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Autore: Cassidy_Redwyne    14/07/2020    0 recensioni
Prurìgine s. f. [dal lat. prurigo -gĭnis, der. di prurire «prudere»]. - letter. Prurito; in senso fig., eccitazione erotica.
"Chino sul simulacro della sua dea, i capelli color della pece che gli coprivano disordinatamente gli occhi, passava le dita flessuose sulla corda, con un movimento preciso e delicato al pari di un suonatore d'arpa.
Era stato quel gesto a colpire Fedra.
D’un colpo aveva realizzato la sconvolgente bellezza del figliastro."
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«᾽Eπεί μ᾽ἔρως ἔτρωσεν, ἐσκόπουν ὅπως
κάλλιστ᾽ ἐνέγκαιμ᾽ αὐτόν,
[...] σιγᾶν τήνδε καὶ κρύπτειν νόσον.»

«Da quando amore mi ferì, io cercai
come sopportarlo nel modo più nobile,
[...] tacere e nascondere questo morbo.»

(vv. 392-393.395)

 

All'inizio sembrava una cosa di poco conto.

Aveva fatto capolino in un recondito angolo della sua mente, un giorno come molti altri, ma aveva tutta l'aria di essere uno di quei pensieri che dopo un po' svaniscono nel nulla, se non uno non vi riflette troppo intensamente.

Tutto era cominciato quando un mattino, mentre attraversava a passo svelto i giardini per rientrare a palazzo, aveva distrattamente posato lo sguardo su di lui, tutto intento a incerare il suo arco all'ombra degli alberi. Era così preso dalla sua opera che non l'aveva nemmeno notata. Chino sul simulacro della sua dea, i capelli color della pece che gli coprivano disordinatamente gli occhi, passava le dita flessuose sulla corda, con un movimento preciso e delicato al pari di un suonatore d'arpa.

Era stato quel gesto a colpire Fedra.

D'un colpo aveva realizzato la sconvolgente bellezza del figliastro.

Non vi aveva mai riflettuto a lungo, a dire il vero. Le occasioni in cui i due si incrociavano erano rare e quelle in cui scambiavano qualche parola ancor di più, soprattutto se il re non era con loro. La donna, come Teseo aveva voluto, non sapeva molto del fanciullo: era a conoscenza solo della sua straordinaria dedizione verso la caccia, che andava di pari passo con la sua fedeltà alla dea che la proteggeva.

Dopo quell'episodio, invece di sparire come Fedra, in cuor suo, avrebbe desiderato, quel pensiero cha pareva piccolo e del tutto insignificante era cresciuto ancor di più. Come un prurito sottopelle, terribilmente fastidioso, a cui ci si sforza di non pensare nella speranza che passi.

Così la donna di ostinava a far finta che non esistesse. Faceva finta che il consueto gesto di Ippolito di scompigliarsi i ricci neri con una mano per scoprirsi la fronte non le facesse venire improvvisamente la gola secca, anche se la sua ancella le aveva appena servito da bere; o che, quando i loro occhi si incrociavano per una frazione di secondo, il suo cuore non scalpitasse come un cavallo che si oppone al morso.

Le cose si erano complicate ancor di più da quando Teseo era stato costretto a lasciare il palazzo per un breve periodo. Durante il giorno si evitavano abilmente, muovendosi ognuno nel rispettivo territorio: Ippolito trascorreva le sue giornate a caccia nel bosco, lei a palazzo, a fare le veci del marito. Ma quando calava la sera, le membra si indolenzivano e gli stomaci iniziavano a brontolare, i due erano costretti a sedersi alla stessa tavola, per di più senza la presenza conciliante di Teseo che propendeva ora per l'uno, ora per l'altra.

Era a cena che la tensione saliva e Fedra, per una questione di pura formalità, si sforzava di fare un po' di conversazione. Ma le parole, le espressioni e soprattutto i gesti del fanciullo, di cui tante volte era stata testimone senza farvi troppo caso, adesso le apparivano come del tutto nuovi e destabilizzanti. Più volte rimaneva con la mano a mezz'aria, a metà fra il piatto e la bocca semiaperta e, dopo essersene resa conto, rossa di vergogna, sperava che lui non si fosse accorto di nulla.

Intanto l'irritante prurito cresceva, cresceva, ma Fedra continuava ad ignorarlo, astenendosi dal grattarsi per porvi rimedio, perché toccarlo con mano avrebbe significato ammettere la sua esistenza e questo lei, nella sua posizione di moglie e regina, non poteva permetterlo.

