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Autore: Kaiidth    13/07/2020    0 recensioni
Jim represse un sospiro rassegnato, non voleva irritarla, le punizioni in quell’istituto erano decisamente dure – lo aveva imparato a proprie spese, poco dopo il suo arrivo – e la signora Kuida era tra le peggiori.
Doveva resistere per almeno due anni, su Tarsus IV, dopodiché sarebbe stata riesaminata la propria condotta e sarebbe potuto tornare sulla Terra. Doveva solo essere buono, essere un Kirk.
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James T. Kirk, Leonard H. Bones McCoy, Nyota Uhura, Spock | Coppie: Kirk/Spock
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Disclaimer: Star Trek non mi appartiene, quanto scritto è tutto frutto della mia fantasia e tutti i contenuti sono creati per diletto senza alcun fine economico. 
Note dell'autrice:
I capitoli di questa fanfiction (a parte i primi tre) non seguono sempre un ordine cronologico, poiché il lavoro intero può essere definito come un insieme di immagini - sprazi di vita - dei personaggi e di ciò che è loro accaduto da un certo momento in poi. Per questi motivi all'inizio di ogni nuovo paragrafo trovate delle date a cui, vi consiglio, di prestare attenzione per avere un riferimento cronologico. Ogni data va letta nel normato AAAA/MM/GG. Ho cercato di essere fedele ai personaggi - che, specifico, sono quelli della Kelvin Timeline - anche se ho dato una mia personale visione di tutti loro. Spero che vi piaccia e, se vi va, spero mi lasciate un commento per farmi sapere cosa ne pensate. 
Ringrazio infinitamente Giacomo, il mio fidanzato, per essersi prestato come Beta e per assecondare tutte le mie fantasie. A lui è dedicata questa fanfiction!
***

“You taught me the courage of stars, before you left
How light carries on endlessly, even after death
With shortness of breath, you explained the infinite
How rare and beautiful it is, to even exist”
Saturn – Sleeping at last
 

La sentenza

 
2246.5.3 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Jim aprì gli occhi quando un raggio di sole penetrò dalla finestra e si riversò su di lui. Mugolò assonnato, con la voglia di dare le spalle al caldo raggio di luce e ritornare a dormire, ma sapeva che di lì a poco sarebbe arrivata la signora Kuida a svegliarlo e intimargli di prepararsi. Valutò che alzandosi in quel preciso momento avrebbe avuto il tempo di darsi una pulita e vestirsi senza doversi sbrigare in soli cinque minuti.
Si alzò a sedere sul letto e si stiracchiò sbadigliando sonoramente, era sudato e le lenzuola gli si erano appiccicate addosso durante la notte. Odiava il caldo.
Si diresse verso il bagno e si liberò dei propri indumenti per buttarsi sotto la doccia fredda, represse una smorfia di disgusto quando il getto d’acqua lo colpì sulle spalle. La sostanza non poteva essere definita davvero acqua, era per lo più melmosa e veniva replicata. Tarsus IV era un pianeta mediamente caldo, tuttavia nonostante le risorse idriche non fossero scarse, la vera acqua veniva usata solo per bere, mentre per l’igiene personale o per altro veniva usata acqua replicata.
Cercò di lavarsi velocemente ed uscì dalla doccia asciugandosi e dirigendosi in camera per indossare dei vestiti puliti. Mentre si allacciava le scarpe sentì il rumore di passi che si abbattevano sul pavimento di linoleum fuori dalla porta seguito, dopo pochi secondi, da un tonfo contro la porta.
“James Tiberius Kirk hai cinque minuti per prepararti, dopodiché dovrai essere scortato alla mensa comune per la colazione”
“Arrivo” si limitò a urlare di rimando.
Finì di indossare i suoi vestiti e si spostò di nuovo in bagno per lavarsi i denti. Si guardò allo specchio dove fu fissato dai suoi stessi occhi azzurri accompagnati da profonde occhiaie scure e si passò una mano tra i capelli biondi per aggiustarli come meglio poteva. Aveva sempre avuto dei capelli ribelli, impossibili da gestire, e da quando era arrivato su quel pianeta aveva semplicemente smesso di provare a tenerli in ordine. Così come aveva smesso di tenere in ordine la sua vita.
Era un ragazzino, aveva solo dodici anni e, per quanto il pianeta Tarsus IV non fosse male, avrebbe preferito essere a casa sua, sulla Terra. Certo, non che a casa le cose andassero bene, sua madre non era mai presente, serviva sulla nave USS Farragut come Capo Ingegnere e le sue missioni la portavano sempre nello spazio, suo fratello Sam aveva deciso di andarsene e di lasciarlo solo.
“Non so come si fa ad essere un Kirk. Dimmelo tu, come ci riesci?”
Erano state le ultime parole che George Samuel Kirk, il suo amabile fratello, gli aveva rivolto. E lui non aveva saputo come rispondere, non sapeva come facesse ad essere un Kirk. Lui era Jim, solo Jim e nemmeno questo sembrava bastare.
Lui non lo sapeva, perché non conosceva neppure l’uomo da cui aveva ereditato quel cognome: George Kirk. L’uomo che era stato capitano per soli venti minuti e aveva salvato oltre duecento vite tra cui quella di sua madre e la sua. Ma quell’uomo era morto, esploso nello spazio, e tutto quello che Jim sapeva gli era semplicemente stato raccontato, ancora e ancora e ancora, fino alla nausea, fino a che non aveva imparato ad odiare quell’uomo.  
Quando aveva dato di matto, rubando la vecchia Corvette di suo padre, per ribellarsi allo zio Frank, il tutore suo e di suo fratello, aveva voluto fare semplicemente qualcosa per provare che lui non era solo un Kirk. Lui era Jim, solo Jim.
Ma questo non era più rilevante, suo zio aveva deciso, dopo la disavventura con l’auto, di inviarlo alla colonia su Tarsus IV, lì i minori problematici venivano seguiti da sociologi, insegnanti ed assistenti sociali, così da poter essere rieducati alla vita in società. O Tarsus, o la prigione.
Finì di prepararsi e si avvicinò alla porta della sua stanza, aprendola. La signora Kuida lo guardò con le labbra strette in una linea sottile.
“James, vedo che oggi sei puntuale. Seguimi, prego”
Jim represse un sospiro rassegnato, non voleva irritarla, le punizioni in quell’istituto erano decisamente dure – lo aveva imparato a proprie spese, poco dopo il suo arrivo – e la signora Kuida era tra le peggiori.
Doveva resistere per almeno due anni, dopodiché sarebbe stata riesaminata la propria condotta e sarebbe potuto tornare sulla Terra. Doveva solo essere buono, essere un Kirk.
 
