzamento, quando abbiamo promesso l’uno all’altra libertà d’interessi, nei limiti del decoro e della sicurezza. L’oggetto di interesse di Draco, in questo senso, è inattaccabile, dal momento che riguarda la ricerca di antichi manoscritti alchemici in lungo e in largo per la Gran Bretagna.
Resto nuovamente in silenzio, ignorando il motivetto che Billy canticchia a mezza voce mentre spolvera le finestre con un ramoscello d’agrifoglio. Non devo attendere a lungo prima che Draco decida di svelare il motivo della sua inaspettata visita nel mio studio.
«Il bambino?» chiede, infatti, sollevando le sopracciglia sul volto pallido. 
Una pessima domanda. Una domanda scomoda, a cui non so come rispondere. Rimango seduta a schiena dritta, sorreggendo la piuma con la mano destra, annullando ogni forma d’espressione dal volto. Questa volta non abbasso lo sguardo e mantengo, invece, gli occhi ben piantati nei suoi, senza vacillare. Sollevo leggermente le spalle, in un gesto piccolo e noncurante. In silenzio, lo osservo irrigidirsi e serrare i pugni.
«Billy!» comanda infine, con voce dura ma controllata.
L’elfo si lascia scappare uno squittio di sorpresa.
«Sì, signore?» domanda, vagamente preoccupato.
Un timore atavico spinge quello sciocco esserino a temere la furia di Draco molto più che la mia.
«Dov’è il bambino? Sono stato in camera sua e non c’è».
Osservo l’elfo rilassarsi all’istante, prima di sfoggiare un sorriso rassicurante sul visetto raggrinzito: «Facile, signore, Billy sa dove. Il signorino Scorpius è con Luz, signore, in cucina. O in soffitta. O nelle stanze degli elfi».
La rabbia, finora ben dominata, affiora prepotente sul volto di Draco nel momento esatto in cui Billy pronuncia il nome di Luz. O della cucina. O delle stanze degli elfi, non saprei dire. Di fatto, il viso pallido e perennemente annoiato di mio marito si tinge di chiazze rosate, la bocca si storce e gli occhi prendono vita, in un insieme ben poco piacevole alla vista. L’ho sempre pensato, dopotutto: nessuna emozione riesce a fondersi in maniera armonica con i lineamenti fini del volto di Draco. Tutto ciò che non è la sua solita, apatica indolenza – ovvero gioia o rabbia o dolore e quant’altro – ha la capacità di trasfigurare il suo viso in una maschera vagamente sgradevole.
Continuo a mantenere la mia posa indifferente, sorda a tutto ciò che non sia il respiro tranquillo che solleva il mio petto; Draco non mi degna di un altro sguardo prima di uscire dalla stanza, lasciando chiudere con uno schianto la pesante porta in legno.  
Mi sono necessari alcuni minuti per sciogliere la posa rigida del corpo e della mano, per ordinare il pantano melmoso della mente. Respiro a fondo, mordendo forte il labbro inferiore con i denti – cercando di coprire il dolore con altro dolore.
«Billy» chiamo, poco dopo.
L’elfo risponde, ma la mia testa è già china sui documenti, la piuma intinta nell’inchiostro, gli occhi bassi sul lavoro – non sono sicura di farcela.
«Avverti Luz di sistemare la stanza del padrone e di servirgli un veloce spuntino» comando seccamente.
Billy sbuffa.
Un suono basso e graffiante, irriverente, contrariato; un suono capace di scuotermi e urticarmi l’anima, lasciando emergere una tale rabbia che poco ha a che fare con Billy e il suo temperamento. Sollevo la testa e pianto i miei occhi in quelli piccoli e scuri dell’elfo, lasciandoli fremere senza controllo, di rabbia e frustrazione – dolore.
«Sparisci» sibilo.
Per una volta, Billy non se lo fa ripetere; adagia i nastri e l’agrifoglio sul pavimento e, silenziosamente, si defila, lasciandomi finalmente sola.
 
 
***
 
 
“Un bambino sano e bellissimo!”
“Complimenti Asteria e congratulazioni. Tuo marito sarà molto orgoglioso”
“Un maschietto, eh… brava la mia sorellina!”
 
