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Autore: _EverAfter_    14/07/2020    1 recensioni
1. OiSuga - Cera che cola {Drabble};
2. IwaAka - Inchiostro blu {Flash-fic}.
3. UshiTen - Quando suonano le campane {One-shot // Huncback of Notre-Dame!AU};
✦ Raccolta prima classificata al contest "Tre incantesimi" indetto da Juriaka sul forum di EFP.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Crack Pairing | Personaggi: Altri
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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[UshiTen One-shot]
Hunchback of Notre-Dame!AU



Parigi 1462

    Parigi si svegliò di soprassalto, atterrita dall’infernale rantolo del Selle Français dal sangue normanno. Il corsiero dal manto morello arrestò l’andatura sul lastricato di leucitite scura, sbattendo pesantemente il pregiato ferro che rivestiva lo zoccolo contro la pietra lavica della strada.
    Sulla sella in cuoio, creazione d’alta fattura di uno dei maniscalchi più in voga della città, sedeva tronfio nella sua postura impeccabile l’Arcidiacono Tanji Frollo, il cui sguardo grigio vagava con impassibile austerità sul corpo senza vita della giovane zingara scivolata sul pavé di Notre-Dame. La donna, sulla cui tempia scorreva solitario un rivolo di linfa sanguigna, stringeva tra le braccia un paltò arruffato e sudicio, così sozzo che l’uomo tentennò qualche istante prima di sottrarglielo con dubbia delicatezza.
    L’Arcidiacono sobbalzò un istante al primo, inaspettato vagito; scoprì un lembo del malandato soprabito, concedendosi alla vista terrificante d’un omuncolo ch’appariva più un feto partorito prima del tempo che un neonato: aveva le spalle ricurve, i capelli rossicci, gli occhi fuori dalle orbite e un pallore mortale. A tutta quell’orribile commistione di singolarità che non avrebbero mai dovuto accozzarsi insieme, v’era una cacofonica sproporzione degli arti superiori, che apparivano fin troppo lunghi rispetto alle gambe che non s’erano ancora perfettamente formate. Una medaglietta di bassa lega di bronzo pendeva dal collo plissettato da un’epidermide raggrumata e storpia: v’era scritto solamente Tendou. Per cui era quello, il nome di quel cucciolo di mostro.
    L’uomo si guardò attorno con diffidente circospezione, e lo sguardo si posò con insana apprensione sul pozzo in muratura a pochi passi dal Portale di Sant’Anna, quello che affacciava a occidente rispetto alla monumentale facciata. Tanji godeva sovente d’una volontà ferrea e incrollabile, eppure in quell’istante la tentazione di spegnere quel non essere tra gli zampilli delle falde acquifere divenne così seducente da convincerlo al primo, delirante passo. Il secondo e il terzo non tardarono a giungere implacabili, fino a quando lo sguardo grigio e affilato non si sporse a controllare quanto fosse profonda la struttura.
    Mai qualcosa gli parve così semplice come in quel momento: sarebbe bastato allungare la mano che stringeva il bozzolo di stoffa e lasciare che le dita s’arrendessero al peso dell’orrido corpicino, macchiandosi dello stesso crimine di Pilato, ma alleggerendosi d’un fardello che l’avrebbe condannato per tutta una vita. Il pollice un po’ raggrinzito fu il primo ad allentare la presa, seguito dall’indice.
    L’Arcidiacono era sempre stato un votato ecclesiastico, oltre che un implacabile giudice. Non conosceva il senso della pietà, né cosa fosse l’amore, persino nella sua più piccola e insignificante accezione. Era cresciuto in collegio, passando il suo tempo a studiare e non concedendosi mai ad altri svaghi. Aveva sempre dato prova d'essere un ragazzo piuttosto triste, taciturno e poco avvezzo alle mondanità. Non aveva mai avuto degli amici, e per lui le uniche compagne di vita furono le arti liberali, le lingue antiche e la medicina, che non possedevano affatto i tratti delle giovani coetanee, le quali spesso se ne stavano sulle rive della Senna a civettare insieme alle guardie reali.
    Nonostante la sua vita potesse facilmente accomunarsi a quella più ascetica d’un qualsivoglia eremita, Tanji non aveva mai patito il gelo della solitudine, né l’ingiustificata paura dell’emarginazione: l’idea d’esser un temuto giudice, che aveva diritto di vita o di morte sui presunti colpevoli, lo inorgogliva così tanto da rendere superfluo tutto il resto. Non sapeva proprio che farsene della propria umanità.
    Tuttavia, non appena schiuse in parte il dito più prossimo, Tanji si ritrovò a fissare la parte superiore della strombatura del Portale di Sant’Anna, sulla quale dominava imperiosa la Madonna seduta sul trono, che stringeva tra le braccia il Bambino. Non seppe mai spiegarsene la ragione, ma qualcosa – simile all’angelo che fermò la mano d’Abramo – interruppe l’insano proposito di liberarsi di quella storpiatura, che ancora una volta si diede al pianto, rassomigliante più al guaito d’una bestia selvaggia piuttosto che all’infantile gemito d’un bebè.
    Lo fissò con rabbia, imputando a lui la colpa per quel suo vile atto di meschinità che rischiava di degenerare in un assassinio, uno dei tanti che aveva condannato in passato.
    — Non avreste mai commesso un simile gesto —, proruppe infine una voce, che l’alto prelato non fece affatto fatica a riconoscere.
    — Come mai ne siete così sicuro? — sbottò e, nonostante la sua voce fosse monocorde, non poté sottrarsi al vago senso d’inquietudine che pativa per la scelta appena compiuta.
    L’abate Ikkei Durand si sporse dal portone centrale, arrestando il passo sotto al gonfalone del Giudizio Universale. I due ecclesiastici non erano mai andati granché d’accordo, ma entrambi conoscevano e rispettavano profondamente le ragioni dell’altro e l’importanza d’una vita retta, condotta con sani valori e principi inossidabili. Fu per questo motivo che il cenobitico rispose, senza batter ciglio: — Non avreste mai compiuto una tale empietà davanti alla Nostra Signora.
    L’Arcidiacono aveva sempre odiato il raffinato senno del compagno religioso, che piuttosto che pronunciarsi attraverso cariche influenti e rinomate aveva scelto una vita più frugale, all’ombra dei placidi contrafforti della cattedrale gotica. Notre-Dame, a ben guardare, appariva come la sua roccaforte, il luogo dal quale poter esprimere al meglio la sua professione di fede. In questo era decisamente meglio di lui, che in parte s’era smarrito nei tendenziosi meandri della politica, ch’era la cugina più maliziosa della dottrina religiosa.
    — Cosa devo fare? — mormorò infine, sconfitto dal senso di colpa per aver lasciato che quella donna scivolasse malamente sul pavimento della chiesa, lasciandolo in balia del suo disgraziato contrappasso.
    — Crescete il bambino come vostro, — sentenziò infine Ikkei Durand con voce grave, — in questo modo sarete in grado d’espiare la vostra colpa.
   Tanji non rispose, voltandosi ancora una volta ad osservare il volto zigrinato dell’infante, che aveva assottigliato lo sguardo fino a chiudere le palpebre. Soffermò l’iride arcigna sul triste fallimento della natura, chiedendosi come sarebbe stato vederlo crescere, concedendogli in parte quell’affetto che sua madre non sarebbe più stata in grado di dargli. A ben pensarci, forse quel mostro era una prova a cui Dio voleva sottoporlo: l’occasione che gli stava concedendo per ragionar su cosa si provasse a prendersi cura di qualcuno, lui che nella vita non aveva mai speso il suo tempo per gli altri, votandosi alla sua erudizione.
    — Molto bene, — continuò poi, — ma a patto che possa viver con voi, qui a Notre-Dame.
    — Vivere qui? E dove? — Il tono di voce d’Ikkei sembrò inasprirsi a causa della perplessità, ma all’Arcidiacono parve non importare.
    — Osservatelo, — asserì con austerità, — è il frutto acerbo caduto prima del tempo. Rinchiudetelo nel campanile e lasciate che coltivi lì il suo talento, ammesso che ne possegga davvero uno.
    — Ma sarà solo!
    Tanji scrollò le spalle, liberandosi dall’infausto fardello che pendeva come una falce sulla sua nuca. — Siamo tutti soli, Ikkei.