Ma, man mano che passavano i giorni, i pensieri continuavano ad aumentare, ad affollarle la mente. Resistervi diventava sempre più difficile e, per farlo, Fedra doveva far appello a tutto il suo autocontrollo.

Una sera lo incrociò nel lungo corridoio, poco prima di salire nelle sue stanze. Con evidente disappunto il ragazzo si rigirava fra le mani un pezzo di stoffa, che Fedra riconobbe come parte della giacchetta in lana di pecora che stava indossando.

Assecondando un impulso improvviso, gli si avvicinò.

«Si è rotto?» chiese, fingendo noncuranza.

Ippolito la inchiodò con i suoi impassibili occhi neri.

«Sì. Oggi, durante la battuta di caccia» spiegò poi, freddo.

Si voltò leggermente, fino a mostrarle la spalla destra, per farle vedere lo strappo. Fedra si trattenne a stento dal toccarlo.

«Posso ripararlo io» esclamò lei di slancio. Resasi conto di ciò che aveva appena blaterato, si maledì fra sé e sé. «O chiedere ad un'ancella di farlo» farfugliò. «Sempre se tu lo desideri.»

Il fanciullo continuò a fissarla con sguardo penetrante. La sua espressione era del tutto indecifrabile. Dopo attimi che a Fedra parvero interminabili, Ippolito mosse un braccio verso di lei.

«Va bene» disse solo, porgendole la pezza di lana.

La donna allungò una mano per afferrarla e in quel gesto, rapido quanto un frullio d'ali, le loro dita ebbero l'occasione di sfiorarsi per la prima volta. Fedra trasalì, percependo il calore della pelle di lui a contatto con la sua.

Se anche Ippolito si accorse del suo improvviso irrigidimento, fece finta di nulla. Dopo averle rivolto un impercettibile segno di saluto, si congedò, lasciandola sola con quel misero pezzo di lui.

E fu al figliastro che, quella notte, Fedra si ritrovò intensamente a pensare, mentre allungava una mano e scendeva giù ad accarezzarsi. Assecondò per la prima volta i suoi desideri, rivivendo all'infinito lo sfiorarsi delle loro dita ed immaginando che le mani sul suo corpo fossero quelle di lui, nascosta tra le coperte e avvolta dalle ombre della notte, uniche testimoni del suo crimine libidinoso.

 

Anche Ippolito ripensava al tocco di quelle mani di donna, il mattino seguente, mentre avanzava a passi lunghi nel bosco, dimora di Artemide.

Devoto alla caccia e alla castità al pari della sua protettrice, Ippolito aveva sempre ignorato il genere femminile. Anzi, poteva affermare con una certa fierezza di disprezzarlo: le donne erano deboli, sia nel corpo che nell'animo, ed il fanciullo ne era sempre stato infastidito. Sua madre ed il destino che aveva subito ne erano la prova.

Quanto a Fedra, il padre l'aveva tenuta sempre a debita distanza da lui, come per paura che le sua attuale vita e quella precedente potessero mescolarsi. Ippolito non ne aveva nulla in contrario: come tutte le donne che aveva avuto l'occasione di incontrare, la seconda moglie di suo padre era debole, giovane e stupida. Il fatto che avesse solo qualche anno in più di lei, considerando con chi doveva dividere il talamo, gli aveva fatto ribrezzo.

Eppure, la sera precedente, mentre le porgeva quella pezza di lana, il tocco delle loro mani aveva risvegliato un calore dentro di lui. Un calore primitivo e imperioso, che fino ad allora era sempre stato addormentato. Una sensazione del tutto sconosciuta, ma in qualche modo familiare al suo corpo, che non lo faceva sentire del tutto a suo agio.

Ignorando quella sensazione, si dedicò a ciò che sapeva fare meglio. Solo dopo aver ucciso una cerva di grosse dimensioni e stanato due lepri, ugualmente sudato e soddisfatto, decise che per quell'oggi poteva bastare.

Sulla via del ritorno offrì un sacrificio ad Artemide al centro di una radura, nella speranza che la sua dea gli desse le risposte che cercava, ma ricevette solo silenzio.

 

Quella sera fu lei a venirgli incontro, nel corridoio debolmente illuminato dalle candele.

Udendo un lieve rumore di passi, Ippolito aveva alzato il capo e, nel vederla, era rimasto perplesso. Poi lo sguardo gli era caduto sulla giacchetta di lana che aveva fra le braccia.

«L'hai fatto riparare?»

Fedra annuì, il capo chino. Poi si avvicinò ancora un poco, sempre evitando di guardarlo dritto in faccia, e gli passò il fagotto. Le loro mani stavolta stettero ben attente a non sfiorarsi.

