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Autore: _Lady di inchiostro_    13/07/2020    3 recensioni
«Non andare.»
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Oikawa non aveva ancora dimenticato il colore degli occhi di Hajime.
E si sentiva un mostro, perché era stato lui stesso a lasciarlo. Era stato lui stesso a dirgli di dimenticarlo.
Si sentiva un mostro, perché era lui quello che fingeva di amare una donna, quando in verità continuava ad amare una sola persona.
Il suo migliore amico. Il suo complice. Un uomo. Iwaizumi Hajime.

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Aveva sempre saputo che avrebbe scelto quella strada e, in un certo senso, non lo biasimava.
Oikawa era destinato a brillare, in qualsiasi cosa facesse.
Eppure, anche se aveva tentato con tutte le sue forze di dimenticarlo, anche se aveva tentato con tutto se stesso di cercarsi una persona con cui passare il resto della sua vita, non ci era riuscito. In quei sei anni aveva fallito in ogni relazione. In quei sei anni si era reso conto che nessuno poteva sostituire Oikawa.

~
[Iwaoi senza pretese] [Scritta prima degli sviluppi del manga] [Lievemente ispirata a "Resta anche domani"]
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Iwaizumi, Tooru Oikawa
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Noticine ad inizio storia:

Come ho già detto nell'introduzione, la storia è stata scritta anni fa, prima degli sviluppi del manga. Quindi, vi chiedo di prenderla per com'è, ovvero una storia che è saltata fuori durante le mie ricerche e che mi sono decisa, finalmente, a pubblicare.
Qualcuno di voi forse mi conosce già, altri probabilmente no: in questo caso, benvenuti!
Per chi, invece, mi dovesse conoscere già, chiedo scusa se sono sparita per tutto questo tempo, ma mi sono dedicata a progetti personali di chi spero di parlare, un giorno.
In ogni caso, il lato fandomico non l'abbandono mica!
Per chi volesse restare in contatto con me, potete sempre fare uso della mia pagina Twitter (che adesso è diventata uno stan account dei BTS, ops!)
Ho detto tutto. Buona lettura e le critiche e segnalazioni di eventuali errori sono ben accette!


 
DON’T LEAVE ME 
 
 
 
 
Say something, I'm giving up on you
I'm sorry that I couldn't get to you
Anywhere, I would've followed you
[Say Something;A Great Big World feat. Christina Aguilera]

 




 «Non andare.»
Due parole che risuonarono nella penombra di quella stanza. Due parole che fecero perdere un paio di battiti alla persona cui erano rivolte. Due parole che resero l’espressione di chi le aveva pronunciate malinconica, cupa.
Tooru percepiva ancora le dita dell’altro che gli accarezzavano il viso, mentre i suoi occhi erano fissi su quelli di Hajime. Sembravano quasi brillare sotto la luce dell’abat-jour, appena sopra le loro teste.
Gli adesivi che vi avevano appiccicato quando erano bambini creavano delle ombre gigantesche lungo le pareti, ma a loro non importava.
Avevano occhi solo per l’altro.
Oikawa passò le dita tra i capelli del ragazzo e si fece più vicino, infossando la testa nella curva del collo. Respirò a pieni polmoni il profumo che, tuttora, sentiva ancora sulla sua pelle.
Quanto avrebbe voluto rimanere così per sempre. Quanto avrebbe voluto che quello non fosse il loro ultimo momento. Quanto avrebbe voluto che Iwaizumi lo toccasse, lo baciasse e lo amasse un’altra volta come quella sera. E così per tutte quante le sere della sua vita.
Ma non poteva. Non potevano.
C’erano delle priorità.
Erano due uomini adulti, diplomati e con le porte aperte a nuove prospettive future.
Non erano più ragazzini. Non erano più quei bambini che appiccicavano gli adesivi sui lampadari, o giocavano a pallavolo nel giardino sotto casa. Non erano più due studenti delle superiori. Avevano avuto il loro momento per potersi frequentare e l’avevano sprecato.
Oikawa Tooru non rispose mai alle ultime parole che gli disse il suo amico d’infanzia, dopo che l’aveva stretto a sé e avevano fatto l’amore. Le avrebbe portate sempre incise nel cuore, però, perché anche se era giusto così, anche se sapevano entrambi che prima o poi avrebbero dovuto farla finita, c’era comunque qualcosa di sbagliato in tutto questo.
C’era qualcosa di sbagliato negli addii.
Partì l’indomani mattina presto. Si rivestì, diede un ultimo bacio sulla tempia a Iwaizumi e si diresse verso casa sua.
Partì all’insaputa di tutti, anche se il suo treno per Tokyo era previsto per le dieci del mattino. Detestava gli addii.
Prese la sua valigia, salutò i suoi genitori e si incamminò verso la stazione.
E mentre era seduto su quelle poltroncine durissime e osservava lo spettacolo dal finestrino, scrisse un messaggio a Hajime. Un messaggio in cui gli chiedeva scusa, in cui gli diceva che era giusto così. Un messaggio in cui gli diceva che forse era meglio troncare i rapporti, dopo quello che avevano fatto. Un messaggio in cui gli diceva di andare avanti.
Cliccò sul tasto “send” con le lacrime agli occhi e continuò a versarle con la testa poggiata sul finestrino.
Tooru detestava gli addii e le bugie.
E lui stava mentendo, in quel momento.
Non avrebbe mai amato nessun altro come Hajime.
 
