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Autore: Longriffiths    21/07/2020    9 recensioni
'Conosco il tuo odore' e 'so che profumo usi' sono due concetti totalmente diversi.
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"L’odore entra nella psiche, la possiede, annulla tutto il resto.
Ogni sinapsi è compromessa, è volta ad un’unica meta.
Lo immagina lì, con lui, privo di tutti i se e i ma che contraddistinguono la loro interazione, privi entrambi dell’ostacolo etico e morale che è la loro natura.
Dei rovelli mentali.
Immagina di potere."
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: Lemon, Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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È fioca la luce nella stanza, quasi estintasi del tutto.
È quando la luce si spegne, che i peccati spiccano nel fragore della loro entità, rifrattivi nel nero circostante, nell’assenza di albore, nella natura dei peccatori che li commettono.

Le mani stringono il tessuto azzurro, la stoffa sfiora la pelle nuda sino alle cosce.
Le nocche sbiancano dalla forza adoperata per avvolgere i lembi della camicia, le mezzelune delle unghie lasciano il segno attraverso il vestiario che è l’unica barriera tra loro ed i palmi, ed è solo per non sgualcirla che la presa si allenta, e i polpastrelli riprendono ad accarezzare gentilmente quella superficie morbida.

Non sa da quanto tempo è lì, figurandosi una presenza che non c’è.
Non sa dire quanti giri d’orologio ha percorso la lancetta nel quadrante che porta al polso.
Sa però che è tardi.

La tentazione è forte, ed è troppo facile per qualcuno che di pecche ci vive, e l’incitazione sovrasta di gran lunga la resistenza che non vuole fare.
Il desiderio chiama nella profondità dell’anima, il corpo che ne è il tempio carnale riflette l’alone trascendentale di cui è permeata la volontà.

Una voglia che non è possibile soddisfare gli cinge ogni tratto, provocandogli il rifiuto.

Non ce l’ha fatta a gettarla via, né restituirla.
Quel pezzo di quel drappo di cui fa parte l’immagine distintiva dell’entità che gli divora lo spirito è troppo prezioso.
Lo avvicina al naso, inspira.

Le pupille aghiforme si dilatano immediatamente, rassomigliano allora più a quelle di un felino che di un rettile.
Lo sente vicino, come non lo è mai stato, come da tempo vorrebbe che fosse, come non ha mai privilegiato di avercelo.
Il corpo reagisce immantinente.

L’odore entra nella psiche, la possiede, annulla tutto il resto.
Ogni sinapsi è compromessa, è volta ad un’unica meta.
Lo immagina lì, con lui, privo di tutti i se e i ma che contraddistinguono la loro interazione, privi entrambi dell’ostacolo etico e morale che è la loro natura.
Dei rovelli mentali.
Immagina di potere.

Travolge quanto un’onda anomala, e non c’è possibilità di bloccarlo, di domarlo.
Si può solo arrendere, può inginocchiarsi in mezzo al letto, e continuare a respirare aggrappandosi a quell’indumento.
Ne vale della sua vita. Potrebbe morire se non lo inalasse ancora.

Schiavo, servo di quell’odore, dell’unico peccato che non ha ancora incarnato, l’unico al quale ambisce.
Peccato per natura.
Perché peccare per un demone significa amare.

Perché concretizzare quell’istante non equivarrebbe al raggiungere un traguardo, non sarebbe smania di conquista.

Sarebbe sentire il sapore della requie, di qualcosa che ha perduto e che neanche considerava più, sino al momento in cui ha sentito di poterlo riavere.

E non sa come apporlo alle intenzioni senza dipingerlo come un fine egoistico agli occhi che lo rendono incline alla follia.
Espletarlo sembrerebbe ingordigia, una manovra estrema e avara, irrispettosa nei confronti di quanto di più etereo esista a quella terra.
Inspira ancora, immagina di confessarsi.

Di essere compreso, di viaggiare congiunto ai suoi voleri.

