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Autore: Bethesda    19/07/2020    1 recensioni
Grazie a Snehvide per l'idea/prompt
[...]
Non era più come prima di Mary, quando litigavamo ad ogni piè sospinto.
Era come se avessimo ricominciato da capo, quando con una semplice frase ero in grado di stupirlo e lui con un sussurro arguto mi strappava un sorriso o mi riportava alla realtà.
Mi sentii tornare a più di dieci anni prima, quando la gloria era ancora lontana ma non mi importava, perché mi bastavano gli occhi di Watson, ricchi di meraviglia e ammirazione, per capire che sì, stavo facendo un buon lavoro e che adoravo il fatto che fosse lui ad assistere.
Vi caddi nuovamente con tutte le scarpe.
Ero tornato con l’intenzione di portare sollievo ad un caro amico, scacciando un po’ di dolore e prendendo almeno parte del suo fardello sulle mie spalle, anche senza che se ne accorgesse, e quello che accadde fu invece che me ne rinnamorai di nuovo.
[...]
Holmes torna a Londra per trovare un Watson cambiato nello spirito quanto nel corpo.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sarebbe mentire dire che dopo quella sera tutto andò bene, che io e Watson tornammo alle nostre vite rinfrancati dalla presenza l’uno dell’altro.

Non accadde così.

O, meglio, accadde gradualmente.

 

Non era facile per noi tornare ad abitudini che anni addietro si erano rivelate completamente naturali, e io stesso mi resi conto di risultare parecchio impacciato nel mio esprimere i miei desideri a Watson.

 

Per baciarlo nuovamente, per esempio, impiegai un mese.

E non perché lui mi avesse vietato di farlo.

Semplicemente non riuscivo a comprendere se Watson lo volesse tanto quanto me, e una mattina, ormai quasi completamente convinto che in realtà nulla fra noi fosse cambiato rispetto all’inverno precedente, quando eravamo solo amici e coinquilini, mi sorpresi nel ricevere un bacio leggero sulle labbra da parte del buon dottore, alzatosi dal tavolo della colazione per fuggire al lavoro in tutta fretta.

Accadde tanto in fretta che rimasi inebetito, e prima che potessi rispondere Watson era già fuori dalla porta.

 

Da lì in poi, fummo entrambi meno timorosi.

 

Baciavo Watson ad ogni piè sospinto e lui ricambiava con altrettanta enfasi.

Sul divano ero capace di ritrovarmi con la testa sul suo grembo mentre mi dedicavo alla lettura di lettere o libri e presto tornammo alla vecchia abitudine di dormire assieme, condividendo la mia stanza, sempre ben attenti che Mrs.Hudson non ci cogliesse in fallo.

Tornammo indietro di anni.

 

Ma se gli spettri dei nostri errori non ci scalfivano più, anzi, fungevano da monito, ecco che un nuovo timore ci attanagliava ogni giorno.

 

Watson aveva il terrore di contagiarmi.

Se le nostre effusioni andavano oltre un bacio casto, esattamente come quella volta nella pensione, ecco che passava poi ore ed ore a dannarsi e a temere per la mia salute. Non che io desiderassi subire la sua stessa sorte, sia chiaro, ma il dottore tendeva a diventare ossessivo sulla questione.

Mi controllava di nascosto perché nessuna ulcera comparisse sulla mia pelle e quando inevitabilmente mi bruciavo con acidi e simili dovevo tranquillizzarlo che no, non si trattava dei primi sintomi della malattia.

 

In tutto ciò la nostra intimità divenne complessa.

Ci desideravamo esattamente come un tempo, ma il rischio era troppo alto.

Trovammo compromessi.

Più volte tuttavia fui così tentato di lasciarmi andare, di farmi prendere come quando eravamo appena trentenni e le notti non bastavano e ancora dovevamo scoprire così tanto l’uno dell’altro.

 

Mi frenavano la logica e la consapevolezza che sarebbe stata un’idiozia.

 

Ma ci bastavamo così, anche senza appartenerci completamente, rientrati in punta di piedi in una routine che pensavamo di aver perduto.

 

 


 

 

Forse ci illudemmo davvero, perché per ben otto anni Watson non mostrò sintomo alcuno se non quelli che sin da subito si erano manifestati.

Per otto anni, vivemmo l’uno accanto all’altro come sempre.

Le pomate di mercurio frazionato le abbandonammo intorno al 1900, perché alla lunga avevano cominciato a mostrare unicamente effetti negativi, e anche quando ce ne liberammo Watson impiegò una quantità improponibile di tempo per riprendersi del tutto.

Anche in quel caso, mi sentii responsabile.

 

Tuttavia, dietro le quinte, non mi fermai mai.

Watson sembrava arresosi all’idea di soccombere prima o poi alla malattia, ma io non ero di quell’opinione. Forse peccai di eccessiva speranza, ma ogni singola innovazione tecnica che reclamava di essere la nuova panacea per il mal francese entrò in casa nostra.

 

Non mi si prenda per uno sprovveduto: ben so quanto certi medicinali, o intrugli spacciati per tali, altro non siano che ciarpame, ma mi presi la briga di sfruttare la mia inclinazione alla chimica per testare e sviscerare ogni singolo medicinale, pomata, unguento, ammennicolo che si autoproclamava vera ed unica cura per la sifilide.