 
*
 
 
Sei anni dopo. Tokyo.
 
 
Girò il cucchiaino all’interno della tazzina e osservò il modo in cui il latte si mischiò al caffè. Spostò poi lo sguardo di lato, verso il suo telefono che stava vibrando contro la superfice trasparente del tavolino.
Credeva che la persona che doveva incontrare lo stesse contattando, ma in realtà si trattava di qualcun altro.
Rispose. «Ciao.»
Abbozzò un sorriso e non seppe bene per quale motivo.
Non doveva fingere. Non era davanti a lui in quel momento. Poteva benissimo camuffare la voce.
«Ciao Tooru!»
La voce di una bambina di non più di sette anni gli arrivò all’orecchio, lasciandolo un attimo perplesso.
«Lo sai che tu e la zia non vi sposerete perché lei è troppo grassa?»
Oikawa Tooru vacillò un attimo, mentre in sottofondo si sentiva la voce di una donna che sbraitava prima con la bambina poi con quella che probabilmente doveva essere la madre, afferrando il cellulare.
«Non dargli ascolto, amore!» esclamò la stessa voce di prima, con affanno.
Tooru sentì l’angolo della bocca che vibrava, come se stesse avendo un tic di qualche tipo, ma cercò di ignorarlo. «Sicuro che vada tutto bene lì?»
«Benissimo, tesoro, non preoccuparti! Tra tre mesi avrai la tua sposa in perfetta forma e con un abito da urlo, vedrai!»
Oikawa non rispose a quell’affermazione, le labbra che si ridussero a una linea sottile.
Era diventato quello che tutti si aspettavano da lui.
Un uomo che aveva conseguito una laurea con il massimo dei voti, che giocava in una squadra di professionisti e che tra poco si sarebbe sposato con una donna bellissima e di successo. Mancavano solo i pargoli da allevare, una casa con giardino e un cane.
Sbatté il cucchiaino sul bordo della tazzina, mentre la sua fidanzata continuava a parlare.
«Il tuo amico non è ancora arrivato?»
Sollevò gli occhi castani, fino ad allora tenuti bassi, sulla trafficata strada che aveva alla sua sinistra, accorgendosi solo allora dell’individuo che si apprestava ad attraversare sulle strisce pedonali.
Ci mise un po’ per riconoscerlo. Non si aspettava che sarebbe stato in compagnia.
«È arrivato adesso.»
«Oh, allora ci sentiamo dopo. Ti amo!»
Oikawa impiegò dieci secondi buoni prima di rispondere. «Ti amo anch’io.»
Riagganciò proprio nel momento esatto in cui la persona che stava aspettando gli si palesò davanti.
«Dannazione, Oikawa, non sei cambiato per niente!»
Tooru sollevò lo sguardo, sbattendo appena le palpebre. Sorrise, questa volta per davvero.
«Al contrario di te, Hanamaki. Anche se devo ammettere che le vesti di padre ti si addicono.»
Hanamaki si grattò leggermente la nuca. «Scusami, oggi l’asilo era chiuso e non sapevo a chi lasciarla e…»
«Non preoccuparti, non mi da alcun fastidio» disse, sorridendo all’indirizzo della bambina, che si mise seduta accanto al padre. Avevano gli occhi dello stesso colore.
«Si chiama Yuki.»
«Piacere Yuki, io mi chiamo Tooru!»
Inclinò la testa di lato, sorridendo, e la bambina nascose il viso tra le mani.
«Yuki, andiamo, non essere maleducata» la redarguì Takahiro.
«Non è affatto maleducata, Makki! La trovo assolutamente adorabile!»
Al contrario della nipote della sua fidanzata, ma questa era una sua opinione personale e decise di tenersela per sé.
