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Autore: Dragonfly92    19/07/2020    1 recensioni
Tobia è un uomo che ha trovato, nella solitudine, la sua felicità.
Yuri è un bambino che, invece, non l'ha mai conosciuta.
Un passato ingombrante, un ricatto, la forzata convivenza e la scoperta di un'infanzia mai esistita: pelle livida, cuore cianotico.
Piccoli, faticosi passi per arrivare a capire, scoprire, disinfettare le emozioni.
E difenderle, quando il passato torna a reclamarne la potestà.
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(La storia è legalmente protetta da copyright)
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Quattro Verticale – Pena affannosa, disperazione
 
 
Il ragazzino singhiozza parole.
Tobia, dal piano di sotto, le sente spezzarsi.
E quello che sta provando non somiglia nemmeno un po' alla soddisfazione
“S-Signora!”
Nessun pentimento, solo un principio di spaesamento.
“S-Signora, p-per f-favore!”
Per quella reazione esagerata che dovrebbe farlo infuriare.
Invece di lasciarlo lì, mascella contratta e stomaco teso nella speranza che la smetta.
Di gridare.
 
E implorare.
E piangere.
E disperarsi.
 
“N-Non può!
N-Non può!”
 
Ma Tobia persevera, ingozza la mente ripetendole che è solo il capriccio di un moccioso.
Non è a causa sua se il ragazzino è così spaventato.
E, ha ragione
O, almeno, una parte, di ragione.
Perché l'argine si è rotto a causa di un telefono.
Di uno stupido, moderno telefono.
Lo afferra.
Lo stringe sino a causare l'involontaria illuminazione del display dove fa bella mostra di sé uno sfondo strafottente, infantile: un dito medio, forse appropriato e meritato.
 
Il pollice sfiora il vetro percorrendone la crepa.
Sblocco.
C'è un video, in stand-by.
Un cerchietto, un triangolo bianco al suo interno.
 
“P-Per F-FAVORE!”
 
È il disagio, a fare pressione.
Potrebbe ammetterlo, Tobia.
Potrebbe ammettere d'aver premuto play per mettere in pausa la voce al piano di sopra.
Potrebbe farlo.
Se le parole che desiderava sfumassero, non si riproducessero ora fra le sue mani.
 
C'è un bambino nello schermo rotto.
C'è un bambino costretto in piedi, su una sedia.
Su un tavolo.
 
C'è la sua voce sfibrata.
Ci sono risate grasse, dominanti.
Ci sono preghiere e risposte divertite.
 
“Così impari!”
“Appena lo saprà papà…”
 
C'è angoscia e terrore in due occhi diversi che cercano un appiglio per scendere.
In due mani piccole che cercano il bordo della sedia e sono costrette a ritrarsi.
 
“Provaci!”
 
E allora ci sono di nuovo preghiere.
 
“Se lo dici per bene ti facciamo scendere!”
 
Ed un tentativo.
“P-P… p-p…”
Un fallimento acclamato da risate, un background cattivo.
La messa a fuoco di un bambino terrorizzato.
 
Ma non c'è la sua voce, adesso.
Non riesce ad uscire, se non frastagliata.
Ed atterrita ad ogni avvicinarsi.
Ad ogni mano che si allunga in un sadico dondolare la sedia.
Così alta.
 
“P-Per…
f-favor…
NO!”
 
Una scossa di panico.
Violenta.
Crudele.
Bastarda.
 
“Hai pisciato sul nostro tavolo, stupido mostro?”
 
Risate.
Risate.
Risate.
La testa premuta sul legno.
 
“Lecca!”
 
Nella fretta di chiudere, Tobia cambia pagina.
Un nuovo capitolo di miseria prende vita.
E lui rimane impotente, immobile.
Con gli occhi fissi su una casuale riproduzione di violenza.
 
Un cortile trascurato.
Una porta spalancata all'improvviso.
Mugolii, luce che acceca.
La ripresa eccitata, mai ferma.
Un bambino trascinato, capelli in pugno, disperazione dei movimenti.
Occhi gonfi di lacrime e botte.
 