 
 
2246.5.3 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Chi di voi sa dirmi la densità del pianeta Antares V?” chiese la signorina Taylor ad una classe poco attenta di ragazzini. Il silenzio calò su di loro, nessuno sembrava propenso a rispondere.
Jim conosceva la risposta, ovviamente, ma non voleva esporsi. Era lì da tre mesi, ormai, abbastanza da aver imparato che quella strana residenza era piena di ragazzi poco raccomandabili, ragazzi che per i più svariati motivi avevano violato la legge, e che i cervelloni non erano visti di buon occhio.
“Allora? Nessuno?” continuò la Taylor con un sorriso incoraggiante.
Era una bella donna, ancora nel fiore degli anni, con i capelli scuri racchiusi in uno chignon dietro la testa, un paio di occhi verdi e grandi accompagnati da un sorriso splendente. Jim si chiese come sarebbe stato averla come madre, di sicuro sarebbe stata una madre migliore della sua.
“Otto” rispose qualcuno, ridacchiando.
“Otto? Otto, cosa? Non è una risposta” sbuffò l’insegnante camuffando egregiamente la sua irritazione.
“Otto virgola sette grammi al centimetro cubo” si ritrovò a dire Jim, prima di pensare, prima di frenarsi. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi da solo.
“Benissimo James! Risposta corretta” sorrise la signorina Taylor.
“Si, bravissimo James” sussurrò qualcuno dietro di lui.
Un brivido di terrore attraversò la schiena di Jim, era tardi per riavvolgere il nastro.
Se solo non avesse scaraventato quella dannata Corvette giù dal burrone.
 
Una campanella squillò segnando la fine delle lezioni mattutine e l’inizio dell’ora di pranzo.
Jim prese il suo PADD e si avviò verso l’uscita, gli altri ragazzi stavano uscendo, capitanati dalla signorina Taylor. Jim arrivò alla porta dell’aula ma poco prima di attraversarla fu trascinato all’indietro e, senza nemmeno avere il tempo di voltarsi, fu sbattuto a terra. Vide un’ombra abbassarsi su di lui e un sorriso cattivo poco lontano di suoi occhi.
“Allora, Jimmy, ci vuoi fare l’onore di dirci qual è la densità di Antares V? O la sua massa? O la sua temperatura? Sei un cervellone, vero? Cos’è, speri di andare a lavorare su Vulcano?”
Jim non rispose, si sentiva paralizzato e terrorizzato da quel ragazzo. Era almeno due volte più alto e grosso di lui che era piuttosto gracile. Inoltre non si era mai ritrovato in una scazzottata, dunque non sapeva davvero come fare a botte.
“Io…” iniziò, senza sapere cosa dire.
“Tu? Tu cosa? Eh? Vuoi farci passare per idioti?”
Ma voi siete idioti, pensò internamente, ma non osò continuare.
Vide una mano alzarsi e d’istinto chiuse gli occhi per non dover guardare mentre quel ragazzino lo picchiava per aver risposto correttamente ad una domanda.
Ma il colpo non arrivò, al suo posto arrivò una voce “Che cosa ci fate ancora qui? Siete attesi al refettorio, muoversi!”
Era la signorina Taylor, constatò Jim, aprendo gli occhi.
“Si, signorina. Stavamo aiutando James a rimettersi in piedi, perché era inciampato” rispose il ragazzo accanto a lui, gli rivolse un’occhiata cattiva prima di mettersi in piedi.
Jim si alzò lentamente e aspettò che gli altri se ne andassero, strinse al petto il proprio PADD e si trascinò lentamente verso la mensa.
Solo due anni.
 