Invade le narici ed entra in circolo attraverso ogni vena, ogni globulo rosso traina non più ossigeno, ma quintessenza celeste, la stessa che da tempo non fa più parte di quell’ammasso di peccati racchiusi in un unico complesso.
Affluisce copioso, e si arrende alla forza della componente che lo ha pervaso, ancora, e mai così intensamente.

Cala verso il basso, incapace di reggere il peso delle emozioni che gli infonde.

Calano le difese, cala la notte, calano le maschere.
Il sipario si apre ai desideri proibiti allogati nella mente, e non c’è più bisogno di reprimerli. Arrancano come bestie voraci, cariche dell’impazienza di affondare i denti nella preda, estinguere la fame.
È un bisogno al quale non può sottrarsi, non vuole tenersi distante.
Se ne vergogna, ma ha un disperato bisogno di farlo, perché si trattiene da troppo.

Inspira, si piega sul materasso, cede al peso della realtà accarezzandosi il collo con la stoffa, lentamente, e arriva poi a sfregarla ovunque senza decoro.
Tiene gli occhi socchiusi, mentre avverte il suo odore mescolarsi al proprio, nella falsità di quell’ingannevole frangente.
Sogna di tenerlo fermo nella stretta ferrea delle sue braccia che non gli arrecano disagio, pensa a cosa e a come potrebbe essere il calore di quelle mani candide che percorre le sue linee corporee, la sua figura nuda.
Il lambire la sua invitante pelle arrossata dall’imbarazzo, spinta dall’eccitazione del proibito che sta per detenere il controllo.

Pensa alla bocca schiusa e agli ansiti che gli alita sui lobi delle orecchie, all’espressione di piacere sul suo volto dettata dalla lingua biforcuta che istiga le sue zone erogene.
Pensa alla stretta delicata sul proprio pube, alle dita che giocano con la sua peluria, al pollice che sfiora l’estremità della sua durezza, al liquido che prepara la bramosia.

Il bassoventre si gonfia, aumenta il suo livello sino a raggiungere l’apice.
Come i battiti del cuore che suo malgrado possiede, alla quale dà le colpe delle sue debolezze, fragilità che lo rendono migliore.

Che lo hanno aiutato a superare l’idea dell’eternità terrena, che lo aiutano ancora e soprattutto adesso a superare le sue paure, a combattere il fato già scritto, ad affrontare l’idea della morte definitiva.
A rendere dolce e acre l’idea di dovergli dire addio, di separarsi senza aver fatto tutte le cose che avrebbero ancora dovuto condividere.
Perché il mondo aveva ancora da tanto da offrire a loro due.

Fragilità che lo avevano portato nel tempo a soppesare sé stesso.
Che gli ricordano i loro ruoli, che non può ignorare, né cambiare.
Era una condizione che esisteva, e non poteva essere evitata.
Fragilità che non riesce ad accettare, perché ad un solo senso.

Non sopporta più la circostanza in cui si trovano.
La distanza figurativa è radice di paranoia, motivo di insania.
E nella sua mente soltanto sono liberi di esplorarsi a vicenda senza le catene che li frenano, oltre la barriera che le fazioni gli hanno disposto innanzi, e che loro hanno già parzialmente superato. Ma mai più di così, di una decina di spanne immaginarie.

Conosceva il suo odore.
E bastava a creargli il vortice nero dal quale non riusciva a uscire, e che sempre lo trascinava via, quand’era solo, e pensava a lui.

Inspira ancora, lasciandosi andare a versi gutturali.
Fa presa sulla stoffa schiacciandola al viso e la sfiora con le labbra sottili, si aiuta col gomito e porta a toccarsi il petto.

Dove vorrebbe che i riccioli argentei gli solleticassero l’epidermide, dove vorrebbe che lui ci vedesse una casa da occupare, un rifugio in cui ritrovarsi.

In quel petto che tante e tante volte ha provato a scavare per cercare e trovare una gemma che non brillava più, e a ridarle vita e luce.
A costringersi forzatamente a formalizzare i pensieri che tanto lo avevano spaventato, ma di cui poi, aveva preso coscienza.
Aveva compreso che era inutile fuggire da qualcosa che gli abitava dentro.