Nessuno stupido, crudele gioco, adesso.
Solo violenza.
Nuda violenza.
Tobia si porta una mano al petto, sente qualcosa sgretolarsi insieme a quella voce rotta.
Che si frantuma, pezzi sempre più piccoli ad ogni colpo.
Un uomo di spalle, mani che si sfogano su una schiena già livida.
Disprezzo gridato.
E, suppliche.
Giuramenti.
Non lo faccio più.
Suoni di carne battuta.
 
Cosa non avresti dovuto fare?
L'uomo se lo chiede, inchiodato sulla sedia.
E guarda la risposta riprodursi.
 
“Non
Impari
Mai.”
Corrado alterna ogni parola con un colpo.
Uno alla schiena.
Uno sulla spalla.
Uno sul viso.
Che cerca salvezza e si ritrova esposto, una mano a stringere i capelli.
“Non dovevi nascere.”
Una porta chiusa, la promessa di non riaprirla mai più.
 
Voglia di  fuggire.
Incapacità di sottrarsi.
A quelle immagini.
Che forse rappresentano soltanto un increscioso, irripetibile episodio.
Ed invece è solo un frammento.
C'è lo stesso bambino adesso, forse un po' più piccolo.
Ripreso in segreto.
Inginocchiato a terra, per strofinare il pavimento.
La testa che si alza e poi distoglie lo sguardo, ora che la telecamera è più vicina.
Ci sono scarpe nuove battute sul parquet.
C'è fango che macchia un lavoro finito.
Ora ripreso, ora bloccato da una suola premuta sulle nocche.
E c'è desolazione, in due occhi sbagliati.
 
“Piccolo mostro, sorridi al pubblico!”
 
Angoscia, il rumore di una macchina arrestata.
Terrore, una porta spalancata.
Un compito non finito.
Passi che risuonano mentre lacrime scivolano.
Quanto male può fare il rumore di una fibbia sganciata?
 
“S-Signore …”
Quanto può diventare assordante una cinghia sfilata dai jeans?
“S-Signore!”
I colpi veloci, la carne che si lacera.
“T-TI P-PREGO!
P-PER FAVORE!”
Gemiti trattenuti che si evolvono, sfociano in urla angoscianti, finché anche urlare diventa dolore.
“M-Mamm…”
La voce, adesso, è così diversa.
È straziata.
“M-Mamma.”
È straziante.
La salvezza chiamata in un sussurro, che non arriva.
 
Una porta, sempre la stessa.
Un interruttore spaccato.
Una stanza buia.
La conosci bene.
Eppure non ci si abitua mai alla sofferenza, vero?
Tobia si trova a pregare, insieme al bambino.
Prega che la porta si apra.
La porta ripresa ogni singolo giorno.
Ma rimasta chiusa per tre notti, testimoniate in un montaggio curato.
Sadico.
Che riempie la pelle di brividi.
Lo stomaco di bile.
La porta che si apre su un mondo buio.
Blu, viola, giallo.
Un piccolo spazio occupato da enormi atrocità.
Commesse a voce, a mano o con una striscia di pelle.
Ribadite, schiacciate, pressate dal suolo di una scarpa, da un pugno chiuso.
 
C'era un bambino, dentro lo schermo rotto.
Adesso c'è un bambino rotto, dentro lo schermo.
 
“S-Signora!”
“Боже мой!”
Tutto tace.
Tutto, all'improvviso, così come è iniziato, finisce.
Col vociare spaventato di Adele.
Con la sua lingua madre, mai ascoltata prima, che sfuma.
Dissolvenza di rumore.
Pulviscolo di silenzio.
Surreale, fa ronzare le orecchie.
 
Con lentezza, i suoni più tenui si ricompongono.
Piccoli  frammenti si ricongiungono, dapprima insensati, confusi, poi, via-via più coerenti.
 
Tobia, in una tomba priva di suono, sente il mugolare lieve del bambino.
Attutito, labbra che premono insieme, mani a tappar la bocca.
Non lo vede, però lo sente.
Come sente il singhiozzo soffocato di Adele.
Dovrebbe correre, probabilmente.
Ma un peso si è rigettato sulle sue gambe.
Che sembrano macigni ad ogni scalino.
Come i pensieri, ovattati, scoordinati.
 