“Avete sentito? Sono in arrivo degli studenti da Vulcano, inizieranno ad insegnare a noi delle medie”
La ragazza accanto a sé stava parlando animatamente con altre due amiche. Jim le guardò per un momento, prima di rivolgere lo sguardo alla zuppa abbandonata nel suo vassoio, che attendeva di essere mangiata.
Odiava il cibo in quel posto, molto probabilmente per via dell’acqua che usavano per cucinare, ma aveva tutto un sapore viscido, acre. Suo zio Frank non era mai stato un asso a cucinare, ma il cibo – qualunque cibo – sulla Terra aveva un sapore migliore di questo.
Nonostante tutto, non gli mancava Frank, i suoi insulti, le sue botte, le serate in cui tornava a casa ubriaco fradicio e lui e Sam si nascondevano in camera, sotto le lenzuola, per non stargli tra i piedi.
“Cosa? E perché dovrebbero mandare quei computer umani in questo buco di merda?”
Jim ingurgitò un cucchiaio di zuppa, una smorfia di disgusto gli comparve sul volto, ma continuò a mangiare. Non poteva alzarsi senza aver prima svuotato il suo piatto, lì su Tarsus IV non era possibile sprecare il cibo.
“Siamo in una colonia spaziale, in un territorio che non permette l’agricoltura e l’allevamento di bestiame, le risorse sono limitate. Qui non sprechiamo neppure un chicco di riso” gli aveva detto la signora Kuida il primo giorno, dopo che si era rifiutato di mandare giù la sua cena. Ovviamente non gli era stato detto in maniera gentile, niente in quel posto era gentile.
“Che ne so, io! Sarà sicuramente divertente provare a fargli perdere la calma” rise la ragazza accanto a lui.
Vulcaniani.
Magari, pensò Jim, la presenza di quei Vulcaniani avrebbe cambiato le cose, magari tra loro ci sarebbe stato qualcuno con cui fare amicizia, qualcuno che non era stato mandato lì dopo aver rubato, ucciso, truffato. Qualcuno che non cercasse di picchiarlo per il solo fatto di aver risposto correttamente ad una domanda.
Magari.
Magari.
 
 
 
2246.5.12 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Il Governatore Kodos sta per fare un annuncio, ragazzi per favore, mettetevi in fila e raggiungete la mensa” ordinò la signorina Shenna. La classe, fino a poco prima assopita, si riscosse e un sottile brusio iniziò a propagarsi tra gli altri ragazzi.
“Chissà che cosa ci dirà”
“Forse ci lascerà andare a casa, forse siamo stati tutti perdonati”
“Forse è successo qualcosa sulla Terra”
Jim si alzò lentamente e seguì la fila fino alla mensa. Nessuno parlava con lui e gli andava bene. In cuor suo sperava che qualcuno di loro avesse ragione, che li avessero perdonati tutti e che sarebbero stati mandati di nuovo alle loro case.
Frank, ecco chi lo aspettava. Ma era meglio di questo posto di merda.
Raggiunsero la mensa insieme ai ragazzi delle altre classi accompagnati dai loro insegnanti. C’erano tutti, doveva essere qualcosa di importante.
Jim si rese conto di non aver mai visto il Governatore Kodos, nonostante gli adulti ne parlassero spesso con un tono reverenziale, era curioso di vedere l’uomo che guidava la colonia.
I suoi pensieri furono interrotti dall’immagine dalla riproduzione olografica di un uomo che si propagò al centro della mensa. L’uomo che Jim vide aveva un fisico asciutto, alto e indossava una divisa blu con l’insegna del Pianeta cucita sulla spalla destra, il suo volto appuntito era incorniciato da capelli scuri e riccioluti. Sembrava giovane, non mostrava di avere più di quarant’anni e Jim si sorprese di questa constatazione, poiché lo aveva immaginato più anziano. Di solito i politici erano sempre dei vecchi noiosi e con problemi di peso.
“Cari cittadini e visitatori di Tarsus IV” cominciò “vi ringrazio per la vostra attenzione e vi prometto che la comunicazione sarà breve. Come sapete, per lunghi anni questo Pianeta ha vissuto nel benessere e nella pace, la Flotta Stellare ci ha sempre protetti, ma noi unendo le forze siamo riusciti a creare qualcosa di più di una semplice colonia, siamo riusciti a creare un Pianeta quasi del tutto indipendente e unico”
Jim lo fissava attentamente, nonostante le belle parole e il sorriso dipinto sulle labbra, c’era qualcosa negli occhi del Governatore che non lo convinceva. Il sorriso non raggiungeva gli occhi scuri, che restavano freddi e impenetrabili, come gli occhi di un predatore.
“Tuttavia, dipendiamo ancora dalle risorse di cui la Flotta ci rifornisce con cadenza annuale. Nonostante i nostri tentativi di trasformare la terra per renderla adatta all’agricoltura, attualmente possiamo solo affidarci ai rifornimenti che la Flotta ci invia. È proprio questo il motivo che mi spinge ad essere qui, oggi, per informarvi con rammarico di un increscioso avvenimento. È stata recentemente scoperta la presenza di un fungo esotico, non originario del Pianeta sul quale cui viviamo, le spore di questo fungo non sono pericolose per l’uomo, quanto per il cibo. Quest’oggi abbiamo scoperto che più della metà delle risorse nei nostri magazzini sono andate completamente distrutte”
Qualcuno alle spalle di Jim inspirò rumorosamente, ma lui non si girò, continuando a fissare la figura al centro della stanza che manteneva una postura rilassata. Nonostante il Governatore li stesse informando sulla distruzione del loro cibo, manteneva una calma surreale.
“Abbiamo già inviato comunicazione alla Flotta Stellare affinché provveda a rifornirci quanto prima delle risorse necessarie e affinché ci supporti nell’eliminazione della minaccia. Sarà studiato il fungo e le sue spore, per determinarne la provenienza, chiunque sia stato a portare questo batterio sul nostro Pianeta, sarà severamente punito. Sarà fatto quanto possibile affinché si giunga ad una soluzione nel più breve tempo possibile, in modo che nessuno tra voi possa soffrire”
Nessuno.
In modo che nessuno tra voi possa soffrire.
Il Governatore li aveva semplicemente aggiornati sulla situazione attuale, e lo aveva fatto rassicurandoli di non preoccuparsi di nulla.
La mensa, fino ad allora ammutolita, si animò del vociare degli studenti e degli insegnanti, sentì qualcuno mormorare “Dovremo razionare il cibo dell’istituto”.
Non sembrava esserci davvero qualcosa di cui preoccuparsi.
Eppure Jim non riusciva a non sentirsi dannatamente preoccupato.
 
