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Autore: Sapphire_    11/07/2020    0 recensioni
Piccola idea di qualche anno fa che ho deciso solo ora di pubblicare, una one-shot senza pretese che spero vi possa piacere! Buona lettura!
(Con il titolo avevo zero idee, spero qualcuno possa cogliere poi il collegamento!)
***
«La Morte esiste, Angelica. E non è solo qualcosa di astratto.»
...
Perché alla fine, per capire la Morte, per essere la Morte, devi essere umano.
Genere: Dark, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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~Passaggio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non sapevo come fossi arrivata a quel punto.

Continuavo a guardare le mie mani insanguinate e l'unica cosa che balenava nella mia mente del tutto vuota era “che cosa ho fatto”.

Ricordo che ebbi fissato le mie mani per una quantità infinita di tempo, e solo dopo aver ripetuto diecimila volte quel pensiero – che si era tramutato in un mantra – ero riuscita a spostare lo sguardo da lì, facendolo vagare sul mio corpo – nudo, pieno di graffi ed ematomi, gelido a causa del lago ghiacciato.

Poi avevo alzato gli occhi e avevo osservato il luogo in cui ero, in cui ero finita quasi senza accorgermene. O forse me n'ero accorta eccome, ma semplicemente la mia testa stava iniziando a rimuovere quei ricordi.

La foresta era lontana una ventina o trentina di metri, non ricordo bene, e io stavo seduta di fronte a quel lago da cui ero uscita strisciando, senza più respiro, senza più battito.

E infine, affianco a me, illuminato dal vago chiarore dell'alba che finalmente stava sorgendo – dopo un'interminabile notte – il suo corpo. Freddo, dilaniato, il cui sangue aveva smesso da tempo di sgorgare cupo.

E avevo sorriso, divertita dalla situazione.

Chi aveva detto che la morte fosse immortale?

La Morte era morta.

 

 

 

 

 

~ 24 ore prima ~

 

 

 

 

 

Il cellulare iniziò a squillare risvegliandomi dal torpore in cui ero caduta, rannicchiata com'ero in posizione fetale vicino alle radici dell'albero.

Sobbalzai, spegnendo la sveglia prima che potesse turbare del tutto il silenzio che vigeva in quel luogo, poi mi sollevai con fatica, stiracchiandomi e sbadigliando.

Mi guardai intorno, mettendoci circa cinque secondi a capire dove fossi: ero ancora intontita dal sonno, ma la foresta alle mie spalle e il lago di fronte a me mi ricordarono subito dove mi fossi addormentata e anche il motivo per cui avevo dormito lì.

Mi passai una mano tra i capelli, percependoli gelidi, e sentii qualche foglia secca tra di essi; sbuffai al pensiero di dovermeli rilavare, ma meglio quello che non chiudere occhio per tutta la notte, rischiando di addormentarmi a lavoro.

Mi alzai barcollante, prendendo il cellulare e infilandomelo in tasca, poi presi il telo e la coperta che avevo usato per dormire e iniziai a sbatterli furiosamente, cercando di togliere ogni residuo di terra che si era appiccicato durante la notte. Li piegai con un'insolita cura e lentezza, mettendoli all'interno dello zaino che mi ero portata dietro, e cercai di guadagnare altro tempo bevendo l'acqua dalla bottiglietta che mi ero portata appresso.

Rimasi poi per cinque minuti ferma, ascoltando il silenzio assoluto che regnava in quel luogo, osservando prima le nuvolette di vapore che creavo con il respiro, poi il sole che iniziava a spuntare da dietro le montagne.

Osservai tutto il processo dell'alba – il sole che lentamente si muoveva e che, da sopportabile disco rosso, diventava sempre più chiaro e luminoso fino a quando non riuscii più a mantenere lo sguardo; lo spostai con fastidio, cercando di ignorare i puntini bianchi che mi offuscavano la vista, e iniziai ad incamminarmi per la foresta, del tutto consapevole che non potevo permettermi altri minuti di relax.

Il cinguettio degli uccelli, mattinieri come al solito, mi fece da colonna sonora durante quei venti minuti che mi occorsero per attraversare la foresta ed arrivare alla periferia della mia città – venti perché affrettai il passo, altrimenti sarebbero stati di più. Costeggiai le varie case periferiche, notando le prime finestre che si illuminavano – non c'era ancora abbastanza luce – e incontrai qualche persona particolarmente mattiniera che portava a spasso il cane; appena incrociavo qualcuno affondavo ancora di più il mento nella grande felpa in pail blu che indossavo e calcavo più che potevo la cuffia nera tra i capelli neri e ingestibili, condanna eterna per qualsiasi ragazza che si fosse preoccupata anche solo un poco dell'aspetto esteriore. Non ero così, per mia fortuna, per questo non mi importava tanto del loro aspetto e finivo per mantenerli quasi sempre legati o in una coda, o in uno chignon mal fatto o, più raramente, in una treccia.

Arrivai a casa prima che potessi accorgermene e mi bloccai di fronte alla porta titubante.

E se fossi scappata via? E se avessi preso un treno, o un aereo, per non fare più ritorno?

Cancellai dalla mia testa quei pensieri improvvisi e inopportuni, per poi iniziare a cercare furiosamente le chiavi nello zaino, pescandoci di tutto prima di riuscire a trovare ciò che cercavo.

Infilai la chiave nella serratura cercando di fare il minor rumore possibile, trattenendo il fiato mentre il solito schiocco secco faceva aprire la porta un poco cigolante, permettendomi di infilarmi all'interno in punta di piedi.

Venni accolta dalla penombra che mi permetteva appena di vedere dove mettevo i piedi, ma i miei occhi neri si abituarono quasi subito al buio e perciò riuscii a intravedere la figura di mio fratello abbandonata sul divano, una bottiglia di whisky scadente vuota per terra, il tappo perso chissà dove.

Mossi lentamente i piedi sulle travi del pavimento, evitando con meticolosità quelle che sapevo avrebbero cigolato creando un gran fracasso in quel silenzio. Con la stessa cura salii per le scale che conducevano al piano di sopra, arrivando di fronte alla porta della mia camera che avevo chiuso a chiave prima di andarmene la sera prima.

Entrai dentro e mi pentii di non aver chiuso la finestra quella notte: la stanza era gelida e il vaso di fiori rinsecchiti era caduto per terra a causa del vento, coprendo metà pavimento di terra.

Feci una smorfia al pensiero di dover pulire quel casino, ma rimandai la cosa a quando sarei tornata dal lavoro: ero già in ritardo, se avessi perso tempo a pulire la stanza sarei arrivata anche dopo mezz'ora dall'apertura.

Per questo iniziai a zampettare per la stanza come se mi trovassi in un campo minato, afferrando giusto un cambio veloce e rinchiudendomi in bagno.

Prima di uscire dalla mia camera lanciai uno sguardo alle lettere minacciose della banca che spuntavano sul letto, ancora intonse. Le ignorai, rimandando anche quello.

Sotto la doccia calda sentii i miei muscoli sciogliersi, la tensione che veniva spazzata via insieme alla sporcizia datami dal dormire in mezzo alla foresta, ma un nodo rimaneva sempre lì: gelido, irremovibile, piantato nello stomaco come una ferita che, nonostante fosse stata ricucita, non accennava a guarire; e sapevo che non sarebbe successo di lì a breve.

Mi dovetti costringere a chiudere l'acqua, sia perché ero in ritardo e sia perché a ogni rumore in più c'era il pericolo che Jamie si svegliasse.

James, mi corressi nella mia testa. Jamie non esisteva più, era e sarebbe rimasto nel passato.

Mi asciugai e vestii in cinque minuti, lasciando perdere l'idea di asciugarmi i capelli: avrei fatto troppo rumore e perso tempo, per cui me li legai alla rinfusa e mi diedi solo un'occhiata distratta allo specchio, notando solo le occhiaie violacee che mi segnavano gli occhi e che accentuavano ancora di più il malaticcio pallore che mi caratterizzava.

Ma non misi trucco: non mi importava.

Presi lo zaino e chiusi a chiave la mia stanza, quindi scesi di volata al piano di sotto

Lanciai un'ultima occhiata a mio fratello, immobile sul divano dismesso: vedevo la sua nuca spuntare dal bracciolo, messa in una posizione alquanto scomoda, le ciocche bionde disordinate e che reclamavano acqua.

Da quanto non si fa una doccia?

Ignorai quel pensiero che mi si era affacciato a forza nella mente, per poi uscire di casa mentre il sole era già salito nel cielo e le macchine iniziavano a rumoreggiare per la strada.