La porta del bagno è aperta.
La figura di Adele si sposta, si volta spiazzandolo con un'espressione che mai le è appartenuta.
Ha gli occhi lucidi.
Le mani tremano, posate ai lati del viso.
Scuote la testa, ma non è un rimprovero.
È incapacità di parlare.
Sgomento.
 
Tobia avanza.
Il cuore, cessa di battere.
“Va' a chiamare Andrea.”
 
La donna lascia la stanza.
Sono soli, adesso.
 
“N-non l'ha u-usata…
I-Il b-b-b…
I-Il b-bambino n-non l'ha usata.”
Yuri si dondola, nell'angolo in cui si è rannicchiato.
Fra il lavandino e la doccia.
C'è un piccolo spazio.
Troppo piccolo.
“N-Non l'ha f-fatto.”
Le mani grattano le gambe, strette al petto.
Le braccia, non sono più nascoste.
La maglia lercia sbuca dal piccolo incavo che Yuri ha creato col suo corpo.
“F-Fatto…
Fatto n-niente.
F-Fatto nien…”
Le parole si interrompono, minacciate dal pianto.
Ma Yuri combatte, affonda la testa, la rialza, si culla.
Si stringe le gambe, si abbraccia.
Arti fini.
Nudi.
 Macchiati.
Sporchi.
 Di violenza.
Che si intravede, sulla schiena.
Ogni volta che il dondolare lo porta all'indietro, dove la luce riesce a raggiungerlo.
Ad illuminare lividi.
Cicatrici.
A far chiarezza su una pelle marchiata nel tempo.
I movimenti, il dondolare, gli scatti, continuano.
E poi Yuri lo vede, vede il Signore in piedi che lo sta guardando.
 
E Tobia coglie il mutamento delle parole che scopre aver rivolto, fino ad ora, soltanto a sé stesso.
In uno scatto nervoso, Yuri si afferra il viso, lo stringe, mentre il corpo prende a muoversi più veloce, come fosse l'unico modo per ordinargli controllo.
“N-N-N…
N-on l'ha f-fatto, Si-Signore…
T-Ti p-p-p…
p-prego!”
Un brivido si propaga con la preghiera d’esser creduto.
“F-Fatto n-n-n…
N-Niente, Signore…
F-Fatto nie-niente!”
“Lo so.” riesce a rispondere Tobia, nell’impeto della necessità di arrestare la sua disperazione.
La sua angoscia.
E Yuri, si stringe.
Si abbraccia.
Quel Signore gli crede.
Quel Signore, gli crede.
 

  
Cinque Orizzontale – Rimettere i peccati 
 
 
Andrea scende le scale e si sofferma sul terzultimo gradino, poggiando le dita sul corrimano.
Pensieri persi in macchie ancora vivide.
Nelle orecchie l'eco di sibili dolorosi.
 
In tutti i suoi anni di carriera, mai una volta si è trovato di fronte ad un qualcosa di così…
Mostruoso.
Disumano.
 
I passi riprendono, lenti ma decisi.
Acquisendo volontà nello scorgere il caos che regna in salotto.
 
“Hai finito?”
 
Il  tono è una fusione di ordine e rimprovero.
Sdegno.
 
“Li ammazzo.”
 
Tobia lo giura.
A se stesso e ad Andrea, nel quale scorge un moto di compassione.
 
“Lo stai facendo di nuovo.”
“Cosa?”
“Stai boicottando le tue emozioni.”
 
La frase non ammette replica, ma questo non frena Tobia.
 
“Non mi sembra! Sono arrabbiato e non lo sto nascondendo!”
 
La mano aperta in un invito a guardarsi intorno.
Non che ve ne sia la necessità.
È impossibile ignorare la mobilia scomposta, i fogli sparsi sul pavimento, i vetri sul tappeto.
 
“Sei arrabbiato.” constata mesto il pediatra.
 
E dio sa se Tobia avrebbe voglia di dargli un pugno.
 
“Ma lo sei con te stesso.”
“Io non ho fatto niente!”
 
Adesso, invece, avrebbe voglia di prendersi a pugni da solo.
Perché non c'è bisogno che Andrea risponda.
Basta il suo sopracciglio inarcato.
Un “Appunto!” silenzioso che gli si legge in faccia.
 