Parigi 1482

   La favella del volgo sparlò per anni sul presunto guardiano mostruoso che spiava Parigi dall’oscurità del campanile, sul quale non s’era affacciato mai nessuno. Molti pensarono che un essere tanto deforme fosse impossibile riconoscerlo da così lontano, giacché sulla torre più alta della cattedrale v’erano a guardia i rigidi gargoyle di pietra, ch’erano anch’essi così orridi da poter essere facilmente scambiati per il campanaro. La gente comune, avvezza alle storie più vivaci e alle superstizioni più maliziose, si limitò a chiamare quel ragazzo con l’epiteto di gobbo, il che era assurdo, poiché nessuno lo aveva mai davvero visto.
    E così le signore, che s’affrettavano a ritirare le baguette calde appena sfornate dal panettiere, ciarlavano assiduamente su che razza di bestia vivesse a Notre-Dame; i bambini venivano minacciati di fare i bravi perché altrimenti il gobbo li avrebbe presi e mangiati; i prelati entravano con reverenza e s’affaticavano sulla navata centrale della cattedrale, non alzando mai il capo verso le logge per paura di scontrarsi con lo sguardo sanguigno d’una fiera infernale.
    Ciò che non si sapeva dell’inquietante mistero veniva avvolto dalle guglie affilate dell’austera cattedrale e si perdeva tra i pilastri polistili e le bifore scure, laddove gli occhi dei penitenti non accennavano a volgersi, un po’ per rispettosa devozione e un po’ per paura. Cosicché, dal simmetrico ridondare delle colonne del matroneo, risultava impossibile accorgersi dello sguardo borgogna che sovente scivolava curioso lungo le navate, poi verso le volte a crociera e giù verso l’abside e il coro.
    Le iridi vermiglie approfittavano spesso dello sparso via vai dei fedeli, avvicinandosi a quella forma di vita che veniva definita umana, ma di cui loro non avevano mai avuto granché memoria, se si eccettuavano le sporadiche visite del maestro Tanji Frollo. La targhetta di bronzo, ch’era ancora legata al collo un po’ troppo allungato
del giovane, portava due incisioni, una più sbiadita dell’altra: la prima – quella più vecchia – recava i caratteri Tendou, e nonostante fosse il suo nome, non aveva mai sentito il precettore chiamarlo in quel modo; la seconda indicava il giorno in cui era stato trovato orfano, ossia la domenica successiva a quella di Pasqua, che veniva comunemente chiamata in albis o, per i popolani, quasimodo. Non gli fu mai spiegato che la locuzione latinista in realtà possedeva un'accezione nascosta, poiché poteva anche significare “formato a metà, deforme”. Per il suo cheto vivere, non comprese la ragione per la quale il maestro Tanji si rivolgesse a lui con una simile espressione, e neppure gl’importò di venirne a conoscenza: Tendou, cresciuto dai sani quanto rigorosi insegnamenti dell’alto prelato, non crebbe mai covando in corpo la serpe dell’invidia, né fu mai irretito dal desìo dell’avara volpe. Era sempre rimasto all’ombra del campanile, in compagnia dei gargoyle di pietra e delle campane imponenti di bronzo, che coi rigidi batacchi di ferro scandivano il tempo di Parigi e dei suoi abitanti.
    Nonostante gli fosse stato detto più e più volte di non affacciarsi sul cornicione dell'alta cuspide, Tendou era un acrobata eccezionale, con delle braccia così lunghe da non manifestare alcuna difficoltà a scalare – seppur di poco – la gotica architettura della torre sopraelevata. Da lì riusciva a vedere tutta la città e, con essa, gli ignari passanti che sostavano in piazza, perdendosi come piccole formiche lungo le strade lastricate di laterizio. Tendou, la cui deformità si scontrava a tenzone contro un’indole entusiasta e piena di vita, li osservava con un fervore così passionale e zelante che chiunque si fosse trovato ad incrociare quello sguardo avrebbe potuto godere d’un oceano d’emozioni così lussureggianti da far impallidire i giardini privati di Luigi XI[¹].
    Nel carminio di quelle iridi v’era molta più felicità di quanta se ne potesse trovare in un ragazzo a cui non era mai stata concessa l’opportunità di varcare la soglia del grande Giudizio Universale[²]. L’esistenza di Tendou – ammesso che si potesse definire davvero così – iniziava e finiva lì dove riecheggiavano le campane. Il giovane le suonava, innamorato della loro vibrazione che s’esprimeva ogni volta attraverso note differenti: con esse sfiorava la vita della gente che non aveva mai conosciuto, gioendo per i matrimoni e piangendo ai funerali. In quel tocco onesto e delicato, Tendou carezzava con i rintocchi l’emotività delle persone, le loro paure, i loro desideri. Era lì con loro quando avevano più bisogno di lui, anche se nessuno ne era a conoscenza. Li osservava scorrere insieme al tempo, e non s’incapricciò affatto per incontrarli, giacché il maestro gli ripeteva spesso quanto il suo aspetto potesse impaurirli. Il timore che quella sensazione di conforto ch’era in grado di concedere loro trasmutasse in una disperata inquietudine, lo inibì così tanto da non permettergli mai di varcare l’uscio di Notre-Dame, rimanendo sempre estraneo al mondo e a chi lo abitava.
   Così Tendou passava le sue giornate a studiare la Bibbia, a leggere libri, a lucidare vecchi manufatti ch’erano stati dimenticati in quella soffitta, dove le uniche forme di vita – dopo di lui – erano i ragni che pendevano dai vecchi architravi in legno ormai marcio. Alcuni avrebbero potuto pensare che si accontentasse di ciò che aveva, ma non era del tutto vero: Tendou, più semplicemente, non sapeva ch’esistesse di meglio, né s’interrogava sulla remota idea che potesse esserci una vita migliore della sua. Gli bastava attendere paziente l’arrivo del suo maestro affinché il volto gli s’illuminasse dello stesso leale entusiasmo d’una coda d’un cane sbattuta qua e là per il ritorno del proprio padrone. Persino il colore dei suoi capelli rossi ricordava similmente il manto d’un bastardino, il quale spesso s’accoccolava sulle scalinate in marmo della cattedrale per ricevere la sua quotidiana razione di cibo e tenerezze.
    Si chiese spesso quale fosse la differenza tra lui e quella bestia; congetturando che il suo aspetto fosse davvero così ripugnante, a lui sarebbe bastato esser trattato alla stregua del piccolo meticcio, a cui veniva donato un po’ dell’affetto che la gente si portava dietro e che aveva d’avanzo per quelle sciocchezzuole un po’ frivole, come una carezza sotto al collo o un grattino dietro l’orecchio.
    Tuttavia, quando si sforzava di parlarne con l’Arcidiacono, questi s’incupiva, assottigliando lo sguardo e grugnendo come un orso inferocito.
    — Ne abbiamo già parlato, — gli ringhiava con austera formalità, — non v’è modo, per te, di poter vivere in questo mondo.
    Ma non appena il prelato si congedava, fiducioso che quel litigio fosse l’ultimo, Tendou se ne tornava sul loggiato esterno, quello più alto e riparato dall’ampollosa torma d’archi rampanti scanalati. Lì, nascosto all’ombra delle sempiterne colonne, continuava a fissare le persone, nutrendosi dei loro sguardi e di quelle emozioni che non sarebbe mai stato in grado di provare.
    Un giorno, vagheggiando su come potesse essere la grande piazza vista dalla prospettiva di quelli più in basso, il ragazzo osò sporsi dal cornicione inferiore della facciata occidentale, celandosi alla vista dei passanti grazie all’ombra della statua di Santo Stefano. Vagò con lo sguardo alla ricerca dei particolari che, dall’alto, non era mai riuscito a vedere: le spille di bronzo, i cappelli di paglia, i cesti di vimini, persino le toppe che coprivano i gomiti delle giacche sporche di quelli meno abbienti.
    L'occhiata vermiglia scorse poi, un po’ più in là del grande piazzale, la presenza d’un gaio gruppo di musicisti e di ballerini che si dilettavano in danze all’apparenza esotiche, con il rimbombo sovrano dei tamburi e lo sbattere dei piedi sulla pavimentazione grigia. Tendou, volgendo l'attenzione al punto più lontano, rimase interdetto alla vista d’un giovane ragazzo vestito di stracci e dal cui orecchio pendeva un delicato ornamento fatto d’una piccola piuma bianca: era bello, d’un fascino acerbo e virile al tempo stesso, con lo sguardo ambrato che, alla luce del sole di mezzogiorno, gl’illuminava la carnagione olivastra e i capelli castani.
    Chi fosse costui il campanaro proprio non avrebbe saputo dirlo.
    Ma in quello sguardo d’oro e silenzioso v’era molta più vita di quanta ne avesse mai trovata Tendou nella sua.





