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Autore: Bethesda    14/07/2020    1 recensioni
Grazie a Snehvide per l'idea/prompt
[...]
Non era più come prima di Mary, quando litigavamo ad ogni piè sospinto.
Era come se avessimo ricominciato da capo, quando con una semplice frase ero in grado di stupirlo e lui con un sussurro arguto mi strappava un sorriso o mi riportava alla realtà.
Mi sentii tornare a più di dieci anni prima, quando la gloria era ancora lontana ma non mi importava, perché mi bastavano gli occhi di Watson, ricchi di meraviglia e ammirazione, per capire che sì, stavo facendo un buon lavoro e che adoravo il fatto che fosse lui ad assistere.
Vi caddi nuovamente con tutte le scarpe.
Ero tornato con l’intenzione di portare sollievo ad un caro amico, scacciando un po’ di dolore e prendendo almeno parte del suo fardello sulle mie spalle, anche senza che se ne accorgesse, e quello che accadde fu invece che me ne rinnamorai di nuovo.
[...]
Holmes torna a Londra per trovare un Watson cambiato nello spirito quanto nel corpo.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non sono un buon Cristiano.

Dio, o chi per lui, sa bene quali sono le mie colpe e quanto abbia peccato.

Non me ne voglia: ho sempre cercato di agire seguendo una mia morale, forse troppo sicuro che il mio giudizio potesse prevalere su quello di chi per lavoro discerne il bene dal male – vogliate voi scegliere fra accoliti o magistrati – e con questa convinzione ho portato avanti il mio lavoro, spesso incurante di me stesso o, peggio ancora, degli altri.

In particolare di una singola anima, l’unica di cui davvero mi sia importato, ben più che della mia stessa.

 

Non son Dio, ma se fossi in lui non mi perdonerei per ciò che ho fatto al buon Watson, e me ne pento, me ne pento, me ne pento.

 

 


 

 

Londra mi accolse nuovamente fra le sue braccia dopo anni, nella primavera del 1894, dopo tre anni di assenza, e nulla era cambiato.

Non era cambiato il mio buon fratello, che mi accolse al Diogenes Club senza batter ciglio, nonostante il mio tentativo di sorprenderlo con quello che ritenevo uno dei miei migliori travestimenti - «Non m’inganni, Sherlock, e ora togliti quella stupida parrucca».
Non era cambiata Baker Street, nonostante l’incendio che Moriarty aveva provocato all’appartamento avesse lasciato la sua impronta sull’intonaco della palazzina.
E mentre vagavo per strade note, ero sicuro che non fosse cambiato neanche il mio amico.

 

Per anni mi ero dovuto trattenere dallo scrivergli, ma ben sapevo quando fosse tenuto sotto controllo dagli uomini di Moran, e non potevo permettermi di gettare all’aria tre anni di lavoro sotto copertura, e men che meno di mettere a repentaglio la vita del dottore.

 

Tuttavia, il 31 marzo – data che non potrò mai scordare – venne finalmente il giorno.

 

Avevo aspettato a lungo la giusta occasione per potermi mostrare nuovamente al mio amico, e finalmente era giunta.

 

Non narrerò per filo e per segno le avventure che Watson ha già riportato – debitamente storpiate – nel suo racconto “L’avventura della casa vuota”, non ve ne è alcuna necessità.

Riporterò solo che ero effettivamente vestito come un vecchio libraio quando li incontrai – scontrai – per la prima volta dopo così tanto tempo, e che non posso che affermare che quasi mi commossi.

Tre anni posson sembrare un’inezia, ma non se son solcati da lutti.

E il dottore ne portava due sulle spalle, cosa che lo aveva colpito duramente.

 

Quando mi scontrò per strada non mi guardò negli occhi, ma io cercai i suoi: erano quelli di un uomo assorto, senza più il luccichio che avevo visto sino a che eravamo rimasti l’uno affianco all’altro e che si era sopito a fronte di tante, troppe cose.

Litigi, gli abusi fisici che ero solito auto-infliggermi, quelli mentali che l’uomo era stato costretto a subire quando aveva deciso di affiancarmi, di essermi amico.

E poi le ulteriori cattiverie che gli avevo serbato a fronte del matrimonio.

 

Questo è uno dei peccati.

 

La cattiveria inflitta a Watson in quegli anni, quando lui non desiderava altro che starmi accanto e io lo avevo scacciato a gesti come un cane, facendomi del male solo per vederlo soffrire.