Al sicuro dell’ombra della sua camera, smette di fingersi indifferente a quell’odore.
Smette di opporre resistenza all’alterazione degli ormoni e alla loro frenetica corsa, che tiene secreta e reclusa internamente.

Porta l’altra mano all’addome. Risale lentamente massaggiandosi le membra, si stringe i pettorali graffiandosi la pelle. Scie rossastre gli si formano al passaggio della lamina delle unghie, impresse con forza su sé stesso.
Stringe i pugni, inspira ancora.

Vorrebbe che fosse reale.
Abbraccia la stoffa come se fosse il frutto autentico delle sue fantasie, arpionandosi alla sensazione di avercelo addosso, premendola su di sé come se il rischio che gli fosse sottratta, che sparisse da un momento all’altro, si stesse per compiere.

Si lascia invadere e inebriare dalle scosse che gli danno i brividi di un piacere metaforico, appoggia il capo lateralmente sul materasso, e tiene il tessuto contro di sé.
Simula ciò che vorrebbe, sentendosi uno sporco vigliacco.

Si immagina lasciare che ciò che lui gli stimola si palesi in forma verbale, che l’angelo comprenda quella sua inclinazione, che si muova per assecondarla, per viverla, per goderne con sé in eterno, un per sempre spezzato dall’Apocalisse imminente, un’entità temporale infinita che sta volgendo al termine.

Vorrebbe fargli sapere tutto quello che nasconde.
Che l’idea di morire non gli pare tanto brutta, se i suoi ultimi attimi venissero trascorsi insieme a lui.

Farebbe di lui il suo primo riferimento, l’anima da venerare, il corpo con cui unirsi.

Vuole che sappia che lo farebbe con emozione, mosso dai sentimenti.
Che non userebbe il suo corpo per sollazzarsi, né per tentare invano la salvezza.
Vuole che sappia che è consapevole che la sua è una condanna irreversibile, ma non gli impedisce di sentirsi vivo, di provare quel che sente per lui.
Che va oltre il corpo, ma che quello è l’unico modo che ha per esprimersi.
Perché è dannato e costretto a quei modi, perché non sa più come si coltiva niente, perché non si sente degno delle parole che genera il cuore di un angelo.

Pensa allora alla sua voce.
Alla melodia che smuove i suoi voleri. Che penetra in ogni arto e gli dà costantemente la sensazione di volare, anche quando è ancorato alla terraferma.

Pensa alla sua voce sussurrargli caldi inviti, che lo incita a proseguire, a farlo proprio, a togliere qualunque inibizione, ad accrescere la sua libido.
Lo pensa dirgli che lo ama e lo desidera.
Sussurra il suo nome così tante volte nella sua mente, che crede di sentirlo sul serio.

Ingente è la sensazione che lo pervade.
Non tollera di più di così.
Scivola in basso languidamente, fa presa sul suo membro pulsante.

La mano gli si stringe intorno, esattamente nel centro.
Non servono stimoli esterni, lubrificazioni aggiuntive, per rendergli la tortura scorrevole.
Si lascia manovrare dai fili della volizione, massaggia la sua mascolinità vibrando sotto il suo stesso tocco.

È Aziraphale che gestisce il suo piacere.
Lo attira nell’occhio di un ciclone di cupida frenesia, si lascia portare nelle sfumature dell’eros percorrendone i sentieri con cautela.
Guida le sue intenzioni pacatamente, mansueto.
La mano esercita molta più pressione, raggiunge la base e risale al vertice, con una lentezza estenuante, tanto da indurre la fronte ad imperlarsi, si sente appiccicoso, salato, avvolto dal suo stesso sudore.

Non importa se non sta accadendo sul serio.
Se serra le palpebre, ecco che lo vede, può bearsi e dannarlo, possono fondersi, possono aprirsi e toccarsi laddove le mani non possono, petto sul petto, i tamburi dei muscoli involontari primari che sbattono l’uno contro l’altro.

