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Autore: Melanto    20/07/2020    4 recensioni
[Sequel di 'Malerba']
Un figlio morto, uno che lo odia e una moglie che lo sopporta. Questo è ciò che possiede Akio Morisaki, oltre al suo lavoro, e pensa di non meritare nient'altro.
Ma quando la solidità che gli è sempre valsa il nomignolo di 'sequoia' inizia a vacillare, gli toccherà fare anche quello che non avrebbe mai pensato pur di tenere strette le proprie radici alla terra e capire, perduto nel tempo che aveva creduto di controllare, quanto profonde siano quelle della sua famiglia.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Roots - Capitolo 9

 

Note Iniziali: Perdonatemi, capitolo molto lungo che non mi andava di dividere, visto che è l'ultimo.

Prendetevi tutto il tempo e ci rileggiamo alla fine :*

 

Buona lettura.

 

 

 

- IX: Radici -

 

 Avere avuto l’ultima parola, aver visto il suo spettro più grande andarsene senza averla spuntata.

Il cannibale sorrideva della vittoria, lui sbatteva il cancello alle proprie spalle marciando con passo marziale. Aveva la direzione nella testa, i gesti da compiere in fila per essere eseguiti e nient’altro contava, nient’altro. Neppure gli occhi di Mamoru che lo seguivano.

“È finita qui”, anticipò ogni domanda con una risposta. Dalla tasca anteriore del grembiule da lavoro cavò il cellulare che aveva sempre portato con sé, costantemente, per giorni. Non aveva mai voluto ammettere il motivo di quell’attaccamento, sperando che nessun altro se ne fosse accorto. Lo lanciò sul tavolo della cucina.

Averlo vicino non gli serviva più.

Quello che doveva fare era stato fatto.

Non c’erano più radici.

 

Chiuse il rubinetto e sgrullò le mani nel lavandino con due gesti secchi, per togliere il grosso dell’acqua. Sfilò lo strofinaccio appeso al manico del forno e dopo essersi asciugato se lo caricò sulla spalla, appoggiandosi con i palmi al bordo del lavello.

Sul fondo della vaschetta si raggomitolava il residuo dell’acqua: una decina di gocce in tutto che scivolavano dalle pareti e lasciavano scie che si spezzavano in gocce più piccole. Tutto ciò che veniva lasciato indietro sedimentava unità, come semi.

Attorno, il soffuso della televisione accesa, in alto il ticchettare dell’orologio da parete; suoni distanti dalla dimensione in cui c’erano solo i suoi occhi sull’acqua. Rimaneva sempre una traccia se non passavi un reale colpo di straccio che l’asciugasse.

Shuzo non faceva che pensarci, rivedendo quei pochi momenti come finale d’un film costantemente rimandato indietro e poi avanti. Ci sarebbe dovuta essere una colonna sonora fatta di soddisfazione ad accompagnarlo, un The Eye of the Tiger che desse la carica e invece non c’era niente. Il cannibale aveva avuto ciò che aveva voluto e ora stava zitto.

Ecco, era quello il problema: c’era troppo silenzio, dentro. Non parlava l’inquietudine con il suo sussurro continuo, non sbuffava il cannibale costretto alla catena, non borbottava il sarcasmo. Era tutto spento e lui non ricordava d’aver sentito il cuore abbassare alcuna saracinesca. Sapeva solo che non era calma quella che stava provando, quanto attesa. Di cosa non lo aveva capito, ma tutti i suoi sensi stavano aspettando e ancora non era successo nulla. Poteva tradurre come ‘angoscia’ quella sensazione di quiete sottile come sfoglia di ghiaccio sul pelo di una pozzanghera? La staticità destinata a spezzarsi da un momento all’altro, questione di istanti che non arrivavano mai e Shuzo non sapeva in che modo liberarsi di quel fastidio che restava sotto la pelle, costante.

Avrebbe dovuto essere felice o quanto meno sereno, rilassato.

Invece si sentiva come se gli avessero dovuto sparare alle spalle da un momento all’altro e la mente non faceva che andare a un attimo preciso della conversazione avuta con Akio. Rimandava indietro il film mentale e si fermava lì, quasi sul finale, nel momento di climax in cui si toglieva il sasso dalla scarpa e gli diceva il più elegante ‘levati dal cazzo una volta per tutte’ cui avesse mai pensato. In quel punto preciso, nel pieno del trionfo, ecco che i suoi occhi coglievano il guizzo in quelli di Akio e la sensazione di aver non solo affondato il colpo, ma aver mandato in pezzi ogni cosa a un livello così profondo cui non pensava sarebbe riuscito a penetrare.

Il viso che perdeva colore in un attimo, lo sguardo che saettava come pallina da flipper.

Shuzo era stato certo di dover afferrare suo padre al volo. Certissimo. Ma il sorriso beffardo lo aveva fermato e ricordato chi erano entrambi e dove, e soprattutto cosa si stavano dicendo.

A quel sorriso, comunque, non aveva creduto: non era una smorfia che apparteneva ad Akio, quanto una ridicola pantomima per cavarsi d’impaccio.

E lui, quel fermoimmagine ce lo aveva stampato nella mente più di ogni altro, senza che riuscisse a capire perché.

C’era solo l’attesa, ma neppure di quella aveva risposta.

«Non c’era bisogno che lavassi i piatti a quest’ora, potevi infilarli in lavastoviglie.»

Un bacio sulla nuca, le braccia attorno alla vita e poi quel mormorio all’orecchio.

Shuzo sorrise, rilassò le spalle e piegò appena la testa all’indietro, contro Mamoru.

«Erano solo due cose.»

«Si può sapere dove hai messo il coglione che c’è in te? Sei silenzioso. Troppo. Al negozio hai fatto il duro, ma quando siamo tornati a casa hai ciondolato come un’anima in pena.»

«Premesso che io sono un duro, non sei contento di non sentirmi sparare cazzate? Di solito è di quello che ti lamenti.»

«Shuzo-»

«È tutto a posto, okay? Ho parlato a sufficienza, per oggi.»

«Ma non hai parlato con me.»

Con un gesto deciso si girò nell’abbraccio di Mamoru per poterlo guardare negli occhi. Lasciò lo straccio sui fuochi spenti e si riempì le mani con le sue spalle.

«E cosa ti devo dire, gioia?»

«Perché non stai lì a gongolare della tua vittoria, perché lavi i piatti a mezzanotte, perché non mi hai ancora chiesto di fare sesso.»

«Oh, be’, per l’ultima si può sempre rimediare…» sogghignò, mellifluo, ma il tentativo di avvicinarsi venne bloccato da una mano sul petto che lo spinse indietro.

«Sai cosa voglio dire.»

Shuzo sbuffò, poggiandosi contro il mobile alle proprie spalle. «Non gongolo perché magari sono diventato più maturo. E lavo i piatti perché magari sono un perfetto donnino di casa. C’è altro?»

«Perché non mi dici a cosa stai pensando?»

«Perché sono stronzate», disse sollevando le spalle.

«Se ti tengono così impegnato forse non lo sono abbastanza.»

Shuzo distolse lo sguardo verso un punto indefinito dell’appartamento. Tanto per quanto cercasse di focalizzarsi su ciò che aveva intorno la sua mente riproponeva solo quello scambio a senso unico nel vicolo dietro al Kokoro. Non aveva lasciato alcun margine ad Akio per ribattere a dovere, lo sapeva. Gli aveva chiuso tutti gli spazi in maniera impeccabile, costringendo suo padre ad arrancare per provare a tenere il suo passo, ma aveva preso una distanza troppo lunga e gli occhi di Akio avevano parlato chiaro.

«Sai quando desideri una cosa fino a farla diventare l’obiettivo della vita da rimirare e lucidare come un trofeo? Immagini, un giorno, di averlo sulla mensola principale del salotto. Ci pensi costantemente, tanto da usarlo come augurio della buonanotte, poi… una volta che lo hai raggiunto, ti rendi conto che non era l’obiettivo che ti alimentava, quando l’attesa che ti separava da esso.» Levò lo sguardo sul suo compagno. “L’ho ferito. Per la prima volta, l’ho ferito. Lo so, l’ho visto. Non era mai successo nonostante ci avessi provato per anni, lui aveva sempre opposto quella durezza che non lasciava alcuno spiraglio. Ogni volta aveva il disprezzo calato sulla faccia, il rimprovero.» Accennò un sorriso. «Oggi non gli ho lasciato neppure le parole. Sono andato a fondo, l’ho colpito e gli ho fatto il male che non ero mai riuscito a fargli in passato. Impeccabile.»

«Non era quello che volevi?»

«Sì, e non so perché non mi soddisfa. Avrei dovuto sentire il fuoco della rivalsa!» disse, serrando la presa attorno alle braccia di Mamoru. «Avrei dovuto andarmene in giro petto in fuori, portandomi l’orgoglio a spasso come fosse stato un cane da mostra e invece… non sento niente.»

Il vuoto più totale dopo che aveva avvertito il forarsi nello stomaco, lo spiraglio microscopico del buco nero che si affacciava ancora sulla sua vita. In quel buco nero era così assordante il silenzio da fargli credere che in realtà fosse solo vuoto.

«Forse le terapie hanno davvero sortito l’effetto sperato e non me ne importa più nulla di lui. Oppure…» Shuzo sollevò le spalle e abbandonò l’abbraccio di Mamoru con un gesto fluido solo per non guardarlo negli occhi e permettergli di leggere verità scomode che avrebbero potuto mandare tutto all’aria.

«Oppure?»

«Oppure non lo vedo più come l’ostacolo insormontabile che mi sembrava quando ero piccolo, ma solo come un vecchio. Che razza di soddisfazione potrei mai provare nel vincere contro un vecchio che non riesce a tenere il passo del mio odio? È debole!» sancì con amarezza. «Così debole che per un attimo ho creduto che…»

Fermò la circumnavigazione del tavolo solo per aggrapparsi con le mani alla sommità della spalliera di una sedia. Sopracciglio inarcato con fastidio e qualcos’altro, e poi lo sguardo che sfuggiva per l’ennesima volta alle proprie responsabilità.

«Cosa?»

«Niente.»

«Shuzo, avanti.»

Scrollò il capo e sollevò le mani con noncuranza. Era solo una sciocchezza, dopotutto. Solo un’impressione. «Ma niente, per un attimo ho creduto che si sentisse male.»

«Prego?!»

«Sì, pensavo addirittura di doverlo sostenere.»

«E lo hai lasciato andare via pur sapendo che non stava bene?!»

Spesso, Mamoru funzionava un po’ come la sua coscienza, quella che teneva a volume bassissimo e che gli urlava tutti i ‘che cazzo fai?!’ della sua vita. Il volume di Mamoru però era molto più alto, e lo chiudeva all’angolo in fretta. Un angolo dal quale si cavava fuori con uno scudo di faccia di bronzo e lancia di disinteresse.

«Massì, stava benissimo! Tanto che poi ha mostrato la sua solita faccia di merda per dire che avevamo solo perso tempo!»

«Shuzo!»

«Cosa?!»

Mamoru si portò una mano alla fronte. Anche le coscienze si esasperavano, forse prima di tutti gli altri. «Cazzo, perché devi fare così? È tuo padre, okay? Con tutti i suoi sbagli, ma è tuo padre che ti piaccia o no! E forse, ma forse eh!, nel ferire lui hai ferito anche te stesso. Ci hai pensato?»

«Non dire stronzate. Ti sembro ferito?! Sono solo… sorpreso. Mi aspettavo una reazione da me e ne ho avuta un’altra, tutto qua.»

«Detesto quando sei così testardo…» sospirò l’altro raggiungendolo con rassegnazione. Gli passò una mano dietro la nuca e se lo tirò addosso.

Shuzo, lo lasciò fare, appoggiando un sorriso nel collo e poi un bacio.

«Però sotto sotto mi ami anche per questo.»

«Anche quella è una cosa che detesto!»

Sorrise, assottigliò lo sguardo stringendo appena le palpebre e lo agganciò alla vita, per rendere quel contatto più stretto e caldo. Ne aveva bisogno, di quel calore Shuzo ne aveva disperato bisogno, ma lo mostrava solo quando arrivava al limite.

«E cos’altro detesti di me, uh?»

«Quando mi guardi in quel modo. Si capisce subito cosa vuoi…»

«E cos’è che voglio?»

Sulle sue labbra, un bacio leggero. Solo per sentirne la consistenza, far vibrare il tatto.

Mamoru aveva lo sguardo di chi avrebbe voluto prenderlo a morsi, ma infine sospirò, rassegnato a lui e alla sua testa di mulo.

«Farmi diventare matto», disse accennando un sorriso che trovò subito il suo con cui fare comunella. Si scambiarono una risata, sapori e sensazioni. E acqua. Il rivolo sottile della sorgente che non si esauriva mai.

Per Shuzo, perdersi in Mamoru era sempre stata la soluzione migliore per non pensare al resto e l’avrebbe sfruttata anche in quell’occasione, certo che al mattino tutto avrebbe avuto un altro aspetto e il tarlo di Akio affievolito da ricordi migliori e che riuscivano a farlo sentire vivo e non in colpa.

Il suo cellulare, però, spezzò ogni buona intenzione. Sia lui che Mamoru si girarono a guardarlo, lì sul tavolo.

«Mamma?» Shuzo era perplesso. «A quest’ora?»

L’orologio appeso alla parete segnava la mezzanotte passata già da mezz’ora. Un orario che sembrava uscito dritto dalla sua vecchia vita. L’ultima volta che avevano ricevuto una telefonata così tardi, però, era stato per la nascita della piccola di casa Matsuda.

Controvoglia, lasciò l’abbraccio rassicurante di Mamoru e afferrò il cellulare.

«Ehi, è tutto a posto?» La sua prima domanda. «Non hai visto che ore-»

– Non è tornato.

«Chi?»

– Tuo padre. Non è rientrato a casa.

Shuzo trattenne un’imprecazione, ma non l’acrimonia. «E mi hai chiamato per questo? Sarà andato a bere con i colleghi, non sapevo avesse il coprifuoco. Quanti anni credi che abbia? Fidati, sono già più di venti.»

– Sono mesi che tuo padre non beve più come prima, per ordine del medico.

«E quando mai i Morisaki ascoltano qualcuno che non siano loro stessi? Senti, magari ha incontrato una sua conoscenza ed è andato a-»

– Conosco tuo padre, Shuzo. – Il tono di sua madre vibrava tra due sentimenti contrastanti che filtrarono nitidi lungo la linea telefonica, e il rimprovero era forse più forte della preoccupazione. – Non sarebbe uscito senza avvisarmi che sarebbe rincasato tardi. Inoltre, ho già chiamato in ufficio, ma mi hanno detto che se n’è andato nel pomeriggio. Aveva lezione alla Sogetsu, che oramai è finita da un pezzo. E il suo cellulare non prende. Si può sapere cosa vi siete detti? Lo so che è venuto al Kokoro!

«Oh, e quindi di chi sarebbe la responsabilità se lui si dà alla macchia? Mori Shuzo, presente. Volete darmi anche la colpa del buco dell’ozono?»

All’altro capo, Yumeko prese un profondo respiro concedendogli un silenzio più lungo in cui, non riusciva a capire perché, finì col sentirsi in colpa.

– Tuo padre sta affrontando un momento particolare, negli ultimi mesi non è stato molto bene.

«Effinalmente ti decidi a dirmelo! Come se non l’avessi capito.»

– Non è niente di grave, ma gli scossoni troppo forti come questo, non…

«Di che stiamo parlando? Lo stai dipingendo come un emo depresso. Sarà mica esaurito?» sghignazzò.

– Credi che tuo padre sia fatto di ferro, Shuzo? Magari lo è stato un tempo, ma ora quel ferro si è arrugginito.

Lui abbandonò il sostegno del tavolo contro cui era rimasto appoggiato per drizzare la schiena.

«…è esaurito?» chiese di nuovo e senza ironia. Alzò gli occhi su Mamoru e non vederlo sorpreso fu illuminante.

Cazzo, sapevi anche questo?! Mimò solo con le labbra.

Mamoru si indicò le orecchie. Tu non volevi ascoltare.

Shuzo ingoiò una rispostaccia e prese un profondo respiro. L’immagine di Akio che sbiancava, quel non riuscire a stare al passo dei suoi attacchi… adesso capiva. Massaggiò la fronte e poi affondò le dita nella barba, passandole lungo la mascella.

«Mi sembrava fosse stato troppo facile metterlo alla porta senza che replicasse.»