Sorrise ancora una volta e la bambina ricambiò timidamente, mettendosi poi a giocare con i pupazzi che il padre aveva portato per lei.
«Dio, mi chiami ancora in quel modo?» disse poi, porgendo il peluche di un coniglio alla figlia.
Oikawa parve cadere un attimo dalle nuvole.
«Makki. Mi hai chiamato Makki.»
«Ti ho sempre chiamato Makki.»
«Sì, ma non ho più diciassette anni, ti pare?»
Già. Non avevano più diciassette anni.
Hanamaki era sposato ed era padre di una bambina. Matsukawa si era sposato un anno prima. E lui avrebbe convolato a nozze tra poco meno di tre mesi e mezzo.
Il tempo non si poteva fermare.
«Scusami, Oikawa, non volevo che tu te la prendessi…»
Il ragazzo sventolò una mano davanti al viso, come a dire che non doveva preoccuparsene. «Piuttosto, come mai hai voluto incontrarmi? Riguarda per caso il matrimonio? Non puoi venire?»
In realtà, una parte di lui sperava che né lui né Mattsun venissero al suo matrimonio. Non voleva che venissero a conoscenza delle persone che frequentava e che aveva il coraggio di chiamare amici.
Li odiava. Si odiava lui stesso, perché stava con una persona che non amava da ben quattro anni, fingendo che andasse tutto bene, che gli andava bene la sua famiglia e il suo gruppo di amici, ma non era così.
Voleva solo scappare. Voleva solo tornare indietro nel tempo e cancellare quella lettera di ammissione all’università che l’aveva costretto a stare via di casa per sei anni. A stare via da…
«C’è una cosa che devo dirti.»
La voce di Takahiro si fece più bassa, inclinando appena il busto in avanti, verso di lui. Forse non voleva che sua figlia sentisse, aveva pur sempre due anni.
«Ne ho parlato con Matsukawa ed è stato lui a dirmi di farlo.»
Dopo un iniziale momento di smarrimento, Oikawa deglutì e domandò: «Di che si tratta?»
«L’abbiamo scoperto soltanto da qualche settimana… sai anche noi ci siamo allontanati dopo il liceo… e non sapevo se dirtelo, visto che non vi sentite da…»
«Takahiro, sputa il rospo, non ho tutto il giorno» disse, sollevando un sopracciglio.
Il ragazzo in questione prese un profondo respiro e fu allora che il mondo crollò addosso ad Oikawa.
Erano passati sei anni, ma non aveva ancora dimenticato il tocco di Iwaizumi sulla sua pelle rovente. Non aveva ancora dimenticato la sensazione che provava alla bocca dello stomaco ogni volta che le loro labbra si incontravano. Non aveva dimenticato le passeggiate di ritorno dagli allenamenti.
Le facevano sempre, anche quando pioveva a dirotto e Iwaizumi si ritrovava sempre con un ombrello semidistrutto.
Oikawa non aveva ancora dimenticato il colore degli occhi di Hajime.
E si sentiva un mostro, perché era stato lui stesso a lasciarlo. Era stato lui stesso a dirgli di dimenticarlo.
Si sentiva un mostro, perché era lui quello che fingeva di amare una donna, quando in verità continuava ad amare una sola persona.
Il suo migliore amico. Il suo complice. Un uomo. Iwaizumi Hajime.
Il suo cervello registrò in ritardo la frase pronunciata dalla bocca di Makki. Oikawa aveva gli occhi spalancati e tremava.
«Iwaizumi… Iwaizumi ha avuto un incidente ed è in coma da sei mesi…»
 
