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Autore: JeanNott    20/07/2020    0 recensioni
Qualcuno bussa improvvisamente alla porta. È un uomo misterioso che chiede aiuto e supplica di entrare. Ma Eric, tra le mura della sua abitazione, nasconde un segreto che non può essere assolutamente rivelato, una strano e crudele passatempo, portato all'estremo. Nessuno, al di fuori di lui, può varcare la soglia di casa. Nessuno che si possa dir vivo.
Genere: Drammatico, Mistero, Noir | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Qualcuno bussò con forza alla porta.
Eric si alzò di scatto dalla poltrona, aveva gli occhi sgranati e lo sguardo inquieto. "Cosa succede?" mormorò, lanciando una rapida occhiata fuori dalla finestra. La pioggia scendeva violenta dal cielo e ogni oggetto, ogni angolo di terra e di asfalto sembravano cedere ai ripetuti colpi delle gocce. C'era qualcosa di strano e feroce in quel temporale. Una voce ovattata echeggiò tra le pareti della stanza. "Eric!" diceva. Erano le urla dell'uomo alla porta. Non aveva idea di chi fosse. Non riusciva a riconoscerne la voce, perché il grande e continuo boato dei tuoni la distorceva, la mutava; non poteva vederne il volto, perché dalle finestre era impossibile sbirciare e dallo spioncino della porta si scorgeva poco e niente, tanto era appannato. Decise, quindi, di procedere con cautela. Portò una mano alla tasca, verso il coltellino a serramanico e, lentamente, abbassò la maniglia.
Tutto zuppo e con una faccia da morto, Conrad gli cadde davanti, in ginocchio.
"Eric! Eric, fammi entrare!" piagnucolò l'amico.
La porta non era ancora del tutto aperta.
"Eric, ti prego", continuò lui, e debolmente tese la mano verso la maniglia, disperato.
"Conrad, che... che ti è successo?" chiese Eric, piuttosto turbato.
Sul viso di Conrad s'impresse una strana espressione da bambino. Ogni piega del suo volto si modellò in una smorfia di capriccio e impazienza, quasi minacciosa. Nei suoi occhi brillava una certa luce tragica, di sofferenza e impotenza.
Fu proprio quando Eric si rese conto di queste piccolezze che Conrad si fece più pallido, bruscamente, come se un brivido di freddo gli avesse traversato il corpo.
"Eric, io... Eric mi devi fare entra-", le parole gli si mozzarono in gola.
Era evidente che respirare gli riusciva a fatica. Ogni respiro gli tremava in petto; ogni boccata d'aria era un disperato tentativo di trovare ossigeno; ogni respiro era allo stesso modo flebile e violento. Sapeva che avrebbe dovuto farlo entrare, ma...
Si guardò attorno, cercando di capire se ci fosse qualcuno per strada, ma la nebbia era così fitta che, ci fossero stati altri occhi, non avrebbero potuto mettere a fuoco niente al di là del proprio naso. Era tutto incredibilmente rassicurante. Forse troppo rassicurante.
Ci fu un tuono, un tuono molto forte. In quell'istante, Conrad spalancò gli occhi e una espressione di orrore gli si dipinse in volto. Farfugliò qualcosa di impercettibile e cadde in avanti, privo di sensi. Una macchia color rosso iniziò scorrere sul tessuto celestino della sua camicia.
"Merda, gli hanno sparato", pensò Eric.
Pochi secondi dopo, il corpo di Conrad giaceva immobile sul pavimento dell'entrata, la porta chiusa alle sue spalle. Il torace del poveretto si alzava e si abbassava ancora, lievemente, ma lui era completamente privo di sensi e, per quanto Eric provasse, non rispondeva alle sollecitazioni.
Eric sospirò, visibilmente agitato.
"Che cazzo faccio?"
Iniziò a percorrere la stanza a grandi falcate, con una mano sul mento.
"E se chiamassi l'ambulanza? Al diavolo, mi entrerebbero in casa. E se lo portassi all'ospedale in macchina? Eh, sì... Quale macchina? Quella del vicino?"
"E che fai, la rubi?"
"Fai silenzio.""Non puoi farci niente, morirà lì, sul pavimento. Oppure..."
"ZITTO!"
Eric affondò le mani tra i capelli. Si diede uno schiaffo sulla fronte, poi un altro e un altro ancora.
"Zitto, zitto, zitto!"
Provò a parlarci sopra, a piagnucolare, gridare, a sbattere i piedi per terra, ma la voce nella sua testa non la smetteva di parlare. Avrebbe dovuto farla tacere, subito, immediatamente, altrimenti sarebbe accaduto come le altre volte. Altrimenti lui avrebbe fatto la sua apparizione. Doveva salvare Conrad.