– Era nel tuo diritto farlo, lo so. E so quanto possa essere difficile riuscire anche solo ad ascoltare chi ti ha deluso e ferito per tutta la vita… ma io sono davvero preoccupata. Ho chiamato gli ospedali di Nankatsu e dintorni, senza successo. Ho chiamato anche i koban di zona e mi hanno detto di aspettare, ma loro non conoscono tuo padre come lo conosco io. Per favore, tesoro, potresti-…

«Sì. Sì, vado a vedere dove cazzo si è andato a cacciare quel deficiente. E che sia chiaro, glielo dirò che è un coglione, okay? E non potrai farmi la parte! Ora mandami il suo numero, proverò a chiamarlo anch’io.»

– Grazie.

Si era fatto mettere nel sacco da quei fottuti legami che non volevano morire. Aveva strappato un intero nodo di radici, quel giorno, e non era cambiato niente. Quanti altri ce n’erano a tenerlo legato ad Akio?

Shuzo sospirò, si accordò con sua madre per sentirsi più tardi e si raccomandò di stare tranquilla, ché Akio non era tipo da colpi di testa, esaurito o meno che fosse stato. Poi rimase a fissare il display dopo aver chiuso la chiamata.

«Che è successo?»

«Che io e te abbiamo un cazzo di problema di incomunicabilità, a quanto sembra.»

Mamoru incrociò le braccia al petto. «Ero anch’io preoccupato per Morisaki-san, e ho fatto quello che tu non ti decidevi a fare: ho chiesto a tua madre.»

«E dirmelo ti costava tanto?!»

«Sì, perché devi smetterla di pretendere che siano gli altri a darti le risposte! Se davvero volevi sapere come stava tuo padre, avresti dovuto chiedere. Te lo sto dicendo da settimane, e tu niente.»

Shuzo agitò un braccio nell’aria e gli volse le spalle. «Ma quale preoccupato! Quell’altro imbecille si comporta come un bambino che fa i capricci e adesso devo pure corrergli dietro! Una cosa doveva fare, una! Ed era non creare altri problemi alla mamma! Invece che cazzo fa?! Si dà alla macchia. Così!» schioccò le dita. «Sessant’anni buttati nel cesso, quello lì!»

Ma camminava avanti e indietro davanti ai lavandini e ai fuochi, ripensando a quel dannato fermoimmagine di Akio che impallidiva. Solo quello. Non se lo riusciva a togliere dalla testa in nessun modo. Un campanello d’allarme che non era stato in grado di cogliere.

«Prendiamo entrambe le macchine, in due faremo-»

«No, vado io. Tu resta qui, è già tardi. Akio è un problema mio e lo risolvo da solo.»

«Oh, e siamo tornati ai bei vecchi ‘faccio da solo’? La mettiamo così?» ironizzò Mamoru.

«Tu non dovresti proprio parlare, Giuda», lo additò, mentre raggiungeva la porta con l’intento di infilarsi le scarpe da ginnastica. Le mani del suo compagno lo trovarono prima potesse voltargli le spalle; si chiusero attorno al viso, lo costrinsero a fermarsi, guardarlo, e lui non era davvero arrabbiato per le omissioni come era accaduto per la faccenda dell’ikebana, dato che ora era consapevole delle proprie responsabilità.

Era vero, Mamoru glielo stava dicendo da settimane di fare quella fottuta telefonata e anche se lui aveva urlato ai quattro venti che non gli importava, la verità era che non voleva sapere la risposta. Non voleva sentirsi dire ‘sì, sta male’ e trovarsi a fronteggiare qualcosa contro cui non avrebbe potuto vincere. Le loro battaglie erano sempre state più o meno ad armi pari, affilate di volta in volta sulla pelle dell’altro. Non era pronto a sentirsi dire che non avrebbero più potuto combatterle, quando avevano sempre fatto parte del loro modo di interagire.

«Sai perché non te l’ho detto.»

«Sì», ammise in un sospiro e la presa di Mamoru virò in carezza che scivolò dalle guance per fermarsi sul collo.

«Davvero non vuoi che venga?»

«Non ce n’è bisogno. Vedrai, si sarà fermato in qualche bar a fare l’emo, manco avesse quindici anni.» Gli sfuggì un sorriso. «Ci sarà da ridere.»

«Lo troverai, sta’ tranquillo.»

«Ma io sono tranquillissimo! È solo esaurito, mica sta morendo. C’è di peggio nella vita.»

Nella mano, il cellulare vibrò per il messaggio di sua madre. Shuzo armeggiò con il numero che lei gli aveva girato su WhatsApp, ma si fermò quando il registro delle chiamate lo avvisò di averlo in lista.

Tirò indietro il mento.

«Che significa?»

«Cosa?»

«Questo numero mi ha già chiamato una volta…»

Mamoru lo affiancò per guardare insieme il display dove il numero era riportato con sotto data e ora. «Il 12 marzo?»

«Impossibile. Io quel giorno ho ricevuto solo-…» Shuzo la ricordò, era durata pochissimo e aveva parlato solo lui, perché nessuno aveva risposto dall’altra parte.

Se tu non sei pronto, perché dovrei esserlo io?

«Il call center…»

Il cellulare iniziò a vibrare di nuovo, ma non era un messaggio. Shuzo sussultò nel vedere in entrata proprio il numero di Akio.

«Ti sta chiamando! Ah, meno male», esclamò Mamoru.

«E perché proprio me? Non poteva chiamare la mamma?! Sai quanti messaggi gli avrà lasciato!»

«Non rompere e rispondi.»

«Seh, seh.» Shuzo arricciò le labbra e prese la chiamata. «Si può sapere dove cazzo stai, pezzo d’idiota?!»

Mamoru lo colpì con una manata alla spalla, e per tutta risposta lui si allontanò di un paio di passi, guardandolo storto. Si aspettava che gli riservasse anche un tono di comprensione? Nessuna pietà per gli imbecilli era un motto di vita che portava avanti fin da quando era entrato nei 3Kitsu.

Dall’altra parte, però, non udì il chiacchiericcio da bar in sottofondo come si era aspettato e nemmeno quello delle auto in passaggio sulla strada. Sentiva, invece, rumore di dita che battevano su una tastiera.

A rispondergli fu una voce che non conosceva, dal tono incerto.

– Parlo con il figlio di Morisaki Akio?

«E lei chi è?»

– Sono l’agente Hasakusa del koban di Fuji City. Abbiamo suo padre in custodia.

«Cosa avete?»

– Sì, in custodia.

«E perché?!»

Il poliziotto fece un borbottio con la bocca, accompagnato da un frusciare di fogli.

– Mah, scelga lei: ubriachezza molesta, oltraggio a pubblico ufficiale, disturbo della quiete pubblica… devo continuare?

«Aspetti, aspetti! Mi sta dicendo… che ha arrestato mio padre?»

Shuzo vide Mamoru sgranare gli occhi e poi nascondere il viso nella mano, mentre scuoteva il capo. Lui, invece, si sentiva come sotto a una campana cui avevano appena battuto le pareti di ottone.

– Esatto. Lo stiamo tenendo in cella perché è piuttosto… agitato, al momento. Preferisce che lo tratteniamo noi questa notte, così che gli passi la sbornia e formalizziamo le accuse, o viene a prenderlo?

Due secondi fu il tempo che fece passare tra le parole dello stellato e la risata che gli esplose con così tanta forza da allontanare il cellulare dal viso. Una risata che gli nacque dal fondo di quel buco nero che aveva creduto vuoto e che lo riempì fino agli occhi. Si ritrovò a battere un piede a terra come i bambini.

– …signor Morisaki, è tutto a posto? Pronto?

«Sì! Sì, è a posto. A postissimo! Mai stato meglio in vita mia, glielo posso garantire! Oddio, sì, il karma! Che cosa meravigliosa è il karma?! Sto arrivando! Vengo da Obuchi, mi dia… mi dia il tempo, okay? Sono qui vicino, faccio in un attimo. Ossignore di tutti i cieli e quando mi ricapita?! La prego, non lo faccia uscire, eh? Mi raccomando, lo tenga lì! Lì, dietro le sbarre! Io sto arrivando!» Infilò il cellulare in tasca senza smettere di ridere e si precipitò verso la porta dove indossò le scarpe da ginnastica alla velocità della luce e saltellando su un piede solo. «Non ci credo! Ma non ci credo! Questa sarà la sera più bella della mia vita! Ti rendi conto?!»

«Che diavolo è successo?»

«L’hanno arrestato! Hanno arrestato Akio! E io, io!, ascolta: io lo vado a tirare fuori! Io! Capisci?!» Aveva un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro, le mani che battevano il petto. Il suo umore nero dissolto in un attimo, mentre Mamoru continuava a guardarlo con le labbra arricciate e le braccia conserte. Lui alzò le proprie al cielo, viso compreso. «Grazie! Grazie! Grazie! Ovunque voi siate, grazie! Giuro che bestemmierò di meno e vi pregherò di più, ma grazie di questo dono! Veramente!»

«Shuzo…»

«Ti manderò qualche foto! Anzi, lo riprendo proprio in video e lo giro anche lui, perché dovrà avere memoria storica di questo evento megagalattico in cui io, Shuzo Mori, pluricondannato, vado a tirare fuori di galera quel coglione di mio padre, che si è fatto arrestare per ubriachezza molesta! Minimo avrà sfasciato qualcosa, oddèi, sì, sì e sì», esalò con i pugni al petto. «Non senti l’eco degli angeli che cantano quel soave ‘figura di merda’? Io sì!»

«Quindi tuo padre si è andato a ubriacare?»

«Non lo trovi meravigliosamente ipocrita? Oh, ha anche un’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale», sospirò. «Quanta tenerezza.»

Mamoru lo guardò fisso per qualche istante, poi riprese a scuotere il capo. «Avrei dovuto immaginarlo che l’avrebbe fatto…»

«Da cosa?»

«Be’, mi sembra ovvio…» iniziò Mamoru, prima di urlargli in faccia: «dal fatto che siete uguali, cazzo! Uguali! Addirittura le stesse fottute reazioni!»

«Uguali cosa?! Non è vero!»

«Ah, te lo devo ricordare? Cos’è che hai fatto tu quando hai scoperto che tuo padre faceva ikebana?»

«Non ero ubriaco…»

«Certo, e magari ci credi pure.»

«Ero solo alticcio!»

«Non è importante se fossi ridotto o meno a uno scendiletto! Entrambi vi siete buttati a bere, entrambi vi siete isolati senza uno straccio di messaggio per me o tua madre! Merda, se non è essere l’uno la fotocopia dell’altro questo, non so cosa potrebbe mai esserlo! E se viene fuori che tuo padre ha attaccato briga con qualcuno, abbiamo fatto en-plein

Shuzo cambiò piede d’appoggio e si masticò l’interno della guancia, mentre Mamoru si metteva a ridere.

«Uguali, ti dico. Uguali. Ecco perché non riuscite ad andare d’accordo: insieme fate scemo e più scemo!»

«Vuoi dirmi che mi sto sul cazzo da solo?»

«Ti stupisce, per caso? Yuzo! Tuo padre e tuo fratello sono due deficienti!»

«Come se non lo sapesse già!» Shuzo sbuffò, afferrando una scolorita giacca da jeans dall’appendiabiti. «Non rovinarmi il mood. Non ora che ho l’umore a mille e sto per prendermi la rivalsa del secolo.» Chiavi in una mano, borsa con i documenti caricata sulla spalla ed era già con un piede sulla soglia, quando tornò indietro. Attirò Mamoru a sé, poggiandogli la mano sulla nuca, e si prese un ultimo bacio. «Penso che farò un po’ tardi, okay? È già quasi l’una, e dovrò riportare quell’idiota a Nankatsu. Non aspettarmi e vai a dormire. Ti scrivo appena lo prendo in consegna.»

«Senti…» Mamoru giocherellò con il colletto di jeans della giacca. «Perché non resti a casa dei tuoi, stanotte? Anche tu sarai stanco, non metterti al volante per tornare qui.»

Shuzo s’affrettò a scuotere il capo. «Non ce n’è bisogno, e domani c’è da lavorare.»

«Vieni più tardi, direttamente da Nankatsu. Non ha senso che torni all’alba, e dopo poche ore devi essere già in piedi. Fermati lì, raggiungici con calma domattina. Tanto ci siamo io, Kumi e Kaede. Ce la caveremo alla grande.»

«Non lo so… Non credo sia il caso.»

«Sì, che lo è», insistette Mamoru, guardandolo dritto negli occhi con quella fermezza che lui non riusciva ad avere al pensiero di rimanere nella sua vecchia casa. C’erano troppi ricordi, dietro, e troppi significati che per quanto fosse una scelta a dir poco normale, lui non era certo di volerla prendere così a cuor leggero.

«Vediamo.»

Mamoru lo baciò ancora e poi lo strinse a sé. «Vai a tirare il tuo vecchio fuori da lì», sorrise e lui ricambiò con la sua smorfia abituale che gli tirava le labbra da un lato.

«Non l’avrei mai creduto, ma questa si prospetta come la migliore serata che avremo da che sono nato.» In realtà, lui non riusciva a credere che ne avrebbero mai avuta una da poter considerare tale. La serata del secolo, dove sembrava che l’ordine costituito dovesse ribaltarsi come uno scarafaggio, e sarebbe toccato a lui godersi lo spettacolo.

Si allontanò da Mamoru e raggiunse la porta.

«Vedi di non esagerare», si raccomandò il compagno appena lui aprì l’uscio.

«Non ti assicuro nulla, è comunque il mio momento e voglio godermelo.»

«Shuzo?» Mamoru lo fermò ancora con lui che era ormai fuori con l’aria tiepida della sera di giugno a non fargli sentire troppo la differenza tra l’interno e l’esterno dell’appartamento. Aveva un bell’odore di estate. «Hai capito che ti ha chiamato il giorno del tuo compleanno?»

L’unico, tra l’altro, in cui aveva scelto di restare muto, mostrandosi coraggioso e codardo insieme. Il messaggio, comunque, anche se in ritardo, era arrivato.

«Sì, lo so.» E senza voltarsi chiuse la porta alle proprie spalle.

 

Aveva percorso la tratta Obuchi-Fuji a tempo di multa, parcheggiando proprio davanti al koban. Considerando anche l’ora tarda gli risultò facile e, vista la situazione, non si premurò di essere troppo fiscale con le aree di sosta.

Davanti alla piccola stazione di polizia, Shuzo sistemò la giacca di jeans e ravviò i capelli con una manata, nemmeno stesse per presentarsi a un appuntamento di lavoro con un pezzo grosso. In bocca aveva quel sorriso esplosivo che non vedeva l’ora di sbattere in faccia ad Akio appena l’avesse visto chiuso dietro le sbarre.

Oh, sì. Oh, dèi.

Era meglio d’un orgasmo e lui… lui si sentiva felice come un bambino.

Attraversò in tre lunghi passi il marciapiede ed entrò spalancando la porta di slancio.

«Agenti! Che la notte sia con voi!» Elargì sorrisi a destra e a manca.

Gli stellati presenti erano due: uno seduto dietro al bancone di cui vide solo la testa e un altro in piedi, accanto a un uomo con grembiule attorno alla vita e l’atteggiamento pieno di animosità. I tre lo guardarono, non capirono.

«Sono il figlio di Morisaki Akio. Sono venuto a godermi lo show. Dov’è?»

«Ah! Quindi è a lei che devo chiedere per i danni di quell’indemoniato?!»

«Hayashi-san, la prego-» Lo stellato cercò invano di trattenere l’omino basso e con pochissimi capelli, perché quest’ultimo se lo scrollò di dosso con uno strattone e raggiunse lui di gran carriera, agitandogli il cellulare sotto al naso.

«Guardi! Guardi cosa ha combinato al mio povero bar! Sono dovuti intervenire ben due dei miei ragazzi per tenerlo fermo, e nonostante tutto, guardi qui!»

Sul display, le immagini parlavano di almeno quattro sgabelli sfasciati, di cui uno era stato lanciato dall’altra parte del bancone, centrando in pieno la scaffalatura con tutti gli alcolici in mostra. Non era rimasto niente che non fossero macerie di vetri e liquore. Anche uno dei bassi lampadari dalla luce fioca e bluastra era stato travolto dalla furia di Akio e il cadavere semi-divelto oscillava in maniera innaturale, appeso all’ultimo filo elettrico.

Shuzo si portò una mano al petto. «Eh, ma allora vuole proprio rendermi fiero! Ha fatto le cose in grande stile, guarda lì! Adoro! Doveva pur aver imparato qualcosa con tutti gli anni di riformatorio che mi sono fatto… È anche vero che c’ha più di sessant’anni, insomma, uno non è che può pretendere. Sa, l’età… io avrei fatto di peggio, ma io c’ho anche vent’anni di meno, voglio dire.»