“Io …”
 
Tobia non è mai a corto di risposte.
Non lascia frasi a metà, ha sempre l'ultima parola.
Andrea ne è consapevole.
Anni di convivenza gli hanno insegnato a leggere quell'uomo criptato.
Che ha amato, odiato e ammirato con la stessa intensità e dal quale è stato ricambiato, nello stesso modo criptico  che, ad un certo punto, non gli è bastato più.
 
Adesso comunque ha poca importanza, nonostante la pulsazione insistente di un punto interrogativo.
Perché?
Vorrebbe chiedergli.
Perché non mi hai cercato, fermato?
 
L'uomo accantona il dubbio, come certamente lo sta facendo l'ex compagno e il suo sguardo scivola lontano, fuori dai ricordi.
 
“È tuo nipote. È il figlio di Diego.”
Il Sottolineatore d'ovvio era il soprannome di Andrea.
Ancora molto appropriato, a quanto pare.
Il giudizio di Tobia non è ironico; Andrea dà voce all'ovvio che nessuno vuole sentire.
 
“Trovagli una sistemazione…”
Andrea lo scruta, torvo.
“Per favore.” aggiunge Tobia con scarso convincimento.
“Questo è ciò che ho potuto comprendere da una visita sommaria…”
Ignorando la precedente richiesta, il pediatra allunga una cartellina.
La calligrafia è a tratti scomposta.
Non è mai stato bravo, Andrea, a domare le sue emozioni.
“Leggila.”
Stavolta è Tobia a guardarlo torvo.
“Per favore...” aggiunge allora, facendo curvare verso l'alto le labbra che da tanto non vedeva.
E che subito si ricompongono.
 
C'è un quadro di violenza, fra le sue mani.
Che tremano, sfiorando parole crude.
 
Ecchimosi.
Contusioni.
Abrasioni.
 
 Righe livide.
 
Contratture involontarie dell’arto superiore sinistro.
Ansia, disturbo del linguaggio.
 
Che, insensibili, sintetizzano l’atrocità di un'infanzia ridotta a brandelli di carne martoriata.
 
Evidente malnutrizione.
Evidente.
Come i tic.
E le risposte preimpostate.
Ed il terrore del quale ha gioito, sul quale ha erto la sua figura.
 
Evidente.
Come adesso è il suo non aver voluto guardare.
 
“Dove credi di andare?”
“Lo sai!”
La cartellina viene gettata sul tavolo.
Un rumore secco, lussato dalle congratulazioni di Andrea.
“Una soluzione geniale.”
La voce assume una sfumatura sarcastica, tradita dalle braccia che si incrociano, severe, sul petto.
 
“Davvero, Tobia?
Davvero?”
Ogni traccia di ironia è sparita.
C'è sfida.
“Hai visto o no, cosa hanno fatto?”
“E tu?”
Lo sguardo assottigliato, giudice. 
 
“E tu, Tobia?”
La domanda viene ripetuta in un bisbiglio forzato ma destinato a tramutarsi.
“Me lo ha detto, sai? Adele. Mi ha detto come ti sei comportato. Con un bambino! Con il figlio di tuo fratello, porca puttana!”
“LO SO!”
Andrea accoglie quella che sa, essere una confessione.
Un'ammissione di colpa.
Che costringe Tobia a sedersi.
 
“Ti cercava…”
“Prego?”
“Il bambino, ti cercava.”
“Non essere sciocco!”
“Stai mettendo in dubbio la mia professionalità?”
 
Sia mai.
Pensa.
“Che tu ci creda o meno, sei stato il primo a non avergli fatto del male. Non quel tipo di male, almeno…”
Tobia è ferito dalla constatazione,  però la incassa in silenzio sapendo di essere doppiamente colpevole.
“Cosa devo fare?”
C'è una punta di rassegnazione, nella sua voce.
E di colpa, nelle iridi adesso più cupe.
Andrea accenna un sorriso, sedendosi sul bracciolo della poltrona occupata da Tobia.
Sulla poltrona che insieme, avevano scelto.
“Comincerai dall'inizio…”
“Oh, illuminante, dico davvero!”
Sputa ironico, guadagnandosi un’occhiata minatoria.
“Per dopodomani dovrei riuscire a prenotare tutte le visite necessarie. Non sappiamo, dove quell’abominio finisca…”
Tobia annuisce silenzioso, in un invito a continuare.
Ed Andrea accetta, spiega.
Narra la storia d’orrore che è riuscito a ricostruire.
Di fatti e teorie che si fondono in una tela di violenza, esposta nella stanza al piano superiore.
Di un bambino piegato all'obbedienza, spogliato della sua dignità, dei suoi anni.
 