 
 
*
 
Quattro mesi dopo. Tokyo Adventist Hospital. Tokyo.
 
 
La prima volta che aveva fatto visita ad Iwaizumi, Oikawa aveva corso a perdifiato verso il primo corridoio che gli era capitato a tiro ed era stato fermato dalla sorveglianza.
Aveva aspettato l’orario delle visite, ma non venne nessuno dei familiari di Hajime. Non era entrato, gli era bastato osservare dalla finestra che dava sulla stanza.
Aveva chiesto all’infermiera se poteva lasciarlo da solo e si era ritrovato a strisciare contro la parete e a nascondere il viso tra le ginocchia.
Iwaizumi aveva un tubo di plastica che lo faceva respirare. Iwaizumi respirava grazie a un tubo di plastica. Iwaizumi era vivo grazie alle macchine che facevano funzionare quel dannato tubo di plastica.
Tooru aveva passato la notte lì e dormì disteso su quelle odiose sedie di plastica, con la giacca che gli faceva da coperta. E passò lì le restanti nottate, prima che si prendesse di coraggio e si decidesse ad entrare nella stanza.
Hajime non era tanto cambiato rispetto a quando l’aveva lasciato. Forse aveva i capelli un po’ più lunghi e i tratti del viso più simili a quelli di un adulto, ma il taglio degli occhi era sempre lo stesso.
Si era seduto accanto a lui, aveva passato il pollice su una palpebra, delicatamente, e aveva pianto in silenzio.
Oikawa Tooru passò le restanti giornate della sua vita in quell’ospedale. Continuava ad allenarsi e a giocare, abbozzando sempre quei sorrisi fasulli ai suoi compagni; poi, dopo una veloce doccia, si dirigeva verso la struttura dove, oramai, era conosciuto da quasi ogni infermiere.
Oikawa Tooru aveva chiesto alla sua fidanzata di dargli del tempo, perché la notizia l’aveva scosso e non se la sentiva di festeggiare mentre il suo amico era in quelle condizioni.
La ragazza aveva sorriso e, sebbene non ne fosse del tutto convinta, alla fine decise di assecondarlo. Non passò molto tempo, però, prima che quel rapporto fondato sul nulla si frantumasse in mille pezzi.
Era una serata come tutte le altre: Oikawa stava cenando in compagnia di Iwaizumi, come ogni sera, e stava chiacchierando con lui delle cose più futili, esattamente come gli avevano detto di fare i medici.
La sua fidanzata arrivò dopo, aprendo la porta della stanza con violenza. Urlò frasi che spesso Tooru udì solo a metà, la testa pesante e gli occhi che si chiudevano.
Non si faceva una sana dormita da… quanto? Quattro mesi?
«Noi dovremmo essere sposati! Dovremmo essere in luna di miele! E invece abbiamo rimandato tutto per… cosa? Per chi l’abbiamo fatto Tooru, me lo spieghi?»
«Per Hajime! Ecco per chi l’abbiamo fatto, per lui! Quindi, se questa cosa ti crea così tanti problemi, per me puoi anche andartene!»
Si rese conto di aver alzato un po’ troppo la voce solo quando si ritrovò gli occhi di mezzo reparto puntati addosso, compresi quelli della famiglia di Iwaizumi.
«Chi è lui per te, Tooru?»
Non rispose, ma la sua espressione parlava già da sé.
La ragazza ebbe un moto di risa quasi isterico, mentre si passava le mani sui lunghi capelli castani.
«Un frocio. Sono stata fidanzata per quattro anni con un frocio…»
Oikawa avrebbe voluto replicare, magari difendersi, ma non ne ebbe la possibilità. O la forza.
Del resto, tutto quel casino era iniziato perché lui aveva esplicitamente deciso di abbandonare Iwa-chan – il suo Iwa-chan.
La ragazza gli mollò uno schiaffo e poté persino sentire l’anello di fidanzamento che colpiva la sua pelle.
La fissò, gli occhi color cioccolato spalancati, mentre lei lo squadrava con disgusto.
«Mi fai schifo!»
E con quelle parole, sparì per sempre dalla vita di Oikawa.
*
 