L’omino strabuzzò gli occhi. Aveva il labbro superiore arricciato sotto al naso, scopriva i denti comprese le gengive.

«…cosa?! Ma di che diavolo sta parlando?! Qua si tratta dei danni! Mi toccherà tenere chiuso il negozio per almeno quattro giorni! Parliamo di almeno un milione di yen!»

«Hayashi-san, queste sono cose che vedrete con i rispettivi avvocati.»

«Nah! Ma quali avvocati, lasci stare.» Shuzo smosse l’aria con la mano e poi raggiunse il bancone, dove l’altro stellato restava ancora seduto e lo guardava da sopra sottili occhiali rettangolari. Ravanò nella borsa che aveva con sé ed estrasse il blocchetto degli assegni. «Permette?» Shuzo sorrise e poi si servì della penna lasciata sul banco per compilarne uno in meno di un minuto che staccò con un gesto deciso. «È compreso un extra per il disturbo», disse, offrendolo tra indice e medio al proprietario del locale.

L’uomo lo accettò, non senza una certa titubanza di fronte a tanta sicurezza. Abbassò gli occhi sull’assegno e li sgranò, tirando indietro la testa. Lo guardò come se fosse impazzito, ma per Shuzo quelli erano stati i due milioni di yen più ben spesi da che aveva acquistato il frutteto.

Il sorriso gli prese tutta la faccia.

«Grazie per aver chiamato la polizia.»

Risolto il problema del vecchietto, si rivolse al poliziotto che restava in piedi e lo guardava come fosse stato un alieno.

Shuzo batté le mani, le sfregò e non smise di sorridere neppure per un secondo.

«Allora? Dov’è il fenomeno?»

«Eeeehi! Voglio chiamare il mio avvocato, voi non avete alcun fottuto diritto di tenermi chiuso qui dentro senza farmi fare la mia telefonata! Giuro che vi farò spedire a dirigere il traffico alle Isole Izu!»

«E ci risiamo…» sbuffò lo stellato, mentre lui sbottava a ridere.

«È proprio il mio vecchio. Riconoscerei quello starnazzare anche tra mille galline.»

Si accomiatarono dal proprietario del bar, che l’altro poliziotto trattenne per fargli firmare dei documenti, e si diressero alla stanzetta posta sul fondo della struttura. I koban non erano solitamente preposti agli arresti; non i più piccoli, almeno. Ma quello, che era un po’ più grande, aveva un’unica cella in cui i delinquenti venivano tenuti in stallo per qualche ora, in attesa di essere ceduti a una pattuglia che li avrebbe portati in una più consona centrale di polizia.

Shuzo mise mano al cellulare con l’aspettativa che gli vibrava nel sangue. Per anni aveva atteso un simile momento ed era stato convinto di aver raggiunto la propria rivalsa definitiva quella mattina, durante il litigio; invece, la vera rivincita era lì, lo aspettava dall’altra pare della porta.

«Posso scattare delle foto, vero?» Shuzo venne assalito dal dubbio quando il poliziotto aveva già la mano sulla maniglia. Non poter avere una traccia di quel momento meraviglioso sarebbe stato ingiusto, e anche se lo stellato lo guardava, confuso da tutto quell’entusiasmo, accennò un sorriso ironico.

«Può fargli un intero servizio, se vuole.»

«Ah! Gli dèi gliene renderanno merito!»

«Mi basta riuscire ad arrivare alla pensione.»

Il poliziotto aprì la porta e il berciare di Akio li raggiunse ancor prima che entrassero.

«Era ora, dannazione! Vatti a fidare della polizia! Voi non fate il vostro dovere! Perché trattenete me e non quell’idiota d’un vecchio pelato?! Ha cominciato lui!»

Una stanza rettangolare, lunga e stretta. Sulla destra, l’intero ambiente era tagliato da una inferriata verniciata di bianco: delimitava lo spazio della cella.

Lì dentro, Akio camminava avanti e indietro, trascinando sul pavimento la giacca spiegazzata e dai bordi sporchi di polvere, asfalto e qualcosa di bagnato; forse il liquore che aveva rovesciato sfasciando il locale. Aveva la cravatta mezza sciolta e il primo bottone della camicia spuntato. Due grosse chiazze – una chiara e l’altra rossa di vino – spiccavano rispettivamente sul davanti della camicia e sulla coscia del pantalone. La rigidità della pettinatura con cui solitamente teneva sistemati i capelli era stata mandata a puttane, restituendo una chioma mista argento e scarmigliata.

Era incazzato. Oh, se era incazzato.

Shuzo glielo lesse in faccia, ma la prima reazione fu di portarsi un pugno alla bocca soffocandoci quell’esilarato: ‘ommioddio!’ mentre scattava a raffica con il cellulare.

«Adesso si calmi, Morisaki-san, c’è qui suo figlio.»

La prima cosa che offrì a suo padre fu il più smagliante e storto dei suoi sorrisi.

«Ed eccolo qui, il nostro one man show. Ho saputo che ci hai dato dentro, uh?»

Akio lo mise a fuoco con fatica e occhi stretti. Il disappunto e anche una chiara sorpresa gli attraversarono le smorfie del viso.

«Tu…? Cos-… come… chi ti ha chiamato? Come ti hanno-»

«Be’, pare che sul tuo cellulare ci sia il mio numero.»

«Ah… ecco perché non me lo restituivano.»

Akio afflosciò le spalle guardandosi le mani e poi tastandosi distrattamente le tasche dei pantaloni. Shuzo avanzò con passo calmo e pieno di enfasi.

«Come ci si sente? Non la trovi un po’ ironica, questa cosa? Non pensi che sia uno spasso? Io sì. E mi sto divertendo da matti.»

«Lo sapevo. Sei venuto per prendermi per il culo, non è così? Be’, potevi startene a casa!»

«E perdermi lo spettacolo?! Ma neanche per sogno! Anzi, sorridi, perché ti sto facendo un video fenomenale. Lo condividerò con mamma!»

«Toglimi subito quell’affare dalla faccia!» ringhiò Akio puntandogli l’indice contro.

«Tranquillo, lo condividerò anche con te.»

«Vuoi pensare a farmi uscire, invece di stare lì a comportarti come un bambino?!»

«Cosa cosa?» Shuzo portò due dita all’orecchio, girando appena la testa. «Cosa mi hai chiesto? Di farti uscire? Aw, chiedimelo ancora, magari ti rispondo di no. Sai, stavo pensando che una notte in cella non sarebbe male, così poi schedano anche a te e ce le possiamo confrontare, la mia e la tua. Non eri tu quello che voleva fare delle cose insieme, questa mi sembra decisamente alla portata di entrambi.»

Akio si trascinò come uno zombie fino alle sbarre, ci si aggrappò con entrambe le mani e lo fulminò con un’occhiata truce, di quelle che Shuzo conosceva da una vita e che da bambino l’avevano fatto sentire sempre troppo piccolo e sbagliato. Nonostante gli anni passati sulla pelle di entrambi, qualcosa di vecchio rimaneva, per tornare come un’eco. Ma Shuzo non avvertì la minaccia di un tempo, da quegli occhi, non provò la sensazione di essere un fallimento o di essere indesiderato.

Akio aveva iridi lucide per l’alcol e l’età, la sua fierezza era sbeccata come una vecchia porcellana e nel tono che voleva passare per aggressivo ci lesse solo un magro tentativo di difesa, che un po’ somigliava ai suoi, ma meno mordace.

L’uomo distolse lo sguardo in una sgrullata di capo. «Che bastardo d’un figlio stronzo…» biascicò, tirando via un mezzo sorriso.

«Be’, sai come si dice in questi casi, no? Tutto suo padre.»

Finalmente, come non era accaduto quella mattina, si sentì soddisfatto. Sul serio. Riconobbe la sensazione: una leggerezza nell’animo che fa stare con la schiena dritta e la testa… la testa alta, perché il nemico va guardato negli occhi, così come le sconfitte e le vittorie. Il mantra dei Morisaki tornò con un’eco diversa, non impositiva. Erano consigli, adesso, erano incoraggiamenti, mentre realizzava che forse – più dei lividi e del sangue – era solo questo che avrebbe sempre voluto: vedere le parti che si invertivano, vedere che anche il perfetto e ligio Akio Morisaki altro non fosse che una malerba come lui. Vederlo con i propri occhi, concretamente, affinché anch’egli ne fosse consapevole senza potersi più nascondere.

Ammettilo.

Ammettilo che sei marcio anche tu, come me. Che l’ho preso da te, sotto sotto.

Ammettilo; la taratura parte dai geni e me l’hai trasmessa, in mezzo a tutte quelle radici dove ci sono anche le mie. Ammettilo che la vera malerba sei tu.

«Lo faccia uscire.»

Lo sbirro nicchiò. «È proprio sicuro di non volerlo tenere qui? Ci siamo messi in contatto con lei perché suo padre è incensurato e pensavamo fosse stato solo un colpo di testa…»

«Fatti i cazzi tuoi, stellato

Shuzo strabuzzò gli occhi. «Ehi! Ma allora ti ho davvero insegnato tutto?! I’m so proud of you!»

«Fanculo pure tu!»

«Lo scusi, agente. Si dice che lo stress sia il male del ventunesimo secolo, ma nel suo caso è solo scemo. Ma prima di lasciarlo libero: selfie!» sogghignò scattandosi una foto in cui mostrava la lingua e due dita in segno di vittoria e suo padre, dall’altra parte della gabbia, con i denti digrignati e che cercava di afferrarlo con un braccio tra le sbarre.

«Giuro che come t’ho fatto ti disfo!»

«So che ti piacerebbe, ma l’alcol ti ha schioppato il cervello, quindi cala la cresta, Jackie Chan

Il poliziotto aprì la cella. «Io mi domando se invece non debba rinchiudere entrambi.»

«Sarei tentato, mi creda. Una notte in cella noi due e ci faremmo le migliori risate della nostra vita, ma non voglio far venire una crisi isterica al mio avvocato, ne ha già passate parecchie con me.» Shuzo sollevò le spalle, pensando al povero Tobi che gli tirava dietro l’intero pantheon della religione shintoista se si fosse fatto venire in mente di farsi rinchiudere un’altra volta.

Così, da bravo boy-scout, affondò le mani nelle tasche dei jeans e rimase a osservare come Akio si trascinasse fuori dalla cella, assieme ai suoi panni. Aveva il passo malfermo che non riusciva a mantenere un percorso dritto e pendeva ora da un lato e ora dall’altro. Era la prima volta che lo vedeva così scomposto, normale tutto in un colpo quando era sempre stato ritto sul proprio scalino di intoccabilità. Qualcosa che nulla aveva a che vedere con lui, sempre sul fondo della scala sociale e che in più occasioni si era ubriacato così tanto da perdere conoscenza e addormentarsi sul divano di chissà chi, chissà dove. Adesso, invece, scopriva che non era mai esistito nessuno scalino e che Akio, in fin dei conti, aveva solo imbrogliato mettendosi ritto sulle punte. Uno sforzo enorme che non potevi compiere per sempre; neppure le étoile del balletto potevano. E ora eccoli lì, entrambi allo stesso livello, a guardare da vicino l’uno gli sbagli dell’altro, le debolezze, i crolli che Akio, come aveva sempre fatto lui fino a qualche anno fa, non voleva condividere con nessuno. Non voleva neppure un semplice aiuto a camminare diritto. Shuzo si vide allontanare con una manata quando cercò di afferrarlo prima che si abboccasse troppo sulla sinistra.

«So camminare da solo», fu il borbottio testardo che ottenne.

Lui si fece da parte, alzò le mani e lasciò che suo padre uscisse per primo dalla stanza, assieme alla propria fierezza malconcia e trascinata a terra con la giacca.

L’omino del bar non c’era più, in compenso l’altro poliziotto aspettava dietro al bancone con una cartelletta da firmare.

Akio gli ringhiò contro, lanciandogli un’occhiata truce e lui lo allontanò deviandolo con le mani su entrambe le spalle in un trenino improvvisato.

«Cuccia, tigre.» Lo spinse in avanti e si fermò al banco. Sorrise al poliziotto che continuava a tenere sott’occhio suo padre. Diede una lettura sommaria al documento di rilascio in cui venivano scaricate su di lui tutte le responsabilità future.

«Allora, ci muoviamo? Devo tornare da tua madre.»

«Ti ricordi di lei a scoppio ritardato?»

«Io non mi dimentico mai della mia deiji, e non mancarmi di rispetto!»

«Deiji? Kawaii ne.» Shuzo gli fece il verso, mentre scarabocchiava una firma sul documento. «Il problema non è la senilità, ma la demenza», concluse con un’alzata di spalle mentre s’apprestava a raggiungere suo padre che continuava a litigare con la porta d’ingresso del koban. Non faceva che borbottare perché non si apriva, senza essersi accorto che non era automatica.

«Ma magari se tirassi…»

«Tirare?! Siamo rimasti al Giurassico, qui?!»

«Ti ricordo che non è l’Hilton, e attento allo scal-»

Nemmeno il tempo di avvisarlo che Akio, nello slancio di uscire, inciampò nei propri piedi e finì a terra sulle ginocchia con un’imprecazione tonante.

«Cristo.» Shuzo stava masticando la stessa risata come un chewing-gum da che aveva messo piede lì dentro. La ciancicò anche adesso che vedeva suo padre tirarsi su non senza una certa fatica. Si volse e i due stellati erano ancora più stralunati. Un po’ guardavano Akio, un po’ guardavano lui. «Gentili agenti delle forze dell’ordine, ringraziandovi per il meraviglioso spettacolo che mi avete offerto, vi auguro un piacevole proseguimento di nottata. È stato uno dei momenti più belli della mia vita. Viva la polizia!» esclamò e poi uscì in fretta per recuperare Akio prima che se ne andasse troppo per i fatti suoi e finisse per travolgere qualcos’altro.

Alle sue spalle, gli sbirri rimasero ancora fermi nelle stesse posizioni con le facce perplesse, mentre li osservavano litigare anche fuori dal koban.

«Io continuo a credere che avremmo dovuto arrestare entrambi», disse il più anziano, all’esterno del bancone. L’altro agitò una mano.

«Nah, lascia che ci pensino quelli di Nankatsu.»

 

«Ehi, ehi! Frena la giostra! Dove diavolo stai andando?» Shuzo afferrò suo padre per un braccio.

Akio tentò di divincolarsi, ma stavolta lui non lo lasciò andare.

«Devo andare a prendere la macchina!» e indicò una direzione imprecisata.

«E vorresti guidare così? Ma certo, così abbracci il primo palo.»

«Ma la mia macchina mi serve!»

«Domattina la veniamo a prendere. Non fare i capricci, non hai due anni.» Shuzo lo tirò indietro, fino ad arrivare al SUV. Fecero il giro e gli aprì la portiera.

Anche se riluttante, Akio salì. O, meglio, ci si arrampicò, con i suoi movimenti scoordinati dall’alcol che aveva in corpo.

«Domani devo lavorare…»

«Lavorare? Tu domani non ricorderai neppure come ti chiami. E allacciati la cintura.»

«Vuoi insegnarmi come si sta in una macchina? A me che le costruisco?! Non fare il saccente del cazzo.»

«A-ah. Vedo che l’alcol ti scioglie bene quella lingua di serpe che ti ritrovi. Perfetto, tanto avremo modo, la strada per Nankatsu è ancora lunga.» Con uno schianto richiuse lo sportello e tornò dall’altra parte. «E sappi che mi devi dei soldi,» riprese non appena si mise al volante, «perché ho appena pagato per te. Ommioddio, senti come suona bene?!» Shuzo portò i pugni al petto, si agitò sul seggiolino. «Ho pagato per te! Io! Io ho pagato per i tuoi danni! Non è meraviglioso?»

«Con tutti i soldi che ho sborsato io per te, questi sono spiccioli!» Akio agitò una mano e stette almeno due minuti buoni a cercare di far combaciare le estremità della cintura di sicurezza.

Shuzo sogghignò e mise in moto. «Spiccioli dici? Forse sì, erano solo due milioni di yen, dopotutto.»

«Due milioni di-?! Per un paio di sgabelli rotti?! Dannazione, ragazzo, non hai il senso degli affari!»

«Probabile, è per questo che lascio sempre fare a Mamoru, però ho il senso per le botte.» Guardò Akio con le sopracciglia che disegnavano due archetti. «E tu hai ancora molto da imparare.»

