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Autore: venerescalza    14/07/2020    1 recensioni
Mi hai rimproverato dicendomi che scrivevo di cose mai iniziate e che dovevo chiudere col passato.
Ma non lo sapevi, o semplicemente  non volevi capirlo, che i punti alle cose mai iniziate non puoi metterli. E io
ti spiegavo e piangevo ma tu ti arrabbiavi e non parlavi e te ne andavi via.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C'era il tuo silenzio

 

Sei stato il primo a cui ho detto che mi piace scrivere. Te l'ho detto così, quando dopo mesi mi hai chiesto di dirti
qualcosa di me che gli altri non sapevano - e tu non hai fatto niente dopo che te l'ho detto.  Non hai sorriso, non hai
parlato, sei rimasto a guardare il posacenere sul tavolo del bar – e lì, per la prima volta, c'era il tuo silenzio.
C'era la pioggia fuori, leggera ma fastidiosa, e io avrei preferito starmene nella tua macchina ma tu dovevi
andare in bagno e avevi sete. Avevo la sensazione che tu mi stessi prendendo in giro nella tua testa maledetta e mi sono
ricoperta di inadeguatezza fino a non vedere i tuoi occhi che mi osservavano. Ti regalerò un quaderno, mi hai detto;
ma il graffio che mi avevi procurato con il tuo silenzio non è scomparso neanche dopo quella frase.
Cosa scrivevo me lo hai chiesto settimane dopo. E certo, certo che non me l'aspettavo. Forse l'hai vista la sorpresa che
mi plasmava la faccia, l'espressione sbigottita per la tua domanda fatta così, dal nulla, mentre mi passavi una bottiglia
di birra a casa di Giovanni. Hai fatto un mezzo sorriso che ho visto per miracolo e ho raccolto quel coraggio che
mi bastava per risponderti. Tutto e niente. Scrivo di tutto e di niente. Anche adesso sul quaderno che mi hai regalato,
con una penna blu che funziona poco e a tratti. Tutto quello che mi fai e il niente che mi dai. C'era l'ombra di un sorriso
sul mio viso ma forse non te ne sei accorto. Avrei voluto darti un'altra risposta, in realtà, ma non avevo racimolato
abbastanza coraggio per farlo. E avevo paura di un altro tuo silenzio, di un altro tuo taciuto giudizio e del senso di inadeguatezza
che mi avresti trasmesso solo guardandomi. D'amore, ti avrei detto, scrivo d'amore. E probabilmente, sentendomi,
avresti pure riso, perché in quel momento noi non eravamo altro che io e te e a legarci c'era solo pura curiosità; 
perché tu ancora all'amore non ci pensavi e se ci credevi non lo so, ma non sentivi il bisogno di provarlo. Volevi ridere,
startene con gli amici, uscire il sabato sera e scambiarti sguardi e baci insignificanti con le belle ragazze nei pub.
Ma no, non cercavi niente di quello che cercavo io.

