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Autore: Stella Dark Star    22/07/2020    2 recensioni
In un giorno d'estate, Dazai porta il proprio figlioletto al cimitero per raccontargli la storia di Oda, l'uomo che di fatto era stato il suo più caro amico. Mentre stanno per rincasare, vengono raggiunti da Chuuya, il quale lo informa di avere un'importante notizia riguardo certi fuggiaschi. Si tratta di Mafuyu (figlio di Mori ed Elise) e Moriarty (figlio di Ranpo e Yosano). Per questo si recano da Ranpo con la speranza di smuoverlo dal suo stato vegetativo dovuto al trauma e al dispiacere.
Lo stesso giorno, nelle stesse ore, il bellissimo e seducente Riku (figlio di Akutagawa e Atsushi), ormai giovane uomo con un'auto da urlo e agente della Port Mafia al servizio diretto di "nonna" Chuuya, approfitta del tempo libero per stare in compagnia di Hikaru, un adolescente pieno di vita con cui ha una relazione sentimentale (e focosa!) Il ragazzo è figlio di Kenji...!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Kenji Miyazawa, Nuovo personaggio, Osamu Dazai, Ranpo Edogawa
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'SHIN+SOUKOKU SAGA'
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Dazai x Chuuya
Riku x Hikaru:
Questioni di famiglia
(parte 1)
 
La vista da lassù era incredibile, in grado di togliere il fiato alla prima occhiata. Il Yokohama Bay Bridge si estendeva maestoso in tutta la sua lunghezza, fungendo da linea di confine fra il cielo ed il mare, mentre il sole che splendeva radioso e alto nel cielo spargeva i propri raggi bianchi e gialli illuminando ogni cosa di luce divina. Era una tipica giornata d’estate, di quelle che in genere causano disagio con un’insopportabile calura e un’umidità insostenibile. Ma lassù, in quell’area verde lussureggiante affacciata alla baia, l’aria di mare mitigava la temperatura piacevolmente, rendendola più fresca e leggermente frizzante. La stessa aria che giocosa s’inoltrava nella folta chioma bruna e leggermente brizzolata di Dazai, scompigliandola, mentre la luce baciava il suo volto sereno e il suo sguardo si perdeva all’orizzonte. Sottobraccio portava un piccolo cestino da picnic in vimini, con ampio manico tondo e un merletto sul bordo superiore dove poggiavano le due ali ben chiuse per proteggere il contenuto. Con la mano scostò un ciuffo che gli era finito davanti agli occhi, ed ecco che il suo sguardo cambiò direzione sul bambino che stava scendendo le scale di pietra saltando i gradini uno ad uno.
“Akira, fai attenzione.”
“Sì, papa!”
Non era una risposta detta tanto per, il piccolo era obbediente e ascoltava sempre quello che gli dicevano gli adulti. Per accontentare il papà, ad ogni gradino cominciò a soffermarsi per prendere bene le misure prima di saltare. Era un amore di bambino, sia per il carattere che per l’aspetto. Per proteggerlo dal caldo e dal sole, era stato vestito con un completino composto da camicia bianca a maniche corte, col colletto ricamato in una fantasia con filo nero, e di lunghezza che sfiorava i fianchi, e pantaloncini sopra il ginocchio, di colore beige, con piega al centro delle gambe e patta chiusa da un bottone dorato. Inoltre indossava calzini corti bianchi col merletto e un paio di sandalini neri chiusi in punta, mentre sulla testa portava un cappellino bianco di paglia a tesa sottile e decorato da una fascetta nera. Un occhio scrupoloso che fosse andato a vedere le etichette, avrebbe scoperto che si trattava di capi e accessori fabbricati in Francia, il Paese da cui Chuuya acquistava praticamente ogni cosa, sia per lui che per il figlio.
Dazai raggiunse la scalinata quando il piccolo era ormai giunto alla fine e lo attendeva guardandolo dal basso con gli occhioni nocciola illuminati di entusiasmo. Avendo un braccio sollevato per tenere il manico del cestino nell’incavo del gomito, gli bastò puntare il dito per indicare la direzione da prendere, ovvero a sinistra. Quindi aggiunse: “Al primo albero che trovi, sali le scale.”
“Sì!” Akira aprì le braccia per simulare le ali di un aereo e, testa china in avanti, volò verso la direzione indicata.
Dazai scese la scalinata senza fretta, godendosi il vento fresco che s’inoltrava al di sotto della comoda camicia a maniche corte, unico accorgimento contro il caldo. Per non rischiare di perdere eleganza, infatti, aveva indossato dei pantaloni lunghi color crema e le scarpe marroni chiuse. In effetti, a guardarli, padre e figlio sembravano dei modelli pronti per posare ad un servizio fotografico per una rivista di alta moda!
Arrivato nei pressi di una scalinata in salita, Akira alzò lo sguardo e vide un grande albero dalla chioma rigogliosa. Puntò il ditino e chiese con voce squillante: “E’ quello, papa?”
“Mh.” Rispose semplicemente, mentre lo raggiungeva. Akira lo precedette di qualche passo e si fermò di fronte ad una lapide di marmo grigio perlato. Dazai giunse in breve  al suo fianco.
“La settimana scorsa mama ti ha portato a far visita alla tomba di una persona che in passato è stata importante per lei. Ricordi il nome?”