Un mese dopo. La vigilia di Natale. Tokyo Adventist Hospital. Tokyo.
 
 
«Noi andiamo, Tooru-kun. Tu…»
«Rimango ancora un po’ qui, zietta.»
La famiglia di Hajime lo salutò con quei sorrisi tirati che, da quasi un anno, caratterizzavano l’espressione dei loro visi.
Gli fecero nuovamente gli auguri di buon Natale, nonostante se li fossero fatti neanche un’ora prima, dirigendosi verso l’uscita.
Inclinò la testa indietro, sospirando dal naso. «Sto indossando la sciarpa brutta che mi hai regalato per il nostro ultimo Natale da liceali. Te la ricordi, no? Quella blu con le renne disegnate sopra.»
Spostò gli occhi di lato, ma in risposta gli arrivò solo il bip incessante dei macchinari che lo circondavano. Il respiro di Hajime era appena percepibile.
«Ribadisco che è oscena, ma… l’ho conservata. Ha ancora quello strano profumo che mi ero spruzzato addosso, quello di mia sorella, ricordi? Mi piaceva, credo che fosse al biancospino e al lime.» Gli scappò una risatina. «Mi ricordo che ti faceva starnutire un sacco.»
Il lieve sorriso che si era formato sulle sue labbra scemò del tutto. I suoi occhi erano puntati sul tetto della stanza, ma la verità era che stava cercando, con tutto se stesso, di tornare alla spensieratezza di quei giorni.
Voleva tornare ai giorni in cui punzecchiava Iwaizumi, in cui camminavano sotto lo stesso ombrello quando pioveva, in cui si allenavano nel giardino di casa anche quando faceva caldo, in cui si prendevano a cuscinate quando uno batteva l’altro ai videogiochi. Voleva tornare al momento in cui si erano baciati, in cui avevano fatto l’amore.
Voleva… voleva ridere solo un’altra volta con lui.
Si premette i palmi delle mani sugli occhi. «Lo sai, Iwa-chan? I tuoi genitori hanno intenzione di spegnere le macchine prima che l’anno finisca…  Vogliono ricominciare daccapo…»
Tooru non voleva ricominciare daccapo, non in quel senso.
Quando l’aveva scoperto, aveva dato di matto. Aveva cominciato a piangere e più volte gli era mancato il respiro. Dovette uscire a prendere una boccata d’aria per calmarsi, ma finì solo col gettarsi per terra e cominciare a urlare al vento.
«Ehi, Iwa-chan? Lo sai che nel mondo dei morti incontrerai un sacco di gente famosa? Come l’attore di Spock… o Elvis.»
Oikawa era già andato avanti per conto suo, lasciando Iwaizumi indietro, e adesso si ritrovava a piangere al suo capezzale. Si ritrovava a sperare in un qualche miracolo natalizio.
Oikawa aveva buttato sei anni della sua vita per la fama, il successo, una donna con cui si era fidanzato solo per convenzione. Aveva buttato Iwaizumi dentro un cestino, come se fosse un giocattolo vecchio.
La sua ex-fidanzata aveva ragione. Provava ribrezzo verso se stesso.
«E, cosa più importante, non mi sentirai delirare come un cretino.»
Tooru odiava gli addii. Tooru non voleva dire addio un’altra volta. Tooru non voleva che tutto finisse così.
Guardò il corpo immobile di Iwaizumi, mordendo con forza il labbro inferiore.
«Va bene, vuoi che lo dica, Iwaizumi? Allora lo dico!»
Spostò la sedia di lato, in modo da avere il viso del giovane davanti.
«Ho fatto un casino, va bene? Ero… ero convinto che potevamo vivere l’uno senza l’altro, ma mi sbagliavo, dio come mi sbagliavo. E non ho fatto altro che pensarti in questi anni, volevo chiamarti, ma poi ripensavo al messaggio… non ero neanche sicuro che tu avessi ancora il mio numero. Dio… Hajime, mi dispiace, mi dispiace tanto!»