 
 
2246.5.16 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Buongiorno a tutti, vi presento Solok, è Vulcaniano ed è qui insieme ad altri studenti di Vulcano per supportare la vostra e le altre classi durante le lezioni. Solok e gli altri Vulcaniani fanno parte di uno speciale programma creato dal Dipartimento dell’Istruzione Interplanetaria per far sì che oltre all’apprendimento scolastico, possiate apprendere anche usi e costumi di altri popoli”
Jim osservò il ragazzo Vulcaniano che sostava accanto alla signorina Taylor.
Era la prima volta che vedeva un Vulcaniano, se non si consideravano le fotografie olografiche relative al Primo Contatto e altri grandi avvenimenti storici nella la lunga relazione tra la Terra e Vulcano.
Solok stava fermo, con la schiena tesa e le braccia abbandonate lungo i fianchi, aveva capelli corti, quasi rasati e lunghe orecchie che terminavano a punta. Non era il primo alieno che vedeva, e neppure il più strano, tuttavia c’era qualcosa in Solok che lo rendeva particolare. Forse la completa mancanza di espressione sul suo volto, si disse Jim.
“Bene, Solok, che ne dici se per il tuo primo giorno qui con noi, ci parlassi di Vulcano e condividessi informazioni sul tuo Pianeta, così che tutti possano conoscere meglio il posto dal quale provieni?”
Solok volse il suo sguardo inespressivo sulla signorina Taylor, che di rimando sorrideva mestamente, e annuì.
“Molto bene. Il mio nome è Solok, eviterò di esporre il mio nome completo poiché sarebbe illogico pensare che voi possiate comprenderlo pienamente o, ancora, riprodurlo. La lingua Vulcaniana è una lingua complessa per molti popoli non originari. La Stella Solare di Vulcano è Quaranta Eridani A, e all’interno del sistema annoveriamo pianeti come Andoria, Betazed e Tellar. Il pianeta percorre un’orbita troiana attorno al sole insieme al proprio gemello T’Kuth, difatti ogni sette punto due anni i pianeti si incontrano ed è possibile osservare il Pianeta T’Kuth dalla superficie di Vulcano. Il periodo di rotazione orbitale ammonta a centosettantasette punto sei giorni standard con un gradiente orbitale di zero punto cinquantasei AU”
Jim continuò a fissare Solok, la sua voce era monotona senza alcun tipo di cadenza o ondulazione, non c’era alcuna enfasi nelle sue parole. Parlava come se le informazioni fossero già tutte registrate nella sua testa, come se non avesse la necessità di fermarsi a formulare una frase prima di parlare. Era interessante ma allo stesso tempo inquietante.
Forse sono davvero dei computer umani, pensò.
 
 
 