Akira sgranò gli occhioni. “RiMmh… Rimbaud?” Il punto di domanda era superfluo. La sua pronuncia era perfetta. D’altra parte, nei suoi primi quattro anni di vita Chuuya gli aveva insegnato molte parole francesi, che si trattasse di cibi, oggetti d’arte o abbigliamento, quindi non c’era da sorprendersi!
“Esatto. E oggi ci tenevo molto a portarti in questo cimitero per parlarti di una persona che è stata molto importante per me. Un uomo buono e dal cuore puro, che ho avuto la fortuna di avere come amico, molti anni fa, e che mi ha reso una persona migliore.”
“Prima di conoscere lui eri cattivo, papa?”
Ridacchiò. “No! Non proprio… Diciamo che ero convinto di essere nel giusto, prima che fosse lui ad aprirmi gli occhi.”
“Come si chiamava?”
“Il suo nome era Oda Sakunosuke. Ma io lo chiamavo…” Il vento gli mosse nuovamente i capelli, un sorriso gentile si disegnò sulle sue labbra. La voce gli uscì dolce e leggermente sospirata nel pronunciare... “Odasaku!”
Akira passò lo sguardo dal volto del padre alla lapide, un paio di volte, per poi andare ad aprire un’ala del cestino e infilarvi entrambe le manine per afferrare qualcosa sul fondo.
“Akira, cosa fai?”
Il piccolo tirò fuori i contenitori trasparenti, i quali conservavano all’interno ognuno una preziosa e costosa pesca adagiata su un lettino di tessuto in nylon, e li posò davanti alla lapide.
“Li offro al tuo amico, così possiamo pregare!”
Dazai gli lanciò un’occhiata storta. “Non ti ho ancora detto niente di lui. Non è che sei già affamato e hai fretta di mangiare quelle pesche?”
Akira scosse il capo, facendo agitare i riccioli rossi che fuoriuscivano da sotto il cappello e gli incorniciavano il viso tondo. “Voglio solo ringraziarlo. Hai detto che è stato lui a farti diventare così. E a me piaci. Mi piaci tanto, papa!”
Il sorriso sincero con cui lo disse lasciò Dazai senza parole e gli inumidì gli occhi per la commozione. Accidenti, quel bambino era un dono degli dei. Per non farsi beccare in flagrante, finse di spostarsi una ciocca di capelli che in realtà non gli dava affatto fastidio, quando in realtà era solo una scusa per darsi il tempo di ritirare le lacrime. Lo imbarazzava farsi vedere troppo emotivo! Nel frattempo, Akira si mise in ginocchio e sistemò i due contenitori. Quando anche Dazai fu pronto, posò il cestino e si mise in ginocchio a sua volta. Entrambi unirono le mani in preghiera e chiusero gli occhi. Per un paio di minuti, l’unico rumore attorno a loro fu quello del vento e di alcune cicale che cantavano da qualche parte fra l’erba. Poi Dazai batté le mani e il figlio lo imitò.
“Bene. Spostiamoci un po’, Akira.” Si rialzò e indicò al bambino di sedersi al lato opposto della lapide, quindi lui si accomodò poggiando la schiena contro il tronco dell’albero. Poter stare all’ombra della grande chioma, essere accarezzati dal vento ed essere seduti sull’erba morbida e fresca erano dettagli non da poco in previsione del lungo racconto.
Dazai intrecciò le dita delle mani posate in grembo e prese respiro.
“Quella che andrò a raccontarti è una storia dura e colma di sofferenza, ma che ti lascerà qualcosa nel cuore e ti darà un importante insegnamento.”
Akira fece cenno con la testolina, poi, per mettersi ben comodo come il papà, incrociò le gambe sull’erba e si tolse il cappellino che poi posò nel triangolo vuoto creatosi fra di esse. Ora che era senza, si potevano vedere i suoi capelli bicolore, la chiazza castana sulla cima che scendeva diramandosi nella chioma rossa. Una nespola giapponese in piena regola! Quel nomignolo gli era stato dato da Chuuya quando era solo un neonato, ma poi col passare del tempo era diventata nota a tutti la somiglianza col frutto e non era insolito che gli amici e i ‘familiari’ lo chiamassero così accarezzandogli la testa!
Dazai cominciò a raccontare, le parole presero a fluire dalle sue labbra come l’acqua di un ruscello che scorre tranquillo nel bosco. Non si era preparato un vero  e proprio discorso, aveva preferito che i ricordi riaffiorassero spontanei durante il racconto, che si trattasse di sciocchezze, di momenti comici oppure di fatti gravi, lui non tralasciava nulla. L’unica accortezza era quella di utilizzare vocaboli semplici affinché il piccolo capisse, o per lo meno soffermarsi a dargli spiegazioni per i concetti più complicati che un bimbo della scuola materna non poteva ancora comprendere appieno. E non mancava di studiare attentamente le sue reazioni in base a ciò che gli stava narrando. Com’era prevedibile, le parti che più lo colpirono furono quelle legate ai cinque orfanelli che Oda aveva salvato e di cui si era preso cura fino all’ultimo istante delle loro brevi vite. Per un qualche motivo ricordava con nitidezza tutto ciò che Oda gli aveva raccontato in passato, riguardo i bambini, e fu lieto che quelle confidenze fatte con leggerezza ora potessero essere utili. L’espressione di Akira era sognante nel sentire della vita quotidiana al ristorante di curry dove vivevano, sorrideva delle parti in cui Oda andava a trovarli e giocava con loro. Ed infine Dazai arrivò a narrare la parte più dolorosa, che lui stesso sentiva nel profondo del cuore come una spina conficcata che non c’è modo di estrarre. Nessuna sorpresa che suo figlio rimase turbato nel sapere della morte degli orfanelli. Per lui doveva essere un’immagine agghiacciante, spaventosa, che di certo non avrebbe dimenticato facilmente. E poi i suoi occhi turbati si inumidirono e delle lacrime di sincera tristezza gli solcarono il visetto tondo per il sacrificio di quell’uomo che era così importante per il suo papà.
