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Autore: ElinaFD    16/07/2020    8 recensioni
Questa non è una storia, ma la raccolta di tre storie, tre oneshot ambientate in tre anni diversi ma che condividono alcuni dettagli: il paese, Hasetsu, o più precisamente la casa in cui si svolgono, il periodo dell'anno, l'autunno, e i protagonisti: Victor e Yuuri. Attorno a loro piano piano tutto si muove, entrano ed escono persone, animali, tensioni, paure, gioie, minuti particolari di due vite che scorrono allacciate insieme. Alcune cose rimangono sempre uguali, altre cambiano, perché così è la vita. Ciò che resta è ciò che chiamiamo famiglia.
Questa storia fa parte della serie Kintsugi, o l'arte delle preziose cicatrici.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Otabek Altin, Victor Nikiforov, Yuri Plisetsky, Yuuri Katsuki
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Kintsugi, o l'arte delle preziose cicatrici'
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Ed eccoci qui con questa nuova frazione del mio mostruoso canon. Avevamo lasciato i nostri pattinatori nella primavera del 2021 con l'ultima storia che ho pubblicato (se non l'avete letta, si tratta di questa: non è necessario averla letta per capire questa fic, ma diciamo che aiuta a vedere lo sviluppo generale dei personaggi...), qui ritroviamo Victor e Yuuri nell'autunno dello stesso anno, alle prese con i loro personalissimi demoni. E' una storia breve, senza grandi pretese di raccontare fatti o eventi: un momento nella loro vita, uno scorcio di domesticità. Questa storia fa parte di un trittico, che a mano a mano pubblicherò. E' probabile che nel mentre pubblichi anche altro, perché sto cercando di andare in ordine cronologico e succedono un sacco di cose contemporaneamente, ma questa raccolta è già tutta ultimata, quindi non vi farò attendere troppo.

Colgo l'occasione per ringraziare tantissimo tutti coloro che hanno letto le mie storie precedenti. Sono arrivat* tant* nuov* utenti sulle mie povere pagine e i vostri commenti mi hanno reso molto felice. Non importa quanto tempo sia passato dalla pubblicazione, l'apprezzamento è sempre il benvenuto! (E fa tanto bene all'ego...) Ne approfitto anche per segnalarvi una lettura necessaria se avete seguito la mia serie Kintsugi: la mia compagna ha finalmente iniziato a postare il prequel alle mie storie. Anch'esso fa parte del nostro canon mentale condiviso e avrei incluso la sua storia nella mia serie ma essendo sotto altro nickname mi era impossibile. Quindi ve la linko qui e vi incito a leggerla e a farle sapere cosa ne pensate: Victoru, be my coachy!

Bene, direi che ora siamo pronti per avviarci alla lettura. Spero che vi faccia compagnia come ha tenuto il cuore in caldo a me quando si è fatta scrivere. Un saluto grande e a presto!





 
HASETSU 2021





Si svegliò senza sapere il perché. 

La stanza era immersa nel buio. Tutto era silenzioso. Che avesse sentito qualche rumore all’esterno? 

Victor non aveva il sonno leggero; era anzi un virtuoso del riposo, a suo modo di vedere, e non aveva mai avuto problemi a dormire. Eppure qualcosa stonava. Era solo, nel grande letto matrimoniale che avrebbe dovuto condividere con suo marito, ed era notte fonda. Capiva che Yuuri fosse un nottambulo, ma possibile che tutti l’avessero disertato? Possibile che nemmeno una palla di pelo avesse scelto di stare con lui a scaldargli le lenzuola?

Con cautela si sedette sul letto e si mise in ascolto. No, non riusciva a catturare alcun suono proveniente dal bagno o dalle stanze là attorno; tuttavia avrebbe dovuto immaginarlo: se Yuuri era ancora sveglio, sarebbe stato al piano inferiore infilato sotto il kotatsu. Gettò un’occhiata al cellulare e trasalì. Le 3 di notte passate. Suo marito meritava decisamente una strigliata.

Victor aveva un passo felpato da vero ninja quando ci si impegnava. I suoi piedi nudi sulle assi di legno del pavimento non producevano alcun rumore, nemmeno uno scricchiolio dei gradini nello scendere al piano terra. Arrivato ai piedi della scala tese nuovamente l’orecchio, ma ancora non udì nulla. Dov’erano Niki e Tsuki? Era possibile che Yuuri fosse uscito con loro in giardino? 

Victor percorse il corridoio buio fino ad arrivare al punto in cui si biforcava, proseguendo lungo il lato più esteso della casa. Lì era anche il punto in cui le porte scorrevoli si schiudevano, dando accesso al giardino. Con una spinta decisa Victor aprì il varco di una spanna e fu investito da una corrente d’aria autunnale che lo fece rabbrividire. Avrebbe dovuto pensarci prima, si rimproverò, stringendosi addosso lo yukata che aveva indossato per semplice precauzione. Si costrinse a sporgere la testa all’esterno, ma a parte lo scroscio distante e regolare del mare non udì né scorse anima viva. Non c’era nessuno fuori, né suo marito né i cani. Dove diavolo si erano cacciati tutti?