Si immise sulla strada deserta con una manovra poco ortodossa e lasciandosi il koban alle spalle che diveniva sempre più piccolo nello specchietto retrovisore, mentre il SUV imboccava la direzione che l’avrebbe condotto a Nankatsu.

Dal piccolo vano portaoggetti, dietro al cambio e al freno a mano, recuperò il cellulare. Shuzo guardò suo padre, tenendo un gomito sul bracciolo alla sua sinistra. Akio restava addossato allo sportello, con la testa poggiata contro il vetro del finestrino e parte del viso nascosto nella mano che gli sosteneva la fronte. Una bella sbornia da manuale, quella che un po’ tutti dovrebbero prendersi almeno una volta nella vita. Lui ne sapeva più di qualcosa, e non riusciva a togliersi il sogghigno dalle labbra nel guardare Akio che ora tutto era tranne l’esempio vivente del mantra dei Morisaki.

Alza la testa. Sì, sì.

Reagisci. Eh, certo.

Sii forte. Come no.

Vai avanti. Quando mi sarà passata la sbronza.

Espirò dal naso quella risatina che non voleva concedere e poi infilò l’auricolare. Richiamò in fretta il numero di Mamoru e abbandonò il telefono tra le gambe, mentre guidava.

– Ehi, hai recuperato il Giustiziere della Notte?

Alla voce divertita di Mamoru non si trattenne e rise. «Sì, è qui. Abbiamo appena lasciato il koban

– Tutto a posto?

«Massì, ci siamo fatti due risate con gli sbirri. Adesso ti giro un video, così ridi pure tu.»

«Hai finito di umiliarmi? Ce n’è proprio bisogno?» berciò Akio senza muoversi.

«Rode il culo quando marciano sui tuoi errori, uh?»

L’altro grugnì e non rispose.

– …okay, direi che è tutto in ordine, – ironizzò Mamoru.

«Alla grande, gioia.»

– Hai già avvisato tua madre?

«La chiamo adesso.»

– Vuoi che ci pensi io?

Shuzo lanciò un’altra occhiata a suo padre, poi sospirò. «Se non ti secca, mi faresti un favore.»

– Scherzi? Faccio io, tu pensa a guidare e non correre.

«Okay, ma, ripeto, non c’è bisogno che mi aspetti, d’accordo? Vai a dormire.»

– Va bene.

Si salutarono e Shuzo sfilò l’auricolare, appoggiandolo nel piccolo vano assieme al telefono. L’abitacolo, ora, era pervaso solo dal rumore soffuso del motore e dell’asfalto macinato sotto le ruote, mentre fuori le luci cittadine sfumavano, fino a che non rimasero che quelle dei lampioni lungo la strada. Il mare si allontanava, ma non troppo, e presto sarebbe sparito, sostituito da filari di cedri, lasciando però la certezza di sapere dove poterlo trovare se si fosse si fosse saliti su di un punto più alto e che avesse superato tutte le teste oscillanti degli alberi.

Tra loro, invece, vinceva il silenzio.

Shuzo lanciava a suo padre delle occhiate fugaci e lo vedeva sempre immobile nella stessa posizione. Non stava dormendo e di certo non gliel’avrebbe concesso così facilmente, perché quella era la serata buona per togliersi qualche altro sassolino dalle scarpe. Era nel mood perfetto per pungolarlo e beccarsi qualsiasi cattiveria di rimando senza incazzarsi.

Già, che strano: era andato a prenderlo fino alla centrale, ce lo aveva accanto da prima e gli stava facendo praticamente da baby-sitter, eppure… eppure non era arrabbiato né infastidito né altro. Quella mattina gli aveva detto che la sua presenza lo urtava, che non voleva averlo intorno e che doveva uscire dalla sua vita, perché era quello che il cannibale gli aveva sussurrato per anni. Era quello che aveva desiderato per anni.

Ora invece, nel silenzio profondo che avevano attorno, Shuzo non sentiva niente.

Il cannibale non ringhiava come faceva di solito quando aveva Akio accanto, il fastidio non gli borbottava alla bocca dello stomaco come un vulcano in attività, non c’era la repulsione sotto la pelle, dentro la testa. Tutte le radici avviluppate attorno a cuore respiravano con calma e non dolevano né stringevano.

Il cannibale non ringhiava. Dormiva.

«E allora,» esordì per spezzare quel silenzio che lo faceva pensare in maniera strana, «siamo esauriti, vecchio?»

Akio emerse dall’immobilità girando il capo verso di lui, gli occhi stretti. «Non dire idiozie, sto benissimo.»

«Non lo dico io, l’ha detto mamma.»

L’altro crollò di nuovo nella mano. Esalò un respiro stanco. «Ah, deiji… Credevo non se ne fosse accorta…»

«E sei fesso due volte, allora. Da quanto la conosci? Mamma si accorge di tutto.»

«Già…»

«Be’? Che hai fatto per finire attaccato alla boccia? Troppo lavoro? Paparino non è più fiero di te? Spero in qualcosa di meno banale.»

«Che ho fatto, mi chiedi?» l’eco nella voce di Akio era aspra. Si volse di scatto e la mano con cui si era retto la fronte fino a quel momento venne serrata in pugno. «Ho fatto che magari mi hanno ammazzato un figlio!»

«La vita è piena di cose brutte. Se ti fai spezzare dalla prima che ti capita, allora faresti meglio a spararti un colpo in testa. Risparmi tempo e fatica.»

«Non mi faccio insegnare la vita da te!»

«Dovresti, perché ne so a pacchi.»

«Certo e questo cosa sarebbe? Un consiglio pro-bono?» ironizzò Akio, tornando a guardare fuori. Agitò la mano in maniera scoordinata, sembrava stesse scacciando una mosca. «Ma non mi hai detto giusto oggi che non vuoi più avere niente a che fare con me? Che diavolo sei venuto a fare a Fuji?»

«Prima di tutto, perché non volevo perdermi lo show. Poi perché, sai, mi hanno chiamato gli sbirri. E tre: me lo ha chiesto mamma.»

«E allora dovevi rifiutare! Se c’è una cosa che non ti manca è la faccia tosta.»

Shuzo gli lanciò un’occhiata veloce, distogliendo lo sguardo dall’asfalto liscio e sgombro.

«Rispondi a questa, piuttosto: perché avevi il mio numero?»

«Che domanda è? L’ho chiesto a tua madre, per ogni evenienza», concluse Akio in tono basso e masticato: «…perché sei mio figlio.»

«Oh, ma non mi avevi urlato di non esserlo più? Quando hai cambiato idea?»

«Quando sei tornato a creare casino nella mia vita?!» ironizzò, ma durò un attimo. «Puoi non credermi, ma non l’ho mai dimenticato.»

«Certo, come no. Facciamo che invece te lo sei ricordato quando è morto il figlio perfetto e i tuoi piani di gloria sono andati a gambe all’ar-… ehi!»

Shuzo venne strattonato per il bavero della giacca. Akio lo guardava con occhi spiritati e il viso arricciato in un ringhio. Quella smorfia un po’ gli ricordava il suo cannibale, che seguitava a dormire della grossa, nonostante tutto. Dormiva, e Shuzo non capiva perché.

«Non ti azzardare! Questo non te lo permetto! Per chi diavolo mi hai preso, eh? Sono tuo padre!»

«Anche quella è una cosa che ti ricordi quando ti fa comodo, e fammi guidare!» Si liberò della presa con uno strattone e Akio tornò ad accasciarsi nell’angolo opposto del seggiolino, tutto addossato allo sportello.

«Pensi sempre di sapere tutto, vero? Invece non sai niente! E ora ferma questa macchina, non ho bisogno del tuo aiuto né di quello di nessun altro!»

«Ma che cazzo dici, siamo nel mezzo del nulla! Oh! Sta’ fermo!» Si allungò su Akio che cercava di liberarsi della cintura e di aprire la portiera. Gli colpì le mani e fece scattare le chiusure di sicurezza. «Guarda, abbandonarti qui non mi spezzerebbe il cuore!»

«Fallo allora! Fermati!»

«Piantala di fare i capricci da vecchio ubriacone!»

«E io ti ho detto che ti devi fermare, dannazione! Con chi pensi di-» Akio ebbe un sussulto che lo bloccò. Portò una mano alla bocca. «…no, sul serio, fermati.»

«Perché?!»

«…perché devo vomitare.»

«Oh, merda! Non vomitarmi in macchina, cazzo!» Per fortuna che sulla strada non c’era un cane, quindi nessuno si lamentò per la sua sterzata brusca né per l’inchiodata.

Sbloccò le chiusure centralizzate e Akio si precipitò fuori come poté. Tempo due secondi e Shuzo venne raggiunto dall’eco dei conati. Alzò gli occhi al tettuccio e prese un profondo respiro. Con calma scese e fece il giro della macchina passando dal davanti; vide Akio con i piedi nell’erba che cresceva lungo il ciglio della strada, le mani sulle ginocchia e che respirava con affanno tra un conato e l’altro.

Nonostante tutto gli scappò un sorriso.

«Che seratona. Ecco un’altra cosa che non mi sarei mai aspettato di fare: io che ti reggo la testa mentre vomiti. Ci vuole un selfie!» si avvicinò, scalpicciando nell’erba accanto ad Akio con molta attenzione. Con una mano lo aiutò a svuotarsi, tenendogli la fronte, e con l’altra scattò una foto che avrebbe girato a Mamoru per fargli fare quattro risate. Aveva già il titolo: ‘ricordi di famiglia’. Ridacchiò, diede un paio di pacche sulla schiena di suo padre. «Coraggio, Akio. Butta fuori il piccione, è tutta salute. Vedrai che dopo ti sentirai-… ehi! Non vomitarmi sulle scarpe, però!»

«Oddio… non berrò mai più così tanto, lo giuro…»

«È quello che diciamo tutti. Poi ci ricaschiamo perché siamo degli stronzi.»

Adagio, Akio si tirò su; la bocca ripulita con la manica della camicia. Shuzo valutò che si reggesse in piedi e poi si allontanò. «Forza, prendi aria. Fai due passi attorno alla macchina.» Si fermò davanti al muso della vettura, i fari accesi proiettavano l’ombra delle sue gambe nel cono di luce che illuminava l’asfalto. Dal taschino della giacca di jeans recuperò il pacchetto di bionde; lo allungò verso Akio. «Ora ci fumiamo una sigaretta e dopo ripartiamo per Nankatsu.»

«Ora come ora non ne sopporterei neppure l’odore», rifiutò l’altro, agitando piano una mano. Lo aveva seguito con passo malfermo e si teneva puntellati i fianchi, prendendo boccate ampie e profonde.

«Io ne ho bisogno, invece.» Shuzo ne sfilò una con i denti. Inspirò a lungo il primo tiro e poi lo soffiò in alto. Osservò Akio addossarsi quasi a peso morto contro la vettura, al suo fianco. Ne scrutò il profilo dall’espressione contrita e gli occhi ancora stretti. Emicrania grossa come una casa, ci avrebbe scommesso; chissà la faccia quando avrebbe scoperto come fosse la sbornia del giorno dopo. «Meglio?»

«Nh…»

Tenne la cicca all’angolo della bocca ed estrasse il cellulare, scrollando le foto della serata. Tra un Akio che voleva afferrarlo tra le sbarre a mo’ di zombie e lui che faceva delle smorfie atroci aveva messo su un bell’album.

«Guarda che spasso!»

«Bah…»

«Credo che questa sia la prima cosa che facciamo insieme da che ho memoria.»

«Ma che dici? Certo che abbiamo fatto cose, noi.»

«E quando se ho iniziato a undici anni con il riformatorio?»

«Allora speravo in qualcosa di meglio.»

«Non si può avere tutto dalla vita.»

«L’ho imparato.»

Nel mettere di nuovo via il cellulare, Shuzo sogghignò nel pallino di un’idea subdola, solo per il gusto di mettere Akio ancora più in difficoltà, magari vederlo schiumare; era così divertente quando si avevano i mezzi per poter ricattare le persone.

«Pensa se facessi arrivare queste foto a quella faccia di merda di Keitaro. Oh, oh, oh. Ci resterebbe secco.»

«Fallo. Poco ma sicuro che a lui non fregherebbe un cazzo, e neppure a me. Sono ormai, quanti? Nove anni che io e tuo nonno non ci rivolgiamo più la parola? Qualcosa di simile.»

Shuzo sgranò gli occhi e drizzò la schiena. «Ehi! Woh! Cosa?! E questa da dove salta fuori? Cioè, voi vi divertite e a me non dite niente?»

«Da morir dal ridere, come no.» Akio massaggiò la fronte e lui rimase a fissarne il profilo.

«Sul serio, adesso voglio saperlo. Cosa hai fatto per non essere più il suo cocchino? Buuuh, so saaad.» Fece scorrere l’indice sulla guancia nel simulare una lacrimuccia.

Akio lo fissò e alla fine sorrise, bruciando ancora le sue certezze e aspettative.

«L’ho mandato a fanculo.»

«Cos-?!» Shuzo stava per scoppiargli a ridere in faccia, ma quando vide che Akio non stava scherzando smise anche lui. «…davvero?»

Akio barcollò avanti di due passi, ma non cadde.

«Avrei dovuto farlo molto tempo prima. Invece lo seguivo come un cane fedele, perché era mio padre, ne sapeva più di me, era forte, era… severo. Ma tu dimmi quale imbecille avrebbe appoggiato l’idea di togliere il cognome al proprio figlio solo perché era stato il padre a dirglielo?» Dandogli ancora le spalle alzò la mano. «Eccolo qua. Ma sai, anche un idiota come me arriva a un punto in cui non può più accettare certe stronzate.» Akio tornò indietro. I fari proiettarono ombre dal basso su tutto il suo viso; ne aggravarono le labbra piegate in una smorfia iraconda dagli occhi spalancati. Shuzo lo guardò fermarsi davanti a lui, fissarlo dritto negli occhi che aveva visto un po’ lucidi per l’alcol e per qualcosa che stava venendo rigurgitato fuori in maniera imprevista; come il suo cannibale che si svegliava di colpo e strattonava la catena, prendendosi la libertà di azzannare chiunque.

Chi avrebbe azzannato la rabbia di suo padre? Perché, stringendo gli occhi, Shuzo capì che quell’acrimonia non era rivolta a lui; lo percepì anche il cannibale che dormiva come un sasso, in letargo nel suo nido di radici.

«Sai cosa ha detto? A me.» Akio si batté il petto con l’indice. «Guardandomi negli occhi, proprio a me. Davanti ai tuoi zii e cugini, davanti a tua madre che piangeva perché stavano per portarti di nuovo in prigione. Sai cosa ha detto, senza un minimo di rimorso o vergogna? Che saresti dovuto morire tu, che magari era la volta buona e saresti sparito per sempre dalla storia dei Morisaki.»

Shuzo non ne fu sorpreso, fin da bambino non aveva percepito affetto provenire da quell'uomo. Da piccolo non aveva capito, crescendo aveva pensato fosse solo stronzo, infine aveva compreso che era un arido che non amava niente e nessuno. Ma per i suoi figli… Quello che aveva detto ad Akio era qualcosa per cui chiunque lo avrebbe appeso al muro per i pollici.

«Si fottano i Morisaki», sibilò Akio, distendendo il braccio in un gesto ampio che tracciò un semicerchio. «Nessuno viene a dire a me, che sarebbe stato meglio se fosse morto un figlio invece dell’altro! Nessuno! Io non ho mai, mai neppure per un secondo pensato che saresti dovuto morire tu. Mai! Perché possiamo avere tutti i problemi di questo mondo, dirci le cose più atroci e non parlarci per anni, ma sei mio figlio, hai capito? Anche se l’ho negato ogni volta che potevo, addirittura guardandoti in faccia! L’ho negato perché ero solo uno stronzo pieno d’orgoglio! Ma la verità è che sarai sempre mio figlio! Sempre!»

La disperazione gridata alla notte, nella luce di fari che proiettavano entrambi sull’asfalto; le loro ombre fuse: tra quella di suo padre che tracciava percorsi scoordinati che si avvicinavano e poi allontanavano, e la sua che restava immobile, celando alla luce il colpo ricevuto da quelle parole.

Nel suo nido, il cannibale non aprì neppure gli occhi, ma abbozzò un sorriso e continuò a dormire, pacifico come non era mai stato.

Akio si fermò dopo aver fatto avanti e indietro per una linea storta e aver sbuffato come un toro.