Il fatto che non fossi riuscito ad accettare che un uomo come lui potesse davvero volermi vivere accanto nonostante tutto.

 

Avevo allontanato Watson dalla mia vita, spingendolo fra le braccia di quella donna – Mary, buon’anima, che nulla aveva fatto per meritare il mio disprezzo se non accogliere l’uomo che amavo e che non meritavo – e ciò che ne era scaturito era stato solo dolore per entrambi.

Sino alla mia dipartita.

 

Lo confesso, quando decisi brillantemente di fingere la mia morte, pensai subito a come il dottore avrebbe reagito, e all’epoca pensai che fosse perfetto.

Watson mi avrebbe dimenticato.

Sarebbe andato avanti con la sua vita, avrebbe vissuto con Mary, mi avrebbe dimenticato.

E io avrei dimenticato lui, me ne sarei fatto una ragione.

Dopotutto, pensavo, a quanti capitava di poter riiniziare da zero la propria esistenza?

 

Ma erano pensieri di un folle, un uomo divorato dal suo bisogno incessante di cocaina e dal senso di colpa.

Watson aveva avuto ragione sin da subito: gli oppiacei mi avevano obnubilato, erano diventati una necessità, come l’acqua, come l’aria, ben più che il cibo, e io non avevo voluto vedere. Con debolezza umana ero scivolato sempre di più nell’oblio tanto da non poter più fare a meno della soluzione sette per cento e mentre questa mi afferrava per le caviglie per trascinarmi verso il basso, la mano tesa di Watson diventava sempre più lontana e mi rifiutai di afferrarla.

 

Durante la mia latitanza mi disintossicai.

 

Non fu facile.

Dovetti estraniarmi dal mondo per riuscirvi e più di una volta ritornai sui miei passi.

Ma vi riuscii, tornando alla lucidità di un tempo, e con questa venne anche la consapevolezza di ciò che avevo fatto.

 

 

La notizia della morte di Mary mi giunse per missiva tramite mio fratello.

Poche parole, sporadiche, che tuttavia di devastarono.

Non tanto per la fine della donna, mancata certo nel fiore degli anni, ma per la quale non provavo alcunché – né disprezzo, né affetto -, quanto per il fatto che il mio piano, congeniato sul bordo dell’abisso, fosse fallito così miseramente.

 

Abbandonando Watson avevo voluto liberarlo da un peso, permettendogli di vivere al meglio e in modo consono a un gentiluomo della sua stoffa. Gli avevo certo dato un dolore - lo avevo ben capito dal suo racconto, così compunto eppure così sofferente – ma gli avevo anche concesso di rifarsi una vita a sua volta con una donna che lo amava.

Ma nel leggere quelle poche righe mi aveva colto un’ondata di malessere che quasi mi aveva spinto a riprendere in mano la siringa, cosa che venne impedita dal fatto che mi trovassi in un villaggio sperduto del Tibet dove poco si poteva trovare se non l’oppio – in quantità irrisorie e ridicolmente caro.

 

Non dormii per notti intere, tormentato al pensiero del mio Watson solo.

Abbandonato.

 

Questo avvenne a meno di un anno di distanza dalla mia presunta dipartita, e fu ciò che mi spinse ad accelerare il passo.

Invertii la rotta, e nonostante avessi deciso di non tornare a Londra anche al termine della questione Moran, decisi che non potevo fare una cosa del genere al mio amico.

 

E quando finalmente accadde, quando finalmente me lo trovai davanti, fu per me difficile continuare a celarmi nei panni del vecchio libraio.

Watson era sempre uguale, così come la città che avevo abbandonato, ma nonostante ciò potevo vedere ogni singolo cambiamento, ogni lutto, ogni dolore che gli era stato inflitto.

Che gli avevo inflitto io stesso, in parte.

 

E qui lo scrivo perché queste carte non vedranno mai luce se non in tempi lontani, quando il nome di del sottoscritto e del dottore non saranno dimenticati oppure facenti parte della leggenda, ma dovetti impedirmi di strapparmi di dosso quel travestimento per gettarmi con le braccia al suo collo.

Ma non lo feci.

Mi limitai nel mio teatrino, tanto durante il primo incontro quanto durante la prima fase del secondo, nel suo ufficio, dove mi insinuai abusando della sua gentilezza e incapacità di dir di no.

 

Quando mi sedetti alla sua scrivania strinsi i libri che avevo in mano con forza, tanto da far diventar le nocche bianche, tutto pur di tentar di nascondere il tremore che mi stava prendendo.