Richiuse lo shoji, scuotendo la testa. Che Yuuri si fosse addormentato in salotto? Eppure la luce era spenta, o si sarebbe vista in trasparenza al di là della parete… 

Stava per sbirciare nella stanza quando gli parve di sentire un tintinnio e un sussurro un po’ più in là, proveniente dalla cucina. Incuriosito e intenzionato a sorprendere il marito con le mani nel sacco Victor procedette in punta di piedi e si accostò alla parete scorrevole, facendola scivolare di lato di qualche centimetro per spiare cosa stesse accadendo all’interno. 

Tsuki, osuwari[1]!”

Il sussurro era a malapena udibile e proveniva dal punto della cucina in cui c’era il frigorifero. La porta era aperta e la luce che ne fuoriusciva era l’unica fonte di illuminazione nella stanza. Per terra qualcosa di nero si mosse nel buio, ticchettando con le unghiette sul pavimento di legno. Eccoli, i traditori. Seguì uno sbuffo.

Dame[2]! Niki!” giunse la voce trattenuta di suo marito. Era strana, leggermente attutita. Ci mise qualche secondo a rendersi conto che Yuuri doveva avere in bocca qualcosa.

Victor strinse le labbra, rendendosi conto di averlo davvero beccato con le mani nel sacco. Fece scorrere la parete fino in fondo, facendo un passo avanti, e un secondo più tardi Niki gli fu addosso.

“Ciao, bello,” lo salutò con istintiva tenerezza, accarezzando alla cieca la testa nera all’altezza del suo fianco.

Il frigorifero si richiuse di colpo. Victor trattenne un sospiro e allungò un braccio ad accendere la luce.

Gli ci volle qualche istante ad abituarsi al chiarore improvviso dopo aver vagato per la casa nell’oscurità. Quando riuscì a mettere a fuoco vide che Yuuri era in piedi accanto al frigorifero, immobile, e lo fissava. In una mano teneva un barattolo di takuan, nell’altra la terrina in cui sua madre aveva consegnato loro le polpette di polpo da portare a casa. Sul piano lì accanto c’era una ciotola di riso bianco avanzato dalla colazione. Victor ricambiò lo sguardo in silenzio, fin troppo conscio della situazione. Yuuri non sembrava intenzionato a parlare e lui era quasi certo che qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata la cosa sbagliata.

“Spuntino di mezzanotte?” buttò là, cercando di suonare più divertito di quanto realmente fosse.

Yuuri non rispose. Si limitò a guardarsi le mani, prima di tornare a fissarlo. Victor si accorse che masticava, prima di deglutire velocemente qualsiasi cosa avesse ancora in bocca.

Sospirando – questa volta non poté trattenersi – si scostò il ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla fronte con un gesto automatico e si avvicinò al compagno. Tsuki, che era rimasto seduto tutto quel tempo ai piedi del suo padrone, si alzò, abbaiando una volta.

“Sh!” lo zittì Yuuri, scuotendosi finalmente dall’immobilità dello shock. Quando tornò a guardare Victor sembrava più padrone di sé, ma anche più triste. “Cosa ci fai sveglio?”

Victor si strinse nelle spalle.

“Non lo so. Però mi sono svegliato, non eri venuto a letto e allora…”

“Mh.” Era in imbarazzo. Victor poteva ben immaginarne il perché. “Io… Non avevo sonno e allora…”

“Mangiavi,” finì per lui la frase Victor.

“Mangiavo,” confermò Yuuri, serio.

Victor scrutò la terrina e Yuuri parve intercettare i suoi pensieri, perché subito si voltò ad appoggiare la refurtiva accanto al riso.

“Mi dispiace,” mormorò poi, e a Victor si strinse un po’ il cuore a vederlo così umiliato e frustrato per una cosa all’apparenza tanto stupida.

“E di che?” domandò, continuando a tener vivo il tono gioviale. 

Doveva essere una domanda retorica, ma Yuuri rispose davvero e seriamente.

“Sappiamo entrambi che non dovrei.”

“Hai mangiato poco a cena…” Era vero. Erano due giorni che spiluccava e Victor se n'era accorto con una certa apprensione. Eppure non aveva detto niente, perché non ne aveva compreso il motivo scatenante. Aveva accantonato il problema come il sintomo di un lieve malessere.

“Non ho davvero fame, Victor.”

Victor strinse le labbra.

“Per una volta soltanto…”

“Non è mai una volta soltanto. Non per me.”

“E perché lo stai facendo, allora?”