L'aria gelida mi fece pentire di non essermi asciugata i capelli, ma sistemai meglio il cappellino bianco in testa e affrontai il vento freddo di quella mattinata invernale, affondando le mani nelle tasche del parka e avviandomi verso la tavola calda.

Durante il tragitto incontrai altri signori con i propri cani e gente che faceva jogging anche con quelle temperature inumane, ma poi pensai che io ero quella che dormiva nella foresta anche quando la temperatura scendeva sotto lo zero e quindi forse ero più pazza di loro.

Quando vidi in lontananza la tavola calda sorrisi: nonostante mi ammazzassi di lavoro, era l'unica cosa in parte decente della mia vita. Era pur sempre un posto caldo, dove mi davano cibo, e un luogo lontano dalla mia casa e da ciò che essa comportava.

Entrai e il familiare scampanellio della porta mi accolse; una folata di calore mi investì e mi fece tremare per lo sbalzo di temperatura, ma riconobbi che era molto meglio del gelo di fuori.

«Sei in ritardo.»

La voce che mi accolse mi fece perdere un battito dallo spavento e, un secondo dopo, sospirai.

«Lo so, scusa.» mormorai. La mia voce suonò gracchiante nella tavola calda, per cui mi schiarii la gola: rimanere in silenzio per tutto quel tempo mi faceva sempre così.

Mi volsi e incontrai la figura di Vivianne, che a braccia conserte mi fissava con un vago cipiglio di disappunto. Feci un sorriso di scuse.

«Scusa.» ripetei.

La donna mi guardò ancora per un attimo, poi alzò gli occhi al cielo e venne verso di me, le generose curve che ondeggiavano a ogni suo passo.

«Avanti, togliti questa cuffia e inizia a sistemare le sedie.» disse, dandomi un buffetto nella guancia con fare amichevole. Annuì e sentii i suoi occhi castani squadrarmi mentre mi accingevo a levarmi parka e cuffia e indossare il grembiule da lavoro, bianco e rosso e con qualche macchia qui e là.

Iniziai a sistemare le sedie come mi era stato detto, nel più totale silenzio, mentre speravo che Vivianne non mi dicesse nulla: mi spaventavano le sue domande, mi metteva a disagio mentre mi poneva interrogativi a cui non volevo rispondere; che poi erano sempre le stesse cose: James, la casa, i soldi.

Mi piaceva lei, davvero, ma era sempre inopportuna. Avrei preferito che non mi facesse domande e mi ignorasse come facevano tutte le altre persone.

«Con tuo fratello come va?»

Ed eccola. La domanda standard che mi poneva fin troppo spesso.

Mi bloccai per un attimo, ma riuscii a riprendermi in fretta e afferrai una sedia ponendola di fronte a un tavolino con un'insolita cura.

«Al solito.» risposi atona, scrollando le spalle.

Ok, niente più domande, pensai. O meglio, pregai.

«Sempre la solita risposta, non riesci a tirar fuori di meglio?» mi disse seccata.

Mi girai innervosita, lanciandole uno sguardo gelido che la maggior parte delle persone trovava disturbante.

«Sempre la solita domanda, non riesci a evitare di pormela?» domandai secca.

Vivianne spalancò gli occhi, forse non si aspettava quella risposta – o domanda, o quello che era – ma si riprese quasi subito e aprì la bocca per replicare.

«Buongiorno, scusate il ritardo!»

Michael la interruppe prima che potesse dire qualcos'altro e, nonostante non lo apprezzassi particolarmente – ovvero lui mi evitava e io lo ignoravo di conseguenza – in quell'esatto istante lo adorai.

Bisbigliai appena un saluto di risposta, per approfittare poi dell'occasione e andare dall'altra parte del locale, decidendo di occuparmi prima di quei tavoli.

Rimasi ostinatamente voltata, non accennando a voltarmi per vedere un'eventuale reazione di Vivianne, ma comunque sia lei non mi si avvicinò più; per un attimo credetti si fosse arrabbiata con me – una parte voleva chiederle scusa ma l'altra, più prepotente, continuava a ripetere che non c'era nulla di cui scusarsi – poi però quando mi avvicinai al bancone per sistemare gli sgabelli trovai un piattino con una fetta di torta e una tazza di caffè amaro, esattamente come piaceva a me. Sorrisi lieve mentre avvicinavo la tazza al viso, sporgendo il naso per inspirare bene il profumo amaro del caffè che già da solo mi aiutava a svegliarmi.

Non ci misi molto a fare colazione: non avevo molto tempo da sprecare in quel breve momento di tranquillità, la tavola calda avrebbe aperto di lì a poco e dovevo ancora terminare di sistemare alcuni tavoli, preparare il caffè, dare una veloce sistemata al bagno e quant'altro.

Nel frattempo, udii Michael che iniziava ad armeggiare in cucina, e sporgendomi un poco lo vidi muoversi rapido con la sua consueta divisa bianca con cui si occupava di cucinare. Vivianne invece era sparita, molto probabilmente era nel suo ufficio a controllare chissà cosa.

Sospirai mentre il mio piccolo momento di felicità quotidiana terminava e iniziai subito a completare gli altri compiti che mi spettavano.

Dieci minuti passarono rapidi e subito dovetti andare a capovolgere il cartello che da “chiuso” avrebbe poi segnato “aperto”.

Ed eccola lì, la mia giornata monotona iniziava definitivamente: i clienti abituali iniziarono ad arrivare, costringendomi a passare tra di loro per prendere le solite ordinazioni, passarle a Michael che come al solito sfuggiva al mio sguardo e girare poi tra i vari astanti per colmare tazze di caffè rapidamente svuotate.

In quei momenti il mio cervello pareva essere in stand-by: mi muovevo, ascoltavo distratta ciò che i clienti chiedevano, andavo a fare il conto e poi subito a portare una nuova ordinazione. Ma la mia mente nel frattempo vagava libera, angosciandosi con quello che avrebbe affrontato la sera, ovvero lettere di avviso dalla banca, altre scartoffie a cui avrei dovuto pensare e soprattutto mio fratello.

Fu una cosa a distrarmi, come ormai accadeva da lì a due settimane prima: il campanello all'entrata trillò mentre una nuova persona entrava; mi voltai a guardare e i miei occhi accolsero la figura che entrava.

Incrociai subito gli occhi della donna che subito si voltarono a guardarmi, per poi rivolgermi un tenue sorriso. Ricambiai debole.

Ecco ciò che aveva attirato la mia attenzione in quelle ultime settimane – o era già passato più di un mese? Non ricordavo.

Una donna, molto probabilmente sulla trentina, dai lisci capelli castano chiaro accuratamente spazzolati, occhi grandi e chiari riparati da un paio di occhiali dalla montatura retrò, coperta dal solito cappotto di panno scuro e una sciarpa quel giorno di un viola brillante, che con la sua sola presenza pareva ravvivarmi la giornata.

Mi avvicinai subito al tavolo in cui si sedette – uno all'angolo opposto all'entrata che aveva la perfetta visuale su tutto il resto della stanza, quello che ormai era a suo solo uso e consumo – e le sorrisi.

«Buongiorno. Cosa desidera?» chiesi rapida.

Non le diedi il tempo di sfogliare il menù, anche perché probabilmente lo conosceva a memoria, e poi sapevo cosa avrebbe ordinato.

«Una fetta di torta al limone e meringa e una tazza di cioccolata alla cannella.» rispose subito lei, sorridendomi a sua volta.

Arrossii sotto il suo sguardo mentre scrivevo la solita ordinazione nel mio fidato taccuino, poi corsi a consegnarla a Michael.

Le lanciai dei rapidi sguardi mentre compievo il solito giro per il caffè tra tutti gli altri clienti che, conoscendo la mia famiglia, si ostinavano a lanciarmi a malapena un'occhiata e appena vidi l'ordinazione pronta gliela portai.

«Prego.» dissi a bassa voce. Lei mi fece un cenno.

«Grazie.» rispose con voce sicura.

Mi guardai attorno: nessuno pareva aver bisogno di me, tutti erano serviti e non stavano entrando nuovi clienti; mi permisi quindi di sedermi al tavolo con lei.

«Che libro hai portato oggi?» chiesi curiosa. Quando lei mi guardò e sorrise divertita arrossii imbarazzata, iniziando a torturare il mio povero grembiule già macchiato da qualche macchia di caffè.

«L'abbazia di Northanger.» rispose lei, tirando fuori dalla solita grande borsa nera un libro di medio spessore con una copertina abbastanza consumata.

La guardai interrogativa e lei rise.

«È sempre della stessa autrice, Jane Austen.» mi spiegò, aprendo il libro a una delle prime pagine dove vi era un pezzo di carta a tenere il segno.