Conrad era sempre stato un suo grande amico, l'unico ad averlo mai accettato per le sue stranezze, anche le più ambigue. Ma soprattutto, Conrad era il suo unico compagno di "caccia". La notte sul tardi, fra i bui tunnel della metropolitana e nei pressi delle fogne, i due amici si aggiravano furtivi alla ricerca di ratti. Li rincorrevano con veemenza, ma non era facile acchiapparli: quelle bestioline erano incredibilmente furbe. Una volta avvenuta la cattura dell'animale, quelle volte che riusciva e la bestia non scappava o finiva sotto un treno, i due lo portavano in un sacco a casa di Eric e lo uccidevano. A Conrad venivano sempre in mente le idee più originali: decapitazioni, mutilazioni, impiccagioni, torture con la forbice, col coltello, col martello, a mani nude...
E così, dalle medie all'età adulta, i due amici si divertivano a seviziare i piccoli animali come valvola di sfogo, come innocuo passatempo. Ai genitori di Eric, quasi sempre fuori casa, non era mai venuto il sospetto che nel giardino, sotto terra, fossero sepolti i cadaveri di centinaia di topi, di scoiattoli e di alcuni gatti, e non vi era ragione alcuna per farlo. Il giardino sul retro, circondato da alte staccionate, era già ampiamente dissestato e le varie piccole buche, ricoperte alla bene e meglio, non davano all'occhio. La casa non puzzava mai di sangue e topi più di quanto non lo facesse già di fumo, polvere e alcool; mentre le tracce di sangue rimaste, se non erano state minuziosamente lavate via dai due amici, venivano assorbite dal già putrescente legno del parquet.
La casa di Eric era stata per molti anni il covo preferito di entrambi, fino a quando tutti i loro giochi e i loro divertimenti lasciarono il posto alla nuova attività di Conrad: lo spaccio di droga. Benché Eric appoggiasse appieno il suo nuovo lavoro, arrivò ad odiare profondamente le assenze del compagno, passando pomeriggi interi in completa apatia, tracannando litri e litri di birra. Il lavoro lo deprimeva, i genitori, con cui era ancora costretto a vivere, lo facevano dannare, la gente lo irritava e le ore, lente come non mai, lo affaticavano, lo tediavano. Cercò in tutti i modi di convincere Conrad a farlo lavorare con lui, rivolgendogli la stessa identica preghiera ogni rara volta che lo incontrava, offrendogli lealtà, omertà, dedizione, offrendogli addirittura dei soldi... ma niente, non c'era verso di convincerlo: "Lo spaccio è una cosa seria, non è uno scherzo", diceva.
Un giorno di questi Conrad, su tutte le furie, arrivato al colmo della sopportazione, finì per urlargli contro: "Non si può far spacciare i pazzi! Vediamo se ti entra in quella testaccia". Da quel momento, Eric non aprì più bocca in merito. Era vero che nella vita si era sentito chiamare malato, esaurito e matto così tante volte da esserci, tutto sommato, abituato, ma quelle parole, pronunciate dall'unica persona nella quale aveva riposto fiducia, lo ferirono profondamente. Le settimane a seguire furono le più dure. L'apatia precipitò nell'angoscia più totale; a lavoro era completamente dissociato, aveva perso la capacità di far tutto, anche di avvitare un semplice bullone. Con i colleghi era spesso scontroso e paranoico, ma faceva di tutto per ignorarli, appunto per evitare litigi. Un giorno, però, l'alterco con un altro operaio sfiorò la tragedia.
Durante la pausa pranzo, una donna urtò, si direbbe volontariamente, il vassoio su cui gli era stato servito il pranzo. Tutto il cibo finì per terra e un sonoro coro di risate si levò dalla mensa. Poco dopo, la donna era supina sul pavimento, Eric sopra di lei, con il pugno levato.
Nella sua testa, i pugni sferrati erano stati cinque, dieci. In realtà, era stato fermato prima che potesse fare qualcosa. Due grossi uomini della sicurezza lo avevano preso sotto le ascelle e trascinato fuori con la forza; lui non la smise di dimenarsi per tutto il tragitto. La faccenda gli costò il lavoro, l'unico lavoro, il solo in cui potesse sperare.
Tornato a casa, ebbe uno degli episodi di crisi psicotica più orrendi della sua vita, ma nessuno era lì per aiutarlo. Nessuno, eccetto...