“Sono nervoso.”

“Perché?”

Yuuri abbassò lo sguardo, chiudendosi in uno dei suoi silenzi di riservatezza.

Victor fece un altro paio di passi verso di lui, abbastanza da poterlo toccare, sebbene non ne avesse l’intenzione.

“Be’, che ne dici se mi unisco a te?” buttò lì con voce più bassa.

“Rovinerebbe un po’ lo scopo della cosa.”

Victor aggrottò la fronte, confuso.

“Come?”

“Non avrebbe molto senso a quel punto abbuffarsi di nascosto, no?” ribatté Yuuri, asciutto. 

Durò un attimo, poi sospirò, portandosi le mani al viso. Era davvero un brutto momento, si disse Victor. Forse era un bene che l’avesse colto in flagrante. Mangiare non avrebbe aiutato. 

Si mosse in avanti, quanto bastava per poterlo abbracciare, e lo strinse a sé senza dire niente per un po’. Yuuri si lasciò stringere, docile e abbandonato all’apparenza, ma in verità teso sotto le sue braccia. Ci volle quasi un minuto prima che si lasciasse davvero andare e gli appoggiasse una guancia contro la spalla, rilassandosi e ricambiando l’abbraccio.

“Adesso faccio un po’ di tè per tutti e due e poi ce ne andiamo di là sotto il kotatsu a berlo, ok?” gli sussurrò tra i capelli Victor, accarezzandogli la schiena.

Avvertì appena l’assenso di Yuuri, ma tanto bastava. Se c’era una cosa che Victor aveva imparato vivendo in Giappone era che non c’era nulla che non si potesse affrontare di fronte a una tazza di tè. Il bollitore era già pieno, bastava schiacciare un pulsante per avere acqua calda nel giro di pochi secondi. Fu sufficiente allungare un braccio, non si dovette neppure spostare di un millimetro.

 
 

 
***
 
 
 


“Non so perché mi fa sentire così male. Non c’è nessun buon motivo.”

Victor lo guardò da dietro la tazza fumante e alzò un sopracciglio.

“Davvero?”

“Sì, Victor,” gli rispose Yuuri, con quella serietà un po’ seccata che traspariva dalla sua voce in momenti come quelli.

Victor posò la tazza e alzò gli occhi al soffitto, fingendosi pensieroso.

“Fammi pensare…” borbottò, picchiettandosi l’indice sulle labbra. “Avrà forse a che fare con un certo ritiro dalle gare?”

Yuuri sospirò. Victor avrebbe anche potuto prevederlo: dacché si era ritirato non avevano mai affrontato il discorso di come si sarebbe sentito poi. L’avevano dato entrambi un po’ per scontato, forse, ma passarci era tutta un’altra cosa.

“Non è la prima volta che salto l’apertura di stagione e i Grand Prix.”

“Non è la stessa cosa.”

“L’anno scorso sono rientrato solo per i Mondiali. Non ho fatto una gara in tutto l’anno. Ho iniziato a prepararmi solamente a dicembre.”

“Non ti eri ancora ritirato ufficialmente, però.”

“Non ero nemmeno sicuro di riuscire ad andarci, ai Mondiali… E lo sapevano tutti, ormai, che quella sarebbe stata la mia ultima gara.”

“Non è lo stesso.”

“Perché no?”

Le parole di Yuuri avevano assunto un tono esasperato che lasciava trasparire ancora una volta tutto il nervosismo che si sforzava di nascondere sotto la maschera di apparente tranquillità. Victor strinse le labbra, soppesando le parole.

“L’anno scorso non eri sicuro di cosa avresti fatto e hai scelto di temporeggiare. Però io sapevo che non eri ancora pronto. Quando è finita lo senti che è finita. Semplicemente tu non avevi ancora finito.”

“Non so perché non mi sono ritirato l’anno scorso…”

“Ritenevi di dover fare ancora qualcosa. C’è chi vuole segnare un ultimo record o partecipare un’ultima volta alla propria gara preferita. C’è chi aspetta da vent’anni di chiudere la carriera con una certa musica. Tu hai deciso che quel qualcosa che ancora mancava era assicurare al Giappone tre posti alle Olimpiadi.”

“Era solo un modo per lavarmi la coscienza dal senso di colpa.”

“Ci sono colpe peggiori della mancata partecipazione a una Olimpiade. La Federazione ti avrà già perdonato.” 

Yuuri si tormentò pensieroso i cordini della felpa che indossava.

“Sono stato un irresponsabile ad aspettare fino all’ultimo per tornare ad allenarmi. Avresti dovuto dirmelo. Non so se mi sarei mai potuto perdonare un fallimento proprio all’ultima gara…”

Victor scosse la testa.

“Forse hai iniziato a dicembre a lavorare seriamente sulle coreografie, ma non hai mai smesso davvero di allenarti.”