    Ushijima Agnès[³].
    Così credeva d’averlo sentito chiamare da uno dei ragazzi che strimpellava sulla logorata tavola armonica. Un nome bizzarro, che di certo non s’amalgamava affatto col melodioso arpitano[⁴] del Forez, né con le parlate più chiuse dell’entourage di Parigi.
    Comprese che faceva parte d’un gruppo di zingari vagabondi, che sovente si prestavano a continui viaggi alla ricerca d’un posto che li ospitasse. Dall’accento marcato e un po’ cacofonico, capì ch’erano i nomadi andalusi di cui gli aveva parlato il precettore, con quei loro modi disinvolti e spontanei a cui i parigini non erano granché avvezzi e che, per tale ragione, apparivano come il frutto marcio d’una società autarchica, la quale non si prestava facilmente a dogmi e dottrine.
    Tendou li osservava ogni giorno dal cornicione inferiore – quello sotto al grande rosone – dove si poteva osservare con minuzia di particolari ogni più insignificante dettaglio di quelle vite in corso, le stesse che l’Arcidiacono gli aveva impedito di conoscere. Li fissava con singolare attenzione, con quei loro vestiti sgargianti e i sorrisi bianchi; danzavano, cantavano e si dilettavano a batter le mani come se fosse ogni giorno Pasqua, e tutt’intorno Parigi s’illuminava d’emozioni nuove, scevre dal grigiume e dalla severità che Notre-Dame sembrava imporre con la sua rigida solennità.
    Quel giorno, tuttavia, era diverso dagli altri. Tendou se n'era rimasto sul loggiato superiore, vagando con lo sguardo alla ricerca del giovane ragazzo dall’orecchino di piuma, chiedendosi come mai fosse in compagnia di altri due zingari. Erano tutti inginocchiati sul liscio pavimento del sagrato, con le braccia incrociate e lo sguardo rivolto al Portale del Giudizio Universale, laddove il campanaro scorse le fattezze rigide e impassibili del suo maestro. Provò ad affinare l’udito, ma il continuo scampanellare delle sue compagne di bronzo doveva avergli intorbidato l’efficienza dell’orecchio, poiché brevi e privi di senso gli apparivano i vagheggiamenti che uscivano dall’una o dall’altra bocca.
    — Non dovresti essere qui, Tendou. — Si voltò in direzione della voce dell’abate Ikkei, che lo scrutava con placida bonarietà mentre s’avvicinava a lui dal corridoio della fiancata destra. — Maestro Tanji potrebbe incupirsi. Sai com’è fatto.
    — Lo so, — rispose con sincerità il ragazzo, — volevo capire cosa stesse accadendo.
    Ikkei sorrise; conosceva abbastanza bene Tendou da sapere quanto la sua curiosità potesse esser fonte di problemi, specie quand’era assecondata da una spontanea – seppur puerile – malizia, che lo irretiva a tal punto da lasciarlo in balìa del più volgare dei pettegolezzi. Il giovane, dopotutto, cadeva giusto in quell’età dov’era più semplice credere ad una maldicenza che ad una verità più noiosa e priva di romanzate calunnie.
    — Sono clandestini —, s’era limitato a dirgli il presule, affiancandoglisi e osservando anch’egli la scena. — Stanno richiedendo il diritto d’asilo.
    — Diritto d’asilo?
    Ikkei annuì. — Chiedono la protezione di Notre-Dame.
    Tendou se ne stette cheto e tornò con lo sguardo al ragazzo di nome Ushijima, rimasto in silenzio mentre gli altri due disquisivano con l’Arcidiacono, la cui collera si riverberava negli occhi cianotici che avevano perso gran parte della loro compostezza.
    — È furibondo —, mormorò impensierito. Conosceva bene la smorfia che sfregiava la pelle indolenzita del maestro, la stessa che gli piombava in viso ad ogni ennesimo, estenuante litigio. Per certi versi, v’era quasi affezionato.
    Il ragazzo non riuscì a sottrarsi ad un sorriso, che a ben vedere forse appariva più come un ghigno silenzioso e raccapricciante: Tendou adorava il suo amato educatore, di quell’attaccamento semplice e puro ch’era tipico d’un randagio, tuttavia v’era una piccola ombra di sé che gioiva nel vederlo perdere il suo decoro e mostrarsi agli occhi di tutti per quello che era, la trasfigurazione deforme dell’ira che giaceva sotto le mentite spoglie d’un alto prelato. Il campanaro non sapeva spiegarsi se la natura di quell’impulso fosse lecita, oppure se fosse invece d’attribuire al risentimento che segretamente covava nei confronti dell’Arcidiacono per averlo sempre tenuto rinchiuso tra quelle mura. Dopotutto, per quanto estraneo alla società, Tendou rimaneva pur sempre un ragazzo dalla personalità scentrata e un po’ eccentrica, ma non cattiva: nutriva un gran bene per le persone, e capitava di rado che si ritrovasse in parte a disprezzarle per non essersi mai accorte di lui.
    Perso in quel labirintico flusso di pensieri, non s’accorse dello sguardo d’ambra scura che lo stava fissando; perse un battito nell’istante in cui comprese ch’era proprio quello d’Ushijima, e s’affrettò ad abbassarsi per sottrarsi ai penetranti occhi nocciola, finendo per impattare le ginocchia contro il pavimento marmoreo.
    Mi ha visto.
    Tendou non capì perché iniziarono a tremargli le mani, né come mai il suo respiro si fosse improvvisamente fatto più pesante, trasmutando in un affanno incontrollato. Ikkei gli si avvicinò preoccupato, scuotendolo per le spalle. — Figliolo, va tutto bene?
    — Mi ha visto, — sbiascicò con gli occhi spalancati, — quel ragazzo mi ha visto.
    L’abate lo aiutò a sedersi, premendogli la schiena contro la pietra della massiccia balaustra. — Non è accaduto niente di grave, Tendou.
    Il giovane campanaro non aveva mai incrociato altri occhi all’infuori di quelli del suo maestro o d’Ikkei. S’era ingenuamente convinto che lui, poiché nessuno s’era mai premurato d’incrociare il suo sguardo, apparisse al mondo come uno di quei mostri di cui cianciavano i racconti popolari: un essere immateriale, che non aveva consistenza alcuna e che quindi, per lecita conseguenza, non aveva ragion d’esistere.
    — Mi ha visto, — continuò, vittima dell’angoscia e del panico, — dovrò dirlo a Padron Tanji.
    — Non è il caso.
    — Ma lui mi ha visto! — Il tono di voce, che prima aveva tentato vagamente di controllare, si fece più pressante e impaurito. — Se lo dicesse a tutti, allora verrebbero a sapere di me.
    — E questo ti preoccupa? — gli domandò con tranquillità l’abate.
    — Guardatemi! — Tendou fece scorrere le dita sui solchi ch’intercorrevano tra una pietra e l’altra, evitando d’incrociare lo sguardo dell’ecclesiastico. — Sono un mostro. Cosa potrebbe mai accadere di buono, se qualcuno mi vedesse?
    Ikkei rimase a fissare il giovane per qualche istante, indugiando – più che sulle sue orrende fattezze – sulla smorfia di dolore che aveva dipinta sulla bocca. Non riuscì a trattenere la pena nel vedere quel povero figlio ridotto ad un’ombra di un essere umano, spaventato da sé stesso e da ciò che la gente avrebbe mai potuto pensare di lui. Aveva passato molto tempo in sua compagnia, tanto da sapere che grande animo possedesse e quale nobiltà di sentimenti lo caratterizzasse, sebbene a volte preferisse nascondere quella sua incertezza dietro un atteggiamento apparentemente distaccato e freddo. Eppure, ciò che all’abate sembrava palese come il sole allo zenit, al ragazzo non appariva affatto così chiaro, irretito dai continui litigi con l’Arcidiacono, che non perdeva mai occasione per fargli notare quanto il suo aspetto fosse spaventoso.
    Portò una mano a carezzare i capelli di ruggine che scendevano dal capo pallido e sudato, scuotendoli come fossero fili d’erba. — Tu non sei affatto un mostro, Tendou.
    Era la verità, solo che il campanaro non la conosceva ancora. Non v’era nulla di sbagliato nel suo aspetto, ma il mondo sapeva essere molto crudele, così spietato che Ikkei non era sicuro che il ragazzo fosse in grado di sopportare il dolore che avrebbe potuto provare, nell’accorgersi dei volti incupiti e spaventati di coloro che aveva spiato per tutta una vita dal cornicione più alto di Notre-Dame.
    Mentre lo aiutava ad alzarsi, il diocesano si sporse dal parapetto del loggiato, curioso anch’egli d’osservar la scena.
    Lo sguardo d’Ushijima era ancora lì, ma non sembrava affatto spaventato.