Cercò di fermare le sue lacrime e i suoi singhiozzi ma fu tutto inutile. Stava tremando come una foglia.
«Puoi anche odiarmi per quello che ti ho fatto, ma ti prego… ti prego, se è rimasta anche solo un po’ della forza di volontà dell’Iwaizumi Hajime che conosco, allora svegliati!»
Nessuna risposa. Ennesimo bip. Ennesimo respiro sommesso.
Tooru tenne il labbro inferiore ancora stretto tra i denti.
«Hajime… ti amo…» Mando giù un grumo di saliva. «Ti prego… resta…»
Un altro bip, un altro respiro sommesso.
Posò la fronte contro il viso del ragazzo. Aveva ancora gli zigomi bagnati. «Non andare…» gli sussurrò.
Due parole. Due parole che, in tutti questi anni, Tooru non aveva ancora dimenticato. Due parole che racchiudevano la stessa essenza del loro rapporto.
Hajime l’aveva implorato di restare, quella notte, e lui non l’aveva fatto.
Tooru lo stava implorando di restare – di vivere – e adesso stava a lui decidere che cosa fare.
Iwaizumi Hajime non provava rancore verso Oikawa. Non l’odiava.
Aveva sempre saputo che avrebbe scelto quella strada e, in un certo senso, non lo biasimava.
Oikawa era destinato a brillare, in qualsiasi cosa facesse.
Eppure, anche se aveva tentato con tutte le sue forze di dimenticarlo, anche se aveva tentato con tutto se stesso di cercarsi una persona con cui passare il resto della sua vita, non ci era riuscito. In quei sei anni aveva fallito in ogni relazione. In quei sei anni si era reso conto che nessuno poteva sostituire Oikawa.
Quando ebbe l’incidente, l’ultima cosa che vide fu il suo viso, la notte in cui si erano amati come mai avevano fatto in quei diciassette anni di vita passati assieme.
In quel nulla cosmico, più volte si era ripetuto che non c’era più niente da fare, che doveva lasciarsi andare, finché non aveva sentito la voce di Oikawa.
E non se n’era andato. Non se n’era mai andato.
Era rimasto.
Continuava ad essere con lui anche la notte di Natale, quando avrebbe dovuto essere con la sua famiglia o con quella che doveva essere sua moglie.
Hajime si era chiesto più volte, in quegli anni, se Tooru l’avesse mai amato veramente.
Beh… aveva ottenuto la sua risposta.
 
 
 
Dovevano essere le quattro del mattino, o forse le cinque.
Tooru non badò molto all’orologio quando aprì gli occhi, frastornato.
Si era addormentato in ospedale.
In un primo momento, pensò di prendere le sue cose e andarsene, rendendosi poi conto che c’era qualcosa posata sulla sua testa.
Una mano. Una mano che l’aveva svegliato di soprassalto.
La mano di Iwaizumi era sulla sua testa e l’aveva svegliato di soprassalto.
Gli mancò quasi l’aria quando vide le ciglia di Iwaizumi fremere e i suoi occhi aprirsi.
«Hajime…» mormorò e ricominciò a piangere. «Hajime… Hajime…»
La sua fronte era nuovamente premuta contro il viso di Iwaizumi.
Proprio come sei anni prima, la stanza era in penombra e gli occhi verdi di Iwaizumi, per Tooru, sembravano brillare.
Questa volta, però, a rompere il silenzio della notte e il rumorio dei macchinari fu Tooru.
Questa volta, vennero sussurrate ben più di due semplici ma importantissime parole.
«Grazie di essere rimasto…»
  
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