«Mentre lui… ma cosa ne sa?! Cosa ne sa di quello che si prova quando invece un figlio muore? Cosa ne sa?! Non c’era lui all’obitorio, quando me l’hanno fatto vedere! Non c’era tua madre, non c’eri tu! C’ero solo io! L’ultimo a vedere Yuzo sono stato io! Era lì con quel… buco nella pancia. E tu che mi hai sempre rinfacciato di non averti permesso di vederlo, be’ dovresti ringraziarmi invece! Perché ti ho evitato l’esperienza più orribile della tua vita!» sbraitò, additandolo ancora, ma ora non era arrabbiato, e non era la sequoia dei suoi ricordi, l’ostacolo delle sue ribellioni, il nemico delle sue battaglie. Akio era un uomo come lui, ferito come lui, che si era perso da qualche parte in un punto preciso del loro tempo. Un uomo che si trascinò di nuovo al suo fianco, addossandosi al paraurti del SUV e che a fatica riusciva a tenere in piedi le sue stesse ossa. La testa ciondolava da un lato e dall’altro, mentre la scuoteva.

«Non sai quanto tu sia fortunato, perché i tuoi ricordi sono fermi a quando lui poteva ancora sorridere, i miei invece… non importa quante foto io possa guardare o quanto possa cercare di ricordare… la sola immagine che vedo quando penso a Yuzo non mi sorride più, i suoi occhi sono chiusi e lui è freddo… Solo freddo.»

Shuzo distolse lo sguardo. «Smettila di pensarci, è passato tanto tempo.»

«Un giorno o dieci anni non fa differenza. Io vorrei… ma sono momenti che non puoi dimenticare. E quell’imbecille di tuo nonno che mi dice che…» Akio schioccò la lingua per il disappunto.

Shuzo fece per portare la cicca – o ciò che ne restava – alle labbra, prendersi l’ultimo tiro, ma si trovò a girare il viso di scatto quando sentì la mano di suo padre poggiarsi tra nuca e orecchio e restare lì, tiepida, ruvida, accennare una carezza. E lui sconvolto, con gli occhi sbarrati, mentre Akio abbozzava un sorriso pieno di tutta la cognizione di non essere l’infallibile che aveva sempre creduto.

«L’unico ‘meglio’ sarebbe stato sapervi al sicuro tutti e due. Ma io non sono mai stato capace di proteggere neppure te…» La mano lasciò due leggeri buffetti e poi venne ritratta. Akio rotolò di lato e sfruttò il sostegno del SUV per raggiungere la portiera. «Devo tornare da tua madre, sarà in pensiero. È tardi.»

La portiera aperta in un clack e richiusa in un colpo ovattato.

Lui ancora immobile, nella stessa posizione e quel punto sul collo che era più caldo di qualsiasi altro; l’orecchio andava a fuoco. Shuzo vi portò distrattamente la mano, non sapendo cosa pensare e incapace di dare un nome a ciò che aveva dentro.

«Smetti di sorridere…» sibilò nei confronti del cannibale che non ringhiava più, non si agitava più. Afferrò i capelli corti sulla nuca, strinse la carne.

Suo padre non lo toccava da quando lo aveva picchiato a sangue all’età di tredici anni. Se ne era tenuto alla larga, le mani sempre in tasca quando erano nei paraggi l’uno dell’altro e non gli aveva concesso neppure lo schiaffo che si era aspettato di ricevere all’uscita del riformatorio, l’ultima volta che vi era entrato. Nessun tocco, buono o brutto che fosse stato. Aveva creduto fosse perché lo considerasse al pari di un appestato.

Ma dopo ventiquattro anni, Akio l’aveva toccato di nuovo e nel palmo aveva percepito la consapevolezza di tutti i suoi sbagli. 

 

Per il resto del tragitto non parlarono più.

Quando era risalito in macchina, Shuzo aveva trovato suo padre stretto contro lo sportello con le braccia conserte e il viso nascosto nel finestrino, senza neppure indossare la cintura. La testa abbandonata sulla spalla, mezzo addormentato.

Lo aveva lasciato stare e aveva guidato piano.

Le strade di Nankatsu l’accolsero con qualche recidivo che tornava da una serata allegra o erano solo i folli che staccavano dagli straordinari. Magari, amanti silenziosi che, dopo aver consumato le briciole, tornavano alle proprie case.

Un pensiero, quello di ‘tornare a casa’, che formulò quando si fermò davanti alla villa ricca e spaziosa di una vita fa, ma che improvvisamente era tornata a occupare spazio in quella attuale.

La via di casa era silenziosa, tutti dormivano. Non vide luci accese nella parte anteriore, che non fossero i crepuscolari nel cortile; forse sua madre era in cucina, e quest’ultima affacciava sul retro. Parcheggiò proprio davanti al cancello automatico della villa, certo che nessuno avrebbe protestato per uscire.

Nel momento in cui spense il motore, suo padre continuò a non dare segni di essersene accorto; proveniva solo un respiro pesante che lo collocava direttamente nel primo sonno. Lo scrollò per una spalla.

«Sveglia, siamo arrivati.»

Akio ebbe un mezzo sussultò, mugugnò un biascicato: «Dove?»

«Al Grand Hotel”, ironizzò, non riuscendo a farne a meno. «Siamo a casa. Forza, scendi.»

Shuzo scese per primo. Fece il giro e Akio era rimasto al suo posto. Era proprio cotto, pensò Malerba alzando gli occhi al cielo. «Ah, questi vecchi che non reggono l’alcol, ma in che mondo vivono?» aprì la portiera e Akio continuò a mugugnare contrariato. Cercò quasi di cambiare posizione per trovarne una più comoda quando lui lo afferrò per un braccio, invitandolo a scendere.

«Ancora cinque minuti e potrai crollare tra le braccia di Morfeo. Ce la fai a reggere?»

«Ma chi sei? Che vuoi? Lasciami in pace!»

«Sei troppo vecchio per farti venire i capricci di sonno! Non farmi diventare cattivo!» Lo tirò con forza e solo allora suo padre aprì gli occhi di una linea che strizzò per metterlo a fuoco. Shuzo aveva già affrontato una situazione del genere in passato, al posto di suo padre c’era stato Mamoru, ubriaco allo stesso modo, e per un momento s’aspettò il colpo di grazia da quel déjà-vu, invece, suo padre sospirò.

«Io… davvero non capisco perché tu sia qui, Shuzo…»

«Per il motivo più banale che c’è», rispose dopo un istante.

«Perché ti faccio pena, non è così? Per pietà», disse Akio aprendo un sogghigno come scudo senza rendersi conto, nei fumi dell’alcol, che non c’erano più attacchi da cui difendersi.

«Sì. Pensala così», sospirò Malerba poi lo aiutò a scendere e lo accompagnò al cancello. «Dove hai le chiavi?»

«In macchina.»

«E potevi dirlo prima?» Shuzo guardò verso il SUV.

«Io te l’avevo detto che volevo andarla a prendere, ma tu hai detto di no.»

«No, aspetta… ma stai parlando della tua macchina?!»

«Certo. Di quale se no?»

«Hai lasciato le chiavi dentro la tua macchina?!»

«Sì.»

Shuzo esalò un’imprecazione silenziosa al cielo. «Ma quale idiota lascerebbe in macchina le chiavi di casa?!»

Akio ci pensò un secondo, poi sollevò una spalla. «…io?»

La genuinità conferita dall’alcol lo fece sbottare a ridere, mentre premeva sul pulsante del citofono – con la speranza che sua madre non si fosse addormentata nel frattempo.

«Lo hai detto da solo, eh! Ricordalo, non sono io che ti manco di rispetto!»

Lo scatto del meccanismo elettronico del cancello e Yumeko che comparve sulla sogna di casa. «Shuzo? Akio?!»

«Deiji!» Suo padre si buttò con troppa foga contro il cancello che si aprì di colpo, rischiando di farlo cadere. Shuzo lo prese al volo, con un’imprecazione.

«Ma dove cazzo vai?!»

Yumeko accorse dall’altro lato, per sostenere Akio. Quest’ultimo cercò subito il contatto con lei, poggiando la testa sulla sua.

«Deiji, mia… Scusami…»

«Ne parliamo domani, va bene?» Yumeko si sporse per guardare lui. Bisbigliò un ‘grazie’ in mezzo a un sorriso.

«Di niente, ma’. Aiutami a portare a letto questo sacco di patate sdolcinato! Ma senti le cose che dice? Dèi!»

Shuzo arricciò il naso in una smorfia schifata mentre Akio continuava a salmodiare scuse e nomignoli e dichiarazioni d’amore.

«Se avessi saputo che tuo padre diveniva così affettuoso quando alza il gomito, lo avrei fatto bere più spesso in passato.»

«Mamma! Non vorrete bloccarmi la crescita a trentasette anni, vero?!»

Yumeko ridacchiò. Arrancando riuscirono a entrare in casa; la porta d’ingresso richiusa con la spinta del tacco. Shuzo scalciò al volo le scarpe e alla bene e meglio tolse quelle di suo padre, su cui spiccava una biancastra chiazza di vomito. Ma tanto Akio era talmente fuori fase da non reagire se non stando ancora più stretto a Yumeko. Borbottava qualcosa, adesso, ma non era chiaro perché seguitava a masticare le parole. Salirono uno scalino alla volta, stando attenti a non inciampare e per fortuna la camera dei suoi era la prima della lista al piano superiore, quindi vi entrarono subito.

«Ancora un passo, ci siamo… ancora uno… eeeggiù!» Shuzo riversò Akio sul letto con una spinta. Il materasso lo accolse con un ‘puff’, mentre lui indietreggiava di un paio di passi e portava le mani ai fianchi, nel pensare ‘e anche questa è fatta’.

«Nnnh…» fu tutto quello che disse suo padre, prima di sprofondare la faccia nel cuscino e crollare nel giro di un attimo.

«Vuoi una mano?» Shuzo guardò Yumeko che cercava di svestire suo padre, ma lei sorrise.

«Hai già fatto abbastanza, tesoro. Ci penso io. Tu rimani…?»

Ebbe l’impressione che quella domanda fosse venata di attesa, quasi speranza. Smanacciò i capelli, tirandoli indietro e poi lasciando la mano appoggiata sulla nuca. «Io… volevo scambiare due parole, se ti va e non sei stanca.»

Gli parve che, nella penombra dell’abat-jour, il sorriso le si illuminasse.

«Allora aspettami in cucina. C’è del tè caldo, appena fatto. Bevi qualcosa, prendi dei biscotti.»

«È giugno, ma’.»

«Il tè caldo non ha stagione, dovresti saperlo. Ti raggiungo subito.»

Shuzo accennò col capo e lasciò la stanza, accostando la porta. Con passo pesante ed espirando un profondo rifiato, tornò al piano di sotto ciondolando fino alla cucina, l’unica ad avere la luce accesa. Il resto della casa era spento, ma il corridoio era in penombra. Sul tavolo, tazza e teiera erano abbandonati dove era stata seduta sua madre. Poggiò il dorso delle dita e la porcellana era ancora tiepida, ma non si versò nulla, scegliendo di raggiungere la portafinestra che conduceva al retro. Il giardino era buio a meno dei piccoli crepuscolari che illuminavano il portico e ciò che avevano intorno nel raggio di scarso mezzo metro, ma poteva individuare la sagoma silenziosa e buia della serra, più in fondo.

Era stata una giornata lunga e piena. Tra passato, ricordi, segreti e presente. Tra cannibali che si arrabbiavano a turno e poi sprofondavano in un letargo soddisfatto, pieno di consapevolezze che erano sempre state lì, bisognava solo accettarle e farla finita.

E accettare ciò che aveva rifiutato non era mai stato semplice, per lui. Si doveva opporre alle imposizioni, era un atteggiamento radicato nelle abitudini, ma dopo tutto questo tempo e dopo anni passati a parlare dei mille perché della sua rabbia, questi gli apparvero di colpo troppo deboli per reggersi ancora in piedi sulle loro gambe e dominarlo come era avvenuto in passato. Le guerre logorano entrambe le fazioni, e la sua, anche se con lentezza, si era consumata alla stessa maniera di quella contro cui aveva dato fondo alla propria artiglieria.

Da quando aveva ordinato l’embargo alla rabbia?

Doveva essere anche colpa di Mamoru e della stabilità che era riuscito a costruirgli attorno come un’armatura o un palazzo in cui sentirsi al sicuro. La felicità, la guardia abbassata e le armi che venivano deposte, chiuse in una stanza sottochiave. Non sentiva più la necessità costante di guardarsi le spalle, accertarsi di essere protetto da colpi vigliacchi che avrebbero potuto ucciderlo, nel peggiore dei casi. Era questo che succedeva quando la percezione del pericolo si affievoliva tanto da mischiarsi col rumore di fondo della vita. Le spalle si rilassavano. Non era male, non lo era per niente o lui non si sarebbe mai trovato lì, adesso, in quella casa, davanti a quel balcone a scrutare nel buio.

Prese il cellulare, armeggiò con i file dei video e delle foto e li girò a Mamoru, senza risparmiare un sorriso divertito che gli tirava la bocca solo da un lato. Gli avrebbe fatto fare due risate, ne era certo, ma quando lo status del suo compagno passò a essere online si sorprese.

Tutto okay? Sei a Nankatsu?

Il messaggio immediato che ricevette. Shuzo soffocò un grugnito.

Perché sei ancora sveglio? Ti avevo detto di andare a dormire. Digitò in fretta. Comunque, sì, sono là.

Posso chiamarti?

E la smorfia di disappunto si addolcì in una più calorosa, nel portare il cellulare all’orecchio.

Ehi.

«Sei testardo, lo sai?»

– E tu lo sai che ti amo?

«Scusa ruffiana, gioia.» Ma lo amava anche lui, per questo erano al telefono alle tre di notte.

– Come va?

«A posto. Mamma è di sopra, sta mettendo a letto l’ubriacone. Ti ho girato dei video esilaranti.»

– Che ha combinato?

«A parte questionare con gli sbirri, sfasciare un locale e vomitarsi sulle scarpe… direi un po’ di cose.»

– Accidenti. Si direbbe una serata da ricordare.

«Sì…» Shuzo affondò la mano nei capelli e li tirò indietro, fermandosi a grattare la sommità della testa. «Senti, volevo parlare con mamma di alcune cose. Ti dispiacerebbe se…»

– No, per niente. – Diretto, sicuro e morbido. Immaginò anche il sorriso che gli aleggiava sulle labbra, mentre lui si masticava l’interno della guancia e teneva il viso rivolto ai propri piedi. – Stai lì, non metterti in viaggio a notte fonda.

«Sicuro che poi non ti senti solo senza di me?»

– Solo? Ma se sono già pronto a occupare tutto il letto! Potrò allungarmi come voglio in ricordo dei bei vecchi tempi da single incallito!

«Che stronzo», ridacchiò, poi la voce di Mamoru lo raggiunse con un tono avvolgente che gli diede la stessa sensazione di quando restava con la fronte poggiata contro il suo petto e le braccia che lo circondavano.

– Resta a casa, Shuzo. E domattina non c’è bisogno che arrivi presto, prenditela comoda, tanto qui ce la sapremo cavare. Stai con i tuoi, fai quello che devi.

«E che altro devo fare ancora?»

– Sai cosa voglio dire. E quando torni, mi racconterai di come hai fatto pace con tuo padre.

«Ah! Pace! E poi cosa? Ci daremo il mignolo? Che stronzate.»

– Shuzo…

«Non è giusto, okay? Una parte di me sa benissimo che non lo è! Che non dovrei concedergli niente!»

– Quella è la parte orgogliosa. Ma l’altra che dice?

«…che siamo stanchi. Tutti e due. Troppo stanchi per continuare, non ha alcun senso.» Shuzo sospirò, abbassando la voce. Il gomito appoggiato al vetro e la mano a reggere la fronte, massaggiandola adagio. «Ah, e adesso l’infantile sono io perché vorrei tornare a casa…»

– Ci sei già,– disse Mamoru, – e qualunque scelta farai, sarò dalla tua parte. Okay?

«Okay.»

– Ti aspetto domani. Notte, piccolo.

Sorrise del nomignolo affettuoso che Mamoru tirava fuori di tanto in tanto, assieme al più frequente ‘amore mio’. Dopo tutti quegli anni, gli davano ancora un pizzicorino strano alla nuca, sull’osso che il suo compagno toccava spesso. «Notte, gioia.»

Chiuse la chiamata e appoggiò la sommità del cellulare contro il mento, seguitando a fissare il buio oltre i crepuscolari e pensando che il momento di decidere sul serio era arrivato, in mezzo al baccano fasullo e a quello comico. Le decisioni urlate erano solo rapide vie di fuga; era nella calma che si prendevano quelle definitive.

«Sì, buonanotte...»