    La Fête des Fous[⁵] era un’istituzione per tutto il popolo parigino. Cadeva sempre gli ultimi giorni di dicembre, ed era l’unico momento dell’anno in cui era possibile scordarsi della propria patetica esistenza per concedersi al benessere dell’edonismo più spietato, fatto di vino, musica, donne.
    La gente amava smarrirsi in quel clima di perdizione, poiché durante la Fête des Fous tutto era concesso. Proprio tutto.
    Era una ricorrenza ereditata dai Saturnali romani; ma, al contrario della sua parente più antica, questa di propiziatorio[⁶] non aveva nulla: costituiva un modo per evadere da una realtà insignificante e molesta, l’unica possibilità di riscatto d’un popolo che aveva ormai perso gran parte dei propri valori etici. C’era chi s’ostinava a credere che la festa avesse un che di religioso, ma i più arzilli – al suddetto commento – si limitavano a sputare via il vino che avevano in bocca per sbiascicare alticci quanto fosse profana, a tratti quasi eretica.
    A supportare tale ipotesi, v’era la certezza delle malefatte che spesso venivano commesse durante i giorni di baldoria: era capitato più volte che qualcuno venisse ammazzato, altre che qualche donna subisse violenza. Nei casi più gravi era accaduto che più d’un bambino si perdesse nella folla per non fare ritorno.
    La colpa veniva attribuita agli zingari – il che era illogico, poiché loro non partecipavano mai alla suddetta celebrazione.
    Quell’anno, tuttavia, fu diverso. Il capitano della Guardia Reale s’era accordato coi due principali esponenti del clan andaluso per conceder loro di prendere parte ai festeggiamenti. Questi ultimi, la mattina del ventisette dicembre, si presentarono davanti a Notre-Dame, coi loro vivaci costumi e i sorrisi spensierati tipici di chi s’era approfittato della vita per dissetarsi d’ogni goccetto ch’essa aveva da offrire.
Tendou li spiava come ogni anno dal cornicione sopra l’ogiva del portone più grande, accorto affinché nessuno potesse vederlo: non aveva accettato l’idea d’esser stato notato da uno di loro, soprattutto perché non aveva ancora trovato il modo di dirlo a Padron Tanji.
    Ushijima era accanto ad un tendone color carta da zucchero, intento ad allestire le decorazioni che cadevano dai lunghi fili tra una lanterna e l’altra, mentre tutt’intorno s’animava di gente vestita a festa: v’erano il fornaio, il maniscalco, il custode notturno, le donne del bordello e così tanti bambini da non poterli contare tutti. C’era una moltitudine di giovani innamorati, pettegole e quel gruppetto di calzolai che di solito si presentavano in piazza solamente per riparare i mocassini guasti di qualche squattrinato popolano.
    La mattina del ventisette dicembre era il momento più importante dei tre giorni di gozzoviglia, poiché v’era l’elezione del Papa dei Folli: tra i partecipanti, veniva scelto colui dalla fisiognomia[⁷] più agghiacciante e fatto pontefice per un giorno. Era l’attimo più atteso, quello per il quale tutti s’affannavano in piazza, nella speranza di poter trovarsi abbastanza vicini al palco per godere dell’immensa bruttura dei fenomeni da baraccone che si prestavano a tale ignobile parata – che, se non fosse stato per i soggetti ch’ivi sfilavano, si sarebbe potuta scambiare per una processione di penitenti.
    Tendou, anch’egli vittima del puerile interesse, si ritrovò ben presto a qualche metro dal portone di Sant’Anna, quello più vicino alla folla. Intento com’era ad osservare il ridicolo teatrino, scivolò all’altezza della strombatura, finendo per scontrarsi con il rigido pavé dell’ingresso. Si coprì il volto col cappuccio, speranzoso che nessuno avesse notato la scena.
    — Ehi, tu!
    Il campanaro s’immobilizzò, somigliando fedelmente ai gargoyle che gli avevano tenuto compagnia per tutti quegli anni.
    — Se non sali adesso, verrai escluso dalla competizione —, continuò l’uomo, afferrandolo per un braccio e trascinandolo in prossimità dell’impalcatura.
    Tendou se ne stette col capo chino, preda del panico. Non sapeva cosa fare, e si fece condurre passivamente sull’improvvisato ponteggio in legno, accanto agli altri concorrenti della competizione. Avrebbe potuto fuggire, ma non lo fece; si comportò alla stregua di alcune specie di passero che, consce di un imminente pericolo, s’immobilizzavano senza porre l’ingegno ad una via di fuga.
    Il presentatore – uno degli zingari andalusi – si lanciò in vacue affermazioni atte solo a suscitare l’ilarità generale dei presenti, iniziando a togliere le maschere che coprivano i volti di coloro che, in tutta Parigi, erano considerati i più brutti. Quando si ritrovò di fronte al ragazzo, gli strappò via il cappuccio dalla testa e gli prese gli zigomi, accorgendosi l’istante dopo che ciò che il campanaro aveva addosso non era affatto una maschera.
    — Quella è la sua faccia —, mormorò spaventata una signora vicino al palco, portandosi le mani a coprirsi la bocca.
    Il disorientamento del pubblico mutò presto in una crisi d’isteria, che giunse al suo culmine nell’istante in cui uno dei borghesi più ubriachi lanciò un pomodoro che colpì Tendou sulla guancia. Un altro gli scaraventò addosso un secchio d’acqua ghiacciata, un altro ancora una buccia di banana, fino a percuoterlo con delle arance acerbe più massicce dei sampietrini che infestavano il pavimento della piazza.
    Tendou non provò dolore o almeno non nel senso fisico della sua accezione. Era uno spasimo più angosciante e disperato, che peggiorò nell’istante in cui sentì un cappio intorno al collo stringerlo e farlo cadere rovinosamente a terra.
    — Un applauso per il Papa dei Folli! — gridò una voce dalla platea, mentre il pubblico si dilettava a lanciargli contro qualsiasi cosa fosse in grado di ferirlo. — Un applauso al gobbo di Notre-Dame!
    Lo sguardo di Tendou s’assottigliò nella speranza di trovare tra la folla qualcuno che fosse in grado d’aiutarlo. Gli occhi rossi, un po’ per il pigmento dell’iride che li caratterizzava e un po’ per il bruciore dovuto al succo degli agrumi, vagò fino alle tribune dov’erano seduti i funzionari pubblici. Lì, seduto accanto agli altri giudici dalla tonaca nera, v’era il suo maestro.
    — Padron Tanji! — gridò, mentre stringeva le palpebre per paura d’esser colpito da una frustata. — Padron Tanji, aiutatemi!
    L’alto prelato rimase a fissarlo, ma non mosse un dito. D’improvviso, al ragazzo divenne tutto palesemente chiaro: i litigi che avevano avuto, gli avvertimenti sulla gente, lo sguardo grigio costantemente iracondo, ogni cosa ch’era accaduta tra loro avrebbe dovuto essere un insegnamento, ma Tendou non ci aveva mai davvero creduto. S’era fidato delle persone, e quello non era altro che il ringraziamento per aver vegliato su di loro fin da quando aveva memoria.     Avrebbe voluto urlare, arrabbiarsi, gridare il suo odio a tutti quelli che lo stavano deridendo. Eppure rimase lì a farsi buggerare, perché sentiva di doversi meritare una punizione per esser stato così incautamente spontaneo da concedere la propria fiducia a chi non l’aveva meritata.
    D’un tratto, il frastuono della folla cessò; Tendou schiuse una palpebra per osservare cosa fosse accaduto, poiché non avvertiva più le percosse inflitte dalla corda né il continuo sbattere degli oggetti lanciati dalla calca. Lì, a pochi passi da lui, c’era Ushijima.
    Trattenne il fiato, mortificato all’idea che il loro primo incontro accadesse proprio in quell’istante, e distolse lo sguardo dagli occhi pietosi dello zingaro, che s’appropinquò al suo fianco, sfiorandogli il braccio sporco di succo di pomodoro.
    — Mi dispiace, — lo sentì dire, con voce profonda e calma, — deve averti fatto male.
    Tendou non rispose, stringendo la mandibola per evitare di prorompere in un pianto nevrotico e baritonale, simile al rantolo d’una bestia. Il giovane andaluso slacciò dalla caviglia un fodero da cui estrasse un piccolo coltello affilato, posizionandolo proprio sotto la corda che continuava ad avvincere il collo del campanaro.
    — Zingaro, fermati! — sbottò la voce imperiosa di Tanji, alzatosi in piedi. — Fatti da parte. Non è tuo compito occuparti di lui.
    Ushijima lo fissò senza batter ciglio. Rimase inginocchiato accanto al ragazzo, con lo sguardo ambrato in bilico tra lui e l’alto funzionario che lo stava ammonendo; ma non sembrava intimorito, al contrario. V’era una rabbia silenziosa e inquietante nelle iridi nocciola, un sinistro disappunto che si manifestò attraverso le dure parole che seguirono.
    — Parlate di giustizia, poi permettete cose come queste. — Il tono di voce del gitano rimbombò con solenne maestosità tra i volti sgomenti del popolo, perdendosi per le vie deserte di Parigi. — Maltrattate lui, così come avete sempre maltrattato la mia gente.
    Pronunciata quella sentenza, Ushijima tagliò la corda stretta intorno al collo di Tendou.