Si sente male, a tratti feccioso, solo all’idea di condurre un essere tanto puro quanto lui a ciò che di più impudico esista, mentre immagina di appropriarsi del piacere del suo angelo, di incidergli i solchi dei denti nella carne, di apportargli macchie viola scure al collo, al petto, all’addome.
Immagina di accarezzargli le clavicole con le due estremità della lingua biforcuta, di massaggiargli e delineargli cerchi lungo tutto il busto e tutta la meraviglia che ha da offrire quel corpo, se solo potesse metterci su le mani e l’anima.

Immagina di voltarlo, stenderlo sotto di sé, piegarsi su di lui, lasciare scie umide di saliva a partire dal retro delle caviglie, risalire lungo i polpacci e poi le cosce piene di splendida carnalità, soffermarsi lì per regalargli brividi, accarezzargli le terga, sfiorare la linea della schiena con la punta del naso, impossessarsi della parte alta delle spalle.

È lì che gli infliggerebbe la più dolce delle torture, quella per cui solo un demone dotato dell’afflusso di un’energia che è frutto dell’ultimo bagliore di purezza passata, che ancora conserva solo e soltanto per il suo amato, può arrivare a trasmettergli.
Soltanto lui, soltanto loro.

Le braccia vanno ovunque su quel corpo da blandire con impazienza, con cura, ogni lembo di pelle, ogni centimetro a sua disposizione, accarezzare, baciare e mordere, mentre consumano un bacio che sa di tempesta, di proibito, di unico e solo, un sapore dedicato soltanto a due esseri che hanno scelto di stare per conto proprio.

L’erezione scatta da sé, il nervo che la attraversa sembra stare per esplodere.
Non contiene più tanta brama, non sente che basta quel ritmo.
La mano si appresta a correre, inizia a spazientirsi, asseconda i suoi bisogno, chiede di più, il massaggio cauto di un angelo non può essere retto troppo a lungo.

Immagina di scendere, di incontrare la peluria bionda del bacino.
Immagina di avvolgerlo con le labbra, di vederlo impazzire sotto i muscoli della bocca, che gli si stringono intorno come farebbe un rettile costrittore.
Aziraphale freme, gli chiede di più.

La lingua si muove all’interno della sua bocca chiusa, mentre immagina di dargli prova del suo amore, di quello che riesce a scatenargli con un solo pensiero.
L’estremità del membro si inumidisce ancora, goccioline lucide che precedono lo stadio finale fuoriescono dal foro.

Non pensa di ricevere quelle gesta, immagina di dargliele, perché il solo pensiero di essere in grado di portarlo all’estremo dell’appagamento fisico lo esalta da impazzire, e non ha bisogno di sentirsi massaggiare a sua volta.

S’illude di fargli da maestro, di insegnargli a conoscere il suo corpo, ciò che gli può piacere, i suoi bisogni, i suoi tempi e i suoi limiti.
Come lui da tempo ormai ha imparato a conoscere il proprio, con cui ha tanta confidenza, da sentirlo scattare a un minimo pensiero.

È la creatura candida di moralità che insieme a lui non perderebbe, a pregarlo.
Suppliche amabili e imploranti intrise di forbita passione riempiono l’udito, un’allucinazione splendida e palpabile nella sua inesistenza, che lo inganna e lo rende un matto senza più senno, senza speranze, molto più perso di quanto non sia già.

Nella sua mente, Aziraphale non ha paura.
Nessuno di loro due teme la loro posizione nei riguardi del pianeta che abitano, terreno e ultraterreno. Non temono gli eventi, non temono i superiori, non temono il nome e le capacità del nascituro che lui stesso ha portato al mondo, e che a breve, per opera sua, uno di loro scomparirà.

Non temono il significato di ritorsione, non temono la guerra, non temono punizioni, combattono mascherando la volontà di preservare quel luogo di appartenenza, quando invece l’unica cosa che importa è stare insieme, ancora, malgrado l’unica via sia la semplice amicizia. Gli va bene tutto, purché resti con lui, faccia parte della sua vita.