L'orologio faceva un rumore tremendo. Ogni ticchettio era un masso lasciato cadere pesantemente a terra. Il tempo scorreva velocemente e inesorabilmente verso la morte di Conrad. Eric aveva inutilmente avvolto la ferita dell'amico con delle bende, le aveva bagnate con dell'acqua e ora vi teneva la mano premuta sopra, nel tentativo di fermare il flusso di sangue. Ovviamente tutto ciò non solo non sarebbe servito a niente, ma era anche ridicolo. Eric si stava comportando come un bambino, né più né meno. Se ne stava lì, in ginocchio, nel panico più totale, scosso, con la testa frastornata e gli occhi lucidi, convinto di poter curare da solo una ferita mortale. "Conrad! Conrad? Mi senti? Rispondi, forza!" ripeteva incessantemente. La voce nella sua testa, allo stesso modo, continuava a non dargli pace. Lo insultava, gli urlava contro, lo minacciava con l'unico obiettivo di esasperarlo. Lui cercò in tutti modi di ignorarla, ci provò con tutte le sue forze, eppure le cose che gli stava suggerendo erano le più sensate, erano le più fattibili, le più concrete che potesse tentare. "Poni fine ai suoi tormenti e fallo fuori una volta per tutte", diceva.
E ancora: "Ormai è spacciato: buttalo fuori, lascialo per strada e lavatene le
mani".
"Vuoi che ti prendano, deficiente? Vuoi marcire in galera? Stammi a sentire, scemo. Oh! Mi senti? Lancialo fuori. Non l'hai ucciso tu, cazzo!"
Di punto in bianco, qualcosa mutò nel suo umore. Non era più pallido morto, la sua pelle era tornata al suo normale colorito, i suoi occhietti neri non davano più l'aria di essere terrorizzati. "Vieni, Conrad", disse, "ti faccio vedere i topi che ho catturato". Prese Conrad in braccio e lo portò, senza fatica, in salotto. Affianco alla finestra, stava la poltrona da cui, senza preavviso, si era dovuto allontanare. Fuori dalla finestra, il temporale bagnava ancora, con sempre più ferocia, le strade del vicinato. Proprio sotto la finestra, affilati su tutto il largo tappeto rosso della sala, sei carcasse di topo bloccavano il passaggio verso il corridoio. Posò il moribondo a terra, con la schiena accostata alla parete del salotto, facendo in modo che il suo sguardo si rivolgesse direttamente verso l'orrenda scenetta.
"Li vedi? Non sono bellissimi?"
La testa inanimata del poveretto, prosciugata di tutto il suo colore, ciondolava a destra e sinistra, cercando un equilibrio. Le sue labbra viola pallido erano colorate da un rigurgito di sangue che, fino al mento, colava in rivoli rossi; le due palpebre, abbassate, tremavano un poco, strette nella morsa di un sonno profondo.
"Ehi, guarda!" continuò Eric, stringendo il mento di Conrad tra le dita. Con quella stessa mano, prese a direzionare e a muovere la testa del malcapitato. "Guarda lì, lo vedi quello? L'ho trovato per strada: un ratto randagio, con la barbetta, la pelliccia sporca e tutto. E quello? Quello lì? Lui s'è messo a seguire quell'altro di prima, il suo amico, pensando lo avessi portato chissà dove... Mentre quei due, senza barba né niente, proprio carucci, quasi mi han fatto pena. Ma che ci potevo fare? Son venuti loro, soli soletti, a bussare con i loro artigli da topo. Non so cos'è che volevano, boh. E poi ci sono quelli, quelli grosse come due scrofe! Somigliano ai miei genitori, guarda! Con la puzza sotto il naso, morti di fame, sempre a chieder conto a me dei loro debiti da roditori mangia soldi e pane. Ricordi, vero?"
Dopo un attimo di pausa, riprese a parlare con la stessa calma e la stessa leggerezza: "Ma non li ho uccisi io, sai? Ché a me i sorci fanno schifo, se si parla di ucciderli. Oh, quello lo facevi sempre tu e... e io stavo al gioco, no?"
Il capo di Conrad, mosso dalla mano tozza di Eric, fece su e giù, in segno di assenso.
"Vedi che ti ricordi! Comunque, visto che non potevi, ho chiamato qualcun altro, per la caccia. Uno nuovo, non lo conosci. Vive con me, sai? Non ha dove stare e dorme da me."
Eric gridò il nome di un certo Arthur e attese, con lo sguardo fisso verso la porta della cucina, che entrasse nella stanza.
"Eccolo qui!" disse, e indicò con la mano libera un punto preciso del salotto. Arthur era esattamente là, con la sua enorme stazza e lo sguardo serioso, in piedi.
"Non ti avevo detto di cacciarlo?" chiese la voce tuonante di Arthur.
"Sì, sì. Ma vedi, non posso mica."
"Perché non puoi?"
"È un mio amico. Vero Conrad? Siamo amici, io e lui."
"Non dire sciocchezze. Portalo via di qua."
"No, non riesco."
"Dannazione, perché non mi ascolti?"
"Ti ho sempre dato retta, Arthur..."
"Non lo vedi che anche ora è la cosa migliore da fare?"
"Sì."
"E allora?"
"E allora non ho altra scelta."