«Ti piace molto.» osservai, riferendomi all'autrice. Notando la sua occhiata divertita arrossì: avevo fatto un commento inutile, ma quando parlavo con lei mi sentivo sempre a disagio, come una bambina di otto anni che tentava di sembrare grande indossando i tacchi della propria madre.

«Direi di sì.» considerò con una lieve risata.

Abbassai lo sguardo, sentendo le ciocche di capelli neri che mi scivolavano sugli occhi nascondendomi parzialmente al suo sguardo altrui.

«Non abbassare lo sguardo in quel modo, hai dei bellissimi occhi sai?»

Mi sentii avvampare a quelle parole.

«Eh?» risposi, come una stupida.

Lei rise.

«Ho detto che hai dei bellissimi occhi, non dovresti nasconderli in questa maniera.» ripeté.

Io tacqui.

Non avevo mai riflettuto sul mio aspetto fisico.

Non perché volessi fare l'anticonformista e avessi deciso di non curare il mio aspetto a dispetto di ciò che la convinzione comune richiedeva, semplicemente non avevo mai avuto tempo per farlo e tanto meno qualcuno che mi insegnasse come fare.

Col tempo avevo perso il poco desiderio che avevo di curarmi, per preferire la comodità e l'essere invisibile agli occhi degli altri, che già di loro mi notavano fin troppo spesso.

Però, ecco, forse i miei occhi erano una cosa che mi piacevano molto di me: erano molto scuri, praticamente neri, e le ciglia erano folte e scure come i miei capelli, cosa che creava un bello sguardo. Ma, come tutto il resto del mio corpo, non li curavo; niente trucco, niente creme, niente di niente.

«Grazie.» dissi dopo vari secondi, incapace di aggiungere altro.

«Vuoi stare qui ancora per molto o ti decidi ad alzarti e a servire gli altri clienti?»

La voce di Vivianne mi fece sobbalzare e mi alzai di scatto, guardandola con aria di scuse.

«Sì, subito.» bisbigliai appena, per poi fuggire dal suo tavolo e correre in giro a chiedere nuove ordinazioni.

Non riuscii ad avvicinarmi più a lei, quel giorno arrivarono di continuo clienti impedendomi un solo minuto di pausa.

Ogni tanto, nel passare delle varie ore, le volgevo qualche sguardo e lei era sempre lì: la tazza e il piatto vuoti, gli occhi concentrati solo e unicamente su quel libro che volevo leggere sempre di più e da cui lei sembrava irresistibilmente attratta.

«Mi chiedo perché venga sempre qui e ci stia tutto il giorno.»

La voce di Micheal mi colse alla sprovvista; mi voltai verso di lui e notai che guardava nella stessa direzione della mia, ovvero la donna.

Il ragazzo, notando come io mi fossi girata a guardarlo, spostò rapidamente lo sguardo e fece retro-front in cucina, riprendendo subito a lavorare.

Non riuscii così a rispondergli, ma anche potendo non avrei avuto una risposta: non conoscevo nulla di quella donna, neanche il suo nome. Non glielo avevo mai chiesto nello stesso modo in cui lei non lo aveva mai chiesto a me, e andava bene così. Odiavo il mio nome e in qualche modo la gente pareva non volerlo pronunciare; in ogni caso, non c'era molta gente che mi rivolgeva la parola.

«Che ti prende oggi? Sei particolarmente tra le nuvole.»

Ed eccola lì Vivianne, sempre pronta a ficcarsi nella mia vita e nei miei pensieri.

«Ho solo dormito poco.» mormorai, tentando di svicolare alla conversazione avvicinandomi a un cliente; ma lei mi bloccò.

«Uh, e come mai? Tuo fratello ti ha disturbata?»

Strinsi i pugni sentendo nominare per la seconda volta in quel giorno mio fratello.

«No.» feci secca «Ora dovrei andare a lavorare.» feci fredda, e corsi via.

Alle dodici e trenta, puntuale come un orologio svizzero, la donna mi chiamò con un cenno.

Mi avvicinai subito.

«Qual è il piatto del giorno oggi?» fece con un grande sorriso; rimasi quasi accecata dalla sua allegria e mi chiesi il motivo di essa, trovandola strana. O forse ero semplicemente strana io, che non trovavo l'allegria in nulla.

«Roastbeef con patate al burro, pomodori ripieni e cheesecake ai frutti di bosco.» dissi come un'autonoma, il menù del giorno stampato in testa.

La donna annuì.

«Vada per questo allora.» fece.

Avrei voluto fermarmi un po' a parlare e a chiederle del libro, ma temetti di venire rimproverata nuovamente da Vivianne, perciò andai a portare la comanda a Micheal che come al solito non mi guardò in faccia e prese il foglio in maniera distratta.

Passò un'altra ora e mezza in cui le azioni si ripetevano come un interminabile loop che mi estenuava, finché il campanello non suonò per l'ennesima volta e, voltandomi a guardarlo, notai una figura familiare.

La ragazza mi sorrise beffarda.

«Ehi Angelica, allegra come sempre, eh?»

Le sue parole mi raggiunsero più taglienti di quanto avrei voluto. Mi costrinsi a sorridere cortese.

«Catherine.» riuscii a dire soltanto.

«Che tono smorto.» disse lei annoiata di rimando.

Ecco, lei era l'unica che pareva divertirsi un mondo a pronunciare il mio nome. Non capivo perché, ma ogni momento era buono per dirlo, ripeterlo, cantilenarlo alle mie orecchie in un modo che mi urtava i nervi.

Odiavo il mio nome, perché di angelico non avevo proprio nulla.

Angelica dovrebbe significare “messaggera di Dio”. Io di Dio non avevo nulla, se non magari il suo odio. Sempre se esiste davvero, quello è ovvio.

Non le risposi, me ne andai e tornai dagli altri astanti del locale.

C'era uno strano rapporto tra me e lei. Non ci adoravamo, ma non ci odiavamo nemmeno nel puro senso del termine; non sapevo perché, ma lei era l'unica che mi si avvicinasse di continuo anche senza avere il minimo motivo per farlo. Per Vivianne, per esempio, era diverso, perché in quanto mia datrice di lavoro doveva parlarmi e inoltre il suo lato curioso e pettegolo faceva sì che si impicciasse nella mia vita in parte già conosciuta da tutti.

Catherine invece avrebbe potuto non rivolgermi la parola e ignorarmi come facevano tutti, invece si ostinava a starmi appresso in maniera spesso fastidiosa.

Mentre sparecchiavo un tavolo la osservai, notandola fare il conto a un cliente.

Eravamo simili in maniera inquietante.

Stessi capelli neri, stessi occhi scuri, stessa pelle pallida; in qualche modo, però, lei risultava tremendamente affascinante.

Non sapevo esattamente quanti anni avesse, anche se sospettavo pochi più di me; le piaceva flirtare con i ragazzi, aveva sempre un modo di fare altezzoso e le piaceva parlarmi di cose che io odiavo portare alla mente.

«James come sta?»

La domanda che più odiavo e che quel giorno mi veniva ripetuta fino allo sfinimento. E ovviamente era Catherine a farmela.

Voltai uno sguardo verso di lei mentre la vedevo appoggiata alla cassa mentre io mi prendevo dieci minuti per pranzare.

«Bene.» dissi solo.

«Sicura? Ieri l'ho visto girovagare ciondolante per la città con una bottiglia in mano. Non sembrava proprio in sé.» disse con nonchalance la ragazza.

Abbassai lo sguardo, vergognandomi.

Sapevo che non mentiva, sapevo perfettamente cosa fosse solito fare mio fratello. E tra le varie cose al primo posto c'era senza alcun dubbio bere dalla mattina alla sera.

«Mh.» dissi solo, concentrandomi sul mio panino che in quel momento mi parve la cosa più interessante del mondo.

«Non hai più notizie di tua mamma?»

Ecco, questa domanda la odiavo anche più della precedente.

Strinsi i pugni.

«Puoi evitare di farmi domande di questo genere?» sibilai, infastidita.

Sentii una vaga risata mentre mi ostinavo a fissare il mio pranzo.

«Non c'è bisogno di scaldarsi, tesoro, dovresti averla superata ormai. Sono passati...» si interruppe, borbottando qualcosa tra sé «Cinque anni, più o meno, giusto?»

«Sei.» dissi con voce gelida.

Alzai gli occhi contro i suoi, specchiandomi in uno sguardo così terribilmente simile al mio.

Mi guardava con un sorriso beffardo.

«E preferirei che chiudessi la bocca invece che parlare della mia vita.» feci secca.

Catherine non disse nulla ma continuò a sorridere. Mi alzai e mi spostai, andando nel retro per finire di mangiare: anche la compagnia di Michael – se tale si poteva definire – era meglio della sua quando tirava in ballo certi discorsi.