    Tendou non sapeva quanto commovente potesse essere il tocco d’una carezza. Nella sua vita non era mai stato oggetto del contatto fisico, che aveva sperimentato solo le poche volte in cui l’abate Ikkei gli aveva strofinato i capelli. Per cui non riuscì a trattenere l’immensa serenità che provò nel sentire il delicato palmo della mano di Ushijima, mentre con uno straccio lo ripuliva dalle tristi offese della mattina passata.
    Non appena ebbe slegato la corda che lo imprigionava, lo zingaro fu accusato di oltraggio alla legittima potestà, finendo per essere rincorso da più d’una decina di guardie reali, che non riuscirono a catturarlo prima che l’abate Ikkei gli gridasse di rintanarsi a Notre-Dame. Una volta lì, l’ecclesiastico si rifiutò di cederlo alle autorità, giustificando il suo vilipendio con la banale scusa che il ragazzo avesse chiesto il diritto d’asilo – non che fosse vero, ma il curato era sempre stato convinto che una bugia detta a fin di bene non fosse poi un peccato così imperdonabile.
    L’Arcidiacono divenne furioso, ma non addusse alcuna scusa per poterlo imprigionare, certo che il gitano avrebbe comunque cercato una via di fuga prima del calar del sole.
    — Mi dispiace —, biascicò Tendou, mentre su Parigi s’adagiava il più scuro dei crepuscoli. — Non avresti dovuto metterti in mezzo. Guarda in che guaio ti sei cacciato.
    Ushijima volse lo sguardo verso quello del campanaro, che non era ancora abituato a sentirsi osservato in quel modo. L’andaluso aveva un carattere decisamente bizzarro e a tratti incoerente: sembrava un ragazzo tranquillo e taciturno, eppure era stato l’unico ad intervenire nel momento in cui lui aveva avuto bisogno d’aiuto. Appariva come una persona che pensasse a molte, troppe cose. Tendou, sbirciando in quelle pozze d’ambra scura, riusciva a scorgere un’insolita nobiltà d’animo e delle convinzioni inossidabili, le stesse che gli avevano permesso di trovare il coraggio d’opporsi a Tanji e alle guardie reali.
    — Ti stavano facendo del male, — dedusse lo zingaro, alzando le spalle, — ma senza che ce ne fosse la ragione.
    Persino il suo modo di parlare gli appariva pittoresco; aveva una profonda voce cavernosa, che cozzava terribilmente col volto rilassato e olivastro, impreziosito da quei magnifici occhi tondi e ricolmi di placida quiete. Ushijima, al suo pietoso sguardo di gobbo, appariva come quel fascio di luce ch’incontrava all’albeggiare, mentre suonava le campane: sbucava timidamente da sopra i tegolati sciamannati, scivolandogli in viso come la blandizia di Madre Natura che sembrava volergli concedere il suo silenzioso buondì.
    Ma la cosa che più sbalordiva il campanaro era l’assoluta indifferenza che il gitano pareva nutrire nei confronti del suo aspetto, sul quale non s’era pronunciato neppure con una parola di biasimo.
    — Non hai paura di me? — gli domandò infine, mentre lo vedeva intento a fasciargli un braccio.
    Ushijima sembrò non dare troppo peso al quesito; si limitò a scrollare il capo e ad affermare, con voce del tutto atona: — No.
    — Non provi disgusto?
    — No.
    Il girovago non era un tipo di molte parole, questo Tendou riusciva a comprenderlo facilmente. Eppure, nonostante fosse consapevole di quella sua singolarità, lui voleva parlargli. Voleva ascoltare la voce melodiosa e profonda, voleva raccontargli del campanile, di Parigi e di tutto quello che uno zingaro andaluso non avrebbe mai potuto sapere sulla città, sui suoi abitanti, persino sulle abitudini di ognuno di loro. Tendou voleva renderlo partecipe della sua vita, sebbene non fosse mai stata così piena d’avventure come avrebbe voluto.
    Era forse l’infantile capriccio d’un moccioso, eppure vedere Ushijima a pochi passi da lui, col volto rilassato e le spalle poggiate contro un vecchio contrafforte di legno, rese Tendou così felice d’ammutolirlo. Il gobbo, che di per sé non aveva mai conosciuto nessuno al quale poter donare il suo affetto, si ritrovò a fissare lo sguardo melassa e la bocca sottile dell’ospite, sperando che quell’istante non dovesse finire mai.
    — Vuoi venire con me? — gli chiese infine, porgendogli una mano. — Voglio portarti in un posto.
    Ushijima afferrò le dita pallide e sottili che il campanaro gli aveva teso per aiutarlo ad alzarsi. S’avviarono per un soppalco polveroso e fitto di ragnatele; il gitano dovette abbassare la testa in più luoghi per evitare di sbattere contro i vecchi architravi deteriorati dal tempo. Lasciò scorrere un braccio lungo una sudicia tenda di iuta, sollevandola sopra la testa. La luce che gli trafisse lo sguardo lo lasciò inebetito per qualche istante. Avrebbe detto con assoluta certezza che si trattasse d’un raggio di sole, se non fosse stato per l’ora tarda.
    Lì, davanti ai suoi occhi un po’ diffidenti, c’erano le campane: quattro erano disposte una dietro l’altra, in fila ordinata, mentre le altre due sporgevano dalle giganti bifore del campanile più alto.
    — Queste sono Chambellan, Guillaume, Pasquier e Pugnèse[⁸]. — Tendou scivolò accanto a quelle più vicine. — Chambellan è la più piccola, poi ci sono Pasquier e Guillaume. Pugnèse è la più grande.
    Ushijima alzò il capo verso il paio di colossi di bronzo. — E le altre due?
    — Quella è Jacqueline —, continuò il campanaro, con un sorriso dipinto sul volto affilato. — E poi c’è Marie.
    — Parli di loro come se fossero vive —, affermò lo zingaro, affascinato dal giocondo alone di tenerezza con il quale il ragazzo le chiamava per nome.
    — In parte lo sono. — Tendou osservò dal basso il gigantesco batacchio ferruginoso delle squille sopra le loro teste. — O almeno per me. Ci sono molto affezionato.
    — Non ti senti mai solo?
    Sempre, avrebbe voluto rispondergli. Ma non lo fece, ché la sua vita doveva apparirgli già misera così, senza ch’egli vi mettesse dell’altro per sfumarla d’un infame pietà.
    — A volte capita. Mi sforzo di non pensarci.
    — Potresti uscire di qui.
    — Per andare dove?
    Ushijima lo fissò, con uno sguardo così profondo da richiamargli alla mente l’immagine d’un pozzo d’acqua scura. — Dovunque. Purché sia fuori.
    Gli zingari non vivono bene circondati da muri di pietra. Tendou aveva sentito quella frase molte volte, ed era curioso che gli balzasse alla mente proprio in quell’istante, mentre il giovane che aveva di fronte gli concedeva la vista d’una smorfia dalle fattezze d’un blando sorriso.
    — Oppure tu potresti rimanere qui, — proruppe infine il campanaro, incerto, — nessuno ti darebbe più fastidio.
    — Potrei. — Ushijima si voltò verso le monofore ogivali che affacciavano sulla piazza, perdendosi con lo sguardo verso il cielo plumbeo e velato d’una sottile coltre di nebbia. — Ma un gitano non può privarsi della libertà per vivere tranquillo, o finirebbe col morire.
    — Ma tu non sei come gli altri! — Tendou non aveva mai avuto una conversazione così lunga con nessuno, per cui non sapeva come ci si dovesse comportare in presenza di un’altra persona. Tuttavia, il campanaro era certo che Ushijima rappresentasse per lui ben più d’un semplice essere umano: era la linea di partenza per la sua vita, l’inizio. Non esistevano parole per poter definire quel sentimento, il quale con lesto appiglio gli aveva ghermito il cuore, che vittima dell’incantesimo più dolce aveva cominciato a battere non più per ignavia, ma per sincera gioia. — Tu sei diverso dagli altri zingari, perché loro sono malvagi!
    Ushijima lo fissò per qualche istante. Forse avrebbe dovuto arrabbiarsi al suono di quelle considerazioni così sprezzanti verso il suo popolo, eppure le uniche parole che uscirono dalla sua bocca socchiusa furono: — Chi ti ha detto queste cose?
    Tendou chinò il capo, colpevole. — Il mio padrone, Tanji.
    — Quindi è lui il tuo padrone?
    — Sì.
    Ushijima godeva d’un dono che Nostro Signore concedeva solo a pochi adepti, la spontanea ferocia della sincerità che gli permise d’affermare, senza batter ciglio: — Quell’uomo è spregevole.
    — Mi ha accolto quando nessuno mi voleva. — Per quanto le loro anime fossero ormai votate al perpetuo litigio, Tendou aveva in uggia chiunque osasse parlar male di colui che aveva sempre considerato il suo affetto più prossimo. — Ha deciso di prendersi cura di me, nonostante fossi un mostro.
    Al sentir pronunciare l’ultima parola, il gitano rilassò lo sguardo accigliato e il volto si distese in un’espressione del tutto indecifrabile, che recava in sé le fattezze d’una placida calma appannata da un velo d’inquietudine.
    — È lui che te l’ha detto? — domandò infine rivolto al campanaro, con una voce così seria da farlo impallidire.
    — Guardami. — Tendou rise, ma d’una letizia ipocrita e disgraziata, vittima dello sguardo inquisitorio del suo ospite. — Non ho bisogno che sia lui a dirmelo.
    Ushijima non rispose; non gli piaceva granché impicciarsi degli affari degli altri, specie perché era sempre stato uno spirito che, per indole, preferiva il raccoglimento della solitudine, la tranquillità d’una vita monotona e senza imprevisti. Nonostante ciò, non si diede alcuna pena nell’afferrare saldamente la mano che gli stava davanti, fissandola con un’intensità tale da rendere il volto del suo anfitrione paonazzo per la vergogna.
    — Non la vedo —, disse infine, con il solito tono monocorde.
    Tendou lo fissò dapprima sorpreso, poi confuso. — Cosa?
    — La linea del mostro. — Il gitano sorrise, schiudendo le perle adamantine che gli ornavano la bocca marcata. — Non la vedo.
    Il campanaro osservò la propria mano per qualche istante, perdendosi tra le righe che gli solcavano il palmo raggrinzito dalle funi che tirava la mattina presto, le corde vocali responsabili dei primi rintocchi di campana. Strinse le dita a pugno, distendendo la bocca in un piccolo sberleffo.
    — Forse hai sbagliato —, rispose infine, e non si sorprese affatto degli occhi scuri che lo scrutavano e che gli parevano vogliosi di confutare la sua tesi.
    O forse ho semplicemente ragione. Era questo, ciò che sembravano volergli dire.