Che dir si voglia, Watson mi ha sempre dipinto come un cinico cuor di pietra, ma non in certe occasioni, non quando qualcosa mi era caro, non quando si trattava di lui.

E quando ebbi il coraggio di togliermi il travestimento, quando finalmente mi vide per chi ero, non potei trattenermi dal sorridere, perché finalmente potevo dire “Son tornato, non sei più solo”.

 

Watson svenne.

Non lo presi in giro, anzi, lo capii.

Non capita tutti i giorni di veder ritornare dalla tomba il proprio ex amante e amico, figuriamoci se pochi istanti prima si aveva di fronte un vecchio incartapecorito.

Ma questo il mio amico lo scrisse con chiarezza nel suo racconto, senza alcuna reticenza.

Tutto ciò che scrisse è vero, senza dubbio alcuno.

 

Certo, vi sono alcune omissioni.

 

Per esempio, il fatto che una volta sveglio, prima ancor di chiedermi di Moriarty, mi si gettò con le braccia al collo con una forza tale che entrambi cademmo nuovamente a terra e così restammo a lungo, immobili, mentre il mio tremore non solo non cessava, ma anzi, era diventato fin troppo evidente e per nasconderlo dovetti stringerlo fino a che non si placò.

 

Non vi furono accuse da parte sua, grida, offese.

 

Mi sarei meritato tutto ciò.

Si limitò a piangere silenziosamente, e me ne accorsi solo perché sentii la camicia inumidirsi e il suo respiro farsi rado, come se stesse provando a trattenere i singhiozzi.

Lo lasciai fare.

Non avrei certo rovinato il nostro incontro facendo facile ironia, quando potevo invece respirare a pieni polmoni il profumo della sua pomata per capelli, del suo dopobarba – sempre lo stesso – e quel nonsoché che mi aveva sempre permesso di riconoscere la presenza di Watson anche in una stanza colma di sconosciuti.

 

Ma fu allora che me ne resi conto.

Forse perché ebbi il tempo di studiarlo da vicino per parecchi minuti, forse perché vedevo le sue mani prive di guanti dopo tanto tempo, per la prima volta da almeno tre anni.

Notai le abrasioni della pelle, ovali, ben scavate e rosse dall’infiammazione, e mi domandai come avesse potuto procurarsele.

 

Bruciature di sigaretta, un qualche incidente in ambulatorio, dermatite indotta dal stress e conseguenti graffi sulla pelle già martoriata dalla vita militare.

Non feci in tempo ad esplorare tutte le alternative che Watson era tornato in sé e mi stava guardando con quegli occhi cerulei che mi avevano tormentato nelle mie notti solitarie in giro per il mondo, e tutto il resto passò in secondo piano.

 

 


 

 

Watson ed io tornammo a vivere insieme dopo non molto, sebbene la sua iniziale reticenza, e io stesso sapevo quanto come idea avrebbe potuto rivelarsi fatale.

Ma ero tornato per un’unica ragione, e nulla aveva senso se quella stessa ragione viveva lontano, anche solo a due quartieri di distanza.

 

Ci riadattammo l’uno all’altro con lentezza e diffidenza, e in Watson vedevo il tipico timore di chi ha paura di sbagliare e di rendersi conto che ciò che sta vivendo non è reale.

Me ne rendevo conto quando lo notavo perso con lo sguardo in poltrona, gli occhi vacui e lontani.

Presi l’abitudine di cercarlo con le mani.

Tocchi rapidi, sicuri.

Lo afferravo per pochi istanti per i polsi, per la spalla sana, oppure dandogli pacche rapide sul ginocchio accavallato.

Tutto per fargli capire che ero reale, che ero davvero presente e che non me ne sarei andato.

 

Inizialmente non comprese questo mio atteggiamento.

 

Non ero mai stato espansivo nei suoi confronti, e quando lo ero stato si era trattato di situazioni ben diverse, ma presto cominciò ad apprezzare quelle piccole impressioni di realtà.

 

Tuttavia, fin da subito, mi accorsi di qualche stranezza.

 

Watson era sempre fastidiosamente vestito.

 

Non si pensi a qualche nefandezza, sebbene in passato avessi apprezzato il corpo del dottore per ben altri motivi e lo ritenessi sempre un esemplare assolutamente encomiabile di essere umano – fisicamente parlando -, ma era ormai estate inoltrata e Londra era soffocante, eppure Watson sembrava intenzionato a non mostrare al sottoscritto neanche un centimetro di pelle più del necessario.