2246.5.22 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Ragazzi in ordine, senza correre! Tornate subito alle vostre stanze” la signorina Kah cercava di mantenere la calma, ma le sue mani tremavano e i suoi grandi occhi azzurri erano pieni di terrore.
Jim era confuso, non sapeva che cosa stesse succedendo.
Pochi minuti prima era scattato l’allarme dell’istituto e Solok, che quel giorno stava tenendo una lezione di storia Terreste, aveva smesso di parlare e si era girato a guardare l’insegnante, senza alcuna espressione sul volto. Lei, però, aveva assunto un’aria terrorizzata mentre scattava in piedi correndo ad aprire la porta della classe, nel corridoio avevano già cominciato a passare i primi insegnanti seguiti dai propri ragazzi.
L’allarme era assordante e ora tutti si ritrovavano a muoversi velocemente verso i propri dormitori. Jim riuscì a dare un’occhiata veloce verso la finestra e notò tre colonne di fumo che si alzavano verso il cielo. Sembrava che ci fossero state delle esplosioni o che fossero scoppiati degli incendi, molto probabilmente c’era stato un attacco contro la colonia di Tarsus IV.
Fu spinto da qualcuno dietro di lui che gli urlò “Cammina, stronzo!”
Si rimise in marcia il più velocemente possibile. Attorno a lui si alternavano voci, qualcuno urlava, altri piangevano. L’allarme sembrava diventare sempre più assordante ad ogni passo verso il dormitorio, di secondo in secondo la sua intensità aumentava. O forse era solo la sua immaginazione.
Voltò l’angolo prima delle scale che lo avrebbero condotto ai dormitori, ma non riuscì a mettere neppure un piede sul primo gradino. Qualcuno lo afferrò per una spalla e lo fece voltare bruscamente, vide un uomo, alto, con un fucile sonico puntato verso di lui.
Jim sgranò gli occhi, il cuore sembrò fermarsi e il sangue ghiacciarsi nelle vene, che diavolo stava accadendo?
“Vieni con me, moccioso!” gli urlò l’uomo.
Aveva la divisa rossa delle guardie di Tarsus IV, la riconosceva poiché quando era arrivato alla colonia era stato accolto dai militari che lo avevano scortato fino all’istituto. Erano venuti a prenderlo? Che cosa aveva fatto?
Si guardò intorno, cercando di capire che cosa potessero volere da lui le guardie, ma notò che c’erano molti altri soldati e che non era l’unico ragazzo ad essere stato fermato. I militari stavano scortando tutti fuori, ad attenderli c’era un hovercraft di quelli che usavano sulla Terra per muoversi tra le città.
Fu trascinato fuori, senza tante cerimonie. Quell’uomo era forte e la presa sul suo braccio faceva male.
Ma che cazzo succede? pensò.
Non riusciva a parlare, era troppo scioccato per farlo, si rese conto che la sua gola era secca e la sua lingua sembrava incollata al palato.  
Fu gettato in malo modo sul veicolo, e qualcuno lo accolse con un calcio alla gamba destra, spingendolo verso un sedile “Siediti e stai fermo”. A parlare era stata una donna con un fucile in mano, lo guardava con occhi più freddi del ghiaccio e l’espressione più dura del marmo.
Era una donna e lo stava minacciando.
Era una donna.
Mamma, pensò.
Si sedette e notò che sull’hovercraft c’erano altri ragazzi come lui, erano tutti immobili, alcuni tremavano e altri piangevano terrorizzati. Nessuno di loro parlava. Scorse la signorina Taylor e un ragazzo Vulcaniano. Non era Solok, però. Avrebbe voluto chiedere a loro che cosa stesse accadendo, avrebbe voluto parlare o urlare ma non poteva, non ci riusciva.
Un’altra guardia tornò lanciando sul mezzo un altro ragazzo, Jim lo guardò e con sorpresa si accorse che era Son, il ragazzo che quasi due settimane prima lo aveva minacciato in classe. Son venne spinto rovinosamente a terra e la donna soldato gli regalò un calcio alla schiena. Il ragazzo urlò, si lamentò e provò a rialzarsi.
“Vai verso il tuo sedile e non fiatare, altrimenti te la vedrai con il mio fucile” disse la donna.
Son si girò molto lentamente, la guardò in cagnesco per qualche secondo prima di sputarle in faccia “Muori, brutta cagna!” urlò, fece forza sulle braccia e si slanciò verso di lei per aggredirla.
Non fece in tempo a toccarla che una guardia fuori dall’hovercraft puntò il fucile verso di lui, ci fu un raggio di luce rossa accompagnata da un suono gutturale e Son cadde a terra con gli occhi aperti e la bocca ancora ferma in una smorfia di rabbia e dolore.
Son era morto e Jim tremò, perché quel ragazzo aveva cercato di picchiarlo solo poche settimane prima, quel ragazzo era stavo vivo pochi secondi prima. E ora era morto, in un urlo muto dipinto sul suo volto per sempre.
 