 

Inutile dire che nulla di tutto ciò si dimostrò efficace e ben poco venne effettivamente somministrato a Watson – con suo consenso -, senza tuttavia dargli giovamento alcuno.

Le emicranie si mantennero costanti, la pelle non migliorò mai, ma per molto tempo sembrò limitarsi unicamente a ciò.

 

Sino a che una pigra mattina dell’ottobre del 1906 non venni svegliato di soprassalto da un singulto strozzato.

Istintivamente andai a cercare Watson accanto a me, ma non lo trovai. Invece lo vidi immediatamente poco oltre il letto, vicino all’armadio, un piede in appoggio sull’unica sedia presente nella stanza.

Mi misi a sedere, notando il sole del Sussex già alto che sbirciava dalla finestra.

 

«Spero tu abbia una buona ragione per essere già sveglio di domenica alle--». Allungai lo sguardo verso l’orologio sul comodino. «Dieci e mezza».

 

Da circa tre anni avevamo abbandonato Londra e la consideravo una delle migliori scelte che avessi potuto fare in vita mia. Avevo scoperto un nuovo interesse nell’apicoltura, alla quale dedicavo buona parte della mia giornata, mentre per il resto del tempo studiavo, completavo le mie monografie e ogni tanto concedevo udienza a qualche folle che osava avventurarsi fra quelle colline sperdute per chiedere consiglio al sottoscritto.

Pochi andavano via soddisfatti, ma pochi mi portavano casi degni di nota che potessero effettivamente farmi desistere dal mio intento di godere della vita bucolica.

Watson, dal canto suo, non aveva smesso di lavorare e aveva aperto un ambulatorio nel paesino più vicino, raggiungibile facilmente in bicicletta.

Si era trasformato presto in un tipico dottore di campagna e ogni qual volta mi era possibile gli rinfacciavo la sua iniziale reticenza ad abbandonare la città con tono divertito.

 

La villetta di cui ci eravamo fatti proprietari vantava il fatto di essere abbastanza lontana da non aver vicini che potessero mettere il naso nei nostri affari e che non avesse una governante fissa. La signora che veniva ad occuparsi delle faccende lo faceva per poche ore al giorno e non tutti i giorni, e questo ci concedeva il piacere di vivere in modo estremamente libero, ben più che rispetto a quando vivevamo in Baker Street.

 

Quella mattina eravamo soli e lo saremmo stati per tutto il giorno, e non comprendevo come mai Watson avesse potuto trovare alcun interesse ad abbandonare le coperte, sino a che non notai ciò che aveva scatenato il suo singulto.

Tre bubboni, grossi come gusci di noce, erano comparsi nottetempo sulla sua gamba e occhieggiavano entrambi con aria quasi maligna.

 

Watson cercò il mio sguardo con aria sconvolta.

 

«Ieri non c’erano, ne sono sicuro».

 

Mi alzai da letto, rabbrividendo un poco al freddo autunnale della stanza. Dissimulando calma, allungai una mano verso la vestaglia color vinaccia e la indossai, andando poi ad analizzare meglio l’oggetto del nostro interesse.

 

«Ti fanno male?», domandai cauto, andando a sfiorarne una con un dito. Al tatto risultava essere particolarmente solida.

 

«Affatto».

 

Mi alzai, andando a cercare i suoi occhi.

 

«Solitamente non fanno male. Nessuno dei pazienti a cui le ho riscontrate ha mai provato dolore. Se sono ciò che penso, dovrebbero scomparire nell’arco di qualche settimana lasciando delle cicatrici. Ma se sono seriamente ciò che credo siano--»

 

Significava che la malattia aveva ripreso.

A distanza di quasi dieci anni si era risvegliata e questo implicava che prima o poi i sintomi sarebbero aumentati e che Watson non sarebbe più stato lo stesso.

Perché anche questo poteva accadere.

 

Watson, anni addietro, mi aveva confessato cosa più lo spaventasse della malattia.

Non il rischio di perdere i propri connotati, non il dolore.

 

Molti dei suoi pazienti erano mutati con il proseguire dei sintomi, talmente tanto da cambiare completamente personalità. Donne e uomini si erano presentati alla porta del dottore in lacrime, stremati dai cambi di umori repentini di mariti e mogli, non solo devastati nel corpo, dunque, ma anche nello spirito.

Vi era qualcosa in quel male che spingeva il cervello a mutare e non vi era nulla che potesse fermarlo, e di questo aveva paura Watson.

Che un giorno mi sarei svegliato con accanto un vecchio collerico, uno sconosciuto impestato.

 

Senza dir nulla, andai a prendere l’orlo del pantalone e lo abbassai sino alla caviglia del mio compagno, nascondendo alla vista di entrambi quelle mutazioni.

Lui mi guardò senza capire, e quando lo presi per braccetto, costringendolo ad abbandonare la posizione che tanto lo faceva somigliare ad un capitano che scruta l’oceano dalla prua della propria nave, lo trascinai verso la porta.

 

«Holmes, che fai?»

 

«Non so te, ma io ho un certo languore».

 

Si bloccò e io con lui. Leggevo distintamente nei suoi occhi che non stava davvero comprendendo la mia reazione.

 

«Watson, parliamoci chiaro e tondo. Ritieni che quelli siano i segni della leu

 

Annuì.