Eppure il dottore era solito, nelle nostre giornate torride passate a Baker street anni addietro, vagare per casa in maniera decisamente poco consona per un gentiluomo, essendo ormai insofferente al caldo, residuo di guerra insieme alle ferite di arma da fuoco.

 

Mentre adesso il colletto era sempre perfettamente accollato, le maniche srotolate e spesso gli notavo indosso i guanti.

Quando un giorno glielo feci notare, mentre goffamente cercava di girare il caffè mattutino, quasi non mi prestò orecchio.

 

«Sto usando in studio del fenolo per delle piccole operazioni ambulatoriali. Dicono che funzioni bene per evitare le infezioni. Però a lungo uso rovina la pelle e devo essermi procurato una dermatite».

 

Quel giorno allungai la mano verso di lui, intenzionato a chiedergli di poter vedere, controllare, curare.

Lui la ritrasse come avesse toccato delle fiamme vive.

 

«Non è necessario, Holmes. Davvero. Sto bene. Devo lasciarle all’asciutto per qualche giorno», disse dispensandomi uno dei suoi sorrisi carichi di benevolenza.

 

Gli credetti.

 

Ogni singolo indizio andava in direzione opposta, ma decisi di credergli, come uno stolto.

 

 

--

 

Quando giunse l’inverno gli strati di abiti certo non abbandonarono il mio amico, ma ormai erano passati mesi dal nostro ritorno alla normalità e in qualche modo vi divenne avvezzo.

Watson aveva pienamente ripreso a seguirmi nei miei casi e io stesso avevo ripreso a crogiolarmi nel fatto di averlo accanto.

Non era più come prima di Mary, quando litigavamo ad ogni piè sospinto.

Era come se avessimo ricominciato da capo, quando con una semplice frase ero in grado di stupirlo e lui con un sussurro arguto mi strappava un sorriso o mi riportava alla realtà.

Mi sentii tornare a più di dieci anni prima, quando la gloria era ancora lontana ma non mi importava, perché mi bastavano gli occhi di Watson, ricchi di meraviglia e ammirazione, per capire che sì, stavo facendo un buon lavoro e che adoravo il fatto che fosse lui ad assistere.

 

Vi caddi nuovamente con tutte le scarpe.

 

Ero tornato con l’intenzione di portare sollievo ad un caro amico, scacciando un po’ di dolore e prendendo almeno parte del suo fardello sulle mie spalle, anche senza che se ne accorgesse, e quello che accadde fu invece che me ne rinnamorai di nuovo.

 

Tuttavia non osai far nulla.

Nonostante il nostro passato insieme, non trovavo il coraggio di affrontare quell’argomento che una sera di tanti anni prima avevamo trattato in preda ai fumi dell’alcol, con Watson che mi gridava in faccia quanto fossi stato uno sconsiderato ad andare da solo contro un’intera banda di criminali da strapazzo, accusandomi di essere un egocentrico narcisista a cui non importava nulla degli altri.

Non che avesse torto sui primi due appellativi – checché se ne dica, so riconoscere i miei limiti – ma non era assolutamente vero che non m’importasse di nessun altro se non del sottoscritto.

All’epoca ero giovane e decisamente incline all’ira, e risposi per le rime a quelle accuse, e in men che non si dica ci trovammo l’uno di fronte all’altro, quasi pronti a venire alle mani, ma ciò che accadde fu ben diverso.

Avvenne che Watson pensò bene di distrarmi dalle ingiurie afferrandomi per il colletto spiegazzato e sporco di sangue per attirarmi a sé ed impossessarsi delle mie labbra.
Avvenne che pensai bene di non tirarmi indietro, e che mi avvinghiai a lui, come per evitare che potesse tirarsi indietro da quel malsano gesto.

Avvenne che quella sera smettemmo di urlare all’improvviso, e indubbiamente la signora Hudson si convinse che ci fossimo scannati a vicenda, quando invece decidemmo unicamente di passare ad attività più silenziose e soddisfacenti sul divano, e che così facemmo per molto tempo a venire.

 

Watson, dal canto suo, non sembrava patire i miei dilemmi interiori.

Si interfacciava a me come sempre, senza cerimonie, ma non sembrava avere più nei miei confronti un qualsiasi interesse che non fosse pura e semplice amicizia.