Yuuri corrugò la fronte, soppesando le sue ultime parole.

“Quindi è vero che non è cambiato niente,” bofonchiò. “Non ho smesso di allenarmi nemmeno adesso. Mi alleno ancora.”

“Sì, ma non per essere competitivo. Ti alleni per non perdere la consuetudine al ghiaccio, ai salti, per le esibizioni. Rimane ancora il tuo mestiere, dopotutto… E poi per te il ghiaccio è un posto che ami a prescindere; probabilmente ti allenerai tutti i giorni anche quando avrai sessant’anni…”

“Non capisco dove vuoi arrivare.”

Victor allungò una mano ad accarezzargli i capelli, tirandoglieli indietro.

“Si può sapere perché fai così?” domandò senza acredine. Era anzi intenerito dagli sforzi di Yuuri di minimizzare. “Ci sono passato anch’io. Lo so come ti fa sentire. Come se ti avessero tolto un pezzo all’improvviso, come se non sapessi più bene chi sei. Non sai cosa fare delle tue giornate, non sai cosa aspettarti. Io ci ho messo mesi a rendermi conto che la mia vita non sarebbe finita. Te lo ricordi anche tu, purtroppo, ne sono certo.”

Yuuri scosse piano la testa.

“È diverso. Tu la fai sembrare la fine del mondo… Per me non è così brutto, io sono felice di aver smesso. L’idea di andare avanti e di fare le Olimpiadi era quasi un incubo. È stato… un sollievo. Tu invece ti sei dovuto ritirare. Eri fisicamente a pezzi, ma se avessi potuto saresti andato avanti, lo so.”

Victor ignorò quelle parole – a pezzi, il solo sentirlo ancora dopo anni gli dava una stretta allo stomaco e gli faceva salire un’irrefrenabile voglia di fare il cretino e bere fino ad anestetizzarsi – e piegò la testa di lato.

“Sì… e no. Ti do ragione, per me non c’erano alternative, ma non sarei comunque andato avanti ancora a lungo. Avevo dato tutto ciò che avevo, iniziavo a scarseggiare seriamente di motivazione, anche pattinando assieme a te. E poi competere ti divora qualcosa dentro… ma questo non hai bisogno che te lo spieghi.”

Yuuri strinse le labbra ma non diede segno di reagire. Victor odiava quelle nubi nei suoi occhi, quella fissità nel suo sguardo perso dentro ai propri cupi pensieri. Avrebbe voluto vederli brillare, avrebbe voluto riscuoterlo, ma l’unico modo che conosceva per tentare di farlo era rendersi ridicolo e con Yuuri non funzionava quasi mai. Così come non sarebbe servito a nulla fare il cinico o trattarlo con durezza. Se c’era una cosa, anzi, che voleva evitare era vedere quegli occhi meravigliosi riempirsi di lacrime. Meglio l’immaturità, dopotutto.

Con una mossa rapida afferrò il portafazzoletti di peluche che tenevano ormai stabilmente sul tavolino del salotto e glielo diede in testa. Yuuri si ritrasse e chiuse gli occhi, colto di sorpresa.

“Smettila di rimuginare,” fece Victor, la voce di un’ottava più alta e il peluche rivolto verso Yuuri. “Bau, bau!”

Non funzionava quasi mai, Victor lo sapeva. Però ogni tanto sì. Ogni tanto, se Yuuri era disposto a farsi consolare, le sue labbra si incurvavano leggermente verso l’alto, proprio come stavano facendo in quel momento, e il suo sguardo si addolciva.

Yuuri allungò una mano e accarezzò la testolina del cane di peluche.

Baka…” borbottò.

Victor gli scoccò un sorrisone orgoglioso.

“Certo. Per questo mi ami,” disse con convinzione, un secondo prima che Tsuki si accorgesse di ciò che stava facendo Yuuri e, con un balzo, si infilasse tra la sua mano e il peluche. Mortalmente geloso di un portafazzoletti, rifletté tra sé Victor, divertito, posandolo sul tavolino di fronte a Yuuri.

L’altro sospirò e annuì.

“Sì, anche.” 

Era bello sentirselo dire anche in momenti di sconforto come quelli. Victor tornò ad appropriarsi della propria tazza, scoprendo con disappunto che il tè si era un po’ raffreddato. Lo finì in un ultimo lungo sorso, gustandosi la pace di quella familiare intimità per qualche minuto.

La mano di Yuuri si muoveva distrattamente sul pelo riccioluto del barbone bianco, che si era accucciato al suo fianco, il muso appoggiato alla sua coscia.

“Non è il fatto di essermi ritirato il problema,” mormorò dopo un po’, spezzando il silenzio. “E non è neanche il ghiaccio che mi manca, perché sono alla pista ogni giorno.”