Un augurio sussurrato alle ombre, alla sagoma della serra e anche a sé stesso, ma prima c’era ancora qualcosa che doveva sapere per bene.

«Non hai bevuto ancora nulla, tesoro?»

Shuzo si volse, sua madre era appena entrata in cucina.

«No, stavo per prendere del tè.»

«Ci penso io. Vuoi mangiare qualcosa?»

«Alle tre di notte?» ironizzò Malerba a braccia conserte e schiena alla vetrata.

«Un biscotto non ti ucciderà.» Yumeko si mise a trafficare con le tazze e ne riempì una che infilò nel microonde. Il ronzio del vassoio era un fracasso assordante nella sonnolenza della casa.

«Lascia stare i biscotti,» disse a un tratto scuotendo il capo. Si allontanò dalla portafinestra e infilò le mani nelle tasche, stringendosi nelle spalle. «Ascolta, prima che iniziamo e dato che si è fatto un po’ tardi, volevo-»

«Fermati qui.» Lei lo anticipò, mostrandogli quell’entusiasmo che aveva solo creduto di immaginare. «Non mi piace saperti in macchina a quest’ora.»

«Stavo per chiedertelo… Se non è un disturbo, posso dormire sul divano e-»

«Ma quale disturbo e quale divano! C’è la tua stanza di sopra.»

Shuzo passò una mano dietro al collo mentre annuiva. La semplicità con cui sua madre lo stava accogliendo lo fece sentire un po’ in difetto per come si era comportato nei suoi confronti. Come se non meritasse quella possibilità dopo essere andato via come una furia. Poi cercò di rilassare le spalle e non farsi vedere in imbarazzo. Prese posto al tavolo al suono del forno a microonde che aveva terminato il programma di quel minuto. Guardò la tazza fumante per un momento quando l’ebbe davanti.

«Ha fatto ancora storie?»

«Macché. È crollato come un sasso, sta russando della grossa. Stanotte non mi farà chiudere occhio, ma so che domattina avrò la rivincita grazie al mal di testa con cui si sveglierà. Piccole soddisfazioni», sghignazzò Yumeko prima di bere un breve sorso del proprio tè ormai freddo. «Grazie per averlo riportato a casa. Mamoru mi ha raccontato un po’ per sommi capi. Sa che rimani qui?»

«Sì, l’ho avvisato.»

Lei annuì. Tirò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Non li aveva più fatti ricrescere da quando aveva iniziato a tagliarli. «Tuo padre si è comportato bene con te?»

«Cazzone come al solito, ma con più senso dell’umorismo. L’alcol fa miracoli.» Sollevò un paio di volte le sopracciglia con complicità e anche lei rise. Poi girò la tazza da un lato e dall’altro senza prendere in considerazione la reale possibilità di berne un sorso. «È vero che lui e Keitaro non si parlano?»

«Allora te lo ha detto?» Yumeko era sorpresa. «L’alcol fa davvero miracoli, dopotutto.»

«Era questa la cosa che ignoravo, non è così? Lo avevi accennato l’altra volta.»

«Non voleva che lo sapessi.»

«E perché?! Per una volta che mi-…» esitò a farlo uscire dalla propria bocca; già solo pensarlo lo straniva, perché faceva crollare numerosi primati che si portava dietro dall’infanzia. Shuzo abbassò lo sguardo e la voce. «…per una volta che mi difende. Avrebbe potuto approfittarne.»

«Non voleva fare colpo su di te e sapeva che non lo avresti accettato, magari non gli avresti neppure creduto. Così come non avresti accettato l’aiuto di zio Tomohisa.»

«È stato lui a chiederglielo, non tu.» Shuzo ne fu certo prima ancora che sua madre annuisse.

«Io ero troppo sconvolta per essere lucida e rispondere alle cose terribili dette da tuo nonno, ma tuo padre… lo avevo visto così solo quando eravamo fuori dal konbini la notte che è morto tuo fratello.»

L’effetto boomerang del dolore di Akio sfiorò il proprio. La perdita era stata terribile per entrambi, in maniere diverse, ma che per una volta non riuscivano a separarli. Tutt’altro. Quella sofferenza l’aveva sentita vicina e familiare come non mai, ci si era riconosciuto e si era reso conto di come entrambi avessero sofferto e di quanto fossero contemporaneamente arrabbiati, fin quasi a scoppiare. Ancora una volta simili, specchio l’uno dell’altro con le stesse azioni e stesse reazioni che poteva sforzarsi in tutti i modi di non vedere, ma restavano sotto i suoi occhi.

«Cos’è che ha detto di preciso?»

Yumeko accennò un sorriso e gli raccontò ogni cosa. Chi c’era alla minka, la telefonata di Mamoru, le parole di Keitaro e quelle inaspettate di Akio, arrivate nello stesso momento in cui lui, in tutt’altra città, si era considerato una causa persa ed era stato convinto di essere un incapace che non sapeva neppure vendicare il proprio fratello.

Mentre lui pensava fosse finita, Akio aveva alzato gli scudi prendendo le sue parti e spezzando il legame più importante che aveva con i Morisaki: quello con suo padre.

«Non si parlano più da allora, tuo nonno fa come se papà non esistesse. E lui uguale. Abbiamo smesso di andare alla minka quando ci sono i pranzi o le cene di famiglia; se vogliono fare due chiacchiere sono i tuoi zii a venire qui. Papà va giusto qualche volta a trovare tua nonna.»

Che significava rinunciare praticamente ai principi di una vita intera, alle convinzioni e agli insegnamenti ora scoperti sbagliati.

Akio aveva rinunciato a sé stesso per difenderlo.

«Zia Kozue mi ha detto che tuo nonno ha anche tentato di ribattere quando ce ne siamo andati, ma tua nonna lo ha azzittito una volta per tutte.» A Yumeko sfuggì una risatina. «Dopotutto, è sempre stata più Morisaki di lui.»

Anche quella si rivelò una sorpresa, ma gli rese chiaro il comportamento della nonna; le sue parole.

«So che ti ha avvicinato.»

Shuzo alzò lo sguardo perplesso.

«Tua nonna. So che ci hai parlato.»

«Tu e Mamoru dovreste smetterla di fare così tanto comunella tenendomi fuori, eh.» Affondò il viso nel palmo, con uno sbuffo. «Comunque, sì, mi ha invitato a ritornare alla minka

«E tu non ci andrai.»

«Sono degli estranei, mamma.»

«Lo capisco.» Yumeko gli sfiorò il viso in una carezza. «Così come capisco che hai due begli occhi rossi. Sei stanco anche tu, dovremmo andare a dormire. Potremmo parlare meglio domattina… ma prima girami le foto che hai fatto, stanotte. Perché sono certa che non ti sei lasciato sfuggire l’occasione.»

«E lo chiedi? Ho anche video se è per quello.»

Si scambiarono un’occhiata d’intesa, ridacchiarono. Shuzo si allungò, le baciò la fronte e poi insieme si alzarono, abbandonando le tazze nel lavello. Anche quelle avrebbero aspettato il nuovo giorno per essere lavate, tanto non c’era fretta.

Camminando adagio e spegnendo tutte le luci al loro passaggio, salirono al piano di sopra senza fare rumore. Akio era un bassotuba.

«Concerto d’ottoni, stasera.»

Ennesima sghignazzata solo per loro, poi uno schiaffetto sul braccio mentre si allontanava per raggiungere il fondo del corridoio e la sua vecchia stanza.

«È bello saperti qui.» Lo fermò Yumeko un’ultima volta. «Un po’ ci ho sempre sperato che tornassi, con la certezza che non saresti sparito il giorno dopo.»

«È solo un caso», minimizzò in un’alzata di spalle.

«Magari potrebbe non essere isolato.»

«Non farci troppo affidamento.»

«E tu non essere categorico.»

Shuzo accennò col capo e arrivò fino davanti alla vecchia camera, mentre sua madre spariva oltre la porta che separava l’orchestra dal dietro le quinte. Un russare più forte, e poi di nuovo attutito.

Guardò la porta chiudersi e poi si ritrovò da solo, di nuovo, con i suoi vecchi ricordi come era accaduto pochi giorni prima. L’impatto con l’odore di Yuzo era stato forte, ma ormai doveva averlo assorbito e non l’avrebbe sentito più. Shuzo non seppe decidersi se sperarlo oppure no.

Buttando fuori l’aria in uno sbuffo e tendendo bene spalle e schiena – perché non poteva presentarsi come un rammollito – aprì la porta e l’oscurità era appena rischiarata dal raggio luminoso dei crepuscolari.

E l’odore lì, ancora, che gli entrò nel petto quando inspirò. Lo accolse come avesse dovuto aspettarsi di vedere suo fratello steso nel letto, ma entrambi avevano superfici lisce e piane. Fu ancora una bella vertigine, ma meno forte e dolorosa della prima volta.

Chiuse la porta, rimase al buio contro l’uscio e si limitò a respirare. Di continuo, lentamente e senza panico. I ricordi erano caldi come giugno, profumavano dell’estate che stava arrivando e di suo fratello. Usava sempre quel deodorante maschile e pungente che piaceva anche a lui, ma non gli rubava mai. Per sé ne sceglieva uno diverso. Distinguersi, anche sulle sciocchezze, perché i confronti pesavano e le uguaglianze pure; era sulle differenze che sperava di emergere ed essere riconosciuto, ma ora avrebbe dato qualsiasi cosa per sentirsi dire ‘mettetevi vicini? Oh, ma siete uguali, cazzo!’. Chissà se uguali lo sarebbero stati anche adesso con il loro argento nei capelli e le prime rughe. Forse sarebbero comparse in punti diversi del viso, avrebbero modificato le espressioni. Il tempo avrebbe valorizzato le differenze fisiche come loro avevano esaltato quelle caratteriali.

Eppure, anche in quei principi di maturità era tornato a essere uguale a qualcuno, di aspetto e carattere. Un mix letale, soprattutto per la pazienza di Mamoru – e anche di chiunque gli stava attorno, tipo la Banda Bassotti, le Mezzeseghe e Spydey&Family.

Shuzo si decise ad abbandonare la porta con una leggera spinta. Avanzò un passo alla volta, senza fretta e guardò il letto che era stato di suo fratello, all’inizio, quello accanto alla porta. Lo superò e raggiunse il proprio, quello accanto al balcone, poi passato a Yuzo.

«Ed eccoci di nuovo qui…» Si fermò in quell’angolino tra balcone e letto, dove molte volte si erano trovati seduti, loro due, nelle sue visite notturne. O entrambi schiena al letto o lui fuori al terrazzo e Yuzo dentro. Fece scorrere appena il battente e l’aria aveva lo stesso odore dei suoi ricordi, lo stesso tepore, nel duetto di un paio di grilli.

Scivolò giù, le spalle alla branda, questa volta lui dentro e fuori poteva immaginare un fantasma che lo stava ascoltando per tutte le volte che il fantasma era stato lui.

Shuzo allungò le gambe, piegò la testa contro il materasso.

«Sì, eccoci qui…»

…A pensare se sia la cosa giusta o meno, se questa somiglianza debba significare qualcosa, se il rancore debba durare per sempre o semplicemente è il momento di passare sopra ai cadaveri per tornare a costruire. Ci sono macerie da togliere, e quanta polvere, quanto livore. Fino a stamattina gridava a gran voce, e tu lo sai come. Poi ha smesso, per questo non so se il momento è arrivato o sto prendendo per chissà cosa uno stallo di calma perfetta. A valutare le situazioni faccio cacare tanto quanto eravamo ragazzini, fratello, e non dovrei farmi convincere da una sola parola o un solo gesto. Tanto tu dirai che non è uno solo e si guarda la somma per vedere il totale, e magari c’hai pure ragione, cazzo, o magari questo è solo un enorme sbaglio e io dovrei tornare da Mamoru e smetterla di pensarci. Tanto non funzioneremmo mai a lungo andare, è sicuro. Eppure, perché non mi sento in colpa per questo errore? Perché quella bestia fottuta che ho dentro non si agita e non ringhia e non dice che sto sbagliando, cazzo, e mi sto mettendo nella solita situazione di merda per cui alla fine resterò l’unico deluso?

Per anni ho desiderato di poter entrare qui dalla porta principale e non dal balcone, manco fossi un ladro. Lo desideravi anche tu. Io sarei corso in stanza, e ti avrei trovato tra le tue riviste di calcio e i libri di studio.

Sarei entrato e avrei detto…

«…sono tornato, fratello.»

Il sapore che ha è più forte di qualsiasi senso di colpa, Yuzo.

 

Aprì gli occhi, ma li richiuse subito.

Dietro le palpebre aveva quest’immagine chiara di quando era stato bambino e suo padre l’aveva portato in azienda, quella che ormai era sede storica lì a Nankatsu, e si era fermato davanti a quest’ufficio pieno di dattilografe al lavoro. Tre colonne di banchi per quattro o cinque file. E queste signorine vestite tutte uguali, che gli davano le spalle così da non distrarsi e che battevano velocissime le dita sui tasti di vecchie macchine da scrivere. Ricopiavano rapporti, lettere da spedire, pagine di bollettini da condividere con le altre sedi, l’almanacco interno dell’azienda.

Il tic-tic-tic era continuo, ritmico, affascinante.

Solo che adesso ce lo aveva nella testa e provò il desiderio di spaccarsela contro il primo spigolo vivo che avesse avuto accanto. Lo stomaco era un concerto di bruciori e acidità che avrebbe dovuto andare a tè e riso bianco per almeno due giorni. Oh, e i crampi! Non capiva se fosse fame o solo voglia di morire subito.

Akio si sforzò di aprire gli occhi una seconda volta e la luce filtrava soffusa dalle tende tirate, però era chiaro fosse giorno. La sveglia sul comodino segnava le otto e mezza. Era in ritardo. Merda.

La seconda cosa cui pensò fu il cellulare; doveva avvertire la signorina Miyoko che sarebbe arrivato più tardi, il tempo di riprendersi da quella sbornia atroce. Si tirò a sedere e addosso aveva ancora la camicia, anche se era stata sbottonata in buona parte, ma non indossava i pantaloni, che neppure vide in giro. La stanza sembrava il carillon di una vecchia giostra e lui affondò il viso nella mano.

C’era però da dire che non sentiva il solito affanno dettato dall’ansia né gli acciacchi cui si era abituato: altri più invadenti stavano rubando l’attenzione ai soliti malanni.

Buttò giù i piedi dal letto e si alzò. Non al primo tentativo, però, che lo riportò di nuovo con le chiappe sul letto. Al secondo andò meglio, almeno riusciva a stare in piedi senza riversarsi in avanti né vomitare. Addirittura gli parve che il mal di testa picchiasse meno.

Ad ogni modo, era una giusta punizione per essersi comportato come uno stupido irresponsabile. Alla sua età quell’atteggiamento era inqualificabile. Chissà Yumeko, poverina, quanto doveva averla messa in imbarazzo con la polizia. Akio non aveva alcun ricordo chiaro di ciò che era avvenuto, nessuno lucido. La maggior parte si mescolavano a sogni strani in cui c’era stato Shuzo che lo andava a recuperare. Proprio una bella ironia considerando quello che gli aveva detto l’ultima volta che si erano visti. Di certo, quindi, dovevano essere stati i poliziotti a caricarlo e portarlo fino a casa.

Recuperò degli abiti puliti, si diede una sistemata nel bagno che avevano al piano superiore, ma guardandosi allo specchio vide che aveva delle occhiaie orribili e un aspetto da morto di sonno che davvero non aveva idea di come si sarebbe presentato a lavoro. Allo stesso modo, sfumò l’idea di rendersi decente almeno davanti a Yumeko, si accontentò di sembrare quantomeno ordinato e non uno zombie.

Raggiunse il piano inferiore e strascicò i piedi fino a poco prima di entrare nella sala da pranzo. Era da lì che sentiva provenire un brusio e la risatina di sua moglie. Be’, più di una risatina: stava proprio ridendo di gusto e la vide che reggeva il cellulare e si copriva la bocca con la mano.

…che bastardo d’un figlio stronzo…

…be’, sai come si dice in questi casi, no? Tutto suo padre…

Uno scambio di battute che gli risuonò di colpo familiare e giù l’ennesima risata.

«Yumeko…»

La sua margherita si volse di scatto: gli occhi erano lucidi d’ilarità e aveva un’espressione raggiante. «Oh, ben svegliato», lo canzonò. «Scommetto che ti senti come se ti fosse passato addosso un camion a rimorchio.»

«E a me sembra che l’idea ti diverta.»

«Puoi dirlo forte.»