«Grazie» disse.

Lei alzò finalmente la testa e i suoi occhi bruni parvero scintillare per un attimo nella penombra della casa. Quando le sue labbra si incurvarono un poco all'insù, quel calore ancestrale tornò prepotentemente a farsi strada in lui.

Fedra continuava a fissarlo, i suoi grandi occhi che riflettevano la luce delle candele. Un insopportabile formicolio lo invase, come se avesse l'intero addome pungolato da insetti. Non riuscendo più a sostenere il suo sguardo, si allontanò a grandi passi, senza dirle un'ulteriore parola. Trovò sollievo solo quando, lasciatosi alle spalle il corridoio, fu entrato nelle sue stanze. Si lasciò cadere in terra, la schiena contro la parete.

Femmine, pensò, trattenendosi a stento dallo sputare. Quella donna doveva avere qualche potere su di lui. Non sapeva di quali stregonerie fosse a conoscenza, ma non gli piacevano affatto.

 

Fedra si lasciò cadere sul letto. Le sue guance erano bollenti, non avrebbe saputo dire se per la febbre o per la vergogna.

Non riusciva a pensare ad altro. Ogni volta che chiudeva gli occhi, le stesse immagini prendevano a danzarle dietro le palpebre: il suo volto, i suoi occhi neri, le sue labbra sottili. Il pensiero che non avrebbe mai potuto sfiorarle la tormentava.

Si girò e rigirò a letto, nelle ombre della notte, attorcigliandosi tra le lenzuola che la stringevano e la frenavano come i voti coniugali a cui aveva giurato di adempiere.

No, non poteva cedere. Che cosa avrebbe pensato Teseo, suo marito, l'uomo con cui condivideva il talamo, quello su cui tante volte avevano giaciuto insieme, lo stesso sul quale adesso lei si stava struggendo per suo figlio? Quel sentimento pruriginoso che le stava scavando dentro era sbagliato in ogni modo possibile ed immaginabile.

Eppure, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare nessun momento in cui avesse provato quelle emozioni così intense nei confronti del marito. Quel senso di eccitazione fra i lombi, il tremore nel ventre, il calore che le andava diffondendosi sulle guance. No, non le era mai successo. Aveva sposato Teseo, quell'uomo tanto più grande di lei, che pure aveva dimostrato affetto nei suoi confronti, per dovere. Lo stesso dovere per il quale si sfilava la tunica e si univa a lui, le sere in cui il re di Atene le comandava di farlo.

D'un tratto, un rumore la riscosse. Nocche che tamburellavano contro il legno di quercia della sua porta.

Fedra si immobilizzò, il battito del cuore che le rimbombava sordo nelle tempie e che andava di pari passo con il tamburellio alla porta.

Aveva la fronte imperlata di sudore, un calore diffuso che le stordiva le membra. Era lui? Era venuto da lei? Si era lasciata sfuggire qualcosa durante il loro breve colloquio? Com'era stata imprudente, ad andargli incontro. Voleva che lui la guardasse di nuovo con quegli occhi neri, voleva che capisse i tormenti del suo animo, e forse qualcosa era traboccato all'esterno, come l'acqua da una brocca riempita fino all'orlo. Aveva sperato e temuto e pregato e scongiurato che accadesse.

«Signora?»

Fedra deglutì.

Era la nutrice.

Decise di non indagare se il sentimento che le si era propagato nel petto al suono di quella voce fosse sollievo o delusione.

«Signora?» Un po' più forte, stavolta.

Fedra si mise faticosamente a sedere. Si sentiva incredibilmente pesante e la testa le doleva da impazzire. Mentre faceva scivolare sul bordo del letto il corpo indolenzito, fasciato dalla tunica che indossava per la notte, un gemito le sfuggì dalle labbra.

Nel tempo che impiegò per tirarsi su, con quel dolore alla testa che la trapassava da parte a parte come un chiodo, la nutrice fece il suo ingresso, fendendo le tenebre nella stanza con la sua corpulenta figura. Dopo un momento, Fedra realizzò di non averle dato alcuna risposta.

«Mi scusi se mi sono permessa di entrare» si affrettò a dire lei. «Non rispondeva e dalla stanza venivano degli strani rumori...»

Fedra gemette e la testa le ciondolò da un lato. Perché stava parlando a voce così alta?

«Signora, si sente bene?»

La stanza stava girando intorno a lei. Fedra barcollò – come quando Teseo le offriva vino senza stemperarlo prima col miele – e poi cadde in avanti.