La ragazza – Asteria – sembra ancora scossa, affaticata. Tutti chiedono del piccolo, vorrebbero prenderlo in braccio, dargli un buffetto, mormorargli qualcosa di sciocco all’orecchio; lei, invece, resta muta e ferma, con un sorriso vacuo e spento appena accennato sulle labbra pallide.
In poco tempo, un’ombra di sottile imbarazzo inizia a serpeggiare tra i presenti.
«Avanti, Draco, porta qui Scorpius» sussurra mia madre.
Ho tenuto in braccio il bambino – Scorpius Hyperion – solo una volta, quand’era nato da poco e lavato di fresco, già avvolto in un antico cimelio di famiglia. Sinceramente, preferirei evitare di farlo ancora: non smanio per sentire nuovamente il suo peso tra le braccia, né la sua consistenza morbida, fragilissima, come se fosse senz’ossa. Rabbrividisco leggermente all’idea; no, non fa per me, non spetta a me.
Cordelia Greengrass, mia suocera, lancia uno sguardo allarmato prima a me, poi alla figlia, immobile al suo fianco. La presenza della madre, tuttavia, non sembra incoraggiare o rassicurare la ragazza, né smuoverla dalla sua apatia così terribilmente fuori luogo.
Quando, infine, decido di avvicinarmi a lei per risolvere con discrezione la situazione, vengo intercettato da Robert Murray, un dipendente del dipartimento Auror – Nato Babbano, per giunta – incaricato di supervisionare la nostra famiglia. Se sia qui per proteggerci da chi vorrebbe regolare vecchi conti o semplicemente per tenerci sotto controllo, è difficile a dirsi; in fin dei conti, è solo uno dei tanti compromessi da sopportare per esserci schierati dalla parte sbagliata e averla fatta franca. 
«Tutto bene, Malfoy?» mi chiede, senza preoccuparsi di abbassare la voce. «Tua moglie è strana e il bambino ancora non si vede. C’è qualcosa sotto?».
Merlino, chissà quali terribili pensieri si agitano nella la sua piccola mente di Sanguesporco!
Nel momento stesso in cui prendo fiato per rispondere, la ragazza mi precede, rubandomi le parole di bocca.
«Va tutto bene, signor Murray» mormora. «Aspetti qui».
Senza attendere risposta, si alza lentamente dal divano, avanza tra gli ospiti, sparisce nella stanza accanto. Quando ne riemerge, stringe un fagotto tra le braccia. Tra esclamazioni di gioia e stupore, amici e parenti le si affollano intorno; persino Murray, con un sorrisetto intenerito stampato in volto, desidera dare una sbirciatina al bambino.
Tutti le sono vicino, adesso.
Nessuno oltre me pare notare il terrore cieco dipinto nei grandi occhi blu di Asteria.