Una volta terminato di mangiare mi ritrovai a fissare le briciole sul mio piatto.

Avrei solo voluto che niente e nessuno mi ricordasse più il mio passato; volevo cancellarlo dalla mia testa e basta. E basta.

 

Il pomeriggio era passato in un attimo, presa com'ero da correre da una parte all'altra.

Il periodo in cui l'orario completo mi distruggeva era passato, ormai ero abituata a quello sfacchinare che durava tutto il giorno, alle prese con clienti a cui spesso avrei voluto tirare uno schiaffo.

Non mi ero accorta di quando la donna se n'era andata, solitamente lo notavo sempre – quel giorno avevo potuto parlare poco e niente con lei, mi dispiaceva.

Sbuffai notando il suo solito tavolo vuoto, così come tutto il resto dei tavoli: eravamo in chiusura e avevamo quasi finito di mettere a posto; fuori la notte era già calata da un pezzo e i lampioni davano una tonalità aranciata e inquietante alla strada. Quello spettacolo di certo non mi invogliava a tornare a casa da sola, ma non potevo fare altrimenti.

Paradossalmente, mi spaventava di più tornare a casa di notte da sola piuttosto che dormire in mezzo alla foresta e al nulla. Ma, in fondo, le persone mi hanno sempre fatto più paura degli animali che avrebbero potuto aggirarsi di notte in mezzo alla foresta.

Mentre sentivo distrattamente Micheal e Vivianne parlare presi la spazzatura e la portai fuori per metterla nei bidoni da cui poi sarebbe stata ritirata; uscii però nel momento sbagliato, poiché proprio in quell'istante una macchina decise di passare a mille all'ora prendendo in pieno una pozzanghera formatasi la sera prima.

L'acqua che si sollevò mi colpì in pieno, inzuppandomi fin dentro ai vestiti; finii per sentirla anche tra le mutande.

«Merda.» sibilai.

«Bastardo!» urlai all'improvviso in direzione del guidatore ormai lontano, ma usando quell'urlo come valvola di sfogo.

«Dubito possa sentirti ormai.»

La voce di Catherine mi raggiunse di soppiatto, ma non mi spaventò.

Mi voltai cercando di scrollarmi l'acqua di dosso, anche se piuttosto inutilmente dato che non c'era singola cosa ancora asciutta.

La vidi sorridere divertita da dentro la tavola calda, poco più all'interno dell'uscio della porta, ancora con il suo grembiule perfettamente lindo, i capelli ricci e neri tenuti fermi da una molletta e gli occhi scuri un poco truccati.

«Sei qui per infierire?» sibilai infastidita.

Lei rise, ma poi negò con la testa.

«Questa volta no, lo prometto.» fece con voce candida «Però se vuoi che lo faccia basta chiedere.» continuò.

Le lanciai solo uno sguardo sprezzante per poi ignorarla ed entrare, costringendola a spostarsi.

«Vuoi che ti presti dei vestiti?»

La sua voce mi colse impreparata quasi quanto la sua proposta.

Mi voltai con espressione stupita: evidentemente dovevo avere anche un'aria piuttosto stupida considerando come lei, vedendomi, scoppiò a ridere.

«Perché quella faccia sconvolta? Credi che non ti presterei dei miei vestiti, Angelica?» fece con tono infantile, calcando sul mio nome nel solito modo fastidioso.

Morivo dalla voglia di dirgli di no, perché non volevo usare i suoi vestiti, mostrare gratitudine nei suoi confronti e tutte le altre cose che avrebbe comportato quel gesto – nulla di ché a dire il vero, ma solo l'idea non mi piaceva. Mi sentivo come se mi stesse ricattando, anche se non c'era niente di quello nella sua richiesta.

L'idea di tornare con quel gelo e il vento freddo e i vestiti bagnati mi fece tremare.

No, decisamente era meglio accettare la sua offerta. Anche perché, purtroppo, io non ero stata così astuta a portarmi appresso un cambio, anche se da quel giorno lo avrei fatto senza alcun dubbio.

«Va bene.» sussurrai, con un tono di sconfitta tale da farle inarcare un sopracciglio.

La seguii in silenzio nello stanzino riservato al personale e la osservai mentre afferrava una busta da un angolo; da questa tirò fuori un paio di vestiti e anche un paio di scarpe asciutte.

Non c'è bisogno di dire che nulla di tutto quello era nel mio stile: troppo ricercato, troppo facilmente notabile, troppo poco comodo.

«Non hai nient'altro?» osai chiedere, anche se sapevo già la risposta che sarebbe pervenuta.

«Mi dispiace, ma non mi porto l'intero armadio appresso, sai com'è... Sarebbe piuttosto scomodo.» fece ironica.

La vidi lanciarmi una lunga occhiata, soprattutto ai miei vestiti.

«E poi, Angelica cara, mi pare che siano molto meglio degli stracci che indossi.» sorvolai sulle parole offensive e mi affrettai a prendere i vestiti dalle sue mani, strappandoglieli quasi ma mormorando un “grazie” sottovoce.

«Prego, rovinameli già che ci sei.» la sentii dire.

Mi misi in un angolino a cambiarmi: avrei preferito di gran lunga farlo in una stanza vuota, ma l'unica opzione sarebbe stata il bagno che però avevo pulito poco prima e che, con tutta quell'acqua, avrei sporcato di nuovo condannandomi al doppio del lavoro. No, meglio resistere all'imbarazzo.

Iniziai a spogliarmi tremando infreddolita e continuando a sentire i suoi occhi puntanti su di me.

Sì, so che potrebbe sembrare una stronzata, chi ha mai potuto dire, nella vita reale, di sentirsi addosso lo sguardo di una persona? Era una cosa assurda, lo riconosco, e ci ridevo pure io prima di conoscere Catherine.

Ma, in un modo che non riuscivo per niente a spiegarmi, lei aveva la straordinaria capacità di far sentire la propria presenza, il peso dei propri occhi sulle altre persone.

Odiavo questa sua capacità.

«Potresti smettere di fissarmi?» borbottai in imbarazzo, cercando di infilarmi quei jeans terribilmente aderenti. Non ero abituata a quel genere di vestiti – preferivo la comodità, per l'appunto – ma grazie al cielo avevamo almeno la stessa taglia, quindi non mi dovetti esibire in strane acrobazie per chiuderli.

«Ti dà fastidio?» la sentii chiedere.

«Sì.» risposi secca.

«Peccato.» disse, ma continuò a fissarmi.

Non insistetti, sapendo perfettamente che non avrebbe smesso di farlo. Le piaceva fare il contrario di quello che le dicevo.

Finii rapidamente di indossare il maglioncino terribilmente scollato e un'altra felpa altrettanto striminzita e mi chiesi come facesse a resistere al freddo con quel genere di indumenti.

Non è umana, considerai ironica.

Feci una smorfia notando le scarpe che ero costretta a indossare: un paio di stivaletti con la pelliccia interna – indubbiamente caldi, ma con dodici centimetri di tacco a spillo.

«Seriamente?» domandai, voltandomi a guardarla.

Lei scrollò le spalle.

«Mi piacciono i tacchi.»

Cosa che sapevo perfettamente, dato che li indossava tutti i santi giorni – mi chiedo come facesse a sopportare quel dolore senza fermarsi un attimo, io li avevo indossati solo una volta ed ero morta.

Cercai di confortarmi pensando che comunque erano degli stivali e che magari avrebbero fatto meno male – mi auguravo fosse così, altrimenti sarei tornata a casa strisciando.

Li indossai sentendoli perfetti ai piedi – beh, a quanto pare avevamo anche la stessa taglia di scarpe.

Sarebbe stata una cosa bella se non fosse per il suo carattere che mi spingeva a volerla uccidere.

«Ti sta tutto perfetto.» considerò a voce alta Catherine, esponendo le mie stesse considerazioni.

«Già.» risposi laconica.

Che bello, scoppio di gioia, pensai sarcastica.

«Sembriamo quasi sorelle.» disse, dopo altri secondi di silenzio.

Il modo in cui calcò su quell'ultima parola mi fece gelare il sangue nelle vene. L'aveva detto con un tono in qualche modo così insinuante che sarebbe stato impossibile fare finta di niente, ignorare quella sorta di segreto che, dalla sua espressione, sembrava non volesse rivelare a nessuno ma, in qualche modo, fosse troppo tardi perché l'aveva già detto a tutto il mondo.

«Sorelle?» ripetei lentamente, scandendo le lettere e quasi assaporandole tra me e me, scoprendo il loro sapore orribile.

Catherine si limitò a sorridere sibillina, come suo solito.

«Era solo un modo di dire.» concluse, facendo spallucce.