“La rivoluzione è stata un successo, ma la sopravvivenza richiede misure drastiche. La vostra esistenza è una minaccia per il benessere dell’intera comunità. Le vostre vite significano una morte lenta per i restanti membri di valore della colonia. Per questi motivi non ho alternative se non condannarvi a morte. La vostra esecuzione è stata ordinata e firmata da Kodos, Governatore di Tarsus IV”
Jim fissò il podio con gli occhi sgranati, intorno a sé era accalcata una moltitudine di persone che tremavano, piangevano, gemevano di dolore. Erano in molti, troppi, sembrava che l’intera colonia fosse stata portata in quella piazza per ascoltare quelle parole folli. Il Governatore Kodos era in piedi sul podio, una figura piccola in lontananza, eppure Jim poteva giurare di sapere che sguardo avesse, quale fosse la luce nei suoi occhi. Se si fosse avvicinato, sapeva che avrebbe visto lo stesso sguardo di pochi giorni prima, solo freddo calcolo, durezza e impenetrabilità.
Gli occhi di un predatore.
Non ho alternative se non condannarvi a morte.
Il respiro si fece pesante, continuò a guardarsi intorno e notò qualcuno dei ragazzini dell’istituto, si stringevano tra loro, alcuni piangevano, avrebbe voluto raggiungerli per stare con loro, ma non lo avrebbero voluto lì. Lo avrebbero rifiutato proprio come avevano fatto all’istituto. Si rese conto di essere completamente solo.
Sarebbe morto da solo.
Represse le lacrime che minacciavano di sfuggire al suo controllo, non voleva piangere, non voleva crollare e darla vinta alla bestia che li fissava dall’alto del podio. Non avrebbe lasciato che vincesse lui, doveva essere qualcosa da fare, un modo per fuggire da quell’assurda situazione.
Aveva dodici anni, non poteva morire in quel modo!
Si guardò intorno, la piazza era circondata dai grandi edifici della colonia e qualche villa di lusso, in lontananza la vallata era accerchiata dalle montagne.
Pensa, Jim.
“Seguite le squadre di sicurezza, se resisterete non farete altro che velocizzare la vostra esecuzione” Kodos scese dal podio e si allontanò velocemente.
Le squadre che sostavano intorno alla piazza, facendo scudo alle persone raccolte al suo centro, si mossero e iniziarono a raccogliere gruppi di persone per portarli nel luogo della loro esecuzione.
Qualcuno iniziò a correre per scappare dalle guardie, altri cercarono di emularli e ben presto le squadre di sicurezza iniziarono a sparare sulla folla per sedare ogni tentativo di rivolta. Jim non ci pensò due volte e iniziò a correre verso l’uscita est della piazza, era quella più vicina a lui ed era orientata verso le montagne. Corse trattenendo il respiro, come se sotto i suoi piedi la terra si fosse aperta e ci fossero solo fiamme. Corse per salvarsi la vita. Corse come se fosse ancora in quella dannata Corvette sulla Terra e volesse lanciarsi giù dal burrone.
Qualcuno lo spinse e cadde con la faccia a terra, venne calpestato e urlò dal dolore ma cercò di farsi forza e alzarsi in fretta oppure sarebbe stato schiacciato da centinaia di piedi. Il sangue gli colava sul volto, non sapeva da dove fuoriuscisse ma, si rese conto, non importava, devo correre! Correre!
Si rialzò e ricominciò a correre, le urla erano assordanti, le mani lo spingevano via dalla sua meta e i laser gli sfrecciavano accanto.
Lo avrebbero ucciso. Lo avrebbero ucciso comunque, quindi tanto valeva correre nel tentativo di salvarsi.
Qualcuno lo urtò e si ritrovò a barcollare di nuovo, sarebbe caduto se una mano non lo avesse trattenuto per il braccio. Jim si voltò pronto a liberarsi ma ciò che vide fu solo un ragazzino Vulcaniano che lo guardava e lo tratteneva.
Jim lo fissò confuso, un senso di sollievo gli si propagò nel ventre, aveva temuto che fossero le guardie ad averlo raggiunto. L’altro gli fece segno di avviarsi verso l’uscita della piazza.
Un laser sfrecciò a pochi centimetri dal volto del Vulcaniano e Jim si riscosse, si piegò in avanti cercando di proteggersi la testa con le mani e annuì all’altro.
Dovevano correre, correre più velocemente possibile.
Correre. Corri! Corri, Jim!
E corsero, veloci come lampi, sgattaiolando tra le gambe della gente, gli spari dei fucili, le urla, le lacrime e i corpi.
I corpi!
Corsero e raggiunsero il muro che separava la piazza dal primo anello della città, vi si appiattirono contro come a voler diventare un tutt’uno con questo. L’uscita, come era ovvio, era sorvegliata dalle squadre di Kodos, i due ragazzi si resero conto che non sarebbero mai riusciti a passare di lì.
Jim guardò l’altro ragazzino, erano in trappola e i militari li avrebbero trovati a breve per giustiziarli.
Il Vulcaniano non lo guardava, aveva lo sguardo concentrato mentre osservava l’ambiente circostante, si voltò verso il muro e si piegò sulle ginocchia.
“I canali di scolo, siamo entrambi adeguatamente sottili da passare”
Jim lo guardò confuso, poi capì cosa gli era appena stato detto. I canali di scolo servivano a far defluire l’acqua durante la stagione delle piogge sul Pianeta, quell’acqua veniva raccolta, filtrata e riutilizzata. Forse potevano farcela, annuì al Vulcaniano.
L’altro ragazzo afferrò le sbarre della grata di ferro ai piedi del muro e con forza la tirò verso di sé, quando questa fu liberata dal suo supporto agilmente il Vulcaniano infilò la testa e le braccia nel passaggio e vi si calò velocemente. Jim non ci pensò due volte e fece lo stesso.
Corri, Jim, si disse mentre cadeva nel vuoto e nel buio dei canali di Tarsus IV.
 
Jim cadde a terra stremato, respirò affannosamente con gli occhi chiusi. Le gambe gli facevano male e non sarebbe riuscito a fare un altro passo neppure raccogliendo le poche energie che gli erano rimaste.
Cadde sulle ginocchia aggrappandosi al muro accanto a lui.
“Non possiamo restare qui, abbiamo percorso solo tre punto cinquantasei chilometri. Quando noteranno che la grata è stata rimossa sapranno che siamo scappati e ci seguiranno”
Jim represse un’occhiataccia al Vulcaniano. Non voleva litigare con lui e neppure perdere del tempo prezioso, ma non riusciva a muoversi e il solo pensiero di riprendere a camminare gli faceva girare la testa.
“Non ce la faccio, sono troppo stanco” disse mentre si metteva seduto, abbandonando la schiena contro il muro.
“Voi Terrestri siete deboli” disse l’altro.
“Beh scusami Vulcano, puoi lasciarmi qui se sono un peso per te” grugnì di rimando.
L’altro non disse altro, rimase in piedi a guardarsi intorno con le mani abbandonate lungo i fianchi e la schiena rigida.
“Perché ci stanno uccidendo? Perché?” mormorò a sé stesso. Avrebbe voluto piangere, ma non poteva permetterselo.
“Le risorse alimentari sono limitate, rovinate dalle spore di un fungo esotico –” rispose il Vulcaniano.
“Sì, lo so questo! L’ho capito” Jim poggiò anche la testa contro il muro, avrebbe voluto chiudere anche gli occhi, ma non lo fece “ma perché ucciderci? Il Governatore aveva chiaramente detto di aver comunicato con la Flotta Stellare e che ci avrebbero aiutati”
L’altro ragazzo si voltò a guardarlo, lì nel buio era difficile vedere davvero “Tuttavia, e queste sono solo mere ipotesi, la Flotta Stellare sta tardando e le risorse per tutti i coloni sono terminate. A fronte di questo è evidente che, per permettere la sopravvivenza di almeno metà della colonia, il Governatore abbia deciso di decimare l’altra metà. Questa scelta è stata fatta secondo il principio dell’utilità. Chi è più utile viene lasciato in vita, chi meno utile, viene ucciso”
Jim sorrise amaramente “Da come ne parli sembra che concordi con lui”.
“Sto semplicemente riportando i fatti. Ed ora dovremmo continuare a muoverci, sono passate due punto zero sei ore standard. Sono le ore diciotto e dovremmo cercare un modo per raggiungere le montagne”
“Si, si hai ragione” sospirò il terrestre facendosi forza per alzarsi, le gambe doloranti però non volevano saperne di muoversi.
“Sei fisicamente impedito” accertò il Vulcaniano.
“Sì, sono stanco. Puoi andare avanti, nel caso non dovessero trovarmi allora ti cercherò”
L’altro scosse il capo e si avvicinò a Jim. Nel buio non era facile capire che cosa stesse facendo l’altro ragazzo, ma ben presto Jim capì che lo stava semplicemente prendendo in braccio, per portarlo di peso verso la loro meta.
“Che diavolo… no! Lasciami. Non puoi portarmi così, ti stancherai e sarà finita per entrambi!”
“Devo ricordarti che i Vulcaniani sono tre volte più forti dei Terrestri. Inoltre così facendo raggiungeremo più velocemente la nostra meta, e non ti lascerò qui”.
 