 
***
 
 
Sono stanca di aspettare.
Percuoto con impazienza il pavimento di legno con il piede, lasciando che il rumore risuoni in tutto l’ingresso.  Ho già indossato il cappotto, il cappello e i guanti e non ho intenzione di attendere a lungo in un bagno di sudore, tanto più che la cena di stasera è stata voluta e organizzata da Narcissa. Non riesco a rassegnarmi all’idea di non aver escogitato in tempo un modo per sottrarmi a quest’incombenza; purtroppo, ogni scusa si è rivelata insufficiente ad evitare di trascorrere la serata al cottage di mia suocera, una casetta piccola ma dignitosa posta al limitare del podere che circonda il maniero di famiglia. Narcissa ne ha preso possesso poco dopo il mio matrimonio e, al momento, la abita da sola, priva anche della compagnia del marito, emigrato a latitudini più miti da diversi anni.
Posso sentire la voce di Draco provenire, indistinta, da una delle sale al primo piano. A giudicare dalla posizione, probabilmente si tratta del salottino scozzese: avverto abbastanza chiaramente la voce acuta e squillante del bambino, combinata a quella più profonda e calma del padre. Potrei smaterializzarmi direttamente di sopra per sollecitarlo, ma non prendo in considerazione l’idea nemmeno per un secondo.
Suono il campanello e attendo l’arrivo di un elfo – la mia pazienza ha un limite.
«Luz!» esclamo, quando finalmente mi compare davanti.
L’elfa è di tutt’altra pasta rispetto a quel posapiano di Billy; pur essendo stipendiata dai Malfoy, non ha dimenticato l’antica riverenza, dovuta ad ogni padrone rispettabile.
«Sì, signora Malfoy, signora» risponde, esibendosi in un mezzo inchino, una pratica ormai particolarmente demodé.
«Si è fatto tardi» dico semplicemente, lanciando un’occhiata eloquente al soffitto da cui ancora provengono diversi rumori.
«Sì, signora, Luz porta piccolo Scorpius a dormire» comprende subito.
Sono certa che non faticherà troppo, dal momento che il bambino è fin troppo abituato ai suoi modi gentili ma decisi. In ogni caso, devo attendere ancora qualche minuto prima di vedere Draco comparire in cima alla scalinata; appella il suo soprabito e lo indossa scendendo i gradini di gran corsa.
«Sei in ritardo» dico, passando la superficie morbida del guanto sulla fronte per detergere un velo di sudore.
«Mia madre capirà» risponde, frettolosamente. Apre la porta e attende che gli sfili davanti.
Vorrei ribattere che sono io la persona a cui deve delle scuse, ma rinuncio; la serata si preannuncia difficile anche senza aggiungere una discussione lungo la strada. Non che le liti siano frequenti tra me e Draco. Durante i primi anni di matrimonio, in verità, la nostra relazione è stata estremamente distesa, pacifica direi, caratterizzata da buona predisposizione d’animo e cortesia, oltre che da una sorta di segreta gratitudine per il reciproco atteggiamento di distacco. Le cose si sono complicate da poco, in effetti, precisamente dopo la nascita del bambino – ma non ho alcuna intenzione di rimuginare su questo.
Pur di arrestare l’onda dei pensieri, infrango il silenzio tra di noi con una considerazione piuttosto banale: «Narcissa ha specificato che non ci saranno altri ospiti oltre noi due» commento, continuando a camminare nella fredda notte di dicembre. 
«Una cena di famiglia» ribatte lui, con velato sarcasmo, percorrendo al mio fianco il prato umido. «Scorpius ti augura la buona notte, comunque» continua, reso probabilmente temerario dalla mia insolita eloquenza.
Meglio annuire e affrettarsi a ristabilire il silenzio tra di noi.
Narcissa ci accoglie con cortesia differenziata: stringe in un tenero abbraccio il figlio, riserva a me un rigido cenno del capo. Tanta freddezza non mi sorprende, essendo divenuta, negli anni, una consuetudine tra noi. Non è un segreto, dopotutto, che Narcissa avrebbe desiderato un altro tipo di donna come nuora e che solo accordi di vecchia data presi con la mia famiglia l’avevano costretta ad acconsentire al matrimonio. Da parte mia, ho smesso da anni di domandarmi quale delle due famiglie abbia ricevuto maggiori vantaggi da questa unione.
Per gran parte della cena, Draco intrattiene il nostro sgangherato trio con il resoconto del suo ultimo viaggio. Narcissa presta grande attenzione alle sue parole, riuscendo ad ignorarmi con facilità dal momento che resto fondamentalmente in silenzio. Da buona padrona di casa, si premura di domandarmi delle mie dimissioni dalla fondazione, ma non si sofferma affatto sulla mia risposta: nel giro di pochi minuti torna a dedicarsi completamente al figlio, definendo con lui l’organizzazione delle feste natalizie. Indubbiamente adora Draco nella maniera in cui una madre deve adorare un figlio.
«Bene, bene» mormora quando l’elfo porta via i piatti vuoti della portata principale.
Siamo ormai quasi giunti al termine della cena, ed è chiaro che Narcissa sta per accennare al motivo che l’ha spinta a convocare una così poco piacevole riunione; inizio a preoccuparmi, non sono mai stata un’amante delle sorprese.
«Di certo vi sarete chiesti perché vi ho invitati qui, stasera, con tanta insistenza» inizia, preparando il terreno. «Ebbene, ho delle notizie importanti».
Noto un velo di emozione nei suoi occhi, una tensione nella fronte e nella posa delle mani sul tavolo. Narcissa è una donna saggia, questo devo riconoscerglielo: non siamo destinate a diventare amiche, ma di certo è suo il merito di aver fatto sopravvivere la famiglia Malfoy per molti anni, così da trovarla ancora in piedi al momento del mio arrivo. Vederla incapace di controllare l’agitazione non mi sembra un buon segno.
«Buone notizie, spero» commenta Draco, versandosi un altro bicchiere di vino elfico.
«Ottime, figliolo. Lucius sta tornando» dice, aprendosi in un vero sorriso, di quelli che, nel maniero, non si vedono da prima della guerra.
Per un momento resto inebetita, lo sguardo fisso su una macchia di grasso sulla tovaglia.
«Sul serio, madre? Come lo sai?» domanda Draco, leggermente a corto di fiato per la sorpresa.
«Mi ha scritto pochi giorni fa. Ha ancora dei contatti, qui in Inghilterra, vecchi amici che sono rimasti o che hanno già fatto ritorno. La situazione ormai è tranquilla da diversi anni, non è il caso prolungare questo esilio ancora a lungo!» spiega Narcissa, il volto tinto di un rosa che, contrariamente a quanto accade al figlio, è capace di renderla di nuovo giovane e bella.
So da sempre che questo momento sarebbe arrivato, prima o poi. Lo so, ma ho ugualmente desiderato – pregato, persino – che accadesse il più tardi possibile.
Che non accadesse mai – non sono pronta.
La notizia mi appare orribilmente impalpabile, fatta di terrore puro e volatile, capace di insinuarsi in ogni poro del mio corpo, un mostro spaventoso riemerso dal passato per tormentarmi. Prendo rumorosamente fiato, spezzando le parole di gioia e stupore che Draco sta per pronunciare.
«Asteria?» domanda, invece, guardandomi con fare interrogativo, il sorriso appena accennato sul volto.
L’incubo serra le sue mani intorno al mio collo, stringe, ride di me e del mio terrore – non riesco a respirare.
«Asteria, cara, tutto bene?» interviene persino Narcissa.
No, non posso restare. Devo pensare, progettare una fuga, un piano, fare qualsiasi cosa per impedire la distruzione totale – non respiro.
Mi alzo dalla sedia e, senza pensarci troppo, imbocco la porta d’ingresso, desiderosa di correre nella notte e confondermi con le ombre buie che popolano i miei incubi peggiori.
 