“E allora cos’è? L’adrenalina della competizione?”

Yuuri scosse la testa.

“No. Forse è proprio vedere ogni giorno gli altri alla pista, ad allenarsi. Mi fa sentire quanto io stia rimanendo indietro. Loro stanno ancora crescendo, mentre io ho concluso il mio percorso.”

Victor avrebbe voluto dirgli che anche questa era competizione, ma lasciò perdere.

“Se tu volessi, potresti ancora…”

“No, Victor,” lo interruppe l’altro, gentile ma fermo. “Io ho raggiunto il mio culmine tre anni fa. Da allora ho iniziato la mia parabola discendente. Mi sono tenuto a galla, ho vinto ancora qualche titolo e ho provato qualche nuova combinazione, ma per quanto possa allenarmi non tornerò mai alla forma delle ultime Olimpiadi, lo sai.”

“Eppure nessuno pattina come te…” insisté Victor.

“Lo dici perché sono io…” 

“No, lo dico perché non c’è nessuno con la tua qualità nei passi e nelle trottole. Forse Yurio, quando è di buon umore. Ma la cura dei fili e il controllo della velocità che hai tu, le linee del corpo, e il senso della musica…”

“Tutte cose che hanno poco a che fare col talento. Sono un secchione, tutto qui.”

“E non è talento anche questo? Non che basti allenarsi tutti i giorni per muoversi come fai tu…”

“Va bene, me la cavo nella parte artistica, che è ciò che mi ha permesso di tenere il passo in questi ultimi anni. Però temo di dover ammettere che ultimamente i miglioramenti degli altri mi stavano mettendo in imbarazzo.”

“I ragazzi non sono poi tanto in forma, ancora…” bofonchiò Victor, sapendo che era una mezza bugia: Guang Hong si stava rimettendo da un piccolo strappo muscolare, al momento, e forse era un bene perché rischiava sempre di raggiungere il culmine della forma troppo presto, ma Leo stava andando davvero forte, il che prometteva bene per i Grand Prix. 

“Non mentire. Non ne sei capace,” lo riprese con voce neutra Yuuri.

Victor sospirò.

“Non riesco a dirti di non venire alla pista con noi. Voglio dire, posso organizzarmi, possiamo chiedere a Yuuko e Takeshi di tornare a riservarti le ore serali e possiamo dedicarle alla tua routine, ma il pensiero di non averti più sul ghiaccio durante il giorno è terribile.”

Yuuri si chinò leggermente verso di lui e Victor gli andò incontro, cosicché l’altro potesse appoggiare la testa alla sua spalla senza quasi cambiare posizione.

“È bello pattinare con voi,” disse semplicemente, chiudendo gli occhi. “Solo un po’ malinconico.”

Victor strofinò piano le labbra tra i capelli del compagno, posandovi poi un bacio leggero.

“E delle gare che mi dici?”

“Le gare?”

“Mi pare una coincidenza fin troppo casuale che questa nottata insonne sia coincisa con l’inizio dei Grand Prix. Sicuro che non sia stato il corto di oggi a mandarti in crisi?” 

Yuuri, impegnato ad accarezzare con aria assente la testa di Tsuki, mugugnò in dissenso.

“Anche tu come bugiardo non scherzi…” commentò Victor. “Guarda che me ne sono accorto, la covavi da almeno un paio di giorni. Se guardare le gare non ti fa bene possiamo evitarlo. Io devo farlo per lavoro, ovviamente, ma posso sempre recuperare i video e dissezionarli in separata sede.”

Yuuri si staccò da lui, rimettendosi a sedere diritto, e si lasciò sfuggire un sospiro.

“No, impossibile. Non potrei mai non guardarle.”

“Non è una tortura?”

“Melodramma russo…” sussurrò Yuuri, facendo storcere le labbra a Victor.

“Non sopporto il pensiero che tu stia male. Possibile che non ti logori i nervi nemmeno un po’?”

“Forse, un po’. Può essere. Ma voglio vedere il resto del Grand Prix lo stesso. E poi è solo il primo. Devo farci il callo, se no come farei, la settimana prossima?”

Victor avrebbe voluto non pensare alla settimana seguente. Nel giro di tre giorni si sarebbe dovuto imbarcare su un aereo e attraversare l’intero globo. Avrebbe preferito di gran lunga trovarsi sotto quello stesso kotatsu con Yuuri piuttosto che in Colorado per lo Skate America. Il dovere lo chiamava, certo, ma il suo cuore sarebbe stato da tutt’altra parte. Sarebbe stato più facile se Yuuri avesse accettato di accompagnarlo, se la sua proposta di fargli da secondo fosse stata accettata al volo e con un po’ più di entusiasmo. Purtroppo aveva dovuto scontrarsi con la realtà, e cioè che Yuuri forse l’avrebbe aiutato nel lavoro di allenatore, un giorno, ma al momento non aveva spazio per altri che per se stesso.