“Non ho mai capito fino in fondo il perché del suo gesto, il motivo per cui abbia scelto di sacrificarsi pur di vendicare quei bambini. Non l’ho mai capito…fino a quando non ho avuto te. E ora non passa giorno senza che io preghi affinché non ti accada nulla di male. Altrimenti sono certo che ne morirei.”
Ora che era giunto alla fine del racconto, Dazai si rese conto di essere tra due fuochi. Da un lato si sentiva in colpa per aver fatto piangere il suo bambino, mentre dall’altra era come se il fardello che portava si fosse alleggerito, dopo averlo condiviso con qualcuno. Mai a nessuno aveva detto tutti quei dettagli, nemmeno a Chuuya, eppure aveva deciso di farlo con suo figlio. E per questo ricevette un’inaspettata ricompensa.
Con uno scatto agile, Akira gli fu addosso, il viso premuto contro la sua spalla e le braccia a stringerlo saldamente attorno al collo, mentre il suo pianto si faceva più intenso.
Dazai lo avvolse in un abbraccio. Forse non avrebbe dovuto dirgli quelle cose… Forse era troppo ancora troppo piccolo…
Papa…sniff!” Sollevò la testa e lo guardò con occhioni lucidi, il labbro tremulo e rosso. “Ti prometto che starò sempre attento. Sniff! Ti ascolterò e ti rimarrò vicino, così nessuno potrà farmi male.” Deglutì rumorosamente e riprese. “E tu non dovrai vendicarmi e vivrai per centinaia di anni.”
Quel bimbo era meraviglioso. Aveva un cuore immenso e una bontà d’animo che né lui né Chuuya avevano mai posseduto. Non ne era ancora certo, però non era la prima volta che si ritrovava a pensare che alcuni lati del suo carattere assomigliassero ad Atsushi. Era probabile che durante il passaggio di potere da Atsushi a Chuuya fosse rimasto qualcosa di lui e che avesse preso vita in Akira. E se era davvero così, non poteva che esserne grato per averglielo trasmesso.
Stampò un bacio sulla fronte di Akira e sussurrò ad occhi chiusi: “Grazie, amore mio.” Quindi prese un fazzoletto in cotone dalla tasca e si premurò di asciugargli il visetto umido e di fargli soffiare il nasino gocciolante. Indubbiamente portarlo in quel luogo era stata una buona idea.
In quel momento giunse il suono delle campane dalla chiesa che era in fondo al cimitero. I rintocchi erano undici.
“Oh, direi che possiamo fare uno spuntino!”
Akira tirò su col naso un’ultima volta e si stropicciò gli occhi coi pugnetti. “Sì. Ho fame, papa.”
Dazai ridacchiò, quel piccoletto era un buongustaio e non c’era verso che saltasse un pasto o uno spuntino! Fece per alzarsi, ma Akira lo anticipò e andò a recuperare il cestino e le pesche. Si occupò di stendere sull’erba la tovaglietta e di preparare i piattini e le forchettine, mentre il suo papà si impossessò del coltello e si occupò di sbucciare le pesche e tagliarle in spicchi.
Mangiarono per lo più in silenzio, dopo un racconto simile era normale non aver voglia di scherzare o di intavolare conversazioni superflue. Poi, finito il piccolo picnic, rimisero stoviglie e rifiuti dentro il cestino, porsero i saluti ad Oda un’ultima volta e ripercorsero a ritroso la strada che avevano fatto in precedenza. Questa volta camminando fianco a fianco.
Assorto in pensieri e con lo sguardo rivolto ai gradini, Dazai tornò al presente sentendo gridare: “Mama!” Sollevò lo sguardo e vide Akira correre verso Chuuya, il quale lo prese in braccio al volo e lo sollevò per stampargli un bacio sul viso. Notò che era giunto lì con l’auto e che indossava la tenuta da lavoro estiva, il che significava niente giacca e maniche della camicia arrotolate ai gomiti. Per il resto, pantaloni lunghi neri, scarpe col tacco e cappello non mancavano mai!
“Akira, in auto c’è una sorpresa per te! Perché non guardi?” Il tono dolce era riservato solo a suo figlio. Lo mise a terra e si spostò per lasciargli lo spazio di aprire la portiera.
Akira allungò lo sguardo ed ecco che i suoi occhi si illuminarono: “Obaa-chan!” E subito saltò sul sedile come un cucciolo contento!
Nel mentre, Chuuya e Dazai si incontrarono qualche passo più in là, sul marciapiede.
“Scusami se sono venuto fin qui. Oggi è il tuo giorno libero…”
“Non fa niente. Deve essere qualcosa di importante.”
Il suo sguardo già serio lo divenne ancora di più.
“Credici o no, hanno trovato una traccia dei due.” Nel dire quell’ultima parola, Chuuya sgranò gli occhi, per lanciargli un segnale.
Dazai abbozzò una risata ironica. “Prima o poi doveva succedere. Non potevano essere svaniti nel nulla!”