 
***
 
 
Cala la notte, mi allontano piano dal Ministero della Magia, provando a lasciarmi alle spalle il tanfo della feccia che ne popola le sale e l’umiliazione di esservi stato nuovamente convocato. Sono passati diversi anni da quando vi ho messo piede la prima volta: la guerra era da poco finita ed ero che il Winzengamot avrebbe condannato quantomeno i miei genitori a una lunga pena da scontare ad Azkaban. Collaborammo, all’epoca, e scampammo al peggio, senza sapere, tuttavia, che era tutt’altro che finita. In quei giorni, pieni di fiducia, avevamo creduto di poterci rifugiare nella casa di famiglia, chiuderci la porta alle spalle, lenire in qualche modo le ferite e le umiliazioni che per sempre avrebbero marchiato il nome dei Malfoy: ebbene, non è stato possibile.
Questa sera, l’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia ha ritenuto lecito pormi davanti a un giudice per l’ennesima volta in pochi anni. Come vittima, perlomeno.
Ad attendermi nella sporca via londinese, trovo la ragazza, il volto pallido e la pelle tirata sugli zigomi. Siamo sposati da qualche anno e anche se abbiamo iniziato solo da poco a frequentarci più spesso, non mi stupisco di cogliere la sua estrema preoccupazione.
«Asteria» la saluto, formale.
Lei accenna con il capo, prendendo posto alla mia destra. Ci smaterializziamo insieme, ritrovandoci entrambi nel cuore della campagna inglese, difronte all’imponente cancellata del maniero. Mentre pronuncio gli incantesimi che ci consentiranno di entrare, sento il suo sguardo bruciare sulla pelle. Per un attimo rifletto sul fatto che mai, nemmeno una volta, guardando gli occhi blu di Asteria, ho immaginato laghi quieti, profondità marine silenziose o un cielo terso. Trovo singolare che occhi tanto belli possano assumere uno sguardo tanto spaventoso.
«La pena per i colpevoli è stata leggera, ma perlomeno sono stati condannati» le dico, avviandomi lungo il sentiero, deciso a percorrere a piedi il lungo tratto che ci separa dal maniero.
Siamo stati vittime di un’aggressione affatto premeditata, in verità, mossa più da odio cieco che da un’attenta organizzazione. Ci trovavamo a Diagon Alley, appena fuori da Telami e Taratane, sotto gli occhi di tutti; è stata una mossa sciocca, ma le ferite, sotto i vestiti, bruciano ancora.
«Il Ministero ci assegnerà un Auror per vegliare sulla nostra incolumità. Un certo Murray, Mezzosangue presumo, forse Nato babbano» continuo, sentendo la mia voce spezzarsi sulle ultime parole.
«Per controllarci, vorrai dire» sentenzia lei, respirando l’aria tiepida di maggio. «Non lo voglio qui».
«Non possiamo opporci, mia cara» rispondo, lasciando che una vena di esasperazione colori i miei toni.
«Non ci lasceranno mai in pace, nessuno di loro. Pensavo avessimo risolto questo tipo di problemi» mormora ancora, scura in volto.
«A quanto pare, l’assenza di mio padre non è sufficiente a placare gli animi» ribatto, più duro di quel che avrei voluto essere.
«Tutto sommato, è presto per tirare le somme» si difende.
Era stata una sua idea, quella di invitare Lucius a un esilio volontario all’estero. Aver alzato bandiera bianca, dopo la guerra, fu utile a garantirci la salvezza, ma non sufficiente per vivere in pace, ovviamente: ai processi voluti dal Ministero seguirono infatti una pioggia di accuse private e di recriminazioni, oltre che aggressioni, atti vandalici, vendette sempre più cruente, specialmente in occasione di eventi speciali come le nostre nozze. Dopotutto, il Mangiamorte è lui – così aveva detto Asteria poco dopo le nozze, con calcolata freddezza, alludendo al fatto che la presenza di quel marchio, che ancora oggi riposa muto sul mio braccio sinistro, non è mai stata di dominio pubblico.
Mentre rimugino sui ricordi, giungiamo in vista delle luci della casa e qualche rumore proveniente dall’interno sfiora le nostre orecchie. Ne approfitto per scrutare il suo volto, seminascosto dalle ombre della sera.
«Sei pallida» decreto.
Le sfugge una risata sommessa, cattiva.
«Le colpe dei padri ricadono sempre sui figli» risponde, seguendo l’oscuro filo dei suoi pensieri.
Noto una durezza insolita in lei, ben lontana dal suo abituale atteggiamento guardingo ma pacato, che la vede dedita ai suoi affari, incurante di tutto ciò che non riguardi direttamente la sua incolumità. C’è una tensione e una magrezza nei suoi tratti di cui mi accorgo solo oggi, ma che è certo frutto di una preoccupazione che vive nella sua mente già da giorni e che nulla ha a che fare con l’aggressione. Resto folgorato dall’idea che mi stia tenendo nascosto qualcosa di serio e pericoloso. Pur vergognandomi nell’ammetterlo, credo di covare un certo timore nei suoi confronti: mi preoccupo al pensiero che possa rivolgere verso di me la sua mente affilata e la sua innata slealtà.
«Le colpe dei padri» scandisce di nuovo, amara come il fiele.
Si ferma, d’un colpo, piantando quei suoi gelidi occhi blu nei miei, frugandovi dentro, istillandovi il dubbio e la stessa terribile paura che agita i suoi.
È furiosa.
È terrorizzata.
Quando distoglie lo sguardo per varcare la soglia, non la seguo immediatamente, troppo preso a contemplare l’idea che, presto, diventerò padre.