Ma nella sua mente, non è così.
Può permettersi di mescolarsi a lui, entra scivolando flebile, si compiacciono delle loro espressioni, delle loro movenze, si spingono l’uno all’altro incontrandosi sempre più a fondo, e la mano segue quelle gesta.

Geme, immaginando le unghie dell’angelo nelle sue spalle.
Inspira l’odore che sa di benessere, che annulla ogni angoscia, rimuove i tormenti.
Lo guida in un luogo che disperde nell’ambiente la forza del loro amore, la terra si ferma sotto quell’amplesso perfetto, sotto la combinazione delle loro urla, il loro fisico accorpamento è troppo forte per essere contenuto, i movimenti si amalgamano, esistono solo loro.

Le vibrazioni che sta emettendo fluiscono fuori dal corpo da dentro lo spirito, attraversano le mura, corrono le vie di Londra, si fermano quando raggiungono la creatura che gli sta procurando quello stato di instabilità, di follia pura, di puro piacere.

Lui può sentirle a qualche chilometro di distanza, ne avverte la presenza, avverte amore.
Chiaro, limpido, non sa da dove proviene, ma sa di esserne l’epicentro.
Nella sua libreria chiude gli occhi e si bea della sensazione della forma spiritica che tenta di abbandonare il corpo e raggiungere quella fonte che lo sta chiamando per nome, lo attira forte, deve concentrar le forze per non discorporarsi.

La mano nel buio appartamento segue quel che sarebbe giusto, avanza piano per non disturbare la liliale castità della creatura che gli si è concessa volontariamente, con la sua indecente disperazione.

Cede, è troppo da tenere.
Hanno atteso troppo, è un tempo in scadenza il loro, stanno per separarsi.
Non vuole, non accetta il forzato abbandono, lo tiene con sé, stringe la camicia avanzando veloce, indossa l’indumento senza perdere il contatto con l’eccitazione crescente.

Si accarezza, si tormenta, si graffia, stringe il cuscino tra i denti con prepotenza.
Si lascia inondare da una moltitudine di suggestioni grondanti, ora è rabbia verso la codardia che gli impedisce di provarci, è la voglia di riscoprire una felicità che più non prova senza di lui, è l’euforia di abbandonarsi all’eccitamento, il sangue va in ebollizione, non è capace di tenere a freno le fiamme di un demone.
È una condanna assai peggiore di quella che gli hanno inflitto.

Si accascia sul materasso, supino.
Il melodico timbro vocale dell’angelo gli annuncia il desiderio di sentirlo più a fondo.
Afferra il membro con entrambe le mani, si stuzzica le ghiandole sottostanti, soddisfa la voluttà col piacere autoindotto, Aziraphale gli bacia possessivamente il collo mentre gli si dimena addosso, arriccia le mani nei suoi crini ramati, gli tiene le guance e avvolge la lingua con la propria, si baciano fin quasi a mancare i respiri, avidamente, necessitano di quel contatto, si nutrono dei loro fiati, nelle sue capricciose fisime.

Si cercano lussuriosi, mappano ogni parte dei loro corpi, si trovano e si concedono senza contegni, gli affondi sono sempre più insistenti, la carne che lo ospita sempre più calda e bolle di fervore, permissivo si attacca a lui, lo accoglie come se fosse stato creato apposta per deliziarsi insieme.

L’onanismo aumenta, le spinte tra le mani prendono intensità, gli ansiti riempiono la stanza, il silenzio si spezza tra le invocazioni e i gemiti sommessi.

Immagina di ammettergli tra gli schiocchi dei baci il suo amore, da quanto cova in sé la sete di lui, il desiderio di trovarsi accanto il suo soffio ogni giorno e ogni notte, sproloquia parole che non dirà mai, a cui può dare sfogo solo nell’autoerotismo.

Aziraphale si emoziona, mosso dalla commozione anche in quello stato, madido di sudore, arrossato in volto eburneo dal pudore corrotto, infetto da una depravazione che asconde integra virtù.