“E’ per questo che ti ho raggiunto. Dobbiamo avvisare subito Ranpo e la Dottoressa.”
Dazai chiuse gli occhi, come in meditazione. “Sì.” Li riaprì e fece un cenno all’auto. “Ed ecco perché in auto c’è Kouyou e non Riku.”
“Sì, gli ho dato la giornata libera, è meglio non coinvolgerlo in questa storia. E Kouyou si è offerta di badare ad Akira fino al nostro ritorno.”
Come avesse udito il proprio nome, la signora Kouyou uscì dall’auto, subito seguita dal piccolo. Si avvicinò a loro e prese il cestino dal braccio di Dazai.
“Questo lo riporto indietro io.” Visto che Akira l’aveva seguita come un cagnolino, lei lo prese per la manina e disse: “Va bene se facciamo una passeggiata fino a casa? Appena arriviamo ci mettiamo sul sofa a giocare coi tuoi coniglietti di peluche.” Anche lei, come Chuuya, parlava con tono dolce solo quando si trattava del suo nipotino.
“Sììì!”
“D’accordo, allora saluta mama e papa e partiamo!”
Akira sfoggiò un luminoso sorriso e salutò con la manina: “Bye bye!”
Dazai e Chuuya accennarono un sorriso e lo salutarono allo stesso modo. Per alcuni minuti rimasero a guardare i due allontanarsi, rassicurati dal pensiero di aver lasciato il loro prezioso tesoro in ottime mani. Chuuya trasalì leggermente nel sentire la mano di Dazai intrecciare le dita con la sua e stringerla. Se voleva essere un gesto d’affetto…aveva funzionato! Volse lo sguardo su di lui.
Dazai disse: “Andiamo a portare una buona notizia a dei genitori disperati.”
Chuuya fece un cenno affermativo col capo.
*
 
Nonostante per gli studenti fosse periodo di vacanze estive, i club e le attività extrascolastiche in generale non si fermavano mai. Che fosse mattino o pomeriggio, i cancelli erano sempre aperti e non era insolito vedere studenti entrare o uscire a qualunque ora. Soprattutto se si trattava degli studenti di una scuola superiore pubblica che erano anche membri del ‘Club degli Agricoltori’! Sì, un club con un nome del genere è già buffo di suo, se poi si tiene conto di essere in una città portuale… *cough cough* Dicevamo... Gli studenti che lo componevano non erano dei casi umani o degli strambi, anzi la loro media scolastica era alta, erano simpatici e benvoluti da tutti (o quasi!). La loro passione non era solo rivolta all’agricoltura, ma era molto più vasta, poiché loro erano amanti della natura. Anzi, di Madre Natura. Nel periodo invernale si occupavano della serra della scuola, la quale conteneva specie di piante anche rare, ma il bello era proprio durante la primavera e l’estate, quando i ragazzi avevano il permesso di coltivare un orticello sul retro, le cui verdure erano poi utilizzate alla mensa oppure vendute per ricavare denaro utile alla ristrutturazione dell’edificio o per l’acquisto di materiale scolastico. Oltre a questo, i ragazzi si occupavano anche di togliere le erbacce da terra e di potare le siepi che decoravano il cortile tra il cancello e l’ingresso principale. Insomma…erano degli scemi che la scuola sfruttava per non dover pagare dei giardinieri!!! (LOL) Il loro Presidente, non che fondatore del club, era Miyazawa Hikaru, uno studente dell’ultimo anno, un ragazzo così solare ed allegro da riuscire a far sentire di buon umore anche la persona più scontrosa. Lui non aveva nemici, tutti coloro che lo conoscevano erano ben lieti di ricevere un suo saluto e un suo sorriso e, incredibile ma vero, pare che mai nessuno gli avesse fatto un torto o rivolto una parola scortese. Studenti e professori non facevano che ripetere che il suo nome, il quale significava splendente, luminoso, che emette energia, fosse davvero azzeccato per lui! Compreso suo padre che lo aveva scelto. In un certo senso si poteva dire che dove c’era lui c’era un piccolo mondo felice.
Anche adesso che era vacanza, Hikaru si recava ogni giorno a scuola per dedicarsi alle piante e alle verdure ed era sempre il primo ad arrivare e a darsi da fare. Certo c’erano occasioni in cui i ragazzi si mettevano d’accordo per eventuali turni, nel caso alcuni dovessero partire assieme alla famiglia per un viaggio o per permettere a chi faceva un lavoretto part-time di avere anche dei giorni di riposo. Comunque, nei tre anni di superiori, qualunque stagione fosse, Hikaru non aveva mai saltato un solo giorno, neanche col raffreddore. Però non era così perfetto come si può pensare… Anche lui aveva qualche segretuccio che sentiva di non voler condividere con gli amici…
Lui e altri sei ragazzi stavano giusto uscendo dal cancello principale, tutti puliti e freschi di doccia, con le loro divise estive e lo zainetto sulle spalle oppure la borsa a tracolla con dentro i vestiti e le scarpe da lavoro, quando Hikaru, volgendo lo sguardo per caso, notò un’auto nera dalla carrozzeria elegante che sostava sul ciglio della strada.
Un suo compagno notò il suo sguardo sorpreso e la bocca a formare una piccola ‘o’. “Miyazawa, tutto bene?”