 

 
***
 
 
Le pareti della mia stanza mi erano familiari, un tempo.
La carta da parati azzurra, decorata a motivi boschivi, mi ricordava quel giardino rigoglioso della casa in Francia, dove trascorrevo l’estate quand’ero bambina. Mia madre non veniva mai laggiù con noi, troppo presa da Londra e dalle sue attrattive, ma io, Daphne e nostro padre abbiamo vissuto molti bei momenti, in quella casa, prima che la guerra divorasse tutto ciò che di puro e sicuro dava valore alla mia vita.
Oggi, le pareti della mia stanza mi sembrano aliene. Ho trascorso giorni e giorni a rimirarle, stesa sul letto, seduta in poltrona, avvolta in una veste da camera che mi aderisce al corpo come una seconda pelle, ormai. Ci sono screpolature, sul muro, piccoli segni del tempo, macchie d’inarrestabile decadenza, simboli di quel disfacimento che mi pervade la mente da giorni. Tutto questo mi spaventa; per rassicurarmi, ricontrollo il contenuto del baule, pieno di pochi vestiti e qualche vecchio libro, pronto per essere trasportato dagli elfi quando sarà il momento.
Il pensiero di lasciare questa casa non mi rattrista, anzi fremo all’idea di dover attendere, di dover respirare ancora quest’aria incerta e marcia, di restare a guardare il compiersi di un destino che non avrei mai scelto per me. È stata Narcissa, io credo, a prolungare la mia permanenza al maniero. Quando leggo le clausole che l’avvocato di Draco ha presentato per acconsentire al divorzio, scorgo la mano della madre, che non desidera vedersi guastare le feste di Natale da una ragazza diventata improvvisamente folle.
Non posso negarlo, credo anch’io che la pazzia abbia preso a serpeggiarmi in petto. La percepisco, l’avverto sotto le unghie, tra i capelli, nel fiato caldo con cui appanno lo specchio per tracciarvi il mio nome con le dita. La follia riempie questa stanza tanto quanto il tempo vuoto e lento che scorre a scatti sulla pendola, tanto quanto l’odore del cibo che marcisce intatto nell’attesa che Luz passi a ritirarlo.
Mi inginocchio davanti al baule pieno, passo in rassegna il suo contenuto per l’ennesima volta. Questione di giorni, ore, minuti: immagino il momento in cui attraverserò per l’ultima volta i saloni, le scale, l’ingresso di questa enorme, terribile casa.
Mi siedo sul pavimento freddo, porto le gambe al petto e stringo forte, nello sciocco tentativo di tenere insieme i pezzi. La mia mente corre al piano di sotto, dove sono certamente riuniti tutti e quattro, a bearsi del fuoco, delle luci dell’albero e del dolce sapore del budino di fichi. Narcissa, Draco, il bambino e Lucius.
Billy blaterava di passaporte, mentre rassettava la stanza, qualche giorno fa, e immagino che sia stato questo il modo con cui Lucius ha raggiunto il maniero. Non so dire quale aspetto abbia dopo tutti questi anni trascorsi all’estero, né conosco la sua reazione alla vista della nuova gestione della casa e della famiglia. Non ho osato espormi al rischio della sua presenza, preferendo ritirarmi quassù fino al giorno in cui sarò finalmente libera. Chissà cosa avrà pensato del bambino, di quel suo sventurato, piccolo erede a lui ancora sconosciuto.
Povero bambino mio! Potrò mai perdonarmi per la vita a cui ti ho condannato?
 