Era ormai buio quando raggiunsero l’imboccatura del canale alla fine del quale si estendeva un tunnel che terminava la sua corsa in una rientranza nel terreno, questa era coperta da una grata sottile e, molto probabilmente, serviva da filtro per l’acqua piovana che fluiva nel condotto. I due attraversarono velocemente il tunnel e riuscirono a trovare una scala che conduceva in alto dove un’altra grata li attendeva.
Una volta usciti si resero conto di essere oltre le mura della città e, guardandosi intorno, si accorsero di trovarsi ai piedi di un bosco.
Tarsus IV era un pianeta di classe M, molto simile alla Terra e i boschi e le montagne, seppure composti da una flora e una fauna diverse da quelle terrestri, le ricordavano vivamente.
“Siamo usciti” sospirò Jim.
“Esatto” gli fece eco il Vulcaniano.
Jim respirò a pieni polmoni cercando di dimenticare il tanfo e l’odore acre dei canali da cui erano appena usciti, ora dovevano cercare un posto in cui stare che fosse abbastanza lontano dalla città.
“Dovremmo entrare nel bosco” disse guardando il compagno. Si rese conto di non sapere neppure il suo nome, nonostante quel ragazzino lo avesse aiutato più di una volta quel giorno.
“Come ti chiami, a proposito?”
Il Vulcaniano lo guardò, inarcò un sopracciglio prima di riprendere a guardare il bosco “Il mio nome sarebbe difficile da comprendere e da pronunciare per un Terrestre”
“Beh, dovrò pur chiamarti in qualche modo. Se non me lo vuoi dire allora scegli almeno un modo in cui potrei chiamarti. Io mi chiamo Jim, ma puoi chiamarmi J”.
Il Vulcaniano annuì, prima di incamminarsi verso il bosco “Mi chiamo S’chn T’gai Spock, ma puoi chiamarmi Shin”.
Jim gli fu subito dietro.
 