 

«Pensi di poter fare qualsiasi cosa per poterli fermare in questo preciso istante, in questa meravigliosa domenica di sole?»

 

«No».

 

«Pensi che preoccupartene incessantemente per le prossime ore le farà scomparire?»

 

«Ovvio che no!», ribatté stizzito.

 

«Dunque, amico mio, ti propongo questo piano: passeremo la prossima ora a saziarci di quelle meravigliose marmellate con pane abbrustolito che abbiamo di sotto. Dopodiché, dal momento che la giornata non preannuncia pioggia, potremmo dirigerci verso la spiaggia per passeggiare, magari portandoci dietro dei panini. Potremmo rientrare con tutta calma, lavarci a vicenda, indulgere magari in qualche piacere ancor più terreno e passare la serata di fronte al caminetto acceso, dacché comincia a far fresco ormai dopo il tramonto. Che te ne pare come idea?»

 

Ritengo che per la mente di Watson passarono diverse risposte, una diversa dall’altra, ma dopo più di qualche istante di turbamento un sorriso placido prese il posto dello stupore.

 

«Penso che sia un’idea ottima».

 

 


 

 

La vista di Watson peggiorò in modo lento e inesorabile in poco tempo, tanto che per un certo periodo della nostra vita dovemmo fare viaggi costanti a Londra per procurargli degli occhiali adeguati. Ormai la sera non riusciva più a scrivere a causa della luce troppo fioca e leggere lo affaticava grandemente, tanto che presi l’abitudine di farlo per lui, nonostante le letture che preferiva fossero a malapena passabili e in certi casi addirittura oscene.

Ma Watson apprezzava questo mio gesto e io amavo sentirlo addormentarmisi addosso dopo un paio di capitoli quando ci concedevamo questo vezzo direttamente in letto.

 

Ciò che Watson non seppe mai fu che ogni suo sintomo era monitoriato.

Tenevo difatti ben nascosto un taccuino dove negli anni, a partire dal 1903, avevo riportato ogni singolo cambiamento del suo corpo, che si trattasse di una banale raffreddore o dell’ennesima emicrania.

Cominciai presto a preoccuparmi quando ai sintomi fisici veri e propri cominciarono ad affiancarsi altri, di natura ben più difficile e lacunosa.

 

Watson, talvolta, perdeva la memoria.

 

Momenti brevissimi, di cui credo lui stesso si rendesse conto, e mai per cose eccessivamente gravi, ma in lui, che era sempre stato un uomo dalla memoria di ferro, anche certi piccoli cambiamenti risultavano mastodontici.

Mi resi conto che, a discapito di tutto, quando scriveva sembrava essere più cosciente di sé e soprattutto i fatti gli sfuggivano meno fra le dita.

In modo subdolo, puntando principalmente al suo orgoglio di scrittore, gli dissi che il mondo aveva dovuto subire i suoi romanzetti di appendice, romanticizzati all’estremo, ma che perlomeno, con il termine del mio lavoro, avrebbe avuto ben poco altro da scrivere.

 

La cosa lo indispettì enormemente, tanto che per un paio di giorni dopo la mia rimbeccata si comportò in modo freddo nei miei confronti, ma quando un pomeriggio tornai dalle mie arnie e lo trovai alla scrivania, gli occhiali da lettura inforcati, capii che le mie rimbeccate avevano funzionato.

Mi mostrò con fare tronfio le prime dieci pagine di una nuova storia – un caso vecchio di secoli – e altre cinque di cui scoprì di non essere protagonista.

 

«Ricordi quel vecchio esploratore che incontrammo anni addietro, quello che ci parlò di quegli altopiani dalla cima totalmente inaccessibili all’uomo che si trovano in Venezuela?»

 

«Sarebbe difficile scordare quel vecchio folle, ma comunque sì. A cosa debbo la rimembranza?»

 

Mi allungò le pagine, e con ancora la veletta fra le mani le presi con me per andare a leggerle sulla poltrona esattamente accanto alla scrivania.

Un romanzo d’avventura.

O perlomeno, i primi vagiti di un romanzo di avventura.

 

Con una prosa ovviamente degna di Watson, già ricca di dettagli romantici completamente superflui, ma un qualcosa di nuovo, vivo, che potesse tenere la sua mente ancora attiva, fresca, alla ricerca di idee.

 

Dentro di me avrei voluto alzarmi e baciarlo, ma ben sapevo che non era ciò che gli serviva in quel momento. Così, con uno sguardo invero altezzoso, gli allungai nuovamente le pagine.

 

«Non comprendo come tu possa sempre gettare il tutto sul romanzato. La gente necessita di informazione vere, precise, scientifiche».

 

Il dottore si abbassò gli occhiali da lettura per andare ad inforcare subito il secondo paio, di modo che potesse vedermi effettivamente in volto. Nonostante fossero un probabile indizio della sua malattia, debbo ammettere che gli donavano.

 

«La gente necessita di svago, non di tomi buoni solo a prender polvere nelle librerie di specialisti nel settore».

 

«E come pensi di poter parlare di un luogo che non conosci senza una solida base conoscitiva e scientifica?»

 

Per un istante pensai di aver esagerato con il mio pungolare, dacché Watson si bloccò, lo sguardo basso sui fogli che gli avevo appena restituito, ma quando lo risollevò vidi la fiammella che aveva smosso ogni nostra discussione in ambito letterario da che ci eravamo conosciuti.