Avvertì indistintamente la nutrice afferrarla, un attimo prima che crollasse sul pavimento, e in un soffio le braccia della donna che l'aveva accudita per anni e anni divennero quelle di Ippolito. Poi quelle di Morfeo.

 

Ippolito camminava a grandi passi nel bosco, la testa incassata nelle spalle, la mente tormentata dai pensieri. Quel giorno il vento soffiava impetuoso e scuoteva con violenza le fronde degli alberi; poteva sentire i suoi ululati, ma non lo percepiva sulla pelle, come se stesse trattenendo il respiro al suo passaggio.

Ultimamente non riusciva a dormire né a concentrarsi, così faceva passeggiate sempre più lunghe ed estenuanti in quello che era ormai il suo più intimo rifugio, nella speranza di consumare la mente insieme alle membra. Ma i suoi pensieri rimanevano vigili e, come mosche su una carcassa, continuavano a posarsi insaziabilmente sull'unica cosa a cui Ippolito avrebbe volentieri fatto a meno di pensare.

La giacchetta di lana gli stringeva addosso, gli prudeva sulla pelle, stava lì a ricordargli chi l'aveva fatta riparare. Allungò un braccio con un gesto rabbioso, come a volersi liberare di una pianta che gli ostruiva il passaggio, quando in realtà era solo la mente che avrebbe voluto sgombrare. Ma quei pensieri rampicanti continuavano ad avanzare, lenti e inesorabili, sulle pareti della sua testa, e non c'era verso di reciderli. Di quel passo, lo sentiva, sarebbe impazzito.

Cogitabondo qual'era, quasi non si accorse di essersi allontanato dal sentiero principale, come fosse in fuga, per inerpicarsi su una stradina stretta ed angusta, dove i raggi del sole non arrivavano e imponenti cespugli di rovi avevano invaso il terreno, protendendosi minacciosi verso i nuovi arrivati.

Non poteva passare di lì. Si sarebbe ferito di certo. Ippolito si arrestò sulla strada, lo sguardo dritto davanti a sé, le dita che accarezzavano sovrappensiero la spalla, correvano sulla lana, inseguendo le linee asimmetriche nel punto riparato da poco. Un pensiero gli attraversò la mente come una freccia, andandosi a conficcare tra le follie. No, era fuori discussione.

Ippolito chiuse gli occhi e sospirò. Sapeva esattamente cos'avrebbe dovuto fare. Eppure, con altrettanta consapevolezza, lo ignorò.

Chiese in silenzio scusa ad Artemide, si caricò l'arco in spalla e si diresse a passo sicuro verso i rovi, ignorando quegli uncini acuminati che ben presto gli si conficcarono nei polpacci, nei capelli, nella faretra dell'arco. Nella lana della giacchetta.

Quando un rovo più robusto degli altri trovò il punto riparato alla bell'e meglio da Fedra e vi si avvinghiò, lacerando la lana con un rumore secco, proibito e seducente, Ippolito sorrise impercettibilmente.

 

«Signora.»

Fedra alzò debolmente lo sguardo dai piedi della sedia su cui era sprofondata. La nutrice incombeva su di lei, lo sguardo colmo di preoccupazione.

Poteva capire lo stordimento di lei, così come quello del resto della servitù, dato dagli inspiegabili comportamenti che la loro regina stava mettendo in atto. Erano giorni che si rifiutava di uscire, di parlare, di mangiare e persino di dormire; faceva la spola tra la sedia della sua stanza ed il letto. Tutti erano preoccupati dal suo colorito sempre più pallido ed esangue sul volto, perché nessuno poteva vedere il calore sempre più insopportabile che la consumava dall'interno. D'altronde, non aveva altra scelta che nascondersi. Non poteva uscire. Se avesse incontrato Ippolito lungo il corridoio, sapeva che sarebbe stata la fine.

Fedra ricambiò lo sguardo della nutrice e da qualche parte dentro di sé ritrovò la sua voce, che le si era arrochita dopo giorni e giorni di ostinato silenzio. «Sì?»

La nutrice parve esitare. Forse non si aspettava una sua risposta. Dopo un momento, le posò in grembo un fagotto informe. A Fedra bastò un attimo per riconoscerlo e dovette fare appello al poco autocontrollo che le era rimasto per non tradirsi di fronte all'anziana donna, che di certo avrebbe capito. Non poteva ingannarla come le altre ancelle, giovani ed ingenue, che mai avrebbero sospettato qualcosa di così immorale. Lei, con la sua vista indebolita dall'età ma acuita dal tempo, vedeva meglio di chiunque altro.