Avrei voluto replicare qualcosa – davvero, ma Catherine fu più veloce di quanto mi potessi aspettare e, presa la borsa e una giacca, uscì facendomi solo un cenno con la testa.

Nessun'altra parola, né un saluto.

Pazienza, pensai, per poi aggiustarmi i vestiti addosso e prendendo la mia giacca che, appesa nello stanzino, si era evitata il bagno gelato.

Non dovevo aspettare alla completa chiusura, quella spettava a Vivianne come sempre, perciò potei già iniziare a indirizzarmi a casa.

Non sapevo che quella sarebbe stata l'inizio della fine.

 

Camminavo rapida per la strada. Si era già fatto buio da un pezzo e i pochi lampioni rischiaravano appena la strada su cui stavo camminando, dando una luce piuttosto lugubre che mi metteva i brividi.

Il mio respiro era accelerato e nuvole di condensa si formavano di continuo, creando nuvolette bianche simili a fumo. I vestiti di Catherine non mi scaldavano abbastanza – ma già lo sapevo mentre li stavo indossando; erano comunque sempre meglio di quelli che avevo messo nella busta che tenevo in mano, fradici di acqua sporca. Li avrei dovuti senza alcun dubbio lavare.

Mi concentravo su questi pensieri futili, cercando di sfuggire a ciò che mi aspettava a casa.

Avevo paura di incontrare mio fratello sveglio, ma speravo che fosse rinchiuso in qualche bar attaccato alla bottiglia; ciò mi avrebbe consentito di occuparmi delle mie faccende in una relativa tranquillità, poi mi sarei rinchiusa dentro la mia stanza. A seconda di come poi fosse stato lui al suo ritorno avrei dormito fuori come il giorno precedente – sempre che non fosse già a casa, quello era ovvio.

Mi crogiolavo in quei pensieri dolceamari continuando a camminare.

Il tragitto fu fin troppo breve – non era vero, era anche piuttosto lungo, ma il mio desiderio di arrivare il più tardi possibile me lo fece sembrare ancora più corto del solito.

Notai dalle finestre la luce spenta, ma non tirai ancora un sospiro di sollievo: James teneva spesso la luce spenta nonostante fosse in casa, quindi era perfettamente possibile che lui ci fosse comunque.

Entrai con la stessa cautela della mattina, ma ad accogliermi ci fu il silenzio assoluto che confermò l'assenza di mio fratello. Per essere sicura diedi un rapido sguardo in giro, ma il responso fu lo stesso: lui non c'era.

Solo a quel punto sospirai di sollievo, mentre un vago sorriso comparve nel mio volto. Sorriso che però scomparve subito pensando che mi sarei dovuta comunque sbrigare: mio fratello era imprevedibile, non capivo mai i suoi orari per il semplice fatto che non ne aveva.

Quindi mi diressi rapida in camera, sistemando il macello creato dal vaso di fiori che avevo lasciato la mattina, e subito dopo mi cambiai, mettendomi i miei vestiti più comodi. I vestiti di Catherine li avrei lavati e poi glieli avrei riportati puliti; lo facevo giusto per ricambiare la gentilezza.

Infine, mi costrinsi a prendere in mano le lettere della banca che stavo ignorando da giorni.

Scesi giù in cucina portandomele appresso, rimandando però la loro apertura a dopo cena; alla tavola calda ero stata talmente presa dall'incidente degli abiti che mi ero dimenticata di prendermi il consueto pacco che Vivianne mi lasciava contenente la cena.

Anche se si ostinava a farmi di continuo domande impiccione, sembrava che gli stesse al cuore il mio benessere e cercava di non farmi mai saltare i pasti.

Non c'era granché da mangiare – facevo poche volte la spesa dato che mangiavo prevalentemente alla tavola calda e mio fratello trovava sempre il modo di mangiare da qualche parte. Anzi, ora che ci penso non so bene dove mangiasse – eravamo diventati due sconosciuti. Non era più quel ragazzino solare e sorridente con una massa di capelli biondi che mi faceva di continuo il solletico perché non sopportava non vedermi ridere.

Strinsi i pugni, costringendomi a cancellare quei ricordi.

Quel giorno ero fin troppo nostalgica; dovevo smettere, non mi faceva bene crogiolarmi nel passato.

Sospirai e mi preparai la cena come un'autonoma, la mente altrove.

Finii per mangiare da sola e in silenzio, come sempre.

Mangiare da sola era una cosa che avevo sempre odiato; in quei momenti sentivo ancora di più la mia solitudine, così straziante che mi faceva venire un grappo alla gola, e il presente si mischiava ai ricordi del passato facendomi appannare gli occhi da un velo di lacrime che ricacciavo dentro con rabbia.

Solo dopo aver mangiato mi risolsi ad aprire quelle minacciose lettere, il cui contenuto, d'altronde, già conoscevo: mancati pagamenti, l'ipoteca perenne sulla casa, avvisi di sfratto se non avremmo pagato al più presto.

Chiusi gli occhi.

Dove avrei potuto trovare i soldi? Il mio stipendio mi dava appena il necessario per vivere piuttosto dignitosamente, ma non avevo il necessario per pagare tutti i debiti contratti dai miei genitori e, in seguito, da mio fratello. Lui non accennava minimamente a cercarsi un lavoro: prendeva di tanto in tanto i miei soldi – che continuavo a nascondere in posti diversi, ma lui li trovava sempre – e li spendeva in alcol.

Parli del diavolo e spuntano le corna, dicono. In quel momento io stavo pensando al diavolo, ed ecco che, come se l'avessi invocato, esso comparve: sentii un tonfo alla porta, come qualcuno che si fosse poggiato bruscamente; un tintinnio di chiavi e delle basse imprecazioni.

James era arrivato, come sempre ubriaco, e non riusciva ad inserire la chiave.

Non pensai nemmeno per un attimo di andare ad aprirgli: buttai veloce i piatti nel lavello, presi le lettere e spensi la luce del piano inferiore, lanciandomi verso la mia stanza di sopra.

Feci appena in tempo a chiudermi dentro prima di sentire la porta aprirsi, cigolante come suo solito – e oltretutto James non tentava minimamente di fare poco rumore.

Lo sentii ormeggiare con qualcosa mentre chiudevo in maniera più silenziosa possibile la mia stanza a chiave, poi mi rintanai nel mio letto, la luce ovviamente spenta.

Speravo che pensasse non fossi a casa.

Non so cosa pensasse, ovviamente, ma lo sentii poi salire per le scale.

«Angelica!»

Il mio nome, con la sua voce, suonava come una maledizione. Chiusi gli occhi, non rispondendo.

«Sorellina... Non rispondi? Non ci sei?» la voce trasudava tutto l'alcol ingurgitato durante tutto il giorno, e mi vennero i brividi. Continuai a rimanere zitta.

Dei tonfi sordi alla porta – un modo violento e spaventoso di bussare – mi fecero sobbalzare il cuore in gola.

«Stupida idiota, perché non apri questa cazzo di porta, eh?!»

Il modo in cui pronunciò quelle parole, non di certo le più dure che mi avesse mai rivolto, mi fecero paura. Ma rimasi ostinatamente zitta.

Si stancò ben presto di bussare e di chiamarmi, strisciando verso la sua stanza e richiudendosi la porta alle spalle.

Rimasi in silenzio giusto dieci secondi per assicurarmi che fosse collassato sul letto, cosa che di sicuro accadde subito considerando le sue condizioni; poi corsi a raccattare il mio zaino: le coperte erano sempre al suo interno. Aggiunsi giusto un'altra felpa, e un telo impermeabile per evitare che l'erba bagnata si infiltrasse nel tessuto costringendomi a soffrire il freddo durante la notte.

Non attesi un secondo di più: aprii cauta la porta, la richiusi a chiave e mi precipitai di sotto, fuggendo da quella casa e da quell'individuo che di mio fratello portava soltanto la definizione.

Poi corsi verso la foresta, unico porto sicuro in quell'inferno personale che continuavo a chiamare casa, ma che non lo era per niente.

Quando iniziai a venire avvolta dagli alberi iniziai a tranquillizzarmi.

L'atmosfera era piuttosto lugubre e spaventosa, quello era vero: il buio era praticamente assoluto se non fosse stato per la fioca luce della luna che filtrava attraverso gli alberi, permettendomi di vedere appena dove stavo mettendo i piedi.

Ma mi andava bene così. Là nessuno avrebbe potuto ferirmi. Ero da sola, quindi ero al sicuro.

Nonostante questo pensiero dovesse risollevarmi su il morale non riuscii a impedire alle lacrime di scorrere lungo le guance; mi costrinsi a non far fuoriuscire nemmeno un lamento, nemmeno un singhiozzo, nulla.