Lui si voltò subito e, portandosi una mano ai capelli con fare impacciato, abbozzò un: “Ehm…scusate, un mio amico è venuto a prendermi! Vi dispiace se ci salutiamo qui?”
Un altro parlò per tutti: “Affatto! Ci vediamo domani!”
“D’accordo! Ricordatevi che domani dovremo raccogliere le melanzane! Che bello, non vedo l’ora!”
I ragazzi si salutarono, ma lui aspettò pazientemente che si fossero allontanati prima di attraversare la strada, correndo e sfoggiando un luminoso sorriso.
Aprì la portiera dalla parte del passeggero e si infilò dentro come un’anguilla!
“Riku! Che sorpresa!”
Alla guida era proprio lui, Akutagawa Riku, ormai studente diplomato alla scuola superiore e proprietario di quella focosa auto che avrebbe fatto invidia anche a un milionario. Il piccolo adolescente iperattivo ora era un ragazzo molto più serio che, subito dopo il diploma, era diventato il sottoposto del Dirigente della Port Mafia Nakahara Chuuya.
“Mia nonna mi ha lasciato il resto della giornata libero, così ho pensato di approfittarne per stare con te!”
Il tono gentile, un mezzo sorriso timido che gli sfiorava le labbra, il suo famoso ciuffo bianco che quasi gli copriva un occhio. E il giubbino bianco in jeans che non abbandonava praticamente mai. Be’, per lo meno l’aria condizionata lo aiutava a non sudare fin che era in auto!
Ad un tratto abbassò lo sguardo e indicò due bicchieri di plastica con coperchio trasparente e cannucce. Uno conteneva della frizzante Cola con ghiaccio, mentre l’altra…
“Ti ho preso il frappé alla fragola, il tuo preferito! Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere con questo caldo!”
Gli occhi azzurri di Hikaru brillarono come diamanti al sole. “Waaaaaah! Grazie!” Afferrò il bicchiere e si portò subito la cannuccia alla bocca, tenendolo saldo con entrambe le mani come fosse stato un bambino!
Riku lo trovava adorabile.
“In realtà ho anche prenotato un tavolo al solito ristorante, visto che è quasi ora di pranzo. Ti va…?”
Hikaru lo guardò con occhioni luccicanti di gioia, mentre le labbra arricciate continuavano a succhiare dalla cannuccia.
Slurp!” Si passò la lingua sulle labbra e rispose. “Certo! Devo solo avvisare mio padre!” Ripose il bicchiere nel porta vivande ed estrasse il telefono dalla borsa a tracolla. Qualche click e se lo portò all’orecchio.
Otou-san! Sono io! Sei ancora in ufficio? …Oh bene! Volevo dirti che oggi pranzo con Riku! …Sì, è venuto a prendermi a scuola! Posso, vero? Lo so che durante le vacanze preferisci che pranziamo insieme noi due ma… Oh grazie, ti adoro! …Come?” Con la coda dell’occhio sbirciò Riku e poi si volse verso il finestrino, come se si vergognasse. “Uffa, non  prendermi in giro! …Lo so! …E non parlare delle api e dei fiori! E’ imbarazzante!”
Riku si sporse e gli prese la mano con cui reggeva il telefono, quindi premette il tasto dell’altoparlante.
“Ciao, zio Kenji! Non preoccuparti! Lo riporterò a casa sano e salvo prima di cena!”
Dal telefono arrivò la voce allegra e squillante. “Riku! Buongiorno! Non ho nessun dubbio che avrai cura di lui! Eh eh!” La risatina maliziosa disse più di mille parole.
“Ti ringrazio! Allora buon pranzo! E, per favore, saluta mia madre e mia sorella da parte mia!”
“Sarà fatto!” E subito si sentì strillare. “Aaaaaatsushi! Tuo figlio ti saluta! Hanaaaa tuo fratello ti saluta!”
Hikaru si batté la mano sulla fronte per l’imbarazzo, mentre Riku riuscì a stento a trattenere una risata. Qualche istante ancora e qualche parola in lontananza e poi tornò la voce al ricevitore. “Hanno ricambiato il saluto! Allora per oggi mi unirò al gruppo per pranzare al solito Cafè! Buona giornata!”
“A te, zio Kenji!” Rispose educatamente Riku. Hikaru invece, rosso come un pomodoro, accennò un appena percettibile: “A più tardi, bye bye.” E terminò la chiamata.
Mise via il telefono e, lasciandosi andare contro il sedile, sospirò. “Gli voglio un mondo di bene ed è sempre stato il mio eroe. Però…a volte sa essere così…” Sollevò le mani a mezz’aria, come se volesse afferrare le parole che non gli venivano, ma poi le lasciò ricadere.
“Per me è sempre stato un uomo stupendo! Non riesco a ricordare una volta in cui non mi abbia fatto ridere!” Ridacchiò. “Credo che il mio primo ricordo di lui risalga a quando avevo ancora il pannolino!”
“Ma smettila!” Lo rimproverò Hikaru, ridendo e dandogli una pacca sulla spalla.
Entrambi allacciarono la cintura e in breve l’auto si mise in carreggiata, per poi infilarsi nel traffico della strada principale.
“Per che ora hai prenotato?” Chiese Hikaru, prima di riappropriarsi del suo amato frappé.
“L’una.” Riku sbirciò lo specchietto retrovisore e… “Cazzo, non starmi così attaccato!” Cercò di dirlo tra i denti ma, dopo anni di lezione di imprecazione da sua nonna Chuuya, gli era difficile trattenersi! Ormai anche i suoi genitori si erano rassegnati e avevano smesso di riprenderlo…!