Gli chiede scusa per l’insofferenza nel trattenersi, nell’andare docilmente, nel restare in una linea a lui accettabile.
Spinge rincalzando le spinte, frettolosamente, e l’angelo rasenta le sua guance con le bionde ciglia, sbattendo gli occhi per non perdersi un solo secondo di quel che trasuda dai loro sguardi innamorati, bisognosi di aversi.

Immagina così vividamente di cingere i suoi fianchi e portarlo verso di sé a strusciargli sul bacino, che quasi sente il suo peso quando tocca le mani col bassoventre.
Si carica inesorabilmente, tocca un punto troppo sensibile, sente le scosse, i loro nomi, nella sua mente cozzano con i gemiti che sono grida incontenibili, si toccano le labbra, ne percorrono la lunghezza con la lingua, le intrappolano in un risucchio dissoluto.

E’ un incontro mortale, ma niente lo rende più vivo.

Affanna sempre di più, il corpo lo avvisa, non può tornare indietro, sta per perdersi, sta per raggiungere il luogo ambito.
L’angelo lo istiga, si muove, ha lasciato andare ogni freno, desidera sentirlo, perdersi, dannarsi senza cadere, lo abbraccia, talmente forte da sentire il costato sfondare il busto dell’amato e incastrare le ossa alle sue.

Innalza e abbassa il bacino, si congiunge a lui, lo ama e lo adora, si ricambiano con veemenza, tra l’emozione e il trasporto tanto ubriacante da stordirli, si sporca del suo stesso compiacimento, il fiotto caldo del liquido perlaceo gli imbratta le mani, cola sulla peluria, gli dà sensazioni inspiegabili, gli porta via tutto.  

L’Apocalisse è lontana ed è soltanto un epiteto, e l’attesa della morte non fa più paura se vissuta insieme, in quel modo che non ha il coraggio di portare alla luce.

Sospira affranto, sollevando lo sguardo.
L’immagine dei loro corpi insieme svanisce di colpo, e l’immagine della felicità lo abbandona cattiva.
Nel suo letto freddo, da solo, desidera rifarlo e desidera non averlo fatto, non in quel modo.

Comprende il modo in cui si sono probabilmente sentite le persone che nel corso della sua vita, ha lasciato ai loro fantasmi ad atto compiuto senza l’ombra di dolcezza, senza emozione, perché quando aveva aperto gli occhi e li aveva guardati in faccia, non avevano le fattezze dell’uomo che gli aveva rubato la scena.

Gli amanti occasionali che da anni non frequentava più, perché tutti avevano il viso del suo angelo se calava le palpebre, ma non il suo odore, e da un tempo immemore ormai non gli davano calore né appagamento.

Neanche l’illusione lo aiutava più.

E preferiva condursi da solo in quel moto di fantasia che gli infliggeva un bene tossico, aspettando il momento in cui si sarebbero detti addio.

Il soffitto della camera perde nitidezza, si perde prendendo forma in un quadro astratto tra la lucentezza dell’emozione liquida che gli invade gli occhi, e che gli scende su una guancia, alimentata dall’impotenza.

Una goccia si palesa all’angolo dell’occhio, l’unica che ha preso una traiettoria differente dalle altre che ormai gli inondano il viso.
Si ingrossa sino a ingigantirsi come la capocchia di uno spillo, troppo vicina alla stoffa.
Si lascia andare fulminea, creando una pozza di rimorsi che stona nel tenue colore della camicia, un’unica piccola macchia assorbita in essa.
Crea venature intorno, si espande sempre di più.

Gli ricorda troppo la sua assenza, il fatto che vorrebbe averlo lì con sé.

Rovina il momento, rovina il pensiero, si porta via i postumi del piacere che ancora davano presenza, lo priva di quel piacere come Crowley stesso si stava impedendo di provarlo come voleva davvero, incolpando se stesso di rovinare tutto costringendosi al masochismo dell’anima, al dolore inutile, tenendosi per sé soltanto l’ipotesi di come sarebbe vivere i suoi, i loro ultimi anni, se il suo migliore amico sapesse che lo ama.