 
***
 
 
L’idea che potesse andare via non aveva mai sfiorato la mia mente, prima. Dopotutto, i matrimoni tra purosangue non sono soggetti a crisi, separazioni, divorzi.
«Ho già convocato il mio avvocato, sarà qui domani» continua a sentenziare la ragazza, dall’alto della sua scrivania. «La sua presenza è pura formalità, Draco, puoi stare tranquillo. Non voglio nulla da te, desidero solo andarmene al più presto».
La osservo, la piuma stretta in pugno e il capo chino, come oppresso da un peso, da una catena invisibile di cui vuole all’improvviso disfarsi. Io sono quella catena, comprendo – i Malfoy sono quella catena.
«Non desidero portare con me nemmeno il bambino» continua, prendendo fiato, sistemandosi nervosamente una ciocca corvina dietro l’orecchio. «Ho già incaricato gli elfi di preparare le mie cose» conclude, lanciandomi uno sguardo veloce.
I suoi occhi sono arrossati, come se avesse passato interi giorni senza riposare; sono blu e sono plumbei, come
se avesse trascorso lunghe ore a contemplare una burrasca in mare aperto; sono mobili e veloci, fremono dal desiderio di non soffermarsi nei miei.
«Non puoi farlo» mi limito a ribattere, con voce studiata, estremamente calma.
Del resto, non so cosa pensare – cosa provare – mentre lei scivola via dalla mia vita con la stessa pacatezza con cui vi è entrata.
«Non posso?» la sua voce si vela di sottilissimo sarcasmo. «Sono una donna libera, Draco» mi ricorda.
Mi avvicino di qualche passo, posando entrambe le mani sul legno della scrivania, delicatamente: «Sei una Malfoy anche tu, mia cara, non c’è posto al mondo che può liberarti da questo nome» le sussurro.
Ho sempre saputo che non sarebbe mai stata una vera moglie, per me, e che non ci saremmo mai appartenuti, amati, liberati a vicenda dei nostri fardelli. Ho sempre saputo che non l’avrei mai avuta senza quei veli con cui s’è divisa dal resto del mondo, quel manto dietro cui si nasconde anche a se stessa. Non mi sono mai illuso di conoscerla profondamente, oltre i suoi terrori, oltre le sue difese; in fin dei conti, far crollare quel muro non mi è mai sembrato uno sforzo degno di essere intrapreso. Eppure, nel momento esatto in cui la scorgo vacillare, intravedo tutto ciò a cui ho sempre, codardamente, pigramente rinunciato – Asteria.
«Io me ne vado, Draco» bisbiglia, finalmente fragile. «Me l’hai promesso, ricordi? Hai promesso di non trascinarmi in altre sciocche guerre e hai fallito» la sua voce è sottile sull’ultimo fiato. «Ma hai promesso anche di rendermi lo stesso grado di libertà che io ho sempre concesso a te. Sono stata sciocca, avrei dovuto lasciarmi tutto questo alle spalle anni fa…» mormora amaramente.
Se ne andrà, dunque.
Non trovo di meglio da fare che restare muto, mentre un’inaspettata nostalgia di lei, che mai è stata mia, non tarda a raggiungermi.
 

 
***     ***     ***
 
«Bene, quindi è tutto pronto» scandisce Draco, seduto sul piccolo divano a due posti del salottino scozzese.
La stanza è molto calda, il fuoco arde nel camino; confido che questo momento possa passare in maniera rapida e indolore, un addio formale e distaccato, cortese e misurato, così che la nostra relazione, nel momento della sua fine, rispecchi ciò che è sempre stata: un patto di convenienza.
«Sì, i bagagli sono stati caricati, io viaggerò con la Metropolvere».
«Dove andrai?»
Credo sia più saggio tacere, se voglio dare a me stessa una reale possibilità di liberarmi di lui, di tutti loro. Osservo il suo volto mutare mentre il mio silenzio satura lo spazio tra di noi. Stringe le labbra e si volta verso di me, guardandomi con quei suoi occhi sempre tanto vacui ora più scuri, quasi opachi. Senza che possa dominarmi, avverto il principio di un tremore salire dai piedi fino al petto.
«Dimmi, ancora un volta, perché lo fai, Asteria?».
 
Voglio capire, voglio capirti.
Voglio scoprire cosa si nasconde dietro ciò che ho sempre visto, dietro tutta la grazia del tuo corpo, la mitezza della voce, la ferrea volontà della mente.
Chi sei, Asteria Greengrass?
 
Sento gli occhi tradirmi nel momento in cui li avverto umidi. Perché, Merlino, perché non mi lascia scivolare via come acqua tra le rocce, trasparente e invisibile, libera di non appartenere a nulla se non a me stessa?
«Non ricominciamo, ti prego» mi lascio sfuggire, con più rabbia e più ardore di quello che la mia voce è solita sostenere.
Il suono delle mie parole aleggia stridulo nell’aria. Lui si alza, muove qualche passo nella mia direzione, guardingo, curioso; chissà cosa vede, ora che le crepe della mia armatura si sono fatte faglie, fenditure da cui temo possa sfuggire tutto ciò che ho giurato di nascondere al mondo.
«Certo, c’è un accordo tra di noi» ribadisce, la fronte aggrottata. «Un accordo che non è mai stato infranto».
 
C’è come un grumo, una massa nera e famelica che le divora lo sguardo.
Perché stiamo ancora discutendo di quel vecchio patto?
Cosa mi sfugge?
 