“Vieni anche tu,” tentò comunque, senza speranza alcuna di fargli cambiare idea. “Non ci vuole niente a recuperare un biglietto in più, basta pagare. E per la camera non si pone nemmeno il problema…”

Di nuovo Yuuri scosse la testa.

“No, Victor. È lavoro, non puoi concentrarti sulla gara e tenere compagnia a me. Leo e Guang Hong hanno diritto al loro allenatore.” Abbassò lo sguardo sul barbone bianco che lo fissava adorante dalle sue gambe e gli grattò con più decisione la testa. “Io ti aspetterò a casa con loro e farò il tifo.”

Victor si unì alle coccole, approfittandone poi per prendere la mano di Yuuri e intrecciare le dita con le sue.

“Promettimi che però ci penserai per Pechino.”

Yuuri si morse le labbra.

“È… presto per discutere questa cosa.”

“No, non molto in realtà. Tra un paio di mesi dovremo dare i nominativi di chi andrà alle Olimpiadi e io non posso gestire due atleti che rischiano di andare a podio nella stessa categoria da solo.”

“Gestivi me mentre gareggiavamo insieme.”

“C’era Takeshi con te. E io avevo Yakov. Per non parlare di tutto il resto della Federazione.”

“Nishigori sarebbe entusiasta di accompagnarti di nuovo, lo sai. E poi è abituato a lavorare con Leo e Guang Hong. Sarebbe la scelta più sensata.”

“Io non voglio Takeshi. Voglio te.”

Yuuri si mosse nervosamente sotto la coperta, infastidendo il barbone che si ritrasse offeso.

“Non so se sono in grado di fare questa cosa,” mugugnò in strenua difesa.

“Oh, non ti preoccupare, imparerai subito. Anch’io ero teso all’inizio, ma ti posso assicurare che raccogliere fazzolettini usati e girare maglie sudate non richiede grandi competenze.”

Yuuri ridacchiò, scuotendo la testa.

“Sei proprio testardo, tu…” mormorò con un tono sconfitto che fece trillare un campanello di speranza nel petto di Victor.

“Non sai quanto. Ho preso tutto da te.”

Le loro dita erano ancora intrecciate. Victor strinse la presa sulla mano del compagno più forte e Yuuri tornò ad addossarsi a lui. Si stava rilassando, finalmente. Forse presto sarebbero riusciti a lasciarsi l’accaduto e tutta quell’ansia alle spalle, almeno per qualche ora, e a tornare a letto. Victor iniziava a sentirsi davvero stordito dalla carenza di sonno.

“Quindi ci penserai?” domandò con voce sottile e carezzevole.

Yuuri rimase in silenzio a disegnare col pollice sul suo palmo. Aveva un tocco delicatissimo e gli faceva il solletico; una parte di sé, quella immune alla stanchezza mentale, formicolò all’idea di quelle stesse dita sul suo corpo.

“Ci penserò.”

“E per la settimana prossima…”

“No, fino alle Olimpiadi non se ne parla.”

Victor sbuffò, sconfitto.

“Sarà uno strazio stare senza di te.”

“Victor…” 

“Davvero. Odio viaggiare senza di te.”

“L’hai già fatto un sacco di volte…”

“Non me lo ricordo.”

“Per favore…”

“È uno strazio ogni volta.”

“Non si può parlare con te. Esageri sempre…”

“Sarò tutto solo, costretto a fare da terzo incomodo tutto il tempo!”

Yuuri captò l’allusione e si lasciò sfuggire un risolino sommesso.

“Non dovresti dire queste cose,” lo rimproverò senza crederci. “Sono i tuoi atleti…” 

“Proprio perché sono il loro allenatore dovrei saperlo prima di chiunque altro. Invece non hanno nemmeno la decenza di dirmelo in faccia!”

Guang Hong Ji e Leo de la Iglesia erano passati sotto la sua ala protettiva dalla primavera del 2018 e da allora risiedevano stabilmente a Hasetsu per allenarsi. Victor non si era mai interessato granché prima di allora ai due giovani pattinatori: erano in buoni rapporti, ma non erano sul loro stesso livello e Victor non era mai riuscito a far finta che non fosse vero. Non aveva mai avuto l’abilità di Yuuri di mescolarsi con la mezza classifica – o forse quello era solo merito della bassa autostima di suo marito. 

Poi però avevano iniziato a lavorare insieme e per comodità i due nuovi arrivati erano andati a stare all’onsen. Solo allora Victor aveva fatto una scoperta che l’aveva lasciato sconcertato: Guang Hong e Leo non stavano insieme. Lui, che li aveva sempre visti dall’esterno, non poteva crederci: con quella stupefacente affinità, con la complicità che mostravano ogni volta in spogliatoio, tutti quei sorrisi e quelle moine, Victor aveva dato per scontato che fossero una coppia. Erano anche arrivati a Hasetsu insieme, scegliendo per di più di accompagnarsi alla coppia più out del mondo del pattinaggio: doveva per forza essere una decisione che nascondeva un secondo fine.