“Ehm…lo sai che mancano più di quaranta minuti?”
“Mh mh.”
“E…allora perché sembri avere fretta? Sluuurp!
Il sorrisino malizioso di Riku accompagnò una misteriosa risposta. “Lo vedrai tra poco!”
Dopo essersi destreggiato nel traffico, aveva preso la direzione del ristorante dove erano soliti pranzare oppure cenare da quando Riku aveva l’auto, ma ecco che ad un certo punto svoltò in una stradina fra due palazzi e continuò con una serie di zig-zag fino a giungere al parcheggio coperto di un edificio, la cui sbarra si aprì al suo arrivo. Un posticino alquanto riservato… Ma quindi che...? Oh… Improvvisamente Hikaru non fu più in grado di bere una goccia. Attese in silenzio che Riku parcheggiasse in un angolo, nonostante non ci fosse traccia di altre auto. Il cuore gli batteva nel petto come un tamburo.
“Mi-mi-mi hai portato qui per…per…” Non riusciva neanche a dirlo, il bicchiere ancora stretto fra le mani umide.
Riku slacciò la cintura e si tolse in fretta il giubbino, rivelando così la canotta nera molto scollata e molto sbracciata che indossava sotto (allora lo sentiva anche lui il caldo!) e solo dopo rispose: “Diciamo che voglio godermi un buon antipasto, prima di pranzare!”
Con un’abile gioco di mani, mosse in contemporanea le manopole del sedile di Hikaru, spingendolo indietro e abbassando lo schienale, poi con agilità gli fu sopra e lo intrappolò sotto di sé puntellando bene i gomiti e le ginocchia attorno a lui. Chinò leggermente il capo fino a posare le labbra sulle sue. Dopo i primi istanti di immobilità, Hikaru rispose al bacio, aprì la bocca per accogliere la sua lingua ed intrecciarle insieme, cosa che gli fece emettere un piccolo mugolio di piacere, ed intrecciò le braccia attorno al suo collo per attirarlo ancor più a sé. Più le lingue giocavano, più i loro respiri si facevano affannati, costringendoli di tanto in tanto a ricavare uno spiraglio tra le labbra per riprendere fiato. Almeno fino a quando Riku non le separò completamente, e allora si fermò ad osservare il volto eccitato di lui, le sue gote già arrossate, gli occhi socchiusi, mentre i loro respiri caldi si amalgamavano nel mezzo. Con la mano gli accarezzò lentamente i capelli biondi, soffermandosi sulla frangia che poi sollevò per potergli stampare un bacio sulla fronte. Il suo ragazzo era così carino che gli veniva spontaneo donargli piccole attenzioni affettuose. Subito dopo si sciolse dal suo abbraccio e cominciò a sbottonargli la camicia. Contrariamente a quello che Hikaru credeva, Riku non sfiorò affatto i piccoli capezzoli rosei, anzi, dopo aver scoperto il petto si ritirò  e scese dal sedile per mettersi accucciato nello spazio fra questo ed il cruscotto. Per prima cosa tolse le scarpe ad Hikaru, ignorando i calzini corti bianchi al di sotto, poi gli sbottonò i pantaloni e li fece scivolare dalle gambe assieme ai boxer, lasciandolo di fatto nudo a gambe in aria! Il che era esattamente ciò che voleva.
“Ri-riku… Non possiamo farlo qui. Potrebbe arrivare qualcuno!”
Lui scosse il capo e precisò: “Questo parcheggio è riservato ai clienti di un locale notturno gestito dalla Port Mafia. Ci vorranno almeno quattro ore prima che comincino ad arrivare i dipendenti e due in più per i clienti. Altrimenti detto, nessuno verrà a disturbarci. E comunque l’auto ha i vetri oscurati!”
Di fronte ad una tale sicurezza, Hikaru non osò ribattere.
A guardarlo così sembrava una creaturina indifesa. A breve avrebbe compiuto diciotto anni, però ne dimostrava qualcuno in meno per via della bassa statura e del corpo esile e sottile, al contrario di lui che col tempo era diventato alto più dei suoi genitori ed aveva sviluppato un bel fisico atletico. Loro due, pur essendo così diversi, erano sempre stati amici, erano cresciuti insieme, e solo negli ultimi due anni fra loro era sbocciato l’amore. Era accaduto all’improvviso, di punto in bianco si erano scambiati un bacio, con naturalezza, e da allora erano diventati una coppia, cementando del tutto quel rapporto già saldo che li legava.
Deliziata la vista, Riku passò oltre. Si chinò in avanti per essere di fronte al suo xxx. Era piuttosto piccolo, tanto da poterlo nascondere all’interno della propria mano, ma era proprio questo che lo rendeva così carino. Gli bastò poco per farlo diventare duro, prima di passare alla fase successiva e farlo scivolare lentamente sulla lingua fino ad averlo tutto in bocca.
Hikaru mugolò più forte, ma presto sentì la necessità di dischiudere le labbra e gemere, mentre la bocca di Riku gli donava piacere. Un piacere assolutamente condiviso, visto che lo stesso Riku si divertiva parecchio a succhiarlo come fosse stato un popsicle! Un momento… Si fermò, un’idea gli stuzzicò la mente. Mh! Un popsicle eh?