La mia mente era un vortice di pensieri disperati: sarebbe stato così per sempre? La mia vita sarebbe stata per sempre l'inferno? Avrei dovuto temere di tornare in quella che chiamavo “casa”?

Forse... Forse, se avessi avuto il coraggio... Forse sarei riuscita a far finire tutto.

Ma il coraggio di cosa? Di partire? Di ucciderlo? Di uccidermi?

No, non ce lo avrei mai avuto per nessuna delle tre opzioni. Mi conoscevo. Ero debole, paurosa, timorosa di cambiare la mia vita, anche se la odiavo. Non avevo il controllo di nulla.

Nessuno mi aveva mai insegnato niente. Loro se n'erano andati prima che potessero darmi i primi consigli sulla vita reale; nessun altro voleva prendersi l'onere di occuparsi di una come me, di un'orfana. A chi importa degli orfani, d'altronde? Di nessuno, soprattutto quando non sono più abbastanza piccoli per adottarli.

Gli occhi erano sempre più colmi di lacrime.

E fu in quel momento, mentre gli occhi erano appannati, la luce aveva lasciato spazio al buio, il silenzio si era fatto ancora più assordante mentre neanche il canto di un grillo o di un gufo risuonava. Fu in quel momento che mi sentii tirare violentemente i capelli con una forza tale che urlai di dolore mentre perdevo l'equilibrio e sbattevo con violenza a terra, cercando di evitare una gravosa caduta con le mani e sbucciandomele di conseguenza.

«Finalmente sole.»

Sentire quella voce mi fece venire un brivido. Alzai gli occhi, ma sapevo già a chi appartenesse quella voce. La sentivo da più di un mese ormai, mi si era stampata in testa insieme al suo tono caldo e gentile che mi scaldava il cuore – inspiegabilmente, perché non rappresentava nulla per me.

Eccola: illuminata solo vagamente dalla poca luce offerta dalla notte trovai la donna della tavola calda; aveva sempre il cappotto di panno scuro e la stessa sciarpa viola della mattina, che però con quella luce sembrava nera.

«Cosa...» riuscii a mormorare appena, prima di ricevere un violento colpo sul volto che mi fece accasciare a terra.

Sentii il sapore ferroso del sangue in bocca, un sapore che in certo periodo della mia vita era stato fin troppo familiare, più di quanto sarebbe stato lecito.

Avevo gli occhi sbarrati, non capivo cosa stesse succedendo.

Per un attimo fui come se fossi stata sorda: il corpo era stato così forte da annullarmi qualsiasi suono nelle orecchie, ma durò solo un attimo.

«Pensavo fossi più combattiva.»

Una frase strana, che non mi aspettavo. L'ultima parola fu sottolineata da un tono beffardo e irrisorio; la fissai negli occhi, privi quel momento dei soliti occhiali retrò che fino a quella mattina adoravo. Notai ora quanto fossero spaventosamente chiari e gelidi – non appartenevano più a quella gentile donna che avevo imparato a conoscere – che credevo di aver imparato a conoscere.

In quella situazione così assurda mi venne in mente una sola frase.

«Cosa vuoi?» riuscii solo a dire.

Che domanda stupida, avrei pensato se fossi stata una spettatrice esterna.

La donna spalancò gli occhi, stupita – quell'immagine strideva così tanto con ciò che ricordavo di lei, come se ora mi trovassi davanti una sua versione cattiva, una gemella malvagia, un doppealganger dagli istinti omicidi.

Scoppiò a ridere.

«Credi che non sappia cosa tu sia? Ho passato anni a cercarti, e ora guarda... Finalmente posso ucciderti.» a quelle parole non potei fare altro che impallidire.

Arretrai, strisciando le mani sul terreno. Le ferite causate dalla caduta bruciavano come mille e mille spilli, il terriccio sporcava la mia pelle, i pochi steli d'erba umidi e freddi mi diedero solo una parvenza di sollievo, che sparì subito.

«Ti conviene stare ferma.» disse però lei, e solo in quel momento mi accorsi di cosa stringesse nella mano destra.

Una pistola nera era avvolta dalle sue mani attentamente curate e smaltate – una sorta di contrasto che mi fece quasi ridere in quel momento – una pistola che fu sollevata e puntata verso di me.

La teneva in mano con consumata familiarità, stretta in una gelida morsa, senza la minima insicurezza. Convinta già di cosa dovesse fare – del motivo per cui era stata creata.

In un momento spaventoso come quello, l'unica cosa che mi venne in mente fu che non avevo mai visto una pistola così da vicino – e sarebbe stato bello continuare a vivere con quella serena incoscienza.

Ma poi il panico prese possesso di me.

«Aspetta! Che stai facendo? Cosa vuoi dire? Stai sbagliando persona.» iniziai a dire terrorizzata, come una macchinetta che sputava fuori parole su parole, ma che si inceppò ben presto.

Sentivo la gola secca – forse non sarei riuscita neanche ad urlare, ma in quel momento il terrore era così grande che mi bloccò la voce.

Un errore. Di sicuro doveva essere così. Perché qualcuno avrebbe voluto uccidermi? La mia esistenza era così opaca, invisibile, una piccola macchia in uno splendido e lindo vetro.

«Zitta!»

Lo strillo fu come quello di un'aquila, acuto e stridente, e in quel silenzio risuonò ancora più violento. Mi fecero male le orecchie, e non mi sarei stupita se avessi notato del sangue uscirmi dalle orecchie – mi sembrava che mi avesse perforato i timpani, ma era solo il terrore ad amplificare le sensazioni che provavo.

Però tacqui, spaventata dal suo tono feroce.

«Lo sai perfettamente, smettila con questa recita. Io non sbaglio mai.» fece.

Era così sicura, così decisa, che quasi mi convinsi io stessa che avesse trovato la persona giusta. Una persona con quella sicurezza si poteva forse contraddire?

Ma nonostante quei pensieri la mia mente si ribellò. Non accettava una fine del genere, per questo si adoperò per consentirmi di fuggire.

E la sentii. Sì, sentii l'adrenalina che scorreva rapida nelle mie vene, la mia mente che entrava nel meccanismo “lotta o fuga” e che si operava per cercare una scappatoia in quella situazione.

Fu in meno di una frazione di secondo che il mio cervello prese la decisione: non potevo affrontare una pistola, non senza uno straccio di arma. La scelta non era mai stata tale.

Fu proprio per l'adrenalina che, quando mi mossi, sentii il mio corpo come se non fosse il mio: la mia mano afferrò automaticamente una pietra dal terreno, la lanciò con un'insolita precisione – forse ero un cecchino mancato, pensai, ma quel pensiero inutile fu subito eliminato dalla mia mente per dare spazio a cose più importanti – e riuscii a colpire la donna che, presa alla sprovvista, voltò il viso per proteggersi. Questo gesto mi diede il tempo sufficiente per alzarmi e iniziare a correre nella foresta.

Avevo un enorme vantaggio su di lei: io la conoscevo, lei no. O, almeno, era quello che speravo.

Sarebbe stata la mia unica speranza, quella di essere nel “mio” territorio. Avrei giocato in casa, anche se in casa non avevo particolari possibilità di vittoria, se non la fuga.

Iniziai a correre a perdifiato, sentendo i polmoni che chiedevano pietà ma non accennando a diminuire la velocità: o correvo, o morivo. In quel caso la scelta era più che presente: era un bivio tragico, come quello delle tragedie greche dei vecchi ricordi.

In questo continuo flusso di pensieri confusi e inutili sentivo dietro di me lei che correva, mi inseguiva.

Una lepre che fugge dal cacciatore, ecco come mi sentivo.

Capii come si sente una persona che sta per morire.

Ho paura.

La mia mente era un frenetico e continuo “perché” che tentava di darsi delle spiegazioni senza però trovarne.

Perché io? Perché uccidermi?

Perché perché perché.

Il flusso di pensieri fu bloccato da uno sparo che mi sfiorò la gamba. Non penetrò la carne, ma fu sufficiente per farmi urlare e accasciare al suolo, in preda al dolore. Era come se fossi stata toccata da lava – o meglio, era così che mi immaginavo sfiorarla.

Cercai di rialzarmi, ma la gamba mi faceva male e non riuscii subito; gattonai, cercando di scappare – ero disposta anche a strisciare per avere salva la vita – questo diede il tempo sufficiente alla donna di raggiungermi.

«Ferma.»

Fui costretta a bloccarmi quando sentii il rumore metallico di ciò che avrebbe potuto uccidermi.

Mi voltai lentamente e mi ritrovai la pistola puntata nuovamente in volto, come un inquietante deja-vu che non lo era davvero, dato che avevo vissuto quella stessa identica scena poco tempo prima.