Se sapesse come lui, che odora come il suo più profondo desiderio.
Chiude le palpebre, addormentandosi tra le lacrime, maledicendo il giorno in cui aveva scelto di crogiolarsi nel silenzio.

Niente è più assordante, delle parole taciute.


                                                                 * * *


Si risveglia lentamente, e non di soprassalto come in molte delle occasioni che hanno preceduto quel mattino.
Ogni cosa è differente, e non crede di potere mai più avere incubi, dal momento che ognuno aveva preso il posto dell’altro.

Stare in quel corpo lo aveva allietato ancor di più che stringere una camicia.

Un indumento che non serviva più, di cui non aveva più paura che potesse scolorire o perdere ciò che lo legava all’idea di tenersi vicino al suo amato nell’apparenza, ora che Aziraphale gli era accanto materialmente, nel suo letto nel quale tutti i suoi gemiti strozzati avevano trovato la salvezza della realità.

Di sua spontanea volontà, libero di farsi amare, consapevole di essere ricambiato nel travaglio che entrambi hanno vissuto sulle loro pelli, nascosti dal resto del mondo si erano confessati amandosi come solo la felicità della consapevolezza che ogni domani fosse da scrivere per conto proprio avrebbe saputo dare loro.

Sembrano lontani anni luce i momenti in cui gli veniva negato quell’intimo frangente, la morsa allo stomaco patita era talmente insignificante davanti al loro abbraccio, adesso che potevano ostentare il loro amore che più niente e nessuno avrebbe minacciato, da risultare piatta e priva di importanza.

Aboliva tutta la sofferenza, la falsità delle menzogne dette agli altri e a loro stessi per seimila lunghi anni, nel quale si erano creati uno scenario che poteva essere piacevole solo sotto mentite spoglie.
La loro vicinanza ora era vera, era reale, era tangibile.

Tutto ciò che vedeva quando chiudeva gli occhi erano i sorrisi dell’angelo, le sue iridi cerulee piene di sé, della sua veduta riflessa nell’emozione che gli leggeva all’interno.

Tutti i loro vestiti erano abbandonati ai piedi del letto, e nell’aria, per tutta la stanza aleggiava una fragranza ancor migliore, che era diventata in men che non si dicesse la loro preferita, quella che li avrebbe accompagnati per sempre.
Quella dei loro umori insieme, pregni di amore e desiderio.

La sua presenza, vera e toccabile gli lenisce ogni supplizio archiviato in qualche buio e recluso angolo della psiche, in compagnia dei brutti pensieri che più vuole ricordare.

Adesso sono dalla loro parte, liberi di scegliersi, liberi di prendersi, liberi di amarsi per l’eterno dei loro giorni immortali.



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Dedico questa piccolezza a Benni
https://efpfanfic.net/viewuser.php?uid=623339, che mi ha dato una gioia enorme.
Nella speranza che possa scorgere e apprezzare quel che mi ha trasmesso dall’idea di raggiungere un traguardo enorme come lo è una relazione minacciata da un’orribile prospettiva finalmente libera di vivere, non c’è cosa più bella della vita, specie con la persona con cui si ama e si lotta per la felicità.

Un grazie a Lory 
https://efpfanfic.net/viewuser.php?uid=781448 la mia dolce metà che mi allieta ogni giorno, che ha avuto la pazienza e la gentilezza di un angelo che è di leggere in anteprima questa cosa e che mi ha letteralmente fatta piangere, perché giuro se potessi vi metterei qui la registrazione vocale di ciò che mi ha detto che è stato l'unico vero motivo per il quale mi sono sentita veramente sicura, e che di punto in bianco giorni fa mi ha inviato la meraviglia che trovate qui in basso -ci inondiamo di foto da mattina a sera tipo- e mi è partito tutto ciò!

Grazie a tutti per il vostro tempo, spero possa piacere anche a voi.
A presto!



 
   
 
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