Sforzandosi di assumere un'espressione stupita, Fedra alzò gli occhi sulla nutrice.

«La manda Ippolito.» La spiegazione della donna giunse dopo un momento di silenzio che per Fedra fu quasi insopportabile. Quando udì il nome del figliastro, per di più pronunciato in maniera tanto indifferente, per poco non fece un balzo sulla sedia. «Chiede se una delle sue ancelle può ripararla.»

Fedra strinse la stoffa tra le dita fino a sbiancarsi le nocche, un piacere che ormai conosceva bene che andava risvegliandosi nel bassoventre.

«Certamente» mormorò, più in fretta di quanto avrebbe voluto. «Potrebbe lasciarmi sola?»

La nutrice non fece nulla per mascherare la sua sorpresa. «Ne è sicura, mia signora? Con tutto quello che le sta...»

«Sì» la interruppe lei, in un tono che non ammetteva repliche. «Mi lasci sola.»

Fedra sollevò il mento e le rivolse uno sguardo severo. Di colpo la nutrice non era più l'anziana signora che si era occupata di lei fin da quando era in fasce e che l'aveva vista crescere anno dopo anno, fino a che non era diventata una giovane donna. In quel momento furono solo una regina e la sua serva.

La nutrice strinse le labbra, ma abbassò il capo in segno d'obbedienza. «Come desidera, mia signora.»

Era già sulla porta quando si voltò verso di lei, un piede già oltre la soglia.

«Signora» esclamò. Abbassò un momento gli occhi a terra, come fosse in preda ad un ripensamento, poi alzò decisa il capo e la fissò. «Io so da che morbo è afflitta.»

Fedra si agitò sulla sedia. «Davvero? Conosce il farmaco?»

Alla nutrice sfuggì un impercettibile sbuffo che avrebbe potuto essere di divertimento. «Conosco i sintomi» disse. «E so che non esiste cura.»

Fedra deglutì e fece per ribattere, ma l'anziana non aveva ancora concluso la diagnosi.

«È una malattia dolcissima e dolorosa insieme» mormorò, un'ombra di sorriso che le danzava sulle labbra. «Strana, non trova?»

I suoi occhi corsero al fagotto di lana che la regina teneva fra le mani e poi di nuovo su di lei.

«Taci» le ordinò Fedra, scossa da un tremito. Non era un tono perentorio, il suo. La voce le vibrava di dolore. E paura. Non le piaceva quel tono indolente, quasi di complicità, che la nutrice stava usando con lei.

Non doveva descrivere in quel modo il terribile male di cui era stata disgraziatamente vittima. No, non doveva dipingere in modo così allettante i contorni dell'abisso. Perché di quel passo, altrimenti, vi si sarebbe gettata.

«E ora lasciami sola.»

«Sì, mia signora.»

Fedra attese con impazienza che la nutrice si fosse chiusa la porta alle spalle. Ascoltò con attenzione i suoi passi pesanti rimbombare lungo il corridoio e, quando fu certa di essere sola, si liberò delle briglie della moralità e si portò la giacchetta al volto con un movimento liberatorio, istintivo, famelico.

La lana le solleticò le guance ed il naso e Fedra inspirò con tutto il fiato che aveva in corpo quell'odore di maschio e di camminate nei boschi e di pelle di cervo e di foglie d'alloro, ubriacandosi di lui finché non si sentì sazia e stordita.

 

Fedra non usciva dalle sue stanze da giorni, ormai. Dicevano che era malata, o qualcosa di simile. Ippolito era stato ben attento a non mostrarsi interessato alla questione.

Si portò un acino d'uva alla bocca, il terzo da quando si era seduto a tavola. Un'ora prima.

Quando morse con i denti la pellicina e il succo gli si propagò sulla lingua, si trattenne a stento dallo sputare. Solo lo sguardo obbediente e appena incuriosito di un ancella, dritta sulla soglia che portava al corridoio, lo frenò dal compiere quel gesto.

Si sarebbe sicuramente lamentato con le cucine, più tardi. Cos'era quella robaccia che davano loro da mangiare? Solo perché il re non era lì, potevano forse trattarli come dei pezzenti?

Ma il suo cuore sapeva la verità. Sapeva che la polpa succosa di ogni frutto rigonfio che vi era sulla tavola gli sarebbe parsa aspra come il più terribile dei veleni; che la carne dell'agnello che giaceva ad un passo da lui sul vassoio gli sarebbe sembrata stoppa contro i denti. La verità era che non aveva alcun appetito.