Sento la testa scoppiare, le mani fremere. Come può non accorgersi del momento esatto in cui entrambi abbiamo rotto quella promessa?
«Non negherò a mio padre di trascorrere gli anni della vecchiaia a casa sua, Asteria» afferma, con slancio. «Non ho intenzione di voltargli le spalle».
Gli vuol bene; vuole bene a quel pazzo criminale che ha condannato la sua stessa famiglia, esponendola ad un rischio tale da renderla nemica sia dell’una che dell’altra fazione durante la guerra. Draco, l’uomo che ho sposato illudendomi avesse un cuore di stagno, muto e piccolo, povero d’amore, è disposto a riabbracciare suo padre come se nulla fosse mai accaduto.
Una risata trattenuta, per quanto amara, mi tinge appena le labbra senza che io possa fermarla.
«È un tuo diritto, lo so bene. Il mio è quello di andare, se voglio» ribatto.
Il suo sguardo è serio e pensoso, la sua posa ferma. Infine, non credo che mi fermerà; dubito abbia coraggio o desiderio a sufficienza per impedirmelo. Afferro la piccola borsa a mano e muovo qualche passo deciso verso il camino, dove il fuoco crepita e lampeggia furioso.
Ho appena sollevato il coperchio del barattolo della Metropolvere quando sento un tocco gentile sulla spalla destra – fatico ad ammettere che possa essere lui. Resto immobile, lascio che sfiori dolcemente con le dita ciocche sparse dei miei capelli, come a sussurrare quel saluto tenero che non ci siamo mai potuti permettere. Chiudo gli occhi, immaginando ciò che sarebbe potuto essere se solo io non fossi io e lui se stesso, se solo il nostro sangue non fosse stato sempre puro e la nostra infanzia così segnata dalla guerra. Respiro piano, assaporando l’idea che, presto, non dovrò più lottare contro il timore di lasciarmi convincere ad amare.
Il tempo, fermo nel concederci un istante di cristallizzata pace, riprende a scorrere solo quando viene richiamato da un gridolino acuto del bambino, invisibile eppure presente da qualche parte nella casa.
Mi scuoto e mi maledico per tanta debolezza; avanzo d’un passo e riempio il pugno di Metropolvere. In quell’esatto istante anche Draco si muove di scatto, stringendo la presa sulla mia spalla, voltandomi improvvisamente e con forza, tanto da obbligarmi, di riflesso, ad aprire il pugno e a liberare la polvere verde tra di noi. Lo scruto piano, mentre la neve smeraldo si posa, troppo sorpresa per parlare, troppo stupita dal velo di ansia e paura che gli ha coperto il volto.
 
«Merlino, Asteria. Cosa dirò a Scorpius?»
 
Non ho parole, non ne ho mai avute a sufficienza.
I silenzi sono stati il mio rifugio per anni, il non detto la mia scusa, il mio scudo, il mio mantello. Non trovo frasi giuste, espressioni piane abbastanza per modellare ciò che sento. Non ho l’esperienza che serve a dirti, Draco, quanto è doloroso, per me, parlare – pensare, vedere, amarelui.
«Digli ciò che credi più giusto» sussurro.
Ecco, finalmente, la rabbia: bianca, sibilata, crudele: «Dimmi, prima di andartene per sempre, cosa c’è di così marcio in te dall’impedirti di voler bene al tuo stesso figlio?».
Devo essergli sempre apparsa orribile, così determinata nel disamore verso questo bambino che non ha colpe, se non d’essere figlio mio e suo. Devo essergli sempre apparsa disumana, una madre incapace di tenerezza.
Non mi scuserò – oh, no – per il mostro che sono diventata. Nessuno, dopotutto, si è mai scusato con me per avermi reso così.
 
Lei non se n’è nemmeno accorta, delle lacrime che le rigano il viso.
Non lo sa che sta piangendo.
È così frustrante, sentire la rabbia che gonfia e poi scende, avvertire il desiderio di non vederla mai più e poi quello di stringerla. È un tormento, questa donna, che mai avrei sospettato potesse rivelarsi tale.
Era così piccola e scura, smorta e sincera, un tempo –
tanto da dirmelo allora, da subito, il marcio dov’è!
Ed io già allora sapevo che un giorno – che sia oggi? – avrei potuto persino amarla.
 
Qualcosa, d’improvviso, si è acceso nel suo sguardo.
«Dillo, avanti» mi provoca.
Cosa? Dire cosa?
«Dillo, Asteria, che muori di paura» la sua voce è affilata come una spada. «Io posso farcela, davvero, a comprenderla, questa tua follia. Me l’hai persino detto, un tempo: se non ti schieri, vinci sempre. Mi sbaglio?»
«Cosa ne sai tu…».
Allunga una mano fino a sfiorarmi la guancia, ritraendola umida di lacrime – le mie lacrime. Non ho controllo, ormai, della corazza, del muro, del velo; la sento sgretolarsi, disfarsi, scivolare via. Draco continua a parlare ed è come se mi spogliasse per la prima volta.
«Ti sei trovata senza difese, a un certo punto, con Scorpius appena nato e la certezza di non poter fuggire da lui, di non poterti schierare contro di lui» parla con uno stupore crescente negli occhi, come se scoprisse ogni parola solo l’attimo dopo averla pronunciata.
«E l’hai odiato, quel bambino, proprio perché l’amavi. L’hai odiato per la sua eredità. Sì, per quella tara Malfoy che è parte di lui e che l’avrebbe sempre messo in pericolo, non credi? A scuola, a lavoro… chi potrebbe mai dimenticare suo nonno Mangiamorte? O il suo malvagio padre?»
Mi afferra le braccia con entrambe le mani, un gesto dolce, accompagnato da uno sguardo finalmente vivo e penetrante e da parole dure e spigolose, che fanno sanguinare ogni punto del mio cuore. Torniamo entrambi a sederci sul piccolo divano scozzese, lontano dal fuoco.
«Io e te abbiamo rotto il patto, abbiamo dato vita all’unica ragione per cui potrebbe valer la pena essere trascinati in un’altra guerra. Tu non stai fuggendo da Lucius, vero, Asteria?» mi domanda, duro. «Tu stai fuggendo perché non sai fare altrimenti. Tu vuoi andare, oggi, per non affezionarti, non legarti, non schierarti quando arriverà il momento di dichiarare al mondo intero che sì, tu sei e sarai sempre dalla parte di Scorpius, qualunque cosa accada e a qualunque costo – a costo di perdere tutto».
Ora lo sa, dunque.
Non so come dovrei sentirmi, ora che Draco ha saputo frugarmi l’anima tanto a fondo da renderla cristallina. 
«Sono le colpe dei padri, Draco; ricadono sempre sui figli e io non voglio esserci quando succederà a Scorpius» trovo fiato per bisbigliare.
Lui resta in silenzio per lunghi minuti, serio, come se stesse cercando una soluzione ad un problema complesso; resta in silenzio, regalandomi la sensazione di poter, per una volta, fare affidamento su qualcuno diverso da me.
«Quando succederà a Scorpius ci sarai, Asteria e non sarai sola. Ci saremo entrambi. Un grande futuro non deve richiedere per forza un grande passato, mia cara» dice infine, semplicemente.
Mentre parla, mi guarda, mi guarda con insistenza, come se non mi avesse mai vista prima. Mi guarda così a lungo che, per la prima volta da quando ci siamo conosciuti, avverto un certo imbarazzo. Un piacevole, caldo, familiare imbarazzo, di quelli che ti pungolano le guance e ti avvolgono di confortevoli speranze. Una sensazione nuova, bella abbastanza da non strapparmi nemmeno un lamento nel momento in cui Draco decide di spegnere il fuoco con un colpo di bacchetta. Osservo svanire la mia principale via di fuga con un certo tremore, ma senza rimpianti.
Non vado da nessuna parte.
 