Camminarono per minuti o forse ore, ormai non lo sapevano più neanche loro. Beh, forse Shin lo sapeva, sembrava sapere sempre tutto. Il percorso che avevano scelto era in salita, la debole luce della luna di Tarsus IV era di poca utilità poiché la vegetazione era così fitta da non lasciarla filtrare. Erano in un buio del tutto accecante senza considerare anche la stanchezza, la fame e la paura che li aveva accompagnati per tutto il giorno. E nonostante fossero vivi c’era qualcosa che sembrava presagire che stessero solamente prolungando la loro agonia prima della morte.
Shin si fermò all’improvviso guardando fisso di fronte a sé, Jim gli fu accanto subito dopo ma poco prima di chiedere il perché si fosse fermato l’altro alzò una mano per zittirlo.
Molto probabilmente, pensò Jim, il suo amico stava percependo qualcosa, i Vulcaniani avevano un udito molto più sviluppato rispetto ai Terrestri.
“C’è acqua a uno punto sette chilometri da qui. Nel bosco, attualmente, oltre a suoni appartenenti alla fauna locale non sembrano esserci altri esseri umani. Tuttavia, date la mia stanchezza fisica e mentale, potrei sbagliarmi. In questo caso il tasso di errore potrebbe essere –” ma Jim lo interruppe bruscamente.
“No, nessun tasso di errore. C’è acqua, al momento preoccupiamoci di una cosa alla volta. Potremmo avvicinarci all’acqua e alle prime luci del mattino proseguire verso la fonte, potrebbero esserci delle grotte o qualcosa del genere”.
Shin alzò un sopracciglio, la sua espressione rimase tuttavia immutata “Molto bene. Da questa parte” disse, prima di incamminarsi verso il suono dell’acqua.
“Shin” iniziò Jim, mentre camminavano verso la loro meta, i passi trascinati e il respiro pesante “volevo ringraziarti per quello che hai fatto oggi. Per avermi portato nei canali con te e per non avermi lasciato lì. Scusami se a volte sono brusco, io…” non sapeva come continuare. Lui cosa? Era semplicemente spaventato, terrorizzato, confuso, arrabbiato. Ecco perché a volte era brusco. Eppure quel ragazzo Vulcaniano lo aveva aiutato e lui non aveva fatto altro che trattarlo male.
Il verso gutturale di un uccello notturno spezzò il silenzio.
“Non c’è motivo di ringraziarmi, né di scusarti. Sei emotivamente compromesso dopo gli avvenimenti di quest’oggi”
Jim sorrise “Emotivamente compromesso?
L’altro annuì con un solo movimento del capo.
“A volte voi Vulcaniani parlate in modo strano”.
L’altro non rispose, continuando a camminare.
“La nostra unica colpa è essere vivi, dunque? È per questo che Kodos ci vuole uccidere? Per l’unico, semplice, dannato motivo che siamo vivi?”
L’uccello continuò con il suo verso simile a quello di una civetta. Era molto probabilmente un Korl, un rapace tipico dei boschi di Tarsus IV, Jim lo aveva studiato all’istituto.
“È esatto. Nonostante io non convenga sulla moralità delle azioni del Governatore, è tuttavia una scelta dettata dalla logica. Per poter permettere la sopravvivenza della colonia, è necessario decimare la sua popolazione”.
“Significa che per te è giusto che siamo stati condannati a morte? No, Shin, no! Non lo accetto. Chi può giudicare quanto vale una vita? Se la mia vita è più o meno importante di quella di un altro? Chi può giudicare la mia vita o la mia morte?”
“Eppure voi terrestri avete una lunga storia di condanne a morte. Se ricordo bene l’ultimo Stato ad aver abolito la pena di morte, è stato il Giappone solo duecento anni fa”.  
“Ma siamo cambiati! Inoltre questo non ci rende tutti uguali, tutti favorevoli alla pena di morte. Io non posso e non voglio che la mia vita venga giudicata! Non così”.
Shin non parlò più e i due continuarono a camminare ancora per molto tempo.
 
Quella notte i due ragazzi dormirono e non sognarono, dormirono pur rimanendo svegli. Fu la notte più lunga e la notte più fredda della loro vita.
Dormirono ascoltando i suoni del bosco, dormirono ascoltando lo scorrere dell’acqua nel ruscello.
Non c’era niente che potessero fare, nessun posto dove andare.
Solo quella mattina Jim si era svegliato nella sua stanza all’istituto, solo quella mattina aveva mangiato alla mensa, aveva mandato giù il cibo senza alcuna voglia, aveva odiato il suo essere lì. Solo quella mattina era stato un ragazzo problematico in un istituto per ragazzi problematici. Ma era stato un ragazzo.
Un ragazzo.
E ora? Ora cos’era?
Sei un fuggitivo, ora. Sei un fuggitivo su un Pianeta che non è la Terra, sei un ricercato e se ti trovassero ti ucciderebbero.
Era un fuggitivo che lottava per la sua vita, che lottava contro la morte.
Nel buio della foresta, tra i versi dei Korl, lo scrosciare dell’acqua e il respiro leggero di Shin, non era altro che un fuggitivo e questo pensiero lo tramortiva come un colpo alla testa.
Nel buio e silenzio gli ritornarono in mente, con una vividezza disarmante, le immagini di quella giornata trascorsa, le parole del Governatore, le urla e i pianti e gli spari. La gente che scappava, i corpi di chi era stato colpito. I corpi. Aveva visto bambini, anziani, adulti, erano solo corpi ora, solo corpi pronti a decomporsi.
E lui aveva solo dodici anni. Solo dodici anni.
“Ma la sopravvivenza richiede misure drastiche”
Chiuse gli occhi e trattenne il respiro, voleva ricacciare indietro l’immagine di Kodos, nella sua divisa da Governatore, che parlava alle sue vittime dal podio.
“La vostra esistenza continua ad essere una minaccia per il benessere dell’intera comunità”
E allora?
E allora? si chiese Perché devo essere ucciso? E allora? Perché qualcun altro deve essere ucciso?
“Per questi motivi non ho alternative se non condannarvi a morte”
A morte.
Ripensò a Son che quella stessa mattina aveva lottato, scagliandosi contro il soldato e che era morto dinanzi a lui, con gli occhi sgranati.
E allora?
Una vita non dovrebbe valere nello stesso modo di quella di un altro? Perché io valgo di meno? Perché dovrei?
Ma non c’erano risposte.
Rilasciò un sospiro tremulo mentre continuava a tenere gli occhi chiusi e il cuore pesante.
“E allora?” mugugnò con la voce spezzata.
E allora?
“Non voglio morire. Non voglio morire solo perché ho avuto la colpa di vivere”.
Non si guardò intorno, pianse con gli occhi chiusi, pianse in silenzio. Pianse tutte le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento.
Pianse perché era buio, pianse perché era ora.
Pianse perché non avrebbe più potuto piangere da quel momento in poi. Avrebbe dovuto lottare, come aveva fatto Son. Avrebbe dovuto lottare o morire.
Lottare o morire.
“La mia vita vale quanto quella di un altro” sospirò.
“La tua vita vale, J, quanto quella di un altro” gli rispose un sospiro.
E quello fu il suo unico, grande, conforto. La voce di Shin.
 
continua... 
Grazie per aver letto sin qui.
   
 
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