Lanciò un'occhiata al posto vuoto davanti al suo. Era sempre stata di poche parole, a cena, e non gli era mai importato granché che vi fosse o meno, ma d'improvviso la sua assenza pesava come un macigno, quando si sedeva da solo alla lunga tavola.

Non era sempre stato così. All'inizio, quando aveva udito la notizia del morbo di Fedra, Ippolito aveva gongolato tra sé, pensando che quella strega avesse avuto la punizione che meritava. Aveva provato a traviarlo, lei, con le sue dita flessuose come giunchi, gli occhi profondi e innocenti, come quelli dei cerbiatti che si voltavano verso di lui con la consapevolezza che la loro ora stava per scoccare, ma non c'era riuscita. Aveva resistito ai suoi incantesimi, proprio come aveva sempre fatto.

Gli altri fanciulli indugiavano sui piaceri della carne, sulla morbidezza dei seni delle donne e sui dolci profumi dell'amore. Erano sciocchi, deboli. Non lui. Lui era solido come un tronco d'albero, puro come l'acqua di fonte, impenetrabile quanto i rovi cui era andando incontro, nel bosco.

Il pensiero dei rovi lo colpì all'improvviso, spazzando via quelle menzogne, facendogli cadere il grappolo d'uva a terra, gesto che attirò l'attenzione di quella stupida ancella, la quale alzò gli occhi su di lui con aria curiosa.

Quegli stessi rovi cui lui era andato incontro per strapparsi di nuovo quell'inutile giacchetta, così che potesse di nuovo rivolgerle la parola, avere di nuovo quegli occhi su di sé, sfiorare di nuovo quelle dita. Non poteva certo immaginare che ad attenderlo, in casa, avrebbe trovato solo l'anziana nutrice di lei, con la sua faccia avvizzita come un frutto essiccato al sole, che gli aveva preso la lana fra le mani senza tante cerimonie e l'aveva lasciato lì come uno stupido.

Colto da un improvviso scatto d'ira, Ippolito alzò in piedi e lasciò la sala a grandi passi, ordinando all'ancella di raccogliere quell'uva un attimo prima di imboccare il lungo corridoio.

Ippolito salì le scale senza avere davvero idea di dove stesse andando e vagò a lungo per i corridoi deserti del palazzo, estraniandosi come quando andava a caccia, anche se i suoi piedi sembravano sapere perfettamente dov'erano diretti. Si bloccò solo quando davanti a lui apparve una porta.

Ippolito alzò lo sguardo trepidante, ma sapeva già dove i calzari lo avevano condotto.

Le stanze della regina. 

Il cuore gli pompava forte nel petto, come poco prima di tendere l'arco su una preda. Se qualcuno della servitù l'avesse visto lì, cosa ne sarebbe stato di lui?

Esitò un lungo attimo sulla soglia, poi spinse delicatamente la porta, con insolita cortesia, senza sapere neanche lui cosa stesse facendo o chi sperasse di trovare.

Nella camera regnava un odore penetrante e dolciastro, come di malattia. Doveva essere molto che qualcuno non apriva le finestre per far entrare l'aria.

Non c'era nessuno. Fedra e la nutrice dovevano essere nei bagni, si disse.

La stanza era quasi del tutto sgombra ma, pur non avendola mai vista prima dall'ora, Ippolito non la degnò d'una sola occhiata. La sua attenzione era tutta rivolta altrove. Le luci tremolanti delle candele, infatti, illuminavano con singolare chiarezza un oggetto al centro del letto, tra le lenzuola sfatte e raggrinzite.

La sua giacchetta.

Ippolito tentennò, come se qualcuno lo avesse trafitto con un dardo.

La sua giacchetta era lì, nel bel mezzo delle lenzuola di Fedra, come se lui se la fosse tolta per giacere con lei.

L'immagine gli fu davanti agli occhi ancor prima che potesse pensarla. Lui che si sfilava la lana, che baciava le pelle color latte di lei, le scioglieva i lunghi capelli bruni, si abbandonava al suo profumo dolcissimo. Loro due che cadevano fra le lenzuola, avvinghiati l'uno all'altra, i loro corpi che si incastonavano l'uno nell'altro, al ritmo dei loro respiri.

Abbassando gli occhi, si rese conto che la stoffa della tunica gli si era tesa, verso il basso, e inorridì. No, no, no. Lui era puro, casto, devoto ad Artemide.

Soffocò a stento l'istinto di toccarsi, l'immagine di Fedra che gli si agitava dietro le palpebre come la luce tremula di una candela.