    Passò un mese.
    Le guardie reali attorno alla cattedrale non accennavano a diminuire neppure col peggioramento del tempo, che divenne d’un rigido freddo stringente. Tanji si recò solamente una volta a visitare il suo allievo, e nessuno seppe mai dire se l'avesse fatto per sincera preoccupazione o se fosse stato solo un sotterfugio per potersi accertare della presenza del gitano. Una volta giunto in prossimità del campanile, il ragazzo che aveva sempre considerato alla stregua d’un figlio gli sbarrò il passaggio, vietandogli di proseguire. Quel semplice gesto bastò per sancire il litigio più brutale che avessero mai potuto avere.
    — Quel ragazzo ti ha stregato, non lo capisci?! — gli sbraitò contro, dimentico della sua austera compostezza. — Ti trascinerà con lui in una voragine di fuoco infernale!
    — Voi cosa ne sapete di lui? — Il campanaro assottigliò lo sguardo, somigliando ad una di quelle fiere citate dal Poeta[⁹]. — Per tutta la vita non avete fatto altro che dirmi che il mondo è un posto tetro e tenebroso, ma non ne sono più così sicuro.
    Il ragazzo, ch’era sì di buon cuore ma dotato d’una sottile ed aspra malizia, lasciò in sospeso la frase, certo che il suo senso più compiuto fosse già chiaro all’Arcidiacono, che con fare grave sibilò: — Sei ormai stato irretito, hai perso il senno.
    — No, — proruppe Tendou, che in tanti anni non s’era mai azzardato ad alzare la voce col suo precettore, — non sono mai stato così lucido come adesso.
    — Di che stai parlando?
    — Mi avete sempre detto che sono un mostro, che non ho il diritto di vivere in mezzo alla gente normale. — Il giovane strinse i pugni, accigliò lo sguardo rosso e penetrante. — Beh, Ushijima ha detto che non è vero, che non sono un essere rivoltante e che…
    — Ushijima? È così che si chiama quel figlio del demonio? — urlò l’alto prelato, preda dell’isteria. — Non ti è venuto in mente che ti stia usando? Perché mai uno come lui dovrebbe accettare la compagnia di uno come te?
    Le parole sprezzanti e cariche d’ira si scagliarono contro i timpani del ragazzo, ferendolo come tanti piccoli spilli appuntiti. Conosceva bene il punto di vista del suo maestro, ma sentirglielo pronunciare alla stregua di una delle sue arringhe prima di sancire l’impiccagione d’un condannato a morte, per Tendou fu decisamente più scioccante di qualsiasi altro battibecco. Serrò la mandibola e frenò l’impulso insano di saltargli addosso, convenendo che la violenza non sarebbe stata in grado di cambiare il punto di vista dell’Arcidiacono, che gli voltò le spalle e s’avviò per la rampa di scale.
    — Quasimodo, — lo sentì dire infine, — vivi con serenità questi ultimi giorni con lui.
    Tendou sgranò gli occhi, osservandolo mentre se ne andava e affrettandosi su per il loggiato esterno. Col fiato corto e il sudore sulla fronte, il ragazzo s’avvicinò al volto sereno d’Ushijima, che osservava con tranquillità l’orizzonte di Parigi e il cielo terso di quella mattina.
    — Avete litigato —, si limitò a dirgli. — Immagino sia per colpa mia.
    — No, non lo è. — Il campanaro lo fissò con un bizzarro luccichio nello sguardo, l’indizio sottaciuto alla bell’emozione a cui s’era rifiutato d’esporsi. Eppure, quando Tendou guardava lo zingaro, lo faceva con un affetto così singolare da far ingelosire la donna di Bath[¹⁰] e i suoi innamorati, giacché nelle iridi vermiglie banchettavano solerti quei sentimenti a cui non era mai stato in grado di dare un nome. Locuzioni come passione e desiderio, per lui erano come le affabili signore del Val d’Amore[¹¹], coi loro vestiti succinti e attraenti; tuttavia, gli sguardi di quelle donne erano vacui, preda dell’alcol e dell’eccitazione per una notte che – forse – non si sarebbero neppure ricordate.
Tendou non conosceva l’amore, ma lo provava. Così intensamente che si ritrovò presto a sfiorare con la mano intirizzita dal freddo la guancia asciutta del giovane gitano, che non parve affatto sorpreso dell’improvviso gesto.
    — Perché stai tremando? — gli domandò serio, mentre il campanaro s’accorgeva dei brividi che gli muovevano le dita.
    — Ho paura.
    — Di cosa?
    Il giovane non rispose, mentre con timida cautela avvicinava il viso a quello dell’andaluso, sfiorando con le labbra la sua bocca umettata e morbida, in un cenno che non aveva neppure l’arroganza di poter essere definito un bacio. Pose il capo sul torace dell’ospite, strizzando le palpebre per evitare d’irrompere in un pianto collerico e spaventato. — Non voglio che ti porti via da me.
    Ushijima comprese a chi si riferiva, ma non osò replicare. Era certo che l’Arcidiacono avrebbe trovato un modo per accalappiarlo e metterlo alla gogna, ma lui non si pentiva affatto del crimine che aveva commesso, giacché gli aveva mostrato il cammino per arrivare a Tendou. Forse non sarebbe mai stato capace d’ammetterlo con la stessa disarmante sincerità con cui era solito rivolgersi a lui, eppure si convinse che quella fosse la decisione migliore da prendere: in quel modo, il ragazzo che aveva imparato ad amare si sarebbe sentito meno solo, quando fosse giunto il tempo di separarsi.
    Il gitano fece scivolare delicatamente le braccia lungo la schiena cifotica del campanaro, chiedendosi cosa fosse quel nodo che sentiva attanagliargli lo stomaco. Ushijima non aveva paura di morire, la falce gli era passata accanto così tante volte che s’era ormai abituato a vedersela a fianco. Egli si dava pena per qualcosa ch’esulava dal semplice concetto di trapasso, una morsa serpentina e molesta che gli sussurrava all’orecchio che Tendou non sarebbe sopravvissuto al dolore di vederlo appeso ad una corda.
    — Devi fuggire, — lo sentì dire infine, scostandosi da lui, — se riuscissi a varcare il confine, lui non avrebbe più l’autorità per condannarti.
    — Non lo farò.
    — Perché?
    Ushijima fece un cenno col capo in direzione della piazza. — Ci sono dieci uomini ad ogni porta. Alcuni sorvegliano persino gli archi rampanti per evitare che io possa fuggire dal tetto.
    Pronunciò quelle parole, e mentre Tendou si lasciava andare ancora una volta all’aleatoria disperazione della perdita imminente, l’andaluso lasciò che la mente sfuggisse al controllo dell’intelletto, formulando silenziosa ciò che avrebbe tanto voluto dirgli.
    Voglio rimanere con te, fino alla fine.