Eric si alzò. Rivolse un ultimo sguardo sconsolato a Conrad e scavalcò uno ad uno i cinque corpi, in direzione di Arthur. Ma invece di fermarsi di fronte a lui, lo superò, dirigendosi verso il telefono a muro che stava all'angolo.
"Che fai?" gli urlò contro Arthur.
Eric non rispose. Prese in mano la cornetta.
"Che stai facendo?"
"La caccia è finita."
"Che diamine dici?"
"È finita, Arthur."
"Ma non lo capisci che così ti prendono? Non lo capisci che così sarai tu ad essere accusato?"
"Ma sei stato tu..."
"Io non esisto, coglione. Io non ci sono. Non mi vedono."
"Che... che dici?" Eric lasciò cadere la cornetta del telefono.
"Nessuno darà la colpa a me. La colpa sarà tua e soltanto tua."
"Ma io ti ho visto, li hai uccisi tu! Non dire fesserie. Sei qui, davanti a me, ora!"
"Sei stato tu, non io. Io non esisto."
"Stronzate. E poi... e poi, nessuno di noi ha sparato a Conrad, e gli altri sono topi. A nessuno frega dei topi..."
"Di cosa stai parlando? Quali topi?"
Eric non riusciva a capire. Non erano topi? Eppure davanti a sé le vedeva ancora, quelle tre piccole carcasse pelose, zozze, dal muso disgustoso.
"Ricordi? È per questo che ti dicevo di non far entrare Conrad. Sono persone, quelle, non bestie!" disse infine Arthur, esasperato.
"Non è ve-"
Davanti agli occhi di Eric, come se si fossero materializzati, comparvero i sei putrescenti cadaveri, con le espressioni sgomente e le unghie nere; il sangue secco sui loro colli. Ciò che non aveva ancora visto, gli si palesò, ciò che non c'era mai stato, scomparve. L'unica cosa che rimase invariata, come un tormento che non dà tregue, era il corpo di Conrad, che se ne stava sempre lì, con la schiena alla parete. Eppure anche in quest'ultimo, suo malgrado, qualche cosa di apparentemente insignificante sembrava esser mutato: le palpebre dell'amico, non più abbassate, bensì socchiuse, lasciavano intravedere i suoi occhi color miele, sorpresi in uno sguardo attonito, fisso su quei corpi già morti.
E il mondo gli crollò addosso.

Due giorni dopo, la scientifica constatò, senza ombra di dubbio, che le piccole ossa rinvenute nel cortile del numero 13 di Whitehorse Road, non erano quelle di neonati, ma di animali, molto probabilmente appartenenti alla famiglia dei roditori.
I cadaveri analizzati, sottoposti ad autopsia, mostrarono chiari segni di colluttazione e un vistoso taglio di coltello alla base del collo. Dalle analisi dello stadio di decomposizione, fu facile risalire alla data degli omicidi. Il giorno sei settembre, verso sera, l'assassino Eric Bowdich, tornato da lavoro, aveva prima invitato un senzatetto a casa sua, uccidendolo, poi aveva aperto la porta alle altre cinque vittime, due delle quali erano la signora e il signor Bowdich, sua madre e suo padre, assassinandole allo stesso modo.
Conrad Baker, quando fu in grado di testimoniare, diede la sua versione dei fatti, la quale risultò combaciare perfettamente con quella supposta dalla polizia. Andato a trovare l'amico di vecchia data, il giorno dopo l'avvenimento dei fatti, si era ritrovato faccia a faccia con i cadaveri delle sei persone. A questo punto il signor Eric Bowdich, dopo aver sottratto a Baker la pistola dalla tasca dei pantaloni, gli avrebbe sparato, nel tentativo di ucciderlo. Essendo però l'assassino poco pratico con le armi da fuoco, il colpo sarebbe finito per non essere fatale, ferendo la vittima, in fuga, solo alla parte bassa della schiena. Le indagini portarono alla luce, tuttavia, alcune incoerenze, tra cui l'assenza inspiegabile delle impronte digitali del signor Bowdich sulla pistola incriminata e l'incompatibilità tra il proiettile e quest'ultima. Ma la confessione di Baker non venne mai ufficialmente smentita, principalmente a causa dell'instabilità mentale del pluriassassino (evidente fin dai primi secondi della chiamata, da quest'ultimo effettuata, alla centrale di polizia), la cui testimonianza si ritenne, perciò, poco affidabile.

Oggi, quando nei giornali e nelle conversazioni comuni si parla di questa storia, ci si riferisce all'assassino con l'appellativo "Killer dei ratti", un po' per quel piccolo cimitero di topi dietro la sua casa, un po' per la frase che lo stesso Eric Bowdich, dal giorno del suo arresto, fino alla fine della sua vita, continuò a ripetere e a scrivere ovunque gli capitasse, ossessivamente: "Credevo fossero ratti, solo dei cazzo di ratti".
   
 
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