 

«Studierò. E non tutti i romanzi debbono essere veritieri al cento per cento. Pensi forse che il Conte Dracula esista seriamente, Holmes?»

 

Sbuffai.

 

«Si tratta indubbiamente di un’opera di fantasia, ma con basi solide nel folklore di quei luoghi, ma comunque un romanzetto. Il tuo vuole essere invece un racconto di avventura in una terra straniera, non un qualcosa di fantastico».

 

Sembrò che la discussione fosse morta lì, quando lo sentii mormorare.

 

«Pensavo di mettervi dei dinosauri…»*

 

«Come prego?»

 

«Nulla, nulla», mi liquidò, tornando nuovamente a scrivere con foga, immergendosi in un mondo di carta ed inchiostro.

 

Il mese dopo, con suo sommo stupore e sollievo per gli occhi, feci sì che la casa potesse essere illuminata elettricamente.

 

 


 

 

Il dolore cominciò in modo subdolo, e se inizialmente pensammo che fossero i reclami delle vecchie ferite di guerra, presto ci rendemmo conto che così non era. Si trattava di algie nuove, ossee, che lo sconquassavano in modo sordo e gli rendevano impossibile alzarsi la mattina.

Non erano costanti.

Esattamente come i bubboni, andavano e venivano per periodi più o meno lunghi, ma quando erano presenti Watson era lo spettro di sé stesso.

Non riusciva ad alzarsi da letto e mi vedevo costretto ad aiutarlo in tutto.

Durante certi periodi le nostre notti divennero insonni e infine, giunto a disperazione, misi Watson di fronte a una scelta.

O continuare a soffrire inutilmente come un cane, con quel tono da martire che poco gli si addiceva, o cominciare ad assumere dosi controllate di morfina.

 

Inutile dire le liti che ne seguirono, dacché il dottore ben conosceva gli effetti indesiderati del farmaco.

 

«Non mi ridurrai ad un oppiomane che necessita della prossima dose per sopravvivere», mi disse una volta alle tre del mattino, gli occhi rossi per l’impossibilità di dormire e le membra contratte per contrastare le ondate di dolore che gli prendevano gli arti.

 

«Vuoi spiegarmi cosa ci sarebbe di tanto terribile nel cercare di dormire poche ore?»

 

«Sai bene quanta dipendenza provochi la morfina».

 

«So anche quali effetti possa fare la mancanza di sonno e la spossatezza – credimi, ci sono passato – e in tutta onestà al momento una tua eventuale futura dipendenza mi pare la cosa meno peggiore».

 

Il suo “no” fu secco, e quella notte, in preda all’ira a fronte della sua cocciutaggine, dormii nella stanza degli ospiti.

Indubbiamente il senso di colpa mi lacerò dentro e non chiusi davvero occhio, ma mai avrei ceduto di fronte alla cocciutaggine di quell’uomo.

Che facesse pure ciò che preferiva, non sarei stato la sua balia.

Dopotutto era un dottore, non uno sprovveduto qualsiasi.

 

Ci vollero due notti perché potessi prendere in mano la situazione.

A quel punto Watson era ridotto ad un fascio di nervi, costantemente accoccolato su un fianco in posizione fetale, scosso da fremiti di febbre da stress e spasmi.

Decisi che era venuto il momento di prendere in mano la situazione.

 

Mi ero preparato preventivamente una scorta di morfina, e la mia vecchia siringa, debitamente sterilizzata, tornò fra le mie dita dopo tanto, tanto tempo.

Sentii quasi un fremito nel riavvertire il peso ben noto e la mente tornò a quando era mia compagna fedele e al tempo stesso mia carceriera insieme alla cocaina.

Mi sedetti sul letto accanto a Watson, ma lui non diede segno di accorgersene.

 

Con la mano libera andai a sfiorarlo, passando le dita fra i capelli madidi di sudore, rendendomi conto che non si sarebbe mosso facilmente.

Tuttavia non volevo avesse una qualche reazione convulsa nel sentirmi armeggiare con lacci e siringhe, e con tono quanto più pacato possibile lo avvisai delle mie intenzioni.

 

La sua risposta fu un pigolio.

 

«Fallo finire, ti prego».

 

Quando si era confessato a me anni addietro mi aveva detto che prima o poi il dolore lo avrebbe spinto a imbracciare o la siringa o la pistola.

Il fatto che fosse giunto quel giorno e che fossi io il fautore di uno dei due destini non mi turbò minimamente.

Volevo stesse bene, e se il rischio di diventare dipendente dalla morfina c’era ed era lampante, era sempre meglio che rischiare di perderlo in un momento di debolezza.

 

Non descrissi ciò che stavo facendo.

Mi limitai a canticchiare sottovoce un’aria leggera, per distrarre più me stesso che il malato, e con mano rapida, di chi ha compiuto il gesto troppe volte, andai a distendere il suo braccio sinistro mentre lui continuava a darmi la schiena. Non era certo una posizione comoda per iniettare ma non avevo intenzione di turbarlo cambiandolo di posizione.

 

Gli strinsi il laccio emostatico intorno al braccio e con delicatezza tastai nell’incavo del suo gomito per trovare una vena.

Fu facile.