E forse non era addirittura troppo, visto come lo avevo trattato?

Visto ciò che gli avevo detto all’epoca, di cosa lo avevo accusato?

 

Mi convinsi che fino al giorno della mia dipartita mi sarei accontentato di quello, dell’amicizia di un uomo ben al di sopra del sottoscritto, e che sarei stato più che felice nel godere della sua compagnia e nulla più.

 

Era ben più di quanto potessi meritare.

 

 


 

 

Durante i due anni successivi, Watson tornò quasi del tutto ad essere se stesso con il sottoscritto.

Riprese a scrivere dei casi e sembrò quasi che quei tre anni non fossero mai davvero accaduti.

Lui stesso cominciò a riavvicinarmisi, ma se per un momento mi sembrava di poterlo riavere nuovamente fra le mie braccia, ecco che l’istante dopo era di nuovo lontano, quasi impossibile da raggiungere.

Non credo lo facesse per cattiveria.

 

I suoi sorrisi ogni qual volta mi trovava in salotto al mattino, il fatto che ogni tanto mi passasse le dita bagnate di brillantina fra i capelli fuori posto per sistemarmi come se fosse un gesto completamente naturale, il suo cercare sempre più spesso istintivamente la mia mano per giorni e giorni per poi non sfiorarmi neppur per sbaglio per settimane.

Era invero frustrante.

 

Eppure mai una parola, mai un cenno.

E io, frattanto, mi struggevo.

 

Forse mi ritrovavo a fissare quelle labbra con eccessivo ardore più volte al giorno, ma sfiderei chiunque sano di mente a ignorare la bocca di John Watson, in particolare quando è perso nei suoi pensieri, magari mentre mordicchia una matita prima di buttare giù una frase sdolcinata da lanciare in pasto ai propri lettori.

Debilitante.

 

Sembrava quasi lo facesse apposta, ma non sarebbe stato da lui.

Watson non era capace di malizia o di provocar dolore agli altri.

 

Eppure che patema non potermi insinuare nel letto con lui la sera, che sofferenza non poter sbottonare quelle camicie inamidate con le mie stesse dita. Lo avrei voluto di nuovo mio e unicamente mio.

 

 


 

 

Mi contattarono per un caso particolare nel Dicembre del 1897, e avrei voluto volentieri evitare di andare, dacché Watson era debilitato, ma il buon dottore mi convinse che se la sarebbe cavato da solo.

Ormai i mal di testa, da un po’ di tempo a quella parte – come mi aveva detto lui stesso – erano suoi amici fidati e spesso preferiva rimanere solo in stanza per ore per tentare di placarli nell’oscurità delle sue mura.

Inoltre il tutto si era associato a una febbre stagionale che lo aveva reso uno straccio, tanto che buona parte delle sue giornate in quei giorni l’aveva passata sul divano a rantolare, incapace di respirare dalle narici e con una febbre difficile da domare.

Quando mi giunse la richiesta del suddetto caso, lui era quasi tornato in sé e io agognavo un caso.

 

«Vai pure».

 

«Preferirei mi accompagnassi».

 

«Non credo di essere in grado di uscire ancora, Holmes».

 

«Rimanderò il tutto di qualche giorno dunque».

 

«Non dir sciocchezze, son settimane che non hai casi che ti interessino e non rinuncerai a questo per star dietro a me. Anche perché, se ben ricordi, il dottore qui sarei io».

 

«I medici sono i peggiori pazienti».

 

Inutile dire che il pomeriggio stesso mi ritrovai sul treno diretto verso Brighton e che lì rimasi quattro giorni, il tempo necessario a risolvere il caso e a portare a termine tutto ciò che era necessario per assicurare il malvivente alla giustizia – il fratello del padrone di casa da mesi fingeva di essere la beneamata governante, ritrovata deceduta, approfittando del fatto che la poveretta, per questioni legate al suo aspetto fisico, portasse costantemente una veletta in presenza di altre persone. Un caso abbastanza grottesco e degno di nota, ma non starò qui a parlarne.

Quanto tornai era sera tardi e in tutta onestà bramavo l’idea di mettermi in pantofole e vestaglia di fronte al fuoco scoppiettante per raccontare a Watson di come era andata, ancora piccato per il fatto che non mi avesse accompagnato, ma quando giunsi in Baker Street mi stupii nel trovare Mrs. Hudson nel nostro appartamento.