La scarica di adrenalina era un poco passata, lasciandomi ancora più in preda alla paura. Mi ritrovai a desiderare di non sentire più niente, di non provare più paura. Forse, in quel caso, avrei saputo finalmente cosa fare.

«Non importa che tu mi dica la verità. D'altronde io so cosa sei.» disse la donna – aveva la medesima sicurezza di prima, e io avevo la stessa confusione in testa.

La mia domanda – inutile – si bloccò in gola mentre la vidi cambiare espressione.

Poi mi sorrise.

Chiusi gli occhi, attendendo lo sparo – potevo fare altro? No.

«Credo che tu abbia sbagliato persona.»

E se quella voce avrebbe dovuto tranquillizzarmi, il risultato fu che mi spaventai ancora di più.

Lo sparo non arrivò e sentendo la voce familiare aprii di scatto gli occhi.

La donna era immobile di fronte a me, gli occhi spalancati, sembrava che stesse trattenendo il respiro – e molto probabilmente era così. Dietro di lei, che le puntava un pugnale alla gola, c'era Catherine.

Se la sua presenza mi riempì il cuore di felicità, il suo sorriso e il modo in cui teneva quel pugnale – come se lo avesse maneggiato fin troppe volte – mi fecero rabbrividire.

In quella nuova situazione, mi sentii come se fossi l'unica a non capire cosa stesse succedendo – e d'altronde era così, sia a priori che a posteriori.

«Tu...»

«Io.» ripeté Catherine, un tono annoiato che di sicuro le apparteneva.

Non sembrava spaventata da quella situazione, nemmeno minimamente agitata, come se non si trovasse in una foresta, di notte, con in mano un pugnale puntato sulla gola di un'altra persona.

La prese poi per i capelli, costringendola a inginocchiarsi di fronte a me.

Mi sentii un po' più al sicuro, tanto che mi alzai lentamente.

«Metti giù la pistola. Ora.» disse Catherine.

L'ordine era perentorio, e il pugnale così tanto vicino che credo nessuno si sarebbe opposto a quella frase.

La donna fu costretta a poggiare l'arma per terra.

L'altra puntò poi gli occhi su di me, un vago sorriso in volto – lo stesso sorriso che mi rivolgeva tutti i giorni, sardonico, sibillino, inquietante.

«Prendila. E buttala più lontano che puoi.» mi ordinò.

Feci come mi era stato detto senza protestare. In fondo mi stava pur sempre aiutando, e poi volevo evitare che quella pistola fosse di nuovo direzionata sul mio corpo; anche se continuava a farmi paura, era la mia unica scelta – anche gridare era un'opzione, ma chi mi avrebbe sentito?

«Non ho sbagliato.» mormorava la donna. Sembrava in trance, o una strega dallo sguardo spiritato.

Io guardai confusa prima lei e poi Catherine.

«Cosa sta dicendo? È impazzita?» chiesi sottovoce. Avevo paura di alzare il tono. Rimasi lì, ferma, attendendo istruzioni.

«Non ho sbagliato! Le informazioni erano giuste! Tu corrispondi alla descrizione!» continuava a dire la donna, in preda come alla pazzia, o forse come un disco rotto che mandava in loop lo stesso pensiero dentro la sua testa.

Io arretrai di un passo.

«Beh, pare proprio che tu abbia preso un abbaglio. Inoltre, io e Angelica...» si interruppe Catherine, guardandomi con un sorriso maligno «Sembriamo due sorelle.» completò.

Sembriamo quasi sorelle.

Mai quella frase mi risuonò più terribile e disgustosa.

«Di cosa stai parlando?» chiesi, spaventata. Il mio istinto mi urlava di fuggire, ma io non lo ascoltai.

«Ma io ho letto... Loro mi hanno spiegato... Doveva essere giusto.» disse la donna, sconvolta.

La guardai: era completamente diversa da quei giorni, da prima, sembrava essere disperata.

Tacqui e spostai lo sguardo su Catherine.

Lei mi sorrise. Era lo stesso sorriso di prima.

«Mi dispiace, ma pare tu abbia frainteso alcune cose. Oltretutto, anche se avessi trovato il giusto bersaglio, non saresti andata bene.» spiegò Catherine, con lo stesso tono con cui le persone si rivolgono ai bambini credendoli stupidi «Vedi...» si interruppe, avvicinando ancora di più il pugnale al collo della donna. Io arretrai inconsciamente.

«Tu non sei nella lista giusta.» concluse.

Non ci fu il tempo per dire o fare altro, né per me né per la donna. Fu solo un battito di ciglia, un leggero fruscio, una vibrazione di ali di un colibrì.

Catherine tranciò di netto la sua gola e il sangue iniziò a sgorgare in maniera spaventosa, come nei peggiori film di serie B.

Sentii l'istinto di vomitare e non so come feci a resistere a quell'incredibile impulso. Nei miei occhi c'era soltanto quel liquido vischioso e scarlatto – che però riluceva nero, con quella luce – che colava dapprima veloce, poi sempre di più rallentando la sua discesa verso il terreno.

Catherine lasciò andare il corpo a terra, che si mosse in preda a delle convulsioni per pochi secondi e infine si immobilizzò, per sempre. Una marionetta rotta a cui non si potevano più aggiustare i fili.

Mi resi conto in quel momento della gravità del gesto.

«Cosa hai fatto?»

La mia voce risuonò nel silenzio come se non fosse nemmeno mia, e forse non lo era. Forse ero stata catapultata in un altro corpo, a vivere esperienze non mie, a provare sensazioni appartenenti ad altri.

Guardavo attonita il cadavere di quella donna riverso a terra, come una bambola abbandonata, e Catherine che, con espressione annoiata, ripuliva il pugnale sui suoi stessi vestiti. La lama ritornò a brillare.

«Ho eliminato un elemento fastidioso e problematico. Certo, non era nella lista, ma in fondo io posso fare quello che voglio, no?»

Non capii il significato di quelle parole. O magari non lo volevo capire, perché nella mia testa – no, non nella mi testa, dentro di me sentii un campanello risuonare, cosciente del significato di quelle parole.

No no no.

«Cosa vuoi dire?»

«Quante domande, mia cara Angelica.» fece lei, con un tono tra lo spazientito e il divertito, lo stesso usato precedentemente con la donna «Voglio dire che sarebbe stato un problema per te quanto per me. Ho fatto un favore a entrambe, non sei contenta?»

Contenta?

Era una parola così fuori dal contesto.

«Ma cosa voleva da noi?!» strillai, come impazzita.

«Prendere il nostro posto.»

Silenzio assoluto. Un leggero soffio di vento mi portò alle narici l'odore ferroso del sangue.

La guardai confusa, ignorando caparbia quell'odore nauseabondo.

«Beh, sarebbe più corretto specificare il mio.» si corresse con un sorriso «Dato che tu non avrai la possibilità di rubarmi la corona.» fece con tono ironico.

Ridacchiò – una battuta di cui era l'artefice e l'unico spettatore, considerando che io non capivo cosa volesse dire.

«Cosa intendi?»

«Intendo dire...» iniziò, scavalcando con un salto il cadavere e avvicinandosi a me. Istintivamente, arretrai.

«...che ti ucciderò.»

Eh?

Non feci in tempo a pensare ad altro. Non mi diede il tempo di pensare ad altro.

Catherine si avventò contro di me, il pugnale ben stretto nella mano sinistra, sollevato verso il cielo come se stesse invocando qualcuno.

Feci la prima cosa che mi venne in mente: fuggii.

E riiniziò la fuga di prima in uno spaventoso rewind di ciò che avevo vissuto precedentemente: stessi polmoni che chiedevano pietà, stesso buio che rischiava di farmi inciampare, stesso terrore che mi bloccava e allo stesso tempo mi dava la spinta giusta per consentirmi la migliore velocità per scappare.

Non so quanto corsi a perdifiato, quanto tempo passò mentre sentivo le sue risate rimbombarmi nelle orecchie alla stregua di una malsana canzone che mi faceva impazzire.

Forse fu per ore, forse più di un giorno, o forse solo un minuto. Mi fermai solo quando vidi il familiare lago di fronte a me. Era nella sponda opposta a quella in cui mi trovavo di solito: avevo fatto un giro attorno ad esso.

Non so perché mi fermai. Forse perché ero troppo stanca. Forse perché non volevo più fuggire, o perché volevo accettare il mio destino o stronzate del genere.

Semplicemente mi fermai e attesi che lei arrivasse. Non ci volle molto, era sempre stata di poco dietro di me.

Sentii i suoi passi rallentare, ma aveva il passo leggero, non disturbava la quiete del luogo – magari conosceva meglio di me quella foresta.