Non appena lasciò la presa, Hikaru gli lanciò un’occhiata interrogativa. “Anf… Perché ti sei fermato?”
Il sorriso malizioso che ricevette in risposta non fu affatto rassicurante! Infatti, Riku si mise ad armeggiare col bicchiere della Cola, tolse il coperchio e ne bevve un po’. E invece…il suo vero intento fu chiaro solo quando, senza distogliere lo sguardo da predatore dal suo ragazzo, sgranocchiò il ghiaccio che aveva in bocca.
Hikaru sgranò gli occhi. “Non vorrai…?” Neanche il tempo di finire la frase, che Riku glielo prese nuovamente in bocca, facendoglielo entrare in contatto coi pezzetti di ghiaccio. L’impatto per un istante gli tolse il respiro, prima di farlo esplodere.
“Ahhhhhh no! Non-gh! E’ freddo…”
Avere la parte più delicata del corpo completamente avvolta da una bocca gelida non era il massimo delle aspettative, però poco alla volta il calore della saliva cominciò a rendere il tutto più sopportabile. Il corpo di Hikaru talvolta veniva percorso da un tremore che nemmeno lui sapeva da quali delle due fonti fosse causato.
“Ah… Ri-mh! …Riku! Sì!” Lo sguardo perso sul tettuccio dell’auto, i suoni bagnati e sensuali che lo raggiungevano dal basso…si ritrovò ad intrecciargli le gambe sulle spalle ancora prima di accorgersene. Le sensazioni di caldo e freddo lo avevano disorientato, ma poco gli importava. Era tutto così piacevole che…che…
“U-woah…” Inarcò i fianchi verso la sua bocca e… “AAAH!” Sentì il piacere scorrere per tutto il corpo e andare a rigettarsi nella bocca di Riku.
Accidenti, era stato fantastico…
Ancora perso nei benefici dell’orgasmo, diede giusto una sbirciata a ciò che fece Riku negli istanti a seguire. Com’era plausibile bevve dell’altra Cola, ma stavolta per sciacquarsi la bocca, e quando si accorse di essere osservato accennò un sorriso di conquista.
“Ehi Riku?”
“Mh?”
“Tu sei venuto?”
Lui ridacchiò, scostando lo sguardo. “Ovviamente no!”
“Allora vieni qui sopra. Ci penso io.”
Riku rimase folgorato da quella richiesta. Non lo aveva programmato.
“Avanti!” Col dito gli fece cenno di avvicinarsi, quel piccolo pervertito!
Essendo tutt’altro che scemo, Riku non se lo fece più ripetere! Abbandonò il bicchiere e si affrettò a salire nuovamente sul sedile, risalendolo carponi fino a raggiungere la meta.
“Abbiamo ancora un po’ di tempo, no?” Disse Hikaru, facendo spallucce, mentre lo guardava con occhi languidi. Le sue dita sottili e per niente agitate andarono a togliere il bottone dall’asola e ad abbassare la zip dei jeans neri. Bastò appena fare pressione col polpastrello per abbassare i boxer ed ecco che la sua virilità balzo fuori tipo effetto molla. Riku era ben dotato (come suo padre! LOL). La mano di Hikaru lo afferrò poco sopra l’attaccatura, le dita che riuscivano appena a coprire la circonferenza da quanto era grosso, quindi lo abbassò per avere la punta a portata di bocca. Dischiuse le labbra, lasciò che il fiato caldo uscisse e si scontrasse con la superficie rossa e lucida, poi tirò fuori la lingua e gli diede la prima leccata.
“Gh---” Avevano appena cominciato ed era già così sensibile…
La lingua di Hikaru prese a muoversi con un certo ritmo, a stuzzicarlo, a solleticarlo, godendo delle sue reazioni. Riku non era uno che si tratteneva, se provava piacere gli si leggeva in faccia, si capiva dai piccoli versi che emetteva e dall’intensità del suo respiro. I brividi che lo percorrevano erano continui, anche se glielo stava solo leccando. Dopo la punta la sua lingua scese ad occuparsi del resto, dalla cima fino all’attaccatura, su e giù più e più volte. Probabilmente dava l’impressione di essere un gatto che si gusta per bene un invitante merluzzo, ma la cosa non gli dispiaceva! Esattamente come Riku godeva nel dargli piacere, anche Hikaru godeva nel dar piacere a lui. Era uno scambio equo. Finita anche quella seconda esplorazione risalì di nuovo e si portò la punta alle labbra, cominciando a succhiarla e baciarla senza contegno, gemendo più del suo ragazzo che stava subendo quella piccante tortura. Gli piaceva…gli piaceva… Aprì bene la bocca e sollevò un po’ la testa per farlo entrare ma…Riku lo fermò, accennando un sorriso divertito.
“E’ troppo grande! Rischi di soffocarti!”
In effetti era vero. Una volta aveva provato, dopo averlo chiesto con tale insistenza da obbligarlo a cedere e, tralasciando il fatto che non era riuscito a farlo entrare tutto, ad un certo punto aveva smesso di respirare e l’eiaculazione gli era andata di traverso. Non era stata un’esperienza positiva…però quel muscolo gli piaceva troppo per rinunciare a fare certe cose. Era un’ossessione. Tra i due era lui quello che impazziva dal piacere, anche se di fatto era Riku ad avere l’orgasmo. E a tal proposito…
Il corpo di Riku si irrigidì, il viso arrossato si contrasse in una specie di smorfia sexy… “Cazzo…” Cercò di spostarsi, ma non fece in tempo, l’eiaculazione si liberò e si sparse un po’ dappertutto addosso a Hikaru. “Ma porc-” Ormai il danno era fatto, non gli restò che recuperare dal cassettino del cruscotto il pacchetto di salviette umidificate e darsi da fare.