    Tanji Frollo s’accomiatò dai suoi doveri d’alto funzionario per un altro lungo mese, osservando con sottaciuta rabbia Notre-Dame che s’ergeva come un gigante di fronte alla balconata in pietra del Palazzo di Giustizia.
    L’alba del quattro marzo – il giorno di S. Lucio Martire – l’Arcidiacono si presentò in piazza vestito con la tunica nera e il cappello che gli copriva la vetusta zazzera grigia. Era scortato da un seguito di cinquanta soldati della guardia reale più una ventina d’arcieri, giunti per sincerarsi che il gitano non fuggisse dai contrafforti dei loggiati più alti.
    La sentenza che fu letta ad alta voce da Tanji riferiva siffatte parole: — In nome del Re, la Corte di Parigi ha deciso in tal modo. Condanna Ushijima Agnès all’impiccagione per il reato di lesa potestà e oltraggio al pubblico ufficiale. In merito a tale sentenza, la Corte ritira il diritto d’asilo.
    A nulla valsero le proteste dell’abate Ikkei, che venne trattenuto contro la sua volontà per intralcio alla giustizia – ammesso che si potesse davvero definire tale il complotto ordito per legittimare l’omicidio d’un innocente.
    Ushijima era seduto sulla balaustra scolpita in cima alla torre, osservando la scena in compagnia dei silenti gargoyle. Rimase impassibile persino alla pronuncia dell’ordinanza, più calmo di quel che credeva. Tendou, al contrario, pareva afflitto da un incubo orrendo: aveva le guance scarne e pallide, gli occhi più gonfi del solito e la bocca serrata in un’espressione oscena, come uno di quei penitenti negli schizzi delle agiografie ch’era solito legger la sera. Si sentiva in bilico tra la follia e il dolore, in quel limbo ch’era solo per chi aveva amato e perduto. La sua anima, pulsante di rabbia e sgomento, sanguinava violenta al pensiero di perdere colui a cui il cuore concesse i primi rintocchi d’amore.
    — Tendou, — si sentì chiamare dalla voce tranquilla dello zingaro, — stai di nuovo tremando.
    — Lo so —, rispose monosillabico, poi con bugiardo dileggio continuò: — Non trovi anche tu che faccia un po’ freddo?
    — Per niente. Il sole è davvero caldo, oggi.
    Era una di quelle constatazioni che lo zingaro soleva fare, così semplice nella sua ovvietà da sorprenderlo ogni volta. Il campanaro si lasciò andare ad una risata sguaiata, un po’ maliziosa e un po’ avvilita, così perfettamente in linea con la sua contradditoria indole: era l’eco del suo cuore che provava l’ebrezza della dicotomia, la felicità di trovarsi accanto alla persona amata e il dolore per la consapevolezza di doverla perdere. Al centro di quella biforcatura c’era lui, Ushijima, che sembrava fissarlo con gli occhi più limpidi e la bocca più rilassata. Avrebbe tanto voluto chiedergli come si sentisse, ma si forzò a non porgli quella domanda, poiché la realtà s’era già palesata dinnanzi ai suoi occhi borgogna.
    — Sono entrati, — disse infine l’andaluso, mentre vedeva le guardie reali fare irruzione dal portone del Giudizio Universale, — quanto tempo ci vorrà, prima che arrivino qui?
    — Quattro minuti —, sentenziò Tendou, la cui voce aveva cominciato a tradire l’incrinatura del panico.
    Il volto d’Ushijima s’accese di quella smorfia che nascondeva l’intento d’un sorriso. — Se ci pensi, quattro minuti sono davvero un sacco di tempo.
    — Cosa vorresti fare? — gli domandò il campanaro, sedendosi al suo fianco.
    — Niente. — Il gitano chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dalla leggera brezza del maestrale che gli arruffava i riflessi castani. — Ho come la sensazione d’aver già fatto tutto.
    — Non hai paura?
    — Lo sai, questa domanda me la poni un po’ troppo spesso, Tendou —, gli rispose Ushijima con un tono di voce inspiegabilmente vivace, prima di tornar serio. L’andaluso fissò l’immensità della città dinnanzi a sé, e mentre sentiva il rumore metallico dei parastinchi dei soldati appressarsi alla porta in legno, si ritrovò a sussurrare: — La vita è troppo breve per aver paura. È così breve che non si dovrebbe mai sprecar tempo dietro a un litigio, a un rancore o ad una guerra.
    L’uscio che affacciava sul campanile si spalancò, i soldati si sparsero tutt’intorno a lui, puntandogli contro le lance. Gli afferrarono i polsi, costringendolo a seguirli, e a nulla valsero le proteste accorate del campanaro, che si lasciò scivolare sulle ginocchia contro la superficie ruvida della pietra, mentre due guardie lo immobilizzavano.
    Ushijima si voltò verso di lui, celando allo sguardo vermiglio l’istinto più primordiale che gl’intimava all’orecchio di fuggire.
    — La vita è breve, Tendou. — Quelle sarebbero state le ultime parole che gli avrebbe mai rivolto. — C’è solamente il tempo per amare. E quel tempo dura solamente un istante[¹²].
    Al suono di quel mormorio appena accennato, il giovane campanaro s’ammutolì, arrendendosi.