Badando bene di non farlo muovere, tenendolo quanto più fermo possibile e mettendomi in piedi per raggiungerlo meglio, andai a pungere per trovare la via d’accesso, e una volta che me ne fui accertato, senza rimorso alcuno, spinsi lo stantuffo per iniettare l’unica cosa che poteva ancora dargli sollievo.

 

Watson non si dibatté, non disse nulla, perso in un dolore onirico che non gli permetteva di riposare davvero.

Abbandonai la siringa sul comodino per andare a pormi di fronte a lui, sdraiandomi nel mio lato del letto, faccia a faccia con il mio Watson.

 

Checché se ne dica, non ritengo che il valore di un uomo sia dato dalla sua capacità di esprimere ciò che prova, e benché io stesso non sia l’esempio più fulgido di limpidezza, avevo sempre ammirato nel mio amico la capacità di saper mostrare i propri sentimenti senza vergogna alcuna, che fosse verbalmente o per altri mezzi.

Ma non potei non stupirmi quando, sdraiato a un soffio da lui, nel silenzio della stanza, ad un’ora imprecisa di un giorno altrettanto impreciso del 1908, vidi il volto del mio amico rigarsi di lacrime che sfuggivano le sue palpebre chiuse.

Che fossero incubi dati dal dolore, il dolore stesso o il gesto che avevo appena compiuto, non mi fu mai dato sapere.

Non seppi mai neanche davvero se Watson fosse davvero cosciente in quegli istanti.

 

Non feci domande e non parlai.

Mi limitai ad avvicinarmi a lui, cingendolo con un braccio per stringerlo a me, cercano con le labbra i suoi capelli biondi ormai striati qui e là da ciocche argentee, e lo lasciai fare, sperando con tutto me stesso che il dolore svanisse presto e che lui potesse riposare in pace, fosse stato anche solo per un paio d’ore.

 

 


 

Nel 1909 dovetti allontanarmi dal Sussex in solitaria per tre mesi.

Con Watson addussi la scusa di un viaggio di lavoro per conto del governo – quindi di mio fratello – e in parte fu effettivamente così.

 

Mycroft mi aveva contattato per un compito estremamente delicato inerente ad un reale europeo - di cui qui non riporterò il nome, dacché compare ancora su tutti i giornali – e non potei rifiutarmi di abbandonare Watson, nonostante ormai i sintomi fossero conclamati e in alcuni casi sempre più gravi.

Il suo cuore ci aveva fatto spaventare giusto in primavera, quando improvvisamente lo avevo visto accasciarsi in giardino subito dopo essersi alzato dal tavolo per venirmi incontro.

 

Il tutto sembrava rientrato, ma il dottore aveva dovuto cominciare una terapia a base di digitalici e in tutta onestà l’idea che si ripresentasse un’emergenza simile mi rendeva angosciosa l’idea di abbandonarlo a lungo.

Ma con mio fratello, anni addietro, avevamo trovato un accordo.

 

Sarebbe inutile dire che mai gli confessai di avere John Watson come compagno, ma sarebbe stato altrettanto sciocco negare l’evidenza.

Mycroft era troppo intelligente per non vedere cosa si celava dietro alle nostre mura ma la sua pigrizia e indolenza verso tutto ciò che caratterizzava la vita aveva fatto sì che poco gli importasse con chi il suo amato fratellino condividesse il letto, purché la cosa non lo costringesse ad alzarsi dalla sua poltrona al Dyogenes Club.

Tuttavia, quando anni addietro scoprii della malattia di Watson e indagai sulla stessa, mi dovetti risolvere a chiedergli aiuto.

 

La cosa è da considerarsi a dir poco eccezionale, poiché solitamente il sottoscritto preferirebbe affrontare la forca piuttosto che piegarsi a chiedere a Mycroft, ma le circostanze lo richiedevano.

Il governo inglese si era sempre interessato della piaga della sifilide in città, come dimostrava il Contagious Diseases Acts del ’64, ma senza una cura poco si poteva davvero fare e sapevo per certo che dietro le fila qualcosa si stesse muovendo per dare un’accelerata nel trovare una terapia.

 

Fu così che feci un patto con mio fratello.

Lui mi avrebbe procurato qualsiasi medicinale possibile, se efficace e se mai fosse stato trovato, e io in cambio avrei accettato di fargli dei favori di ordine investigativo.

 

«Inezie, davvero, ma sfiancanti. Me ne occuperei io stesso ma non ho la tua forza».

 

«L’hai forse mai avuta?», lo avevo rimbeccato quando ero andato a trovarlo per delineare i tratti del nostro patto.

 

Mycroft ovviamente sapeva della condizione di Watson.

Non aveva mai chiesto esplicitamente nulla, ma la mia richiesta di avere a portata di mano una cura efficace, anche non comparsa ancora sul mercato, fu ben più che un’ammissione, e dacché io ero sano era ovvio chi fosse il destinatario di tali attenzioni.

 

 

Quando mi giunse il telegramma per informarmi della mia imminente partenza, dirlo a Watson fu sfiancante, ma feci di tutto per mostrarmi quanto più algido e tranquillo possibile.

 

«Verrò con te!», disse lui, alzandosi dal divano di scatto.

 

Gli feci segno di risedersi, e lui lo fece senza indugio.

 

«Mio fratello ha richiesto espressamente di me. È un compito sotto copertura di estrema importanza per quanto riguarda il destino del nostro paese. Sai bene quanto la tua capacità di celare le tue intenzioni sia nulla, e, in tutta onestà, saresti solo di intralcio».