Akio distolse lo sguardo; di replicare non gli sembrava il caso né si trovava nella posizione per poterlo fare.

«Mi dispiace per averti creato delle preoccupazioni.»

«Lo spero bene, e comunque sono stata già ripagata per questo.» Yumeko strinse al petto il cellulare, esibendo un sorrisetto furbo. Non gli risparmiava nulla, non lo aveva mai fatto neppure in passato quando si era trovato in simili posizioni di svantaggio. Aveva una carta forte da giocare dalla sua, di sicuro la stringeva tra le mani come faceva con quel cellulare e aspettava solo di calarla.

Akio massaggiò la fronte e venne avanti, con l’intenzione di raggiungere il tavolo.

«E cosa stavi guardando di così divertente?» chiese con fare distratto, ma il sorriso di Yumeko lo convinse a fermarsi a un passo da lei.

«Oh, dei meravigliosi video di te ubriaco. Sappi che li ho girati anche alle tue sorelle, abbiamo riso fino adesso. Non dubito che a breve arriveranno anche Ryuusei e Tomohisa.»

Akio si irrigidì; l’imbarazzo gli arrivò alle guance e fino alle orecchie. «Era… era proprio necessario mostrarli anche a loro?»

«Certo, naturale. Credevi che la tua stupidità sarebbe stata gratuita e senza conseguenze?» Nonostante negli occhi le brillasse sempre gentilezza e il sorriso le incurvasse le labbra, Yumeko sapeva affondare colpi così precisi da lasciare spaesati. Era sempre stato lui quello severo e che si faceva rispettare, mentre sua moglie si era ritagliata un ruolo sottomesso alle sue volontà. A volte si faceva sentire quando davvero superava il limite, e le sue sferzate lo rimettevano in carreggiata, gli facevano abbassare i toni. Ma da quando Yuzo era morto, lei era divenuta affilata come un coltello da macellaio. Una mannaia. Che calava netta per tranciare l’osso e non spuntarsi.

«Non immagini quanto io sia stata in ansia per te, ieri. Tu non tornavi, il tuo telefono non prendeva e io non avevo idea di dove fossi.» Il sorriso si era affievolito fino a lasciare delle labbra dritte, ma non tese. «Sai cosa ha significato per me? Sai cosa ho provato? Mi hai fatto male, ma immagino che questa sarà la prima e ultima volta. Una piccola umiliazione è un giusto prezzo in confronto alla paura che mi sono presa. Shuzo è venuto fino da-»

«Sh-Shuzo?!» Akio sgranò gli occhi.

«Sì. Li ha girati lui questi video, si è divertito da morire.» Yumeko tornò ad accennare un leggero sorriso. «Non ricordi cosa è successo?»

«Sì e no… diciamo che ho le idee un po’ confuse. Credevo mi avesse portato qui la polizia.»

«No. Ci ha pensato lui. Ti è venuto a prendere al koban di Fuji e ti ha riportato a casa. Dovrai chiedergli scusa per le noie che gli hai causato.»

Akio scrollò il capo, un gesto di cui si pentì all’istante visto che gli girò tutto. La smorfia per la vertigine si trasmise alle labbra, conferendogli quasi disappunto. «Non era tenuto a farlo…»

“E invece lo ha fatto lo stesso. Ma chissà che forse da uno stupido colpo di testa, non venga qualcosa di buono e insperato.»

Yumeko sorrideva ancora e lui non capì il senso di quelle parole così criptiche. Non capì neppure quell’espressione che avrebbe definito contenta se non fosse che era certo che ormai lei sapesse quale fosse la situazione con Shuzo, il suo rifiuto ad averlo attorno. Magari era perché non conosceva le parole esatte che si erano detti, altrimenti non sarebbe stata così serena. Solo che ripensandoci… aveva echi della notte precedente che…

Lo sguardo superò la figura di Yumeko, si poggiò sulla tavola e sulla disposizione delle tazze per la colazione. Akio irrigidì la schiena.

«È apparecchiato per tre…»

Yumeko guardò alle proprie spalle per un attimo, poi tornò a guardare lui. Il sorriso era una curva dolce come il miele. «Shuzo ha dormito qui, stanotte.»

«Qui?! Intendi, qui a casa? In camera sua?»

Lei annuì, inclinò leggermente il capo e strinse gli occhi per studiarlo più a fondo, provare a leggergli dentro. Si sarebbe accorta del suono forte che il cuore aveva battuto nel petto? Sperò di no, altrimenti come avrebbe fatto a mantenere il controllo della situazione e dei nervi?

«Non ne sei contento?»

«Be’, certo è… Non me l’aspettavo.»

«Adesso non fare il passo del gambero.»

Yumeko lo superò, al solito senza pietà come quando Yuzo mentiva con il sorriso. Tale madre, tale figlio a modo loro. I due sciocchi che invece avevano sempre creduto di avere il coltello dalla parte manico, trovandosi invece a tagliarsi i palmi con la lama nella loro stoica stupidità, erano sempre stati lui e Shuzo. Tale padre, tale figlio.

«Io vado a preparare la colazione per tutti; Shuzo è nella serra e quello che devi fare lo sai già. Simili possibilità potrebbero non ritornare. Vedi di non sprecarla. E scusati per avergli rotto le scatole.»

L’ultimo avvertimento o consiglio, stava a lui scegliere come avrebbe dovuto considerarlo.

Gli avvertimenti implicavano un’obbedienza di fondo; i consigli potevano essere ignorati.

Akio si ritrovò solo con sé stesso, quel tavolo apparecchiato per tre e la scelta. Poteva lasciare vincere l’orgoglio come aveva sempre fatto o fare vincere la paura o poteva combattere sia l’uno che l’altra e affrontare tutto con ordine, quello che il maestro Gaho gli aveva insegnato a rispettare in una composizione. Ogni cosa trovava il suo posto nello schema se si procedeva in avanti un passo alla volta. In quel modo, lui era stato capace di districare le radici ammassate che aveva avuto nel petto.

Prese fiato e uscì in giardino passando dalla portafinestra. Infilò le ciabatte da esterno e si incamminò per il vialetto che portava alla zona barbecue, lastricato di mattonelle. Poi deviò, passando nell’erba e arrivando alla serra dalla porta aperta, quando di solito Shuzo la teneva sempre chiusa. Chiudeva fuori chiunque, il messaggio era quello. Adesso il messaggio era di accoglienza. Entra pure se vuoi. E Akio non entrò subito, ma rimase sulla soglia a osservare suo figlio seduto sullo sgabello che guardava la composizione Nageire che aveva abbandonato a metà, due giorni prima. Avrebbe dovuto terminarla ieri, ma con quello che era successo aveva finito per dimenticarla. Come faceva con le cose a cui teneva, a volte le lasciava a loro stesse, quasi che dovessero trovare da sole una strada per risolversi.

Shuzo la guardava, inclinava il capo da un lato e dall’altro; adagio girava il vaso con entrambe le mani stando attendo a non far muovere gli elementi che aveva infilato, quali shin e hikae. Il Paradiso e la Terra. I due poli opposti. Nel mezzo, mancava l’Uomo. Dove si sarebbero potuti allocare loro? Era stato indeciso, per questo non aveva terminato la composizione sul momento ma aveva rimandato. Non era riuscito a trovarsi un posto nell’ordine, ma ora che vedeva suo figlio valutare il proprio lavoro con occhio critico ed esperto al tempo stesso, Akio pensò che non stesse più a lui decidere. L’ultimo elemento, quello dell’Uomo, era nelle mani di Shuzo.

 

«Non è completa.»

Shuzo fece scattare la testa come quella di un automa che si aspettava d’essere attaccato alle spalle, un leggero sussulto e gli occhi stretti, affilati per istinto.

Aveva messo a fuoco Akio con un attimo di ritardo e subito aveva rilassato la tensione, tra occhi e spalle. Tornò a guardare la composizione e ammiccò.

«Non è male. Non conosco tutte per bene le regole della Sogetsu, ma non è male. Mi piacciono le ortensie, ma avrei scelto un colore più tenue o, in alternativa, uno più vivace; questo blu è molto scuro e le foglie del Philodendron sono scure anch’esse. C’è poco contrasto.» Poi si ritrasse, sollevando le mani. «Ah. Sia chiaro, non voglio dirti quello che devi fare, eh. Non sono il tuo maestro e facciamo capo a scuole diverse.»

«Sì, sì. Lo so.»

«Non voglio scatenare un incidente diplomatico con Gaho-sensei, mi è simpatico.» E non era in vena neppure di scatenarlo con Akio, anche se non dava l’impressione di essersi risentito per le sue osservazioni. Sulle labbra, invece, aveva abbozzata rassegnazione nel mezzo sorriso che gli concesse.

«Non lo scatenerai. Ho lasciato la scuola.»

«Cosa? E per-…» domanda sciocca, si disse Shuzo, perché ne conosceva già la risposta. Emise uno sbuffo e distolse lo sguardo sugli steli d’ortensia in acqua. «Ecco, e quindi il sensei se la prenderà comunque con me.»

«Avevi detto che ti dava fastidio, e così…»

«E tu da quanto mi dai retta? Andiamo! Io non ho mai ascoltato te, tu non hai mai ascoltato me, ora improvvisamente sei il Genio della Lampada: esprimi un desiderio e te lo avvero! Ma che stronzata è?!»

«Non volevo crearti problemi.»

«E tanto me li avevi già creati! Ora il sensei dirà che sono sempre io che faccio scappare la gente.»

«No, non lo farà.» Akio scrollò il capo. «Preferivo comunque occuparmi di piante vive, piuttosto che di composizioni pseudo-viventi… Con la morte ci ho avuto troppo a che fare.»

Shuzo seguì lo sguardo di suo padre che vagava per la serra. Non lo aveva detto per darsi un tono o fingere davvero che non gli importasse: Akio sentiva il peso della morte che era rimasta ad aleggiargli attorno fin dalla scomparsa di suo fratello. Non era riuscito a liberarsene, perdendola nei meandri del tempo, ma l’aveva portata con sé, come un passeggero silenzioso e invisibile che d’improvviso si era svegliato e aveva deciso di dargli il tormento.

Invece, mentre guardava il lavoro che aveva fatto, i vasi e le piante rigogliose, pareva trovare una chiara consolazione; serenità. E Shuzo sapeva quanto difficile fosse riuscire a raggiungere quel particolare stato d’animo. La serenità, più di ogni altra, era difficile da trattenere a lungo. Di Akio aveva sempre visto solo la facciata che egli stesso aveva voluto mostrare, ma non si era mai chiesto neppure una volta se fosse davvero sereno e soddisfatto di sé stesso, se fosse felice. Aveva preso a farlo da qualche tempo, e ora sapeva la risposta. Suonava con un ‘no’, secco.

Suo padre non era felice, forse non lo era mai stato per davvero.

Suo padre non era sereno, non a lungo. Si accontentava di strappare qualche briciolina grazie a quel posto che, molto tempo prima, aveva donato serenità sia a lui che a Yuzo.

Magari era arrivato il momento di portare Akio alle grandi serre, aveva la predisposizione giusta per riceverne la magia. Poi però scrollò il capo e scacciò quella che sembrava una decisione.

«Sono carine. Le ho guardate e stanno bene», disse invece. Akio accennò un sorriso e annuì.

«Grazie per aver detto a tua madre della Caesalpinia. Da quando sta fuori è diventata ancora più rigogliosa; vedrò di ricordarmelo per gli anni futuri.»

Si scambiarono un’ultima occhiata e poi persero le parole. O, meglio, era Shuzo che se le aspettava e Akio che le centellinava a una a una. Restava lì, fermo due passi dopo la porta d’ingresso della serra, con le mani nelle tasche e la schiena bella dritta, la testa alta. Portava la sua sicurezza sulle spalle dimenticandosi che poteva risparmiarsi di cercare di darsi un tono, quando solo la sera prima gli aveva retto la fronte mentre vomitava. Però lesse, attraverso l’apparenza, il modo in cui rimestava i pugni nelle tasche. Gli venne da sorridere, ma lo ingoiò.

«Senti, riguardo a-»

«Mamma dice sempre che io faccio le domande sbagliate, con te. E in un certo senso forse è vero, forse ti chiedo solo cose di cui ho già la certezza della risposta e quindi so come ribattere. Magari io le tue risposte non le voglio sapere.» Shuzo lo interruppe, prima che potesse profondersi in qualche scusa bislacca sulla serata trascorsa. Non era quello che gli interessava. «Ma stavolta ho deciso che voglio ascoltarla e quindi ti farò una sola domanda. Una. Nient’altro. Rispondi solo a quella.»

Akio sembrava perplesso, ma annuì, tenendo la mascella serrata e la schiena dritta.

Avrebbe voluto dirgli di smetterla di voler apparire sempre perfetto e intoccabile e invece chiese, senza esitare, ma con briciole di livore: «Perché? Perché l’ikebana, perché le piante? È per questo che mi hai cacciato di casa, te lo ricordi? È per questo che io non ho avuto una cazzo di famiglia né una vita normali. Per questo!» Shuzo indicò la composizione lì accanto quasi con disprezzo. «E ora che fai? Prendi lezioni? Perché. Dammi una sola risposta valida, non chiedo nient’altro, non voglio sapere nient’altro.»

Per quante occasioni avesse avuto, aveva evitato per anni quel tipo di domande; le risposte l’avevano sempre spaventato. Sentirsi dire ‘perché di te non me ne frega niente’ o ‘perché voglio distruggerti’ era un dolore che aveva scelto di risparmiarsi, dopo essersi sentito gridare ‘non sei più mio figlio’. Per questo sua madre lo aveva rimproverato: Shuzo aveva scelto bene cosa sentirsi dire, per farsi trovare preparato e con già la risposta ironica sulla punta della lingua.

Ma ora era grande abbastanza per qualsiasi verità; i segreti dovevano prosciugarsi da quell’unico ramo di famiglia di cui gli importava qualcosa. Dovevano sparire, smetterla di infettare le loro radici con i dubbi e le incomprensioni.

Tenne gli occhi fissi su Akio, ancora in piedi e distante, ma doveva spicciarsi a rispondere perché lui non avrebbe atteso in eterno. Ogni esitazione era una risposta negativa e quella domanda non l’avrebbe posta mai più, se avesse tardato di un altro secondo.

Poi suo padre si mosse; le spalle non più rigide sotto l’imposizione che aveva dato a sé stesso. Senza che lui l’avesse invitato, si avvicinò e trascinò un secondo sgabellino che aveva attorno alla postazione di lavoro. Lo fermò proprio davanti a lui e prese posto. Le mani abbandonate tra le ginocchia, la schiena un po’ curva.

«Sai cosa dicevano di Yuzo quando era piccolo? Che era uguale a tua madre. Gli somigliava nei modi, negli occhi. E io ero molto orgoglioso e molto… molto egoista. Volevo che tu assomigliassi a me. Volevo che la gente dicesse: ‘è tale e quale a suo padre’. Volevo sfoggiarti come un trofeo. Ma tu non ne volevi sapere. Più cercavo di avvicinarti, più ti allontanavi. I tuoi modi sempre schivi, timidi, i tuoi interessi fantasiosi e sopra le righe. Allora divenivo severo, esigente. Cercavo di bloccarti tutte le strade per farti andare dove volevo. Ma più io insistevo, più tu ti ostinavi, più mi odiavi e più io odiavo te.»

Un’analisi in cui fu facile riconoscersi, sembrava il riassunto perfetto della sua infanzia, ma non aveva mai pensato che nei gesti di suo padre ci fosse il desiderio di renderlo a sua immagine e somiglianza. Per Shuzo fu una vera novità, qualcosa che non aveva capito, perché quando stava diventando grande abbastanza era stato troppo tardi e le strade avevano preso direzioni così diverse che a dominare era stato solo l’odio e l’insoddisfazione.

Ma, sì, alle volontà di Akio lui aveva combattuto strenuamente come un guerriero, con lo stesso istinto.

«Pensavo d’essere io quello bravo e tu quello che sbagliava. L’ultima volta che sei scappato di casa ero così arrabbiato con te, deluso. Non ti ho cercato perché troppo orgoglioso della mia collera per pensare: Cristo, mio figlio di quindici anni è fuori chissà dove a fare chissà cosa. Per i modi in cui ti comportavi con me io ti vedevo già come un adulto dimenticando che eri solo un ragazzino, e ti dicevo cose che…» Akio distolse di nuovo lo sguardo, abbassandolo sulle mani che teneva intrecciate. «Per quanto arrabbiato, un padre non dovrebbe mai pronunciarle e far passare tutto questo tempo prima di…»

…cosa?

Dillo!