Oggi, resta.
 
Oggi, resto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
Era da molto che volevo scrivere di Asteria e Draco e ho colto al volo l’occasione del contest indetto da mystery_koopa sul forum, "Storia di un matrimonio" per mettere giù questa One-shot, che non è altro che l’ipotetico seguito di una vecchia flash, scritta tempo fa (“Confessioni”). Le due storie si possono leggere in maniera indipendente, ma di fatto in questa storia ho sviluppato la stessa Asteria e lo stesso Draco che avevo tratteggiato nella flash.
Ho scelto di usare questo pacchetto come linea guida per la trama: 
3. 
Battaglia legale: uno dei coniugi vuole divorziare, ma l’altro non è d’accordo o lo sarà solo a determinate condizioni. I due si rivolgono pertanto a un’autorità superiore (corte/tribunale/ecc.)
BONUS: incomunicabilità (non solo tra i coniugi, ma tra tutti i personaggi in generale)


Per quel che riguarda Asteria, ho voluto dare un certo peso alle conseguenze che un’adolescenza turbolenta come quella vissuta dalla sua generazione può lasciare sia nel carattere, sia nella mente di una persona. Per certi versi, le difficoltà di Asteria possono risultare esasperate, mi rendo conto. Ho voluto conferirle una mente brillante, una certa freddezza calcolatrice, ma soprattutto tanta paura e sentimenti repressi di cui è, lei in primis, terrorizzata. Il momento in cui, nel finale, decide di restare è sicuramente una svolta rispetto alla sua caratterizzazione di base, ma ho provato anche a non snaturarla: le sue motivazioni non sono romantiche, non si scopre improvvisamente innamorata di Draco, semplicemente inizia a fare i conti sia con la maternità (inizia ad accettare ciò che essa comporta per il suo delicato equilibrio) sia con la possibilità di non dover più obbligatoriamente fuggire, dal momento che non sarà sola a fronteggiare ciò che avverrà (se avverrà). È questo anche il motivo che mi ha spinto a scegliere il titolo: lei resta, oggi, domani è tutto da vedere.
Ho fatto molta più fatica a caratterizzare Draco, invece, e non posso dirmi totalmente soddisfatta. Infatti, temo che presentarlo nelle sue vesti adulte, di marito e di osservatore attento, possa un po' allontanarlo dalla caratterizzazione originale dei libri, in cui, tutto sommato, è un ragazzo un po’ crudele, presuntuoso e molto codardo. Ho provato a non trascurare del tutto i tratti base che lo caratterizzano, pur trovandomi costretta ad ammorbidire alcuni spigoli, in particolare nel finale, quando emerge il suo desiderio di comprendere Asteria. Il coinvolgimento che prova per lei lo spinge a lasciare quell’apatia che, io credo, potrebbe essere stata l’immediata conseguenza alla delusione e alla caduta della famiglia negli anni subito successivi alla guerra.
Ho poi immaginato realistiche tutta una serie di conseguenza e di fatti che, a mio parere, avrebbero potuto rendere assai difficile vivere come Malfoy nel mondo magico post-guerra.  Spero possano apparire plausibili anche a occhi diversi dai miei!

Grazie per aver letto, alla prossima, 
Ester
 
 
Contest a cui la storia partecipa - “Angst, Potter?”, indetto da Nemesi01 sul forum di EFP.  
 

 
 
 
 
  
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