 

La cosa lo ferì, lo vidi bene, ma non aveva senso indorare la pillola.

 

«Dovrei star qui tre mesi ad attendere una tua missiva?»

 

«Non avrai alcuna missiva. Mi è vietato avere contatti diretti con chiunque, mio fratello incluso. Le mie interazioni saranno solo e unicamente con un intermediario che conoscerò in loco».

 

Vidi le spalle di Watson abbassarsi con rammarico.

 

«Dovresti essere in pensione», borbottò.

 

«Sfortunatamente per te, sono un uomo di parola e debbo questo favore a mio fratello. Ti posso assicurare che il tutto non andrà oltre i tempi previsi, e se possibile tenterò di rendere il tutto ancor più breve».

 

Anche perché non mi sentivo affatto sicuro a lasciarlo da solo nel mezzo della campagna del Sussex per tutto quel tempo, non con le terapie che prendeva e non con i picchi di dolore che ogni tanto lo sconquassavano. Ne uscivamo giusto da poche settimane dall’ennesima ricaduta, che questa volta aveva colpito la spalla già martoriata, e l’idea di lasciarlo affrontare il tutto da solo mi devastava.

Ma se Mycroft mi aveva contattato, voleva dire che c’era qualcosa in ballo di grosso, e probabilmente la mia ricompensa sarebbe stata adeguata.

 

Watson non sapeva nulla e non doveva scoprirlo, o si sarebbe dannato.

 

La sera prima della partenza tentò di essere freddo con me, ma non ne fu in grado in alcun modo, e dopo poche moine era già su di me, a far scorta di quei baci che per mesi non avrebbe ricevuto.

Io lasciai la casa prima dell’alba con un bacio a fior di labbra sulla porta di casa e la sensazione di avere un macigno addosso.

 

 


 

 

Le uniche notizie che ricevetti su Watson giunsero per mano del messo di mio fratello, l’unico mio contatto in quella terra straniera dove vivevo da impostore, ed erano definitivamente troppo stringenti.

“Sta bene” o “Gode di buona salute” non mi bastavano.

Il mio pensiero andava ai suoi dolori intermittenti, al fatto che perdesse sempre gli occhiali da vista per casa e che fosse necessaria la mia presenza per farglieli ritrovare o che si dimenticasse per qualsiasi ragione di prendere la terapia cardiaca. O che ne prendesse troppa per errore.

 

Timori probabilmente infondati, dacché comunque Watson era un medico ed un soldato e la sua esistenza non era dipendente dalla mia.

Furono tre mesi in cui mi gettai nel lavoro come un tempo, dando sfoggio di tutta l’esperienza accumulata nei miei anni a Baker Street, e definitivamente mi portai sull’orlo del collasso più volte nel tentativo di finire quanto prima, e quando finalmente riuscii ad ottenere i risultati sperati ero un uomo provato, molto più magro e desideroso di tornare a casa.

Non che il lavoro non mi fosse mancato, ma certi lavori da spia non erano tanto impegnativi mentalmente quanto logoranti come tempi.

Non richiedevano il guizzo intuitivo dei casi a cui avevo lavorato in passato – non sempre perlomeno – ma solo una buona dose di arguzia, capacità trasformista e parlantina.

 

Tornai in patria vittorioso e non mi accolsero trionfi o medaglie – non quella volta – ma mio fratello, direttamente nel porto di Southampton.

Mi attese all’interno di una carrozza tirata a lucido e non mi disse nulla sul mio lavoro nel Bel Paese, poiché sapeva già tutto ciò che gli interessava.

Non si complimentò, non si preoccupò del fatto che le mie occhiaie tradissero la mancanza di sonno degli ultimi giorni di viaggio.

Si limitò a porgermi una scatola di mogano priva di fronzoli.

 

La aprì direttamente davanti a lui e subito mi colsero l’odore di paglia secca che fungeva da imballaggio, quello del legno non trattato all’interno e il suo contenuto inusuale.

 

Vi era una serie di ampolle, almeno una trentina, con sopra un’etichetta scritta a mano.

 

“N.606”

 

Nessun nome commerciale, nulla di nulla.

 

Alzai lo sguardo per chiedere spiegazioni.

 

«Sul fondo della scatola troverai tutte le informazioni utili alla somministrazione. Bada, Sherlock, che non si tratta di un farmaco ancora commercializzato. Sino ad ora sono stati mandati dei campioni in Russia e ho dovuto chiedere parecchi favori perché mi venisse mandato. I primi risultati paiono essere ottimi e anche nei casi più tardivi della malattia pare riescano ad eliminarla dal corpo, ma con effetti indesiderati oserei dire tragici in alcuni casi. Non si conoscono ancora le dosi specifiche necessarie, ma troverai scritte le note del dottor Ehrlich sulla questione – spero che il tuo tedesco non sia arrugginito».

 

Presi una delle ampolle, mettendola controluce rispetto al finestrino.

 

Al suo interno vi era un sale color giallo spento.

 

Chiusi la scatola e la riposi con cura, rendendomi conto solo allora che eravamo già nei pressi della stazione e che la carrozza si era fermata.

 

«Mi auguro avremo altre cospicue collaborazioni in futuro, fratellino».

 

Scesi senza rispondere.