Parla di strategie di azione, Andrea, di piccoli passi.
Di guarigione che, più che certezza, è speranza.
Di necessità.
Di imparare a parlare.
Di imparare a non avere paura.
Parla di teoria e pratica, da gesti a nutrizione.
Di tisane specifiche, naturali, che Tobia preparerà.
Di necessità di capire e scoprire.
Non accenna a vendette, denunce.
Non parla, di colpevoli.
Di loro, esseri spregevoli.
Omette quella parte, perché adesso è superflua.
 
Hanno a che fare con un bambino dall’anima rotta.
E questo, è tutto ciò che conta.
 
Gli occhi di Tobia brillano nel loro essersi spenti.
Brillano di colpa.
Che Andrea non può alleggerire.
Che Tobia potrà riscattare soltanto con le azioni.
E con il sentimento che è sempre stato così bravo a reprimere.
 
è  questa, la sua condanna.
Lo svincolarsi dal suo soprannome.
Dalla sua essenza.
Per Yuri.
Soltanto per il bambino.
 
“Mi ha dato questa…”
Una mano allungata, sul cui palmo aperto spicca una moneta.
“Per il lavoro del Signor dottore…” recita, prima che il silenzio si frapponga fra di loro.
Un’occhiata superflua alle annotazioni.
Consigli, quei pochi necessari ed elaborati dopo una visita che dev’essere approfondita.
 
Parla con lui.
Chiedi.
Osserva.
Controlla.
Avvicinati.
Sii paziente.
 
Un passo alla volta.
“Deve capire che è… solo un bambino.”
 
La banalità che si trasforma in una profonda ingiustizia.
 
Andrea parla e scrive, raccomandazioni banali che banali non sono.
Piccoli pasti, frequenti.
Movimenti cauti.
Parole gentili.
Domande.
Domande.
Domande.
“Che vuol dire domande?”
“Quante volte lo hai visto andare in bagno?
Bere?
Mangiare?”
Silenzio, di nuovo.
Colpa e comprensione.
 
“Non posso farlo.”
 
“Domani ti farò avere ulteriori istruzioni. E ti manderò qualcosa che possa aiutarti…”
“Smettila di ignorare quello che dico!”
“Lo faccio perché dici cose stupide!” risponde l’uomo, scaldandosi.
“Non…”
Andrea riprende fiato, cercando di calmarsi.
“Non… Non tradirlo anche tu, Tobia.
Hai sprecato abbastanza anni, facendoti divorare da stupide recriminazioni. Adesso basta. Non c'è tempo da perdere stavolta.”
È con quella frase che si alza.
Lasciando sulla poltrona la voglia di insistere.
Perché sa che altre parole sarebbero inutili.
 
“Andrea…”
L'uomo si volta, con le sue aspettative.
E comprende.
Annuisce piano.
Ce la farai, dice il suo sguardo.
Non senza di te, risponde muto l'uomo.
Ma a questo, Andrea non ribatte.
 
I due si avviano alla porta.
Ancora parole non dette, informazioni che schiacciano, verità che echeggiano.
Ed Andrea è già sull'uscio, quando riprende a parlare.
Con le spalle rivolte al botanico.
“Non li denuncerai, vero?”
“Non si meritano tanta clemenza. E lui… Il ragazzino. Si merita giustizia. Non credi?”
“Credo che si meriterebbe d'esser chiamato per nome.”
 
Yuri.
Yuri, Yuri.
 
Ha un sapore amaro, quel nome.
Sa di coraggio, di accettazione, di un errore volontario.
Sa di ricordi.
Di memorie infrante.
“Yuri si merita giustizia. Non credi?”
Ma soprattutto, sa di decisione.
E per questo, Andrea sorride.
 
“Scoprirai presto quello che si merita.”
E senza aggiungere altro se ne va, lasciando nella casa due anime sole ed ignare dell'esser accomunate dallo stesso bisogno: perdonare.
Perdonare, loro stesse.
   
 
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