Shuzo si riscoprì impaziente. L’attesa per quelle parole vibrava dentro i mille nodi di radici che non erano morti, non volevano saperne. Come li strappava, ne spuntavano altri in un continuo infinito, e lui lì, ad attendere quell’ultima ammissione, quell’ultima concessione. Non sapeva quanta differenza avrebbe fatto, ma voleva sentirselo dire. Più di ogni altra cosa, voleva quello. Due parole, nient’altro. Solo due.

Akio deglutì con fatica, lui fece altrettanto, ma aveva la bocca secchissima.

«La morte di tuo fratello è stata… il brivido che rompe il coccio dopo la caduta. Credevo di averlo superato quasi indenne; c’era solo questa frattura sottile, ma non mi rendevo conto di quanto in profondità fosse arrivata. Poi sei tornato, sono successe le cose che sappiamo e quella che era una semplice fenditura… ha spaccato il vaso a metà. Volevi sapere il perché? Be’, il perché è che anch’io volevo risposte ai miei perché. Perché proprio le piante, cosa avevano di così speciale ai tuoi occhi e perché io le odiassi. L’ho fatto perché volevo conoscere te e magari capirti. A qualcosa ci sono arrivato, a qualcos’altro no.»

«Per sapere una cosa tanto semplice, sarebbe bastato chiedermelo», masticò con fastidio, ma Akio si lasciò sfuggire il sorriso consapevole, di chi quella strada l’aveva percorsa tutta e aveva studiato ogni deviazione possibile, senza trovare scorciatoie ma solo vicoli ciechi.

«Magari quando eri un bambino, all’inizio… ma dopo no, non funziona così. Dovevo arrivarci io e non dovevo essere aiutato per la legge del contrappasso: non avevo aiutato te quando eri un ragazzo. La pappa pronta, la strada spianata non servono a niente, non ti fanno capire l’errore. E io dovevo arrivarci da solo, altrimenti ora non mi troverei qui a dirti…»

…a dirmi?

È davvero così difficile, uh?

Ma cos’è davvero che ti fotte: l’orgoglio o il fastidio di dover ammettere qualcosa che non vuoi?

Shuzo lo pensava rodendo l’interno della guancia, e dal suo sguardo era certo stesse trapelando tutto, meno che l’intenzione di mettere Akio a suo agio. Se davvero gli costava come appariva, allora non gli avrebbe reso facile nulla, non c’era spazio per nessun cambio d’idea, la decisione sarebbe rimasta la stessa che già aveva preso; Mamoru ne sarebbe stato deluso, ma non tutti cambiano davvero: qualcosa di marcio, in fondo al cuore, resta sempre.

Akio aggrottò le sopracciglia. «Temo che qualsiasi parola userò sarà troppo banale…»

«Intanto tu comincia e fallo valutare a me se è banale o no. Poi si vedrà.»

«Non l’ho mai fatto prima, l’avevo sempre considerata un’umiliazione, qualcosa per deboli. Io ero convinto delle mie ragioni, io… io tenevo alta la testa, reagivo, ero forte-»

«E andavi avanti.»

«No.» Accompagnato da una lenta scrollata di capo. «Mi sono reso conto che non andavo proprio da nessuna parte. Andare avanti era un’illusione, un’idea, ma in realtà io ero fermo al punto di partenza, indietro di anni. Io ero rimasto a due bambini che disegnavano un pallone da calcio e un Rhododendrum phoenicium

Shuzo si addolcì, l’espressione dura stemperata da un ricordo che sapeva di normalità. Abbozzò un sorriso storto, lo sguardo distolto e perso dietro a quelle vecchie memorie e a un bambino innocente che del mondo non sapeva ancora nulla. «Ho sempre avuto le idee chiare.»

«Le avevate entrambi. Yuzo col suo pallone e tu… tu con tutto questo. E io quelle idee ho cercato di manipolarle, modellarle e quando non ci sono riuscito ho fatto di tutto per distruggerle. Ho distrutto anche te, ho costretto tuo fratello a mentire con il sorriso. Era questo che dovevo capire. Ci sono arrivato con i miei tempi. E mi dispiace, mi dispiace tanto, ragazzo.»

Shuzo serrò il pugno, e i nodi di radici gli serrarono il petto; strinsero così forte da fare male e calore insieme.

«Avevi ragione sono stato un pessimo padre per te, non sono mai stato dalla tua parte, non ho mai provato a capire quello che volevi, mentre non facevo altro che importi quello che volevo io. Mi dispiace di non essere mai venuto a cercarti quando scappavi, mi dispiace di averti picchiato e di averti costretto a crescere senza la tua famiglia. Senza tuo fratello. Ma più di tutto… mi dispiace di averti reso come me nella maniera peggiore possibile. Non era quello che volevo, non era quello che meritavi. Mi dispiace, non immagini quanto, ma so che dopo un simile danno le scuse non servono a niente. Stanno a zero, come le chiacchiere. E visto che anche questo lo hai preso da me, non posso fare altro che scusarmi per averti insegnato solo il peggio del mio stringato repertorio. Quando ieri mi hai cacciato è stato duro, ma me lo sono meritato. È la tua scelta, ne hai tutto il diritto e l’accetterò. Anzi, scusa se sei stato costretto a venire a recuperarmi ieri e a portarmi a casa. Non era un tuo dovere farlo, ma… l’ho apprezzato.» Akio si alzò di slancio, prese un paio di passi, mentre lui guardava a terra, a quel ginocchio che si alzava e abbassava veloce, manifestazione di tutta la tensione che aveva accumulato fino a quel momento… per quel momento.

Lo aveva aspettato per anni, credeva non sarebbe mai arrivato e Akio lo aveva stupito, prendendosi le responsabilità che non aveva mai neppure voluto ascoltare.

Si era scusato.

E gli stava dando la libertà di metterlo alla porta per sempre e senza protestare, se era quello che voleva. Una scelta. Akio non gliene aveva mai offerta nessuna che non fosse manipolata dai suoi interessi, ma ora era tutto nelle sue mani. Shuzo le fece cadere sulle gambe, le guardò, guardò i palmi vuoti e aveva deciso. L’aveva detto. Non avrebbe cambiato idea, non… lui non…

«Rientriamo, tua madre sta preparando la colazione, avrà-»

«Che ti hanno detto le piante?»

«Cosa?»

«Volevi conoscermi attraverso di esse, no? Che ti hanno detto, che ne hai capito?»

Anche se non lo guardava, sentì che sorrideva; era una sfumatura lieve nel tono di voce, ma la interpretò facile, perché anche lui ne aveva spesso.

«Che hai un grande talento. Io non l’ho saputo vedere o magari l’ho voluto ignorare perché era qualcosa che mi faceva sentire tagliato fuori. Ma tu sei forte quando serve e sai reagire quando ti viene chiesto. Hai tenuto alta la testa dopo che ti ho costretto per anni a tenerla calata. Sei andato avanti… meglio di me e di chiunque altro. Anche se ormai saperlo non ti cambierà la vita, volevo dirti che sono molto orgoglioso di te, dei traguardi che hai raggiunto, di ciò che hai costruito. Per anni ho voluto che fossi come me… e invece sei molto meglio.»

Scrollò il capo e strinse i denti in un sorriso di scherno. «E adesso ti ricordi di tirare fuori tutte le stronzate che avrei voluto sentirmi dire quando ero piccolo?»

«Ho sempre fatto le cose a scoppio ritardato.»

Shuzo aveva una vertigine che risaliva la nuca fino al centro della testa, e un covo nel petto, di tutti i loro nodi, di tutte le radici. Era caldo ed era accogliente, nel mezzo scoprirono la figura del bambino che era stato e che imparava nomi assurdi di alberi e fiori senza saperne il significato. Quel bambino sorrise, scomparve ma i nodi rimasero e il calore pure.

Le radici reali si potevano recidere e distruggere, ma quelle famigliari non si potevano spezzare e lui non avrebbe potuto cambiare idea… perché l’aveva già cambiata.

«Scordati i pranzi della domenica, le gite in barca e tutte quelle stronzate. Hai detto che qualcosa cercavi e qualcosa hai trovato, ma non è il bambino dei tuoi ricordi. Quello l’abbiamo perso, non potrai averlo più. C’è solo quello che è diventato.» Shuzo alzò la testa, Akio era a metà tra lo sgabello e la porta della serra. «Se ti sta bene, prendere o lasciare, papà.»

Un guizzo negli occhi, nelle espressioni.

«È… di nuovo una maledetta abitudine del cazzo?»

«No», disse, dopo aver preso un piccolo respiro, e Akio non esitò a rispondere.

«Prendere. Assolutamente prendere.»

L’armistizio, la firma, la fine della guerra iniziata con molti anni di meno sulle spalle di entrambi. Non era resa, non era vittoria, era solo pace.

Shuzo annuì, alzandosi adagio e facendo qualche passo avanti verso un Akio sorpreso e visibilmente emozionato. Non doveva esserselo aspettato quel colpo di scena tra loro, così come non se l’era aspettato egli stesso, ma qualcuno doveva portare alta la bandiera dell’ironia. Per emozionarsi, ci sarebbe stato Mamoru a cui raccontare ogni cosa.

«L’ultima volta che mi hai chiamato papà avevi dodici anni…»

«Diavolo come passa il tempo quando ci si diverte.» Fece spallucce, infilando le mani nelle tasche dei jeans e fermandosi accanto al suo vecchio. Lo vide più basso, più grigio, più magro. Più umano.

«Quanto tempo abbiamo dovuto aspettare, prima di venirci incontro?»

«Quello necessario, direi. Yuzo ne sarebbe contento.»

«E tu lo sei?» Akio sorrideva con un’incertezza che lo stranì un po’, a cavallo dal prendersi una piccola confidenza in più e restare ancora nel proprio spazio per non sembrare invadente. A quel diverso equilibrio avrebbero dovuto abituarsi un po’ alla volta; era una dimensione che non avevano avuto neppure quando era stato un bambino.

«Una domanda alla volta, intanto prendiamoci le misure. E cominciamo col dire che cazzo di figura di merda mi hai fatto fare con gli altri ikebanisti! Eddai! Ma ti pare che vai in un’altra scuola quando tuo figlio insegna alla KadouEnshu?!»

«Se fossi venuto da te, mi avresti cacciato.»

«Certo che l’avrei fatto! Adesso sarò bollato come quello che fa scappare il suo stesso padre!»

«E da quando ascolti gli sfottò?»

«Da quando state cercando di trasformarmi in una persona per bene!» borbottò a braccia conserte. «Tra parentesi: è difficile!»

La risata che Akio si e gli concesse fu molto più aperta e naturale. Fece sentire meno sulle spine anche lui.

«Andiamo ormai la colazione sarà pronta. E con il mal di testa che ho, ho proprio bisogno di un buon-»

«Caffè!»

«…decaffeinato.»

«Eh?!» Shuzo arricciò la faccia nella sua espressione sconvolta da Oni. «Le eresie di prima mattina, anche no!»

«Dillo a me. Sto pure smettendo di fumare.»

«Ma che è, il regime dei carcerati?!»

«Prima o poi dovrai venirci a patti anche tu», sorrise Akio. Gli poggiò la mano sulla spalla, vi diede una pacca di incoraggiamento. Avrebbe potuto dire… paterna? «La chiamano vecchiaia e sono certo che non ti piacerà.»

Suo padre uscì per primo dalla serra, camminando per il sentiero di mattonelle che si snodava per il giardino in fantasiosi percorsi curvilinei, immersi nel giugno di quell’estate che ancora non era iniziata, ma si preannunciava speciale più delle altre.

Shuzo gli lasciò il vantaggio, fermandosi sulla soglia della serra. Piccole o grandi, chiuse o all’aperto: serre e piante facevano sempre le loro magie, almeno per lui, ovunque fosse ne riservavano una nuova e inaspettata. Erano le sue protettrici, assieme a Yuzo. Le piante, che avevano diviso e poi unito e lasciato che i suoi legami col mondo non si spezzassero del tutto.

Toccò la spalla, nello stesso punto in cui era rimasta poggiata per un attimo la mano di suo padre. Un gesto semplice in cui era racchiuso quel lungo e tortuoso quarto di secolo scarso che li aveva visti separati e distanti, come i rami di uno stesso albero, cresciuti uno a ponente e uno a levante. Sotto lo strato degli abiti e della pelle, a contatto con le ossa, batteva la sensazione che aveva provato la sera prima, il calore che si irradiava in diramazioni così sottili da tracciare anche nel suo spirito il disegno di quei rami. Erano migliaia, che si moltiplicavano e separavano proprio come lui e suo padre. Ma Shuzo aveva imparato che per quanto distanti, all’interno della chioma di un albero, sottoterra nascevano tutti dalla stessa radice.

 

“Dobbiamo parlare nel silenzio.

Non abbiamo mai voluto la violenza.

Dobbiamo restare uniti,

nessuno lasciato fuori.

Per superare le cose che abbiamo fatto.

Voglio vedere il cambiamento prima ch’io muoia e perda la voce.

 

Voglio vivere fino a 95 anni,

voglio i miei figli, lì al mio fianco,

voglio neve nel sole invernale.

Abbiamo bisogno di realizzare cosa è iniziato.”

 

Silence – Isak Danielson

 

 

 

Fine

- Roots: Le radici di famiglia -

 

 

 


 

 

Note Finali: …v’ho fatto pijà ‘npo’ de strizza, ve’? XD E pensare che davvero avrebbe dovuto essere un capitolo pienissimo di angst peso, con grida, cose lanciate e incazzi… E poi loro hanno deciso che dovevano fare i cazzari.
Oh. Tale padre e tale figlio fino alla fine.

Quanto gli voglio bene. <3

Ad ogni modo, the end. :3

Akio, Shuzo e il loro lunghissimo percorso di riconciliazione durato quasi un decennio. Si sono fatti del male a vicenda per una vita, a causa delle incomprensioni reciproche, delle aspettative che gravavano sulle spalle dell’uno e dell’altro e sono dovuti passare in mezzo a una perdita enorme per riuscire a trovare un modo per trovare anche loro stessi. Non è stato facile, se lo sono trascinato, Akio è lento e Shuzo intransigente, se le sono comunque dette di peste e corna, ci hanno sofferto, ma alla fine… alla fine certe radici non le spezzi e loro si somigliano tanto, troppo. Hanno capito dell’uno e dell’altro, hanno accettato gli errori da entrambe le parti, i torti e le parole grosse e irripetibili. Le hanno sotterrate, perché ci sono cose che non si possono riparare, ma solo mettere via e sperare di trovare il modo giusto per buttarle col tempo. Quello che resta, ciò da cui si deve ripartire, è ciò che entrambi sono ora, in questo momento in cui è stato messo l’ultimo punto. Ecco, la storia di Akio e Shuzo ricomincia da quel punto messo dopo la parola ‘radice’.

 

Vorrei potervi dire ‘li ritroverete presto’, ma lo avevo già accennato su FB: ‘Malerba’ e ciò che le ruota intorno per come la conoscete si ferma qui, al momento. Il mio desiderio è di poterla rendere qualcosa di completamente originale nel suo contesto e potervi raccontare tutto tutto, compresa l’infanzia strana dei fratelli Morisaki e i circa tre/quattro anni di vita di Shuzo che si snodano dalla fine di ‘Roots’ alla fine dei due sequel che ho in programma.

Non so se riuscirò nel mio intento, perché ho un enorme lavoro di ricerca da portare avanti.

Se ce la farò, giuro che lo saprete (e spero vorrete [ri]conoscere tutti nella loro versione nuova di pacca); ma se non ci dovessi riuscire, be’… allora li ritroverete qui, questo è certo, perché non vi priverò mai della fine di tutta la storia, soprattutto dopo gli anni in cui l’avete seguita (ben TRE! \O/).

 

Al momento, però, io ringrazio di cuore tutti voi.

Ringrazio la vostra pazienza, l’amore che avete donato a questa serie di storie e a questi personaggi che non pensavo potessero divenire così importanti per me, tanto da voler dar loro una possibilità fuori dalle fic.

Vi ringrazio delle vostre bellissime recensioni, dell’aver infilato le storie qua e là, dei trattori sempre pronti a partire contro il cretino di turno e dei timori del fatto che potessi mandare tutto a gambe all’aria, as usual XD

Grazie, signori miei, io vado in pausa.

Ci rileggeremo, non so quando, ma di certo con le storie della ‘Soulmate Series’ (anche quella non ho voglia di lasciarla appesa).

Nel frattempo, buone vacanze a tutti e… casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte. (cit.) <3

 

Il Re è morto.

Lunga vita al Re.

 

 

   
 
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