La mia mente era tornata a vorticare follemente e non desideravo altro che sedermi in treno per studiare il composto.

Anzi, incorretto.

 

Non desideravo altro che arrivare a casa, entrare, osservare l’espressione stupita del mio Watson e gettargli le braccia al collo come in uno dei romanzi di appendice che tanto amava.

Ogni tanto anche io necessitavo di certe cose, e in quell’occasione il mio corpo lo agognava.

 

Mi era mancato come l’aria, e il pensiero che poche ore separassero me dalle sue labbra e lui dalla cura mi rendeva febbrile.

 

 


 

 

Giunsi nel tardo pomeriggio.

Il sole era ancor alto ma cominciava a proiettare ombre dorate sul nostro giardino e mi guardai intorno per cercare ogni minimo segno di cambiamento.

Ma nulla era successo.

 

Il dottore doveva aver dedicato quei mesi estivi alle piante dacché erano rigogliose come non mai e venni accolto subito da familiare brusio delle api che raccoglievano diligentemente il polline e più lontano, sussurrato, un canticchiare ritmato e non propriamente intonato.

Seguii quel suono, passando dal giardino, senza neanche aprire la porta di casa, e quando giunsi sul retro quasi mi sentii le ginocchia cedere.

Watson era in piedi di fronte al nostro tavolino in ferro battuto e mi dava le spalle. Era dimagrito e lo si notava immediatamente dalla camicia larga sui fianchi. Dal clangore lieve che avvertii, mi resi conto che stava girando lo zucchero in una tazza di caffè o tè.

 

Posai a terra silenziosamente la valigia e la scatola affidatami da Mycroft, e rimasi immobile.

 

Watson canticchiava, immerso nei propri pensieri, la pelle scoperta sugli avambracci ricca di cicatrici vecchie e nuove che non riuscivano a lasciarsi scurire dal sole. Mi domandai a cosa stesse pensando, se alla cena, alle scartoffie che vedevo impilate sul tavolino o al sottoscritto.

Non feci nulla per attirare la sua attenzione, ma non fu necessario.

 

Sovrappensiero, si girò verso di me con la tazza in mano quasi alle labbra, e prima che questa potesse effettivamente andare a toccarle il vapore aveva già lievemente appannato gli occhiali e lui si era immobilizzato.

Mi sovvenne ciò che era accaduto anni prima, quando mi presentai come libraio nel suo ambulatorio e lo feci svenire ai miei piedi, e pensai che forse presentarmi non annunciato e alle sue spalle adesso che soffriva di cuore potesse essere stata davvero una pessima idea.

Avrei ucciso Watson prima ancora di poterlo baciare.

 

Ma questa volta non svenne.

Lasciò cadere a terra la tazza, che tuttavia non si ruppe, atterrando sull’erba morbida, ma versò il suo contenuto ovunque e macchiò la scarpa destra e il pantalone di Watson.

 

Gli sorrisi.

 

«So che dovrei evitare le entrate a sorpresa, amico mio, ma capirai che è nella mia natura essere estremamente teatrale».

 

Prima ancora che potessi lasciar sedimentare la frase, il dottore aveva percorso i pochi metri che ci separavano e mi era addosso. Le sue braccia mi strinsero con forza tale da mozzarmi il fiato e subito le sue dita furono fra i miei capelli.

Risposi all’abbraccio ancor prima di rendermene conto e mi ritrovai ad inspirare con forza nell’incavo del suo collo, alla ricerca del profumo che tanto mi era mancato.

Forse eravamo entrambi eccessivamente esagerati.

Dopotutto avevamo passato dieci anni in gioventù senza poterci più sfiorare, e adesso ci bastavano tre mesi per ridurci a due esseri bisognosi della presenza l’uno dell’altro.

 

Certo, eravamo nel mezzo della campagna; certo, eravamo nel retro del nostro giardino; ma chiunque sarebbe potuto passare e avrebbe notato due uomini di mezz’età intenti a baciarsi con foga, e in men che non si dica ci saremmo ritrovati dietro le sbarre del carcere di Reading.

Ma non mi importava.

Avrei sfruttato le conoscenze di mio fratello un’ennesima volta per tirarci fuori entrambi, ma non avrei mai interrotto quel momento, quando ancora non gli avevo sentito pronunciar parola e ogni suo gesto bastava per urlare “Mi sei mancato, non andar più via”.

 

Sentii finalmente il peso di quei mesi scomparire e la mia angoscia che Watson potesse non star bene si sciolse come neve al sole.

Era sì dimagrito, ma la sua forza nello stringermi e la sua passione non erano mutate e per me questo era quanto di più potessi chiedere.

 

Mi lasciai trascinare ancora a lungo da quel turbinio di baci e quasi mi dimenticai del vero motivo del mio viaggio e della mia missione.

Fu Watson a riportarmi alla realtà.

 

«Quando sei arrivato?», mi chiese all’improvviso.

 

«Poche ore fa».

 

«Sei pallido come un cencio».

 

«A differenza tua non ho passato questi tre mesi in panciolle in giardino», scherzai, conscio del mio aspetto.

 

«Mi sei mancato».

 

Ora, se avessi avuto un briciolo della dignità di cui tanto mi vantavo da giovane mi sarei limitato a rispondere con un sorriso ed un bacio, ma dal momento che erano passati gli anni dei giochi e che ormai ero un rispettabile professionista in pensione e che non mi importava davvero più molto delle apparenze – non con Watson -, mi decisi a rispondere.