 

«Gli è tornata la febbre. Il dottor Bell lo ha già visitato e gli ha dato un ricostituente già due giorni fa e afferma che siamo sulla via della guarigione, ma non riesce davvero a muoversi, povero Dottor Watson», mi disse la padrona di casa, ma non la stavo davvero più ascoltando, troppo impegnato a percorrere ad ampie falcate gli scalini che separavano il salotto dalla stanza del dottore.

 

Entrai senza bussare, ma non era necessario, dubito mi avrebbe comunque sentito.

 

La stanza era rovente, e Watson giaceva inerte sotto un cumulo di coperte di lana mentre una pezzuola bagnata gli copriva mollemente la fronte.

Mi avvicinai a lui e afferrai la sedia per posizionarla accanto a letto, mentre le mie mani andarono subito a cercare il suo volto, per scoprirlo in fiamme.

 

Inutile dire quanto mi fece male vederlo così e quanto in colpa mi stessi sentendo.

Tuttavia a quel tocco parve risvegliarsi dal torpore, e con sguardo spento, assonnato, mi sentii scrutare.

 

«Sherlock, è tardi, vieni a letto».

 

Fu una stoccata inaspettata e se il dottore fosse stato in sé avrebbe visto quanto dolore mi aveva provocato, ma così non era e riuscii a dissimulare.

Andai a prendere la pezzuola dalla sua fronte, ormai quasi asciutta, e mi preoccupai di reinumidirla nuovamente nel catino di acqua fresca poco lontano.

 

Mi vergogno a dire che ne approfittai per lasciar languire qualche istante di troppo le mie dita sulla sua testa, passandole fra i capelli chiari per districarli dal sudore della febbre.

Quante volte in passato avevo fatto quel gesto in altri momenti, eppure sempre con un Watson addormentato o comunque sfiancato, che non aveva la forza di opporsi.

 

Come nel cercare di più il contatto, costui si girò su di un fianco, avvicinandomisi, e così facendo si scoprì un poco.

Per un istante accusai la luce fioca della stanza, ma no, stavo assolutamente vedendo più che bene.

La camicia da notte del dottore era aperta fino a metà petto e un ulteriore bottone stava per aprirsi, ma non fu tanto questo a preoccuparmi quanto ciò che vidi sotto.

 

Il corpo del dottore sembrava come maculato.
La sua pelle non era più come la ricordavo un tempo, ma sembrava un campo di battaglia, con cicatrici e crateri delle dimensioni di una moneta che prendevano tutto ciò che potevo vedere. Non si trattava di ferite aperte ma ormai alcune di queste si erano ridotte a cheratosi.

Preso dalla smania di capire e da un qual certo senso di panico, consapevole che lui fosse troppo febbricitante per ricordare o anche solo accorgersene, andai a cercare di liberare quanta più pelle possibile.

Sulle mani certo, vi erano giusto un paio di segni ma vi avevo fatto l’occhio negli ultimi due anni e non le avevo mai associate a qualcosa del genere.

Le braccia erano quasi intonse, mentre, oltre al petto e all’addome, parte delle sue gambe era ridotta al medesimo modo, e così il dorso dei piedi.

Mi sedetti sul letto, lasciandolo per un attimo così scomposto, osservandolo, incapace di pensare.

 

Un tarlo mi si insinuò nella mente, e benché non fosse un gesto che mi si confaceva lo scacciai.

 

Non aveva senso.

Non con Watson.

 

Non so dopo quanto tempo, ma lui riprese a tremare per il freddo, e con delicatezza andai a ricomporlo.

 

I giorni successivi non gliene parlai, né quando finalmente si risvegliò un poco più in sé né quando riprese a scendere dabbasso per far colazione.

Dopotutto, lui non mi aveva voluto mostrare questo suo nuovo aspetto, e se così aveva deciso doveva avere le sue buone ragioni.

Vergogna, forse.

 

Ma era quasi Natale, dopotutto.

 

Non avrei turbato i suoi sonni con la mia curiosità e preoccupazione.

 


 

 

Watson non aveva smesso di lavorare come medico dal mio ritorno, anzi. Ormai aveva una certa fama e i pazienti lo stimavano e lui non disdegnava quella vita.

Eppure capitava che ogni tanto tornasse di mal umore dall’ambulatorio, e come poteva non essere così?

Essendo di buona indole, in dottore non si limitava a trattare unicamente i suoi pazienti di quartiere, uomini e donne dabbene, ma anche poveretti che sapevano di poter trovare in lui una mano simpatetica.