Invece no. Ufficialmente erano migliori amici, punto, e Victor non poteva farsene una ragione. Come potevano due persone così unite e palesemente attratte l’una dall’altra – perché se no davvero non si spiegava come Leo avesse trovato la forza di imparare il cinese, di tutte le lingue astruse del mondo – non essere una coppia?

Ne aveva discusso con Yuuri milioni di volte e altrettante volte si era sentito ripetere le stesse cose: Yuuri li trovava molto dolci insieme e sperava per loro che fosse vero, ma se anche ci fosse stato del tenero nell’aria era certo che non avessero bisogno di aiuto e, in fin dei conti, non era affar loro. 

Forse era vero che un atleta aveva diritto alla sua privacy, ma Victor in qualità di allenatore si sentiva tradito. Queste erano cose che potevano influenzare la resa di un atleta in gara, se non tenute in giusta considerazione. E poi lui era curioso come una scimmia. I segreti lo facevano soffrire.

“Sta diventando una fissazione questa della relazione segreta.”

“Chiedo solo un po’ di fiducia. Non mi scandalizzerei…”

“Mh… Magari non è come pensiamo.”

Victor roteò gli occhi.

“Sul serio!” insisté Yuuri. “Li hai mai visti in atteggiamenti intimi?”

“Quando si mettono praticamente uno in braccio all’altro a parlarsi nell’orecchio in cinese vale?”

“Non proprio.”

“E tutte quelle occhiate? E il corteggiamento su ghiaccio?”

“No. Intendo davvero intimi. Tipo tu che mi baci su una pista davanti a migliaia di persone.”

Victor sbuffò.

“Non serve vederli in azione! Fanno venire il diabete solo a stare a meno di due metri da loro!”

“Però se ci pensi è irreale. Cioè, nessuno di noi due li ha mai visti baciarsi in… quanto? Tre anni che sono qui? E io sono un esperto nel beccare le persone nei momenti meno opportuni…”

A Victor venne istantaneamente da ridere. Non credeva avrebbe mai dimenticato l’espressione del compagno quand’era uscito dal bagno di Helsinki, né l’occhiata che Yurio gli aveva rivolto marciando fuori qualche secondo più tardi.

“Sì, in effetti hai un certo talento per le figuracce…”

Yuuri annuì, ridacchiando. 

“Appunto! Non lo so, forse stiamo davvero scambiando una bellissima amicizia per qualcosa di più.”

Victor lo fissò, ripetendosi quelle parole in testa.

“No, non posso credere che tu lo pensi sul serio,” dichiarò infine, scuotendo la testa. “Ti ricordi di chi stiamo parlando? Leo e Guang Hong! Sembrano più una coppia loro di noi.”

“Sei incorreggibile…” 

Tratteneva a stento il riso e gli brillavano gli occhi di divertimento. Era bello, bellissimo, e Victor rincarò la dose.

“E se si fossero sposati di nascosto?”

Yuuri scoppiò a ridere di gusto, questa volta, e Victor sentì un’ondata di calore scaldargli il petto. Le nubi si erano diradate, almeno per un po’. La sensazione di sollievo era enorme. Così grande che non poté trattenersi dal chinarsi in avanti e baciare Yuuri sulle labbra.

Victor non aveva mai nemmeno fantasticato di avere una relazione stabile che durasse più di un paio di mesi. Anche quando con Yuuri le cose avevano iniziato a prendere forma e a funzionare, anche quando era stato chiaro che tra di loro sarebbe durata non aveva mai osato darsi dei traguardi. Forse quando si erano sposati, forse lì si era fermato a riflettere per qualche istante sull’incomprensibile resistenza di quel rapporto, sul misterioso fenomeno che rendeva la loro coppia più unita col passare degli anni invece di stancarli e finire per dividerli. Il giugno precedente, però, si era fermato a guardare in retrospettiva la loro relazione e si era reso conto che stavano insieme da quasi sei anni – ed erano sposati da quattro. Era tanto. E ciononostante ogni volta che lo baciava si emozionava quanto la prima. Aveva sempre sentito parlare di cali del desiderio, noia, insofferenza; la sua esperienza di vita familiare era delle peggiori e la sua carriera di amante occasionale aveva sempre confermato i suoi timori. Invece ogni volta che si stringeva Yuuri addosso si eccitava ancora come un ragazzino. Era inconcepibile e meraviglioso al tempo stesso.