Senza guardare quel talamo disfatto, immaginario palcoscenico del loro atto scellerato, Ippolito chiamò a raccolta il poco senno che gli era rimasto, si chiuse la porta alle spalle e fuggì lungo il corridoio.

 

Ebbra di febbre, Fedra camminava come un'ubriaca, avanzando a tentoni tra gli arbusti.

Ad ogni scricchiolio, la donna sobbalzava e si guardava alle spalle, aspettandosi di trovarsi davanti qualche animale selvatico. Il bosco non le era familiare e, avvolto nelle ombre qual'era, con i rami degli alberi che impedivano alla luce del sole di filtrare, le appariva vagamente minaccioso.

Non seppe come arrivò nella radura. Ormai schiava di quell'amore cui aveva invano tentato di ribellarsi, stava seguendo le familiari orme di un paio di stivali da caccia e, quando vide le fronde aprirsi come in un passaggio dinnanzi a lei, si sentì quasi la benvenuta ad attraversarlo.

Ippolito era lì. Quando lei sbucò incespicando dagli arbusti, se lo trovò proprio davanti.

Intorno a loro scese un silenzio surreale: sembrava che persino il vento, gli alberi e gli uccelli avessero trattenuto il fiato nel preciso istante in cui i loro occhi si erano incrociati.

Quella calma piatta fu spezzata dalla voce di Ippolito. Le venne incontro, l'arco in spalla.

«Mi hai seguito?»

Fedra, febbricitante, cercò di non barcollare mentre si avvicinava a sua volta, ma era un'impresa. La fronte le scottava e il cuore le scoppiava nel petto.

Più vicino, più vicino...

«Stavo solo facendo una passeggiata.»

Lui la squadrò inarcando un sopracciglio, come a dire che non credeva ad una sola parola di ciò che aveva detto.

«Non mi sembra l'abbigliamento adatto per girare nei boschi» disse poi, ma il tono era scherzoso.

Fedra pensò che, se in quel momento avesse sorriso, il suo cuore sarebbe collassato su se stesso.

Invece il fanciullo voltò il capo verso la radura dove, come ad un segnale segreto di cui la donna non era a conoscenza, gli uccellini ripresero a cinguettare debolmente tra i rami.

Senza guardarla, sollevò l'arco e all'improvviso disse: «Vuoi provare?»

Fedra pensò che i sensi l'avessero ingannata. «Che cosa?»

Ippolito ripeté la domanda, ma stavolta si voltò verso di lei e sorrise davvero.

Le labbra di lei si incurvarono a loro volta, quasi involontariamente.

Annuì e lui le fece cenno di avvicinarsi ancora di più, finché anche l'ultimo dei confini del perbenismo non fu infranto.

Volando di ramo in ramo, gli uccelli avrebbero continuato per molto tempo a raccontare ciò che sarebbe successo di lì a poco, ma gli uomini sono solitamente troppo stolti per comprendere i loro battibecchi.

Fedra e Ippolito si strinsero intorno all'arco. La donna, poggiata contro il torace di lui, con suoi riccioli che le solleticavano una guancia, la loro bocche così incredibilmente vicine, mentre il fanciullo le sussurrava nell'orecchio come incoccare la freccia.

La mano di Ippolito si intrecciò a quella di lei mentre spingeva indietro il gomito per tendere al massimo la corda, ma Fedra sapeva di non esserne in grado.

Sapeva di non essere in grado di maneggiare un arco di quelle dimensioni, esile com'era. Più e più volte aveva visto Teseo incoccare le frecce e tendere la corda di nervo, per puro diletto, pensando allo sforzo che vi dovesse essere dietro.

Così come sapeva di non essere in grado di resistere alla passione, ora che si trovava a meno di un passo dalla fonte di ogni suo tormento, così vicino che poteva sentire il fiato caldo di lui alitarle sul collo, mentre continuava a darle istruzioni.

E forse la sapeva anche Ippolito, l'una e l'altra cosa.

Perché di colpo l'arco non fu più tra le loro mani, ma a terra, e ci furono solo loro due, uno contro l'altro, pelle contro pelle. Poi bocca contro bocca.

Quando Ippolito la baciò sulle labbra, aggrappandosi al suo volto come se fosse sul punto di crollare a terra e lei fosse l'unica in grado di sostenerlo, per la prima volta da giorni e giorni Fedra si sentì in pace.

 

«Signora?»

Fedra spalancò gli occhi e sbatté le palpebre. Il volto della nutrice la scrutava dal suo capezzale. Dietro di lei, le finestre della sua camera erano spalancate e proiettavano un sole tiepido all'interno della stanza.