Erano passati orami quattro mesi dalla mia scoperta, e sebbene la curiosità fosse rimasta non mi ero mai permesso di chiedere, stupendo addirittura me stesso.

Un tempo non mi sarei fatto problemi e avrei tempestato Watson non solo di domande, ma anche di deduzioni argute.

Invece in quel caso la mia mente rifuggiva il confronto.

 

Watson tornò in casa verso le cinque, trovandomi intento nella stesura di una delle mie monografie, e notai subito un’ombra sul suo volto.

Abbandonai carta e penna cautamente, avvicinandomi a lui mentre si sedeva sul divano, accasciandosi con un tonfo e un sospiro.

 

«Oserei dire che tu abbia avuto una giornata pesante».

 

Mi guardò con occhi tristi, senza parlare per più di un istante, e lo presi come un segnale.

Mi andai a sedere sul bracciolo della poltrona, osservandolo dall’alto verso il basso.

Non che volessi intimidirlo o costringerlo ad essermi troppo vicino, ma certe abitudini sono dure a morire e in tempi antichi lui era solito andare a posare una mano sulla mia coscia mentre l’altro braccio si impegnava a stringermi la vita. Inutile dire che non accadde.

 

«Devastante».

 

«La figlia del calzolaio?»

 

«Come fai a--», sgranò gli occhi, per poi placarsi. «Lascia perdere. Sì, lei. Purtroppo ha perso il bambino».

 

Corrugai la fronte.

 

«È la terza volta».

 

«Già», disse evidentemente stanco, una mano al volto.

 

«Mi aveva chiesto di seguirla per tutta la gravidanza, dato che ho avuto la fortuna di assistere alla nascita di sua sorella quando l’ostetrica non ha potuto aiutarla. Ma è inutile. È come se il suo corpo non volesse portare in grembo alcunché».

 

«Dovrebbe smettere di tentare».

 

«Non ho avuto il cuore di dirglielo, ma sì, lo penso anche io. È troppo minuta per poter reggere ulteriori aborti, e fragile. Ma con il marito che si trova--»

 

Gli posai una mano sulla spalla più vicina a me. Era evidentemente sconvolto e abbattuto.

Mi faceva male al cuore vederlo in una simile situazione.

 

Così, con spirito rinnovato, mi decisi a scrollarlo.

Dandogli due rapide pacche, mi alzai in piedi, mettendomi esattamente di fronte a lui.

 

«Datti una rinfrescata, Watson».

Il dottore mi guardò senza capire.

 

«Andiamo a cena fuori. Comincia a sentirsi aria di primavera e pare che Salisbury abbia rinnovato il proprio menù. E necessito di sgranchirmi le gambe. Hai circa trenta minuti».

 

E detto ciò scomparvi nelle mie stanze, intenzionato a non sentir replica e a prepararmi a mia volta.

Watson tuttavia non si oppose, sebbene fosse evidentemente in uno spirito poco congeniale alla socialità, ma stare in casa a crogiolarsi in un senso di colpa che non doveva appartenergli era malsano e sapevo quanto il buon cibo – e soprattutto un paio di buone bottiglie- avessero un effetto positivo su di lui.

 

Tuttavia Watson fu taciturno tutta la sera.

Certo, rispose alle mie domande e mi lasciò parlare di certe questioni e aneddoti verso cui mostrò interesse, ma era poco incline alla chiacchiera e molto più incline al vino e solo a quello. Quasi non toccò cibo.

Quando glielo feci notare, mi disse solo di aver lautamente pranzato e di avere lo stomaco chiuso.

 

Fatto sta che per fine serata io ero gradevolmente satollo e per niente alticcio, mentre Watson pareva tornato indietro a quando ancora frequentava assiduamente il suo gruppo di ex commilitoni e tornava a casa quasi carponi.

 

Forse fui crudele, forse riuscii ad ingannarlo, ma una volta usciti da ristorante non chiamai la carrozza e lo costrinsi a camminare fino a casa.

Lui non si oppose più di tanto, soprattutto non quando gli proposi il mio braccio a supporto, e camminammo vacillando in una fresca notte di marzo, diretti verso Baker Street.

 

Volli tuttavia accorciare la nostra strada, e per farlo dovetti obbligarlo a tagliare per quelle stradine che caratterizzano il centro di Londra e che solitamente i gentiluomini ignorano bellamente – o che cercano appositamente per proprio divertimento. Passammo davanti a PUB echeggianti di musicaccia e fumo, ragazzini accoccolati negli angoli per nascondersi dallo sguardo altrui e bordelli.