«Hai deciso di non scappare più?»

Il tono era divertito come sempre.

Mi voltai e la guardai. Era lì, che mi fissava, senza l'ombra di un fiatone ad affaticarle il respiro. Fresca come una rosa, con una spina rappresentata dal pugnale sempre stretto tra le sue mani.

Come faceva?, mi chiedevo.

«Credo che mi prenderesti comunque.» dissi. Non so perché risposi proprio quelle parole, alla fine in qualche modo sarei comunque potuta scappare – bugia – ma...

«Probabile.»

Lo sapeva anche lei.

Stetti in silenzio per qualche secondo.

«Voglio solo sapere... Perché? Perché tutto questo?»

Ecco, forse almeno una risposta l'avrei ottenuta. Ci speravo – speravo di non morire senza uno straccio di spiegazione – che poi, c'è qualche spiegazione nella morte?

Catherine mi sorrise. Ma fu un normale sorriso questa volta, senza cattiveria, ma anche senza reale gioia.

Una semplice curva delle labbra, prima di emozioni.

«Perché voleva essere me. Voleva essere te. Voleva rubarci il nostro posto, voleva avere il potere a cui tutti aspirano.»

La guardai confusa.

«Il potere a cui tutti aspirano?» ripetei.

Qual è il potere a cui tutti aspirano?

«Voleva essere la Morte.»

La guardai come se fosse impazzita. Avrei riso se fossi stata in un'altra situazione, ma la paura che ancora risiedeva in me me lo impedì.

«Che è questa stronzata?» chiesi, mentre dentro di me una risata isterica si faceva strada. Forse no, la paura non mi avrebbe impedito di ridere.

«La Morte esiste, Angelica. E non è solo qualcosa di astratto. Sono io, così com'è stata qualcuno prima di me, e qualcun'altro ancora prima di lei. Dovresti essere tu ora, ma io non voglio cedere il mio scettro.»

La guardai mentre ascoltavo quelle parole prive di senso che avrebbe potuto mettere in fila solo il paziente di un ospedale psichiatrico.

È completamente impazzita, pensai.

«Penserai che io sia pazza.» iniziò, leggendomi nella mente – e aveva ragione «Ma, vedi, è il mio destino, è il tuo destino. Noi siamo la Morte, noi siamo coloro che decidono. È un lavoro faticoso, certo, ma il potere...» si interruppe e sorrise «Il potere è qualcosa di fantastico.»

Quell'ultima frase la sospirò, come in preda al piacere assoluto, un piacere dionisiaco che risultava immorale agli occhi degli estranei.

«E, vedi» continuò «per questo non voglio cedere il mio posto. Anche se tu sei nella lista, sei la successiva. Io non voglio. Quindi devo ucciderti. E posso farlo solo io.» concluse.

Quelle parole erano state asciutte, senza alcuna sfumatura. Si era risvegliata dal sogno ad occhi aperti.

Non attese una mia risposta.

Proprio come aveva fatto prima, si lanciò contro di me.

Ma quella volta non fuggii e arretrai verso il lago; così facendo riuscii a prendere il tempo per bloccarla in qualche modo. Fermano il suo braccio che piombava su di me, mi resi conto di una cosa: aveva una forza che non sembrava umana.

Mi cadde addosso, cercando di affondare il pugnale nella mia carne. In qualche modo riuscii a difendermi, ma mi riempii di graffi dati da quel maledetto pugnale.

Mi ritrovai, senza quasi accorgermene, il corpo cosparso da sottili e più o meno profonde striature scarlatte che bruciavano contemporaneamente – dei piccoli fuochi lungo il mio corpo.

Lottammo così, sulla terra e l'erba bagnata, due animali – no, due bestie – che non si davano tregua; lei mossa da non so cosa, io dalla più totale disperazione.

Mi resi conto di una cosa solo in quel momento: non volevo morire.

Sì, era un'illuminazione che mi coglieva in quel frangente anche se innumerevoli volte avevo valutato quella possibilità – quella di morire.

Ma no, volevo continuare a essere viva, anche se la mia vita faceva schifo, e ci sputavo mille e mille volte sulla mia situazione.

Ma la natura umana è questa: si attacca alla vita con le unghie e con i denti o anche solo con la forza della mente, senza tregua, con il semplice desiderio di continuare a respirare, di far battere ancora quell'insulso muscolo che con un solo movimento garantisce ad un intero sistema di funzionare.

Per questo – perché volevo vivere – la trascinai in acqua, con l'idea in testa di volerla affogare.

Uccidila uccidila uccidila.

Vidi la sorpresa negli occhi di Catherine mentre veniva spinta in acqua – non si aspettava quel gesto da parte mia, ma neanche io mi sarei mai immaginata di essere in grado di uccidere qualcuno, o anche solo di pensare di uccidere qualcuno; ma immediatamente mi sentii trascinare giù con lei.

Affondai nell'acqua e per un attimo mi venne istintivo aprire la bocca in cerca di aria; trovai solo acqua pronta a riempirmi i polmoni. Dolce, fredda, priva di ossigeno utilizzabile.

Riuscii a riemergere un attimo, per poi riaffondare. Sentivo il suo pugnale che affondava nella mia carne, un alternarsi di bruciore e di freschezza, di sangue e acqua.

Poi non so come successe – o anche cosa successe. Il mio corpo, in quel momento, aveva smesso definitivamente di appartenermi.

L'acqua aveva molto di sicuro rallentato i suoi movimenti, facendole perdere la presa sul pugnale. Non so nemmeno come riuscii ad afferrarlo – sembrava che la mia mano lo cercasse, come se fosse qualcosa che avessi maneggiato già tante e tante volte, un'estensione del mio corpo.

Dentro di me, lo stesso campanello che aveva suonato prima iniziò poi a fare un fracasso assurdo, risvegliando una parte di me di cui non ero mai stata consapevole.

E come lo presi in mano sapevo già cosa dovessi fare – l'avevo sempre saputo, solo che avevo dormito per un'intera vita.

Ancora immersa nell'acqua, la mente che mi urlava di ritornare in superficie per dell'aria, affondai l'arma proprio al centro del petto.

Scivolò con una straordinaria scioltezza, trovando l'incastro giusto tra le costole e perforando il cuore con chirurgica precisione.

Era una sensazione fantastica.

Fu con gli occhi spalancati che vidi il fiotto scarlatto uscire dal suo petto, in un modo simile a quello che avevo visto con la donna – solo una vaga immagine grazie alla luce della luna che filtrava nell'acqua, che rendeva tutto ancora più nebuloso.

E i suoi occhi spaventati, il suo aspetto così umano in quel momento – perché alla fine, per capire la Morte, per essere la Morte, devi essere umano.

Non lasciai la presa, mantenni il suo corpo anche quando riemersi, trascinandolo con me sulla riva, dove lo abbandonai. Non si muoveva più. Era gelido. Era un'altra bambola rotta.

E rimasi lì, ad aspettare.

 

 

 

La mia mente era avvolta da tutti quei ricordi, da tutti quei pensieri, da tutte quelle vite passate.

Persone prima di me che avevano avuto quel compito, che erano state lei, la Morte.

Ora era il mio compito e mentre, dopo tante ore, mi alzavo finalmente in piedi, vidi il sole sorgere in quel nuovo giorno, illuminandomi come un marchio, riempiendo di luce quella che non era più solo Angelica, ma altre mille e mille persone prima di me.

No, non persone. Sempre la solita entità che da sempre vagava nel mondo, unica presenza che non sarebbe mai scomparsa.

Sorridevo.

Andava tutto bene.

Tutto bene.

Io sono la Morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

~Spazio Autrice

 

Non ho mai pubblicato in questo fandom, e a dire il vero non avevo la minima idea di dove inserire questa storia, ma alla fine ho pensato che il genere “Sovrannaturale” fosse il più consono quindi eccomi qui.

Questa storia è vecchia, l’ho scritta almeno tre o quattro anni fa, e proprio oggi mi è ricapitata per le mani nella cartella delle storie. L’ho riletta e, sinceramente, non mi è sembrata così malaccio quindi ho deciso di pubblicarla e vedere se potesse piacere anche a qualcun altro. Spero che sia stato così!

È un’idea che mi era venuta sul momento, riflettendoci ora potevo anche renderla una minilong, ma preferisco lasciarla così come l’avevo pensata all’inizio!

Che altro dire, beh, spero che vi sia piaciuta e, in caso se vi va, lasciate un commentino per dirmi che ne pensate! Accetto recensioni di tutti i tipi, purché educate e rispettose!

Grazie della lettura!

 

~Sapphire_

 

 

 

  
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