«Devo essermi addormentata» fu tutto quello che riuscì a mettere insieme, di fronte a quello sguardo così insistente.

«Forse.» L'anziana donna le sorrise. «Si sente meglio?»

«Credo di sì.»

I ricordi del sogno arrivarono tutti insieme. Travolta da quello sciame di sensazioni, Fedra si drizzò a sedere sul letto e poi si alzò in piedi, rifiutando gentilmente l'aiuto della nutrice.

Attirata dal sole come una falena, si avvicinò al davanzale. Camminava incerta, a piedi nudi e, quando ebbe raggiunto la finestra, abbassò lo sguardo sul cortile.

Il cuore di colpo prese a batterle all'impazzata nel petto, sintomo di un incurabile morbo, quando vide che Ippolito era lì, che incerava l'arco. Lo stesso punto, la stessa posa di quando lei lo aveva visto per la prima volta come un uomo e non come il figlio di suo marito.

Rimase lì, artigliandosi al davanzale per non crollare, come se si stesse aggrappando al bordo di una nave in balia delle onde, consapevole dello sguardo della nutrice che le bruciava sulla schiena.

Poi, come se sentisse di essere osservato, Ippolito alzò di colpo gli occhi su di lei. Occhi neri che nulla lasciavano trapelare, che l'avevano inseguita nei sogni e l'avevano squassata dal profondo, tutte le volte che lei se li immaginava su di sé quando si accarezzava.

Fedra fu tentata di distogliere lo sguardo, ma poi non lo fece, pensando che sarebbe stato il fanciullo ad abbassare il suo. Ma non lo fece neanche lui.

Ippolito alzò la testa con più vigore, i suoi occhi incatenati a quelli di Fedra come se non esistesse nient'altro che valesse la pena guardare. Non c'era il consueto disprezzo in quello sguardo e, in un soffio, Fedra si chiese se non avesse fatto lo stesso sogno di lei.

Abbassò lo sguardo sui suoi piedi nudi e si rese conto che erano sporchi di terra, come se si fosse dimenticata di indossare i sandali per uscire.

Un abbigliamento decisamente poco adatto a girare nei boschi.

Quando tornò a guardare Ippolito, il fanciullo era di nuovo chino sull'arco.

Ma, un attimo prima che i riccioli neri tornassero a coprirgli il volto, Fedra giurò d'averlo visto sorridere.

 

Ehilà. 

Questa one-shot giaceva sul mio desktop con il nome di "Fedra" da almeno un paio d'anni. Stamattina mi sono decisa a darle una conclusione e, dopo aver trovato la foto di un tizio che addenta in modo sexy una melagrana, ho colto la palla al balzo per pubblicarla qui, anche per far vedere che non scrivo solo cavolate (giuro!).

Dovete sapere che Ippolito e Fedra appartengono ad una tragedia di Euripide che ho studiato a scuola, una delle poche opere della letteratura greca (sì, lo so, faccio un po' schifo) che mi siano piaciute veramente ma veramente TANTO. Peccato che, come ogni altra tragedia greca che si rispetti, anche questa finisca in un bagno di sangue: Fedra si uccide, non prima di aver lasciato detto che Ippolito l'ha violentata (bugia!) e pure lui fa una finaccia. Siccome il mio povero cuoricino non lo sopportava, avevo iniziato a scrivere una storiella che finisse sì in modo aperto, ma un po' più speranzoso.

Ho cercato di sviscerare i sentimenti di entrambi i protagonisti, i quali cercano in ogni modo di porre freno alla loro passione proibita, sebbene per motivi diversi: Fedra non può per il suo voto coniugale, Ippolito per quello di castità, la sua fedeltà alla dea Artemide e per il semplice fatto che, diciamocelo, è uno stronzetto misogino. 

Oltretutto i due non possono amarsi per la presenza stessa di Teseo, marito di Fedra e padre di Ippolito (avuto da un primo matrimonio). Dovete sapere che possiedo una mente piuttosto deviata e che queste love stories impossibili, peccaminose, con grandi differenze di età, complicazioni, problemi insormontabili e tanto DRAMA mi mandano in visibilio. Tra me e la tragedia di Fedra, insomma, non poteva che essere amore.

Spero che la storia vi sia piaciuta, compreso il finale un po' così. L'incontro nel bosco c'è stato davvero? O è tutto frutto della fantasia di Fedra, ormai delirante d'amore e prossima alla fine? Lascio a voi la scelta.

Un bacione (e tanto vino senza miele per tutti),

Cassidy.

 

  
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