 

Quando rallentammo di fronte ad uno di questi per schivare una povera donna, che indubbiamente aveva visto giorni migliori, Watson si bloccò sui propri passi, bloccandomi con sé.

Il dottore ha sempre avuto una prestanza fisica ben superiore alla mia, e quando non aveva intenzione di smuoversi, semplicemente non lo faceva.

 

Rimase come inebetito di fronte all’ingresso e alla poveretta, che prese il suo temporeggiare per interesse, e si lanciò su di lui quasi con sguardo famelico.

 

«Vuole entrare, signore? Ho una stanza libera al piano di sopra, se lo desidera».

 

Tentai di scrollarlo, ringraziando la lavoratrice dell’offerta, ma fu come se Watson avesse preso uno schiaffo al volto.

 

Si risvegliò dal suo torpore per mollare il mio braccio, e prima ancora che potessi bloccarlo si era allontanato, infilandosi in una stradina buia.

Lo seguii celermente, e gli fui alle spalle solo dopo diversi metri, ma nonostante i miei tentativi di chiamarlo lui sembrava non intenzionato a fermarsi.

 

«Watson, giusto Cielo, fermati!»

 

Lo afferrai per un polso ma questo lo scostò, strattonandolo via, e prima che potessi rendermene conto eravamo in una piazzetta vuota, illuminata unicamente da un flebile lampione, e il mio Watson si dirigeva verso il centro di questa, le mani sui fianchi e lo sguardo alto, come alla ricerca di aria.

Potevo vedere le sue spalle alzarsi ed abbassarsi con ritmo forsennato e capii che quella era una scena che avevo già visto in passato.

 

Una crisi di panico non dissimile da quelle che si era trascinato dietro dal suo tempo nell’esercito.

 

Lo osservai a lungo da lontano senza capire, perché debbo ammetterlo, in quel momento ero completamente perso.

Nulla di tutto ciò che era accaduto oggi poteva essere in benché minimo modo collegato al suo passato da soldato, eppure la reazione era la medesima di quando anni prima, nel mezzo di un temporale me lo ero trovato inginocchiato in un angolo, a cercar riparo da fantomatiche esplosioni.

 

Mi avvicinai a lui cauto, mentre dentro di me ricollegavo pezzo per pezzo ogni avvenimento della giornata, ogni frase, ogni sospiro.

 

Quando mi posi di fronte a lui, si rifiutò di abbassare lo sguardo, e decisi di fare come mi ero sempre comportato all’epoca in certe situazioni.

Andai a cercare la sua mano destra e la strinsi a me, più e più volte, come piccoli richiami.

Ci mise qualche istante a recepire, ma capì.

 

Come quelle volte, come se nulla fosse cambiato fra noi, abbassò un poco il capo, quanto bastava per andare a far sì che le nostre fronti si toccassero, e nonostante fossimo nel cuore di una città che odiava quelli come noi, così rimanemmo e Dio, avrei fatto qualsiasi cosa per poter restare così per sempre.

 

Lasciai passare quello che mi sembrò un tempo interminabile prima di concedermi di parlare, e quando lo feci la voce mi uscì come un sussurro, e non nascondo che ebbi paura di sbagliare e di rendere il tutto irrimediabile.

 

«Vuoi parlarmi?»

 

Watson rispose con uno sbuffo dal naso.

 

«Riguarda la figlia del calzolaio?»

 

Lo sentii deglutire sonoramente, forse per il panico e la gola secca, forse perché il vino gli aveva reso la bocca pastosa.

 

Decisi di giocarmela.

A rischio di compromettere quel momento, ma avevo un dubbio, un singolo tarlo che mi tormentava da dicembre e in realtà ancora da molto prima, quando Watson mi celava le mani con i guanti anche in piena estate.

 

«Riguarda le cicatrici che hai sul corpo?»

 

L’effetto fu immediato.

 

Watson si allontanò da me con un balzo, barcollando, instabile nella sua ubriacatura e paura, e prima che potessi dire qualcosa si era allontanato ancora una volta, ma non era andato troppo distante. Lo vidi correre verso uno dei vicoletti che sboccavano sulla piazza e lì, nell’ombra, lo vidi piegarsi in avanti per rimettere.

 

Alzai lo sguardo al cielo, maledicendomi, e con passo calmo, silenzioso, lo raggiunsi. 

   
 
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