C'erano le mie nocche spaccate per il freddo quando tu mi hai riaccompagnata a casa, quella sera, e c'era il riscaldamento
della tua macchina che funzionava a tentoni e l'orologio che segnava le due e mezza.  C'era il tuo silenzio, le mani sul volante
e l'espressione seria. Non mi hai guardato negli occhi per tutto il tempo passato insieme, nemmeno in centro insieme agli altri,
e non mi hai parlato neanche per rispondere al mio ciao di saluto. Non ti capivo e avrei dato oro pur di poterlo fare.
Ma c'era il mio imbarazzo malcelato con un broncio, gli occhi puntati fuori il finestrino e nessuno che guidava insieme a noi,
in quella strada deserta. C'era il bacio che mi avevi dato una settimana prima a bruciarmi ancora sulle labbra, a graffiarmi
peggio dei tuoi silenzi, il tuo respiro sulle mie guance quella sera che mi hai inchiodata al muro e, senza dirmi
niente, ti sei incastrato nella mia testa irruento come le tue labbra sulle mie. Al pensiero non respiro ancora.
In quella macchina pensavi, questo so dirlo con certezza, pensavi perché avevi la mascella serrata e una ruga tra
le sopracciglia e io avevo imparato a riconoscere quei dettagli; pensavi ma non sapevo a cosa. Forse al bacio.
Forse al silenzio che mi hai imposto con la forza dopo quello. Forse al non illuderti che mi avevi scritto per messaggio e al
mio sorriderti comunque nei giorni successivi nonostante il fastidio che quella frase mi aveva procurato. Forse per questo,
in quella macchina, mi hai guardata in quel modo.
E mi dicevi "queste cose con me non funzionano" e i miei "non so di che parli" ti infastidivano al tal punto che serravi le
mani e sbattevi i pugni sul voltante; la tua macchina era spenta sotto casa mia e il freddo mi spingeva a battere i denti.
C'erano i tuoi "smettila" e l'irritazione nella mia voce che rendeva pesanti le parole. Il tuo silenzio che mi graffiava
e la mia voglia di scendere e sbattere la portiera, lasciandoti solo al freddo. Hai sussurrato dopo minuti interminabili un
rimprovero che mi ha confuso; l'orologio segnava quasi le tre. Hai cantato a squarciagola quella canzone.
E io non ti ho capito, in quell'auto. Non ho capito a cosa ti stessi riferendo, perché avessi inscenato tutto quel casino
se noi eravamo ancora solo io e te. La canzone che c'era quando ti ho baciato, l'hai cantata come se niente fosse. 
E poi mi sono resa conto che in realtà eri tu quello che tra i due, quella sera, non aveva capito proprio un cazzo.

Di stare insieme non me l'hai mai chiesto ma io ti ho capito lo stesso. Non ce l'avevo la paura, in quei momenti, la paura
del tuo silenzio. Non mi preoccupavo abbastanza e forse avrei dovuto farlo un po' di più. C'erano le corse in autostrada
con le vecchie canzoni di Gemello, i testi de Lo Stato Sociale che ti avevo dedicato scritti sui polsi con il pennarello nero
che conservavi nel cruscotto. C'è stato il primo Ti Amo sussurrato nel buio della tua macchina quando
è arrivata la primavera. E ce ne sono stati mille altri, dopo di quello, con in sottofondo Stanza 106 nella tua stanza e in
altri mille luoghi: a casa di Giovanni, nello spiazzale, seduti sulle panchine, appoggiati al portone di casa mia e tra le nostre
labbra e nei nostri respiri che facevamo fatica a distinguere. C'era la mia gelosia, il mio bisogno di essere stretta, nascosta,
portata via, e il tuo modo fastidioso di finire le sigarette senza chiedermi se mi andasse di condividere l'ultima.

C'era il tuo silenzio. E c'erano le mie urla stanche e il mio pregarti di dire qualcosa, qualsiasi cosa, ogni volta
che litigavamo nella tua macchina, sotto casa mia o in qualche spiazzale vuoto. E volevi leggerle, le cose che scrivevo,
e forse non ti aspettavi di trovare tutto quell'amore e quel dolore. Non mi hai chiesto per chi le avessi scritte, mi
hai guardato e mi sono sentita piccola e ridicola in quelle mie emozioni così grandi. Tu avevi già capito.
Mi hai ordinato, o forse pregato, in quel tuo malo modo di supplicarmi, di metterci un punto.
Mi hai rimproverato dicendomi che scrivevo di cose mai iniziate e che dovevo chiudere col passato.
Ma non lo sapevi, o semplicemente  non volevi capirlo, che i punti alle cose mai iniziate non puoi metterli. E io
ti spiegavo e piangevo ma tu ti arrabbiavi e non parlavi e te ne andavi via. E tornavi, è vero, tornavi sempre, ma
con il bisogno malcelato in pretesa di essere l'unico nella mia vita. 


C'è ancora la tazza di caffè amaro che hai bevuto quel giorno che pioveva al bar. Il tuo sguardo fisso sul posacenere
mentre mi conoscevi, mentre mi pensavi. C'è ancora la mia inadeguatezza per il tuo silenzio, i tuoi occhi marroni che,
non lo so, forse speravano di leggere nei miei il tutto e il niente di cui parlavo. 
Ci sono ancora i miei cd masterizzati nella tua macchina, il pennarello nero nel tuo cruscotto con le mie impronte sopra 
e l'alone delle canzoni che mi piacciono sui tuoi polsi. C'è ancora il tuo silenzio, anche adesso che non ci sono più io.

 

   
 
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