    Il patibolo era deserto. La gente andava via via dissipandosi, mentre il boia si trascinava dietro l’ennesimo rimorso per una vita strappata troppo precocemente alla gioventù degli anni.
    Tanji osservò l’esecuzione dall’alto della cattedrale, ignaro che lo sguardo iracondo del gobbo fosse già su di lui. Tendou non aveva vissuto abbastanza a lungo da comprendere cosa fosse la furia cieca, che giungeva nell’ora più buia a ghermirgli la mente, offuscandogliela come una coltre scura di pece.
    Quel giorno non vi fu alcun litigio, tra loro. Non appena il ragazzo sentì la voce del padrone ridere satura di follia, il suo sguardo si posò sul corpo rigido che pendeva dalla corda: v’era un che di dignitoso in Ushijima, persino nel momento in cui il ragazzo si soffermò sulla corda intrecciata di spago che abbracciava il collo niveo e tornito.
    Tendou pianse, ma senza emettere alcun suono; scivolò dietro le spalle del suo maestro e spinse le mani grinzose contro la schiena coperta dalla scura mantella, abbandonandosi alla malizia della collera. Tanji cadde in avanti, perdendo l’equilibrio e rotolando per le scale; batté la testa contro un piedritto in marmo, e non si svegliò più, mentre il respiro lo abbandonava e l’oblio della morte gli ghermiva l’anima, macchiata da troppi peccati perché Dio potesse concedergli la grazia d’incontrar Pietro[¹³].
    Ignorando la natura di quel gesto avventato, il campanaro scese con rapidità le scale del campanile, riversandosi con foga sulla piazza principale. Lì, ancora legato alla gomena che formava il cappio, v’era il corpo senza vita dell’uomo che amava.
    Camminò lentamente verso la forca, fissando il giovane gitano dal basso e maledicendosi per non essere stato in grado di proteggere l’unica persona che avesse mai provato ad aiutarlo, mostrandogli i mille volti che possedeva e che Tendou non avrebbe mai più rivisto. Trattenne un singhiozzo, ma poi ne sopraggiunse un altro, poi un altro ancora.
    Con rabbia slegò il capestro che teneva avvinta l’epidermide irrigidita e pallida della gola d’Ushijima, lasciando che il peso di quel corpo senza vita gli piombasse addosso come il più mefistofelico dei contrappassi. Lo strinse tra le braccia lunghe e tremolanti, mentre il raziocinio dell'omicidio si dissipava rapido nella mente, lasciando il posto al dolore e all’angoscia per quel giovane ragazzo di cui non avrebbe più visto lo sguardo, né la smorfia che sfociava in un sorriso appena accennato.
    Fu allora che Tendou gridò con tutto il fiato che possedeva in corpo, mentre le sue lacrime bagnavano il volto rilassato del gitano, scorrendo lungo il collo marchiato dal segno del canapo. Urlò per la disperazione di dover sopportare un dolore che non gli era mai stato detto che potesse esistere e che il suo corpo, per quanto grande, non era in grado di contenere. E urlò per quella tristezza che sentiva rubargli l’aria e annaspargli i sensi, mentre con le lunghe dita callose sfiorava il volto d’Ushijima e pregava il cielo che si svegliasse, ché lui quell’agonia non riusciva proprio a sopportarla.
    — Per piacere, — singhiozzò, — per piacere non portarmelo via!
    Per quanto benevolo, il Dio in cui tanto aveva creduto non rispose a nessuna delle sue suppliche, lasciandolo preda della sofferenza, l’unica prova che ancora testimoniava che il ragazzo fosse vivo: dentro di sé, a poco a poco, sentiva la vita scivolare via, e gli occhi del gitano, il sorriso perlaceo, il volto rilassato, persino la voce profonda erano ricordi preziosi che trasmutavano in pugnali affilati che gli squarciavano la carne, lasciandolo in balia di cicatrici che non si sarebbero mai più rimarginate.
    Tendou pianse fin quando le lacrime glielo concessero. Poi s’abbandonò sul torace immobile d’Ushijima, attendendo paziente che la morte giungesse a prendere anche lui. Col passare dei giorni il suo corpo si fece più pesante e la mente cominciò a vacillare. All’alba del quinto, Tendou non riuscì più a distinguere i contorni di ciò che lo circondava.
    In lontananza, le campane di Notre-Dame presero a suonare: era una melodia leggera, che si perdeva nella brezza della primavera ormai alle porte. Peccato che lui non sarebbe stato lì per vederla sbocciare.
    Il sesto giorno il ragazzo smise di respirare e s’addormentò. Le campane interruppero la triste sinfonia.
    Con l’ultimo rintocco, era come se gli avessero detto addio.





Il matrimonio di Tendou[¹⁴]

    Tra tutte le carcasse del sotterraneo Montfaucon, ve n’erano due del tutto singolari. Erano due scheletri bizzarramente abbracciati; il primo era di un uomo: attaccate alle ossa sporgenti v’erano ancora le vesti dai colori mangiati dal tempo ed una piuma appesa all’orecchino, di così scarso valore che il boia non aveva neppure tentato di sottrargliela. Il secondo scheletro era quello che stringeva tra le braccia il primo, ma non pareva possedere le fattezze d’un comune essere umano. Aveva le braccia lunghe, il collo incredibilmente sproporzionato, la colonna vertebrale storta e il cranio sporgente.
    Ciò che appariva bizzarro, era che quello scheletro non presentava alcuna frattura vertebrale alla nuca, cosa che rese evidente il fatto che non fosse stato impiccato come tutte le altre salme che lo circondavano, compresa quella che stringeva tra le braccia. Alla luce di quella considerazione, risultava a tutti ovvio che l’uomo a cui appartenevano quelle ossa avesse scelto di trovarsi lì di sua spontanea volontà e di morire.
    La curiosità prese il sopravvento sulla bizzarra storia, e tutti s’iniziarono a chiedere a chi potesse mai appartenere quella carogna, bramosi di sciogliere i mille dubbi che s’erano creati intorno alla surreale vicenda.
    Tuttavia, quando lo si volle staccare dalle spoglie che teneva ancora strette tra le braccia, lo scheletro andò in polvere, portando con sé il segreto che gelosamente aveva custodito per tutti quegli anni.



Fine




NOTE:
[¹] Il re di Francia.
[²] Portale principale della facciata occidentale di Notre-Dame.
[³] Piccola delucidazione: Agnès, nell’opera originale di Victor Hugo, è il vero nome di Esmeralda. Ho preferito utilizzare Agnès piuttosto che lo pseudonimo perché l’ho ritenuto più adatto al nome Ushijima.
[⁴] Con tale termine s’indica in generale il dialetto francoprovenzale.
[⁵] Festa dei Folli.
[⁶] Durante i Saturnali si facevano sacrifici in onore del dio Saturno e per celebrare l’età aurea, dove non vigevano razzie e differenze dovute alle rispettive classi sociali.
[⁷] Piccolo chiarimento: ho scelto questo termine piuttosto che il moderno fisionomia, perché volevo renderlo alla greca, ossia lo studio dei tratti somatici per risalire alle componenti psicologiche di ciascun individuo.
[⁸] I nomi delle campane prima della loro fusione.
[⁹] Dante Alighieri.
[¹⁰] La donna di Bath è un personaggio dei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, delineata come una signora benestante, egocentrica e amante degli uomini, nonostante si professi una donna di religione.
[¹¹] Citazione dal musical Notre-Dame de Paris di Cocciante. Il Val d’Amore è un bordello.
[¹²] Ovviamente una frase così magnifica non è farina del mio sacco, precisiamo. E’ una frase di Mark Twain, che fin dall’inizio avevo deciso di utilizzare perché si sposava benissimo con questi due.
[¹³] San Pietro è il custode del Paradiso, colui che appare come giudice prima di permettere l’ingresso alle anime dei mortali.
[¹⁴] E’ la scena finale narrata da Victor Hugo, che viene comunemente denominata come il Matrimonio di Quasimodo.




✿◉●•◦
Cantuccio di Ever
Fanciulle e fanciulli - ammesso che ce ne siano!
Ci tengo a specificare un bel po' di cosette di questa storia, per cui partirò da ciò che mi pare più doveroso fare.
Vi chiedo scusa. Davvero, questa storia avrebbe meritato molto più di così, ma per le esigenze del contest a cui l'ho iscritta non potevo concederle più spazio, e credetemi quando vi dico che mi sono davvero mangiata le mani. La coppia UshiTen è una di quelle rare ship in cui mi sono sempre trovata molto in difficoltà a scrivere, un po' per la caratterizzazione di entrambi i personaggi - perché ammettiamolo, sono davvero di difficile inquadratura - e un po' perché non ci ho mai messo davvero la testa a capire cosa poter scrivere su di loro che piacesse in primis a me stessa.
Mi scuso anche in anticipo se trovate che il mio Ushijima e il mio Tendou siano OOC; trovandosi all'interno di un'AU e in un contesto storico completamente differente da quello originale, per esigenze di trama ho cercato di adattare al meglio i loro caratteri all'ambientazione, sperando di non averli troppo sradicati dalla loro indole originaria. Se così non fosse, mi dispiace.
Questa storia è nata da un esperimento, e come qualsiasi esperimento che si rispetti si trova in fase di rodaggio; della serie, o la va o la spacca, nonostante ammetto che sia comunque soddisfatta del risultato.
Per quanto riguarda la trama, sia che abbiate visto il cartone animato Disney, sia che abbiate guardato il musical di Riccardo Cocciante, sia che abbiate letto semplicemente il libro, questa storia ricalca un po' tutte e tre le vicende, ma rimane comunque molto ancorata a quelle del romanzo. Notre-Dame de Paris è sempre stata una delle mie opere preferite, per cui sono stata davvero molto emozionata di poterla prendere come canovaccio per questa storia.
Ovviamente, essendo questa AU liberamente ispirata alla vicenda descritta da Victor Hugo, non ho preso in considerazione gli altri personaggi del romanzo, altrimenti non mi sarebbero bastati dieci capitoli per delinearli tutti xD - oltretutto qui Ushijima viene accusato di lesa potestà, mentre nel romanzo Esmeralda viene condannata per il reato di stregoneria.
Bene, se siete arrivate a leggere fin qui vi ringrazio davvero molto per il tempo che avete dedicato per leggere questa "pseudo" storia e spero di non avervi ammorbato troppo con questi insignificanti dettagli - sono una tipa puntigliosa, perdonatemi! ^^"
A presto!

  
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