 

«Mi sei mancato anche tu», dissi, prima di sussurrargli all’orecchio qualcosa che doveva aver udito così poche volte in vita sua da parte mia, che il risultato fu che dovette abbracciarmi di nuovo per non mostrare l’effetto che gli faceva sentirmelo dire.

 

Fu da quella posizione che notò i miei bagagli, e dopo qualche istante si separò da me.

 

«Holmes, cosa c’è in quella scatola?»

 

Sorrisi, il cuore in gola, le mani tremanti.

 

 

«Consideralo un regalo da parte mia e del governo inglese. Ma ora vieni, entriamo.

Lascia che ti spieghi».

 

 


 

 

Non starò a dire quanta pena ci provocò il farmaco procuratomi da Mycroft, quanto dolore fisico dovette sopportare il buon dottore, e per parecchio tempo mi pentii di aver lasciato che assumesse alla cieca un qualcosa che ancora non era stato pienamente approvato.

Ma ne valse la pena.

Nonostante il timore che potesse non farcela a causa degli effetti indesiderati, Watson superò con caparbietà le settimane che seguirono la breve terapia e in meno di un mese era di nuovo in sé.

Prima di dirci vittoriosi tuttavia, dovemmo aspettare ancora a lungo.

Monitorammo ogni suo cambiamento, la comparsa di nuovi dolori, ulcere e bubboni.

Ma nulla accadde.

 

Il suo corpo smise di cedere.

Certo, la vista rimase debole e non smise di prendere la terapia cardiaca, ma i dolori cessarono, le pustole non si formarono più e presto anche le dimenticanze, che si erano fatte sempre più preoccupanti, tornarono ad essere sporadiche e leggere.

Restarono le cicatrici di ogni singola pena che aveva sofferto, ma tutto sembrò congelarsi.

 

Il medico che lo seguiva a Londra lo dichiarò un miracolato.

Io non nascondo che quella sera piansi con lui di gioia.

 

Il timore che la malattia lo portasse via prima del tempo non se ne andò perché i solchi che aveva lasciato erano pesanti e non rimediabili, ma scomparve la paura che potesse perdersi completamente, che potesse mutare nel carattere e nel pensiero.

 

Quella notte, per la prima volta dopo decenni, ci concedemmo completamente l’un l’altro e nuovamente mi ritrovai a dovermi mordere la lingua per non piangere quando completamente dentro di me, possedendomi dall’altro per potermi guardare in volto, cominciò a ripetermi che mi amava, che mi amava, che mi amava.

Non ebbi il cuore di rispondere, conscio che se avessi aperto bocca non avrei potuto frenare l’emozione. Mi limitai a stringerlo a me per non farlo allontanare e chiusi gli occhi, pregando di non riaprirli per scoprirmi in un sogno.

 


 

Epilogo

 

 

Non sono un buon Cristiano.

Dio, o chi per lui, sa bene quali sono le mie colpe e quanto abbia peccato.

Non me ne voglia: ho sempre cercato di agire seguendo una mia morale, forse troppo sicuro che il mio giudizio potesse prevalere su quello di chi per lavoro discerne il bene dal male – vogliate voi scegliere fra accoliti o magistrati – e con questa convinzione ho portato avanti il mio lavoro, spesso incurante di me stesso o, peggio ancora, degli altri.

 

In particolare di una singola anima, l’unica di cui davvero mi sia importato, ben più che della mia stessa.

 

Non son Dio, e ancor oggi mi pento per ciò che feci al buon Watson in gioventù, ma dopo tanti anni passati insieme affrontando avversità di ogni tipo, posso dirmi soddisfatto di aver tentato di rimediare ad ogni mia azione, ad ogni mio peccato, ad ogni mio sbaglio.

 

E lui me lo ricorda ogni giorno standomi accanto, lasciando che legga per lui, carezzandomi nel sonno, seguendomi quando i miei vezzi mi spingono a cercare nuovamente il brivido dell’avventura.

In questo preciso istante legge sulla sua poltrona preferita, senza sapere che sto trascirvendo ciò che ci ha portati ad essere in questo luogo, e mi beo del fatto che possa alzarmi per andare a baciarlo ogni qual volta io lo desideri.

 

Non ho mai meritato nulla di tutto ciò, ma ho espiato i miei peccati e ritengo di aver rimediato a tutto, dacché altrimenti non mi sarebbe stata mai concessa la fortuna di svegliarmi ogni giorno accanto a John Watson.

 

 

 

Fine

 

 

 

Note:

La mia idea era di scrivere una OS. Ho miseramente fallito, ma sono felice di aver mantenuto la questione su questa lunghezza: approfondendo la sifilide e tutta la storia della terapia per la stessa mi ha aperto un mondo e sarebbe stato sconsiderato tagliare.
Ho fatto ricerca e sono stata quanto più attinente possibile alla realtà.

Mi rendo conto solo ora che il mio Holmes sia forse più mellifluo del solito, ma ho questo strano canon secondo cui Holmes, con gli anni, sarebbe diventato più morbido, soprattutto con Watson, ma queste sono considerazioni personali.
Mi auguro che la storia vi sia piaciuta e amerei leggere vostre opinioni e recensioni.

 

A presto,

 

Bethesda

   
 
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