Con una leggera torsione del busto spostò il peso in avanti e il corpo di Yuuri si piegò docile all’indietro, attraendolo a sé. Avvertì le sue braccia allacciarsi attorno al proprio collo, mentre il bacio andava diventando più intenso e profondo, e la familiare stretta agli addominali gli fece dimenticare d’un tratto la stanchezza. Allungò una mano, facendola scivolare sulla maglietta di Yuuri, sotto di essa a sfiorare la pelle, e poi più giù, fino all’elastico dei pantaloni della tuta. La punta delle dita accarezzò i muscoli tesi e la lieve peluria che conduceva proprio…
All’improvviso qualcosa di spigoloso e pesante gli cadde sulla schiena. Era talmente assorto nel calore morbido di Yuuri che ci mise qualche secondo a superare lo shock e a rendersi conto che si trattava, in effetti, di uno dei suoi cani. Una lingua umida gli lambì l’orecchio con entusiasmo e Victor, strappatosi a malincuore alle labbra dell’altro, agitò il braccio nel tentativo di allontanare l’intruso. 

“Giù, guastafeste! Giù!” lo sgridò, passando velocemente dal tono brusco e infastidito a uno più tenero quando il muso nero gli si strusciò sulla guancia prima di leccarla con decisione. “Bestiaccia…”

Yuuri, ancora imprigionato sotto il suo corpo, ridacchiava. Almeno finché Niki non diede una leccata in piena faccia anche a lui. Victor sogghignò, passando un braccio attorno al collo del cane e tirandosi indietro, così da liberare il compagno. Il barbone, a quel punto, sembrò decidere che suo fratello sarebbe stato molto più divertente e gli saltò addosso, scatenando una breve lotta e una fuga che si sarebbe trasformata, come di consueto, in una sessione canina di rimpiattino.

“Scusalo,” fece, divertito. “Sai com’è Niki…”

“Assomiglia a te,” ribatté Yuuri, mentre si asciugava gli occhiali nella maglia.

Victor sbatté gli occhi.

“Vorresti dire che sono un cucciolone troppo cresciuto?” domandò in tono fintamente oltraggiato.

“E indisciplinato.” Lo scrutò serio, prima di ammorbidire l’espressione in un sorriso. “Com’è che il mio cane risponde agli ordini e il tuo ti si arrampica sulla schiena?”

Victor stava per partire in sua difesa quando un rumore all’esterno attirò la loro attenzione. Fuori, dalla strada, si udì un cancello che sbatteva, seguito dal tono sommesso del motore di una macchina che passava a bassa velocità: i segni che la cittadina, lentamente, andava svegliandosi. Yuuri si voltò di scatto, stupito, a fissare la finestra, da cui si intuiva il cielo che andava schiarendosi.

“Scusami,” mormorò dispiaciuto. “Alla fine per colpa mia non hai chiuso occhio stanotte.”

Victor sorrise.

“Ne valeva la pena. E poi saprai farti perdonare…” aggiunse sornione.

Yuuri lo fissò confuso.

“In che senso?”

Victor ridacchiò tra sé. Allungò una mano, passando le dita tra i capelli dell’altro, e nel ritrarla gli accarezzo una guancia, scendendo ad afferrargli il mento tra pollice e indice e attirandolo a sé.

“Vediamo…” gli sussurrò sulle labbra. Yuuri arrossì appena, mentre lo sguardo gli si faceva vacuo come sempre accadeva quando si eccitava. “Potresti iniziare da…”

“Da…?” mormorò con un filo di voce Yuuri, facendosi più languido.

“Dal metterti le scarpe e portare fuori i cani,” fece Victor, scoccandogli un leggero bacio sulle labbra prima di allontanarsi.

Yuuri rimase per un secondo imbambolato, poi sbatté le palpebre.

“Cosa? Ma è piena notte. La passeggiata del mattino…”

“Saranno almeno le cinque. Non crederai che mi alzi tra un’ora per portarli fuori io…” Victor si alzò e sgusciò fuori dal tepore del kotatsu, pentendosene un istante più tardi. Poco male, si disse, stiracchiandosi; il letto si sarebbe scaldato in fretta. “Io me ne torno di sopra,” annunciò.

“Oh, ok…” borbottò Yuuri, imitandolo. 

Victor lo fissò scavalcare il divano e dirigersi con aria spersa verso l’ingresso. Trattenendo il riso, sospirò teatralmente.

“Ma cosa devo fare con te?” esclamò. “Ovviamente stavo scherzando…” La sua mano si serrò sul polso di Yuuri, trattenendolo. “I cani possono aspettare almeno un’ora.”

Sulle labbra di Yuuri fiorì un sorrisetto. Se lo sarebbe trascinato dietro fino alla camera da letto, se avesse dovuto, ma Victor sapeva che non sarebbe stato necessario.
 

[1] Osuwari!: seduto!
[2] Dame!: smettila!
   
 
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