“Ho fatto un casino.” Si lamentò sbuffando.
“A me è piaciuto, invece!” Il sorriso di Hikaru era fin troppo soddisfatto.
“Tsk. Non sfidarmi, tu! Non hai idea di cosa sono capace quando perdo il controllo.”
Purtroppo era vero. Hikaru era sì il suo primo amore, ma non il primo con cui aveva rapporti. Essere agente della Port Mafia dava potere e quel potere era inebriante… Comunque era acqua passata. Da quando si era reso conto di amare Hikaru, non aveva occhi che per lui e non desiderava nessun  altro. Finito di pulire il piccolo disastro, Hikaru si spostò un pochino e si girò sul fianco per lasciargli spazio e permettergli di stendersi a sua volta. Riku lo abbracciò da dietro, il braccio ad avvolgergli il girovita, e gli stampò un bacio sulla nuca.
“Abbiamo giusto cinque minuti prima di rivestirci e andare di corsa al ristorante.”
Hikaru ridacchiò: “Ci basteranno!”
“Nel pomeriggio vuoi fare qualcosa di particolare? O preferisci che ti riporto a casa? Se sei stanco, io…” Lui lo interruppe: “Voglio stare con te. Da quando hai avuto la promozione hai meno tempo libero e non ci vediamo più come prima. Vorrei usare ogni minuto al meglio per noi due.”
Oddio quanto era dolce!!! Aveva quasi voglia di piangere dalla felicità!
“Io avrei un’idea…però… Insomma, dopo pranzo potremmo fare una passeggiata sulla via della ruota panoramica e…magari dopo…”
“Vuoi andare in albergo?” Tagliò corto lui.
Riku si sentì morire. Era così scontato ciò che pensava?
“S-solo se ne hai voglia eh!”
“Ad una condizione.” Hikaru si mosse nel suo abbraccio quanto bastava per poterlo guardare in volto, quindi disse con fermezza: “Andiamo in quello dove hanno le stanze con l’angolo videogiochi!”
…aveva detto la parola magica… VIDEOGIOCHI! La grande passione di Riku, la cosa a cui non avrebbe rinunciato per niente al mondo, tanto che aveva espresso il desiderio di essere seppellito con la sua amata PS una volta morto! E ora il suo brillante ragazzo gli proponeva un pomeriggio di sesso e videogiochi? Maledizione, voleva sposarlo!!! Sebbene quelle emozioni si potessero leggere chiaramente sulla sua faccia e nei suoi occhi viola e oro, tutto ciò che gli uscì dalla bocca fu un banale… “Si può fare!”
*
 
Quell’appartamento dai pavimenti in marmo grigio e la mobilia antica, aveva sempre avuto un che di spettrale, fin dalla prima volta che vi aveva messo piede tanti anni prima, ma adesso era come se l’aria stessa che respirava fosse intrisa di qualcosa di sinistro.
“Fuuh…” Sospirò, nella speranza di far uscire quelle sensazioni negative dal proprio corpo. Di fatto era ancora all’ingresso.
Chuuya, dietro di lui, gli chiese: “Stai bene?”
“Non preoccuparti… Piuttosto, è una fortuna che Yosano mi abbia dato una copia delle chiavi, quella volta.”
“Non che avesse molta scelta, mi sembra…”
Non lo aveva detto con cattiveria, ma quelle parole gli fecero comunque male. Dopo la scomparsa di suo figlio Moriarty, Ranpo era caduto in uno stato di depressione senza precedenti, aveva cominciato a presentarsi in ufficio ancora meno del solito, fino a smettere di andarci del tutto. E si era chiuso in casa per stare da solo, sfuggendo la compagnia di chiunque tentasse di dargli un briciolo di conforto. Quindi sì, Yosano aveva dato le chiavi a Dazai perché lo riteneva l’unico in grado di poter fare qualcosa per quell’uomo che ormai era diventato il fantasma di se stesso.
Prendendo coraggio, Dazai riuscì ad entrare e ad attraversare il corridoio che terminava affacciandosi alla sala da pranzo, la stessa dove alcuni anni prima lui si era gettato in ginocchio sul pavimento piangendo per chiedere aiuto. E di nuovo si fermò. La sala era in ordine e pulita, come voleva la presenza di una figura femminile, però le imposte socchiuse da cui filtrava appena uno spiraglio di luce la facevano assomigliare ad una cripta.
Vedendolo di nuovo immobilizzato e timoroso, Chuuya gli si affiancò. “Dove potrebbe essere? In camera da letto?” Dovette sforzarsi di usare un tono fermo e mostrarsi deciso, anche se quel luogo metteva a disagio anche lui.
Dazai scosse il capo. “No. Non credo abbia più messo piede nella sua stanza, da allora.”
“Quindi dove…?” Si interruppe quando lui gli prese la mano per condurlo. Insieme attraversarono la sala fino a giungere di fronte ad un elegante fusuma, sul quale era dipinto un paesaggio autunnale con il monte Fuji sullo sfondo.
Dazai deglutì e poi fece scorrere lentamente il pannello. Fin dal primo spiraglio fuoriuscì un forte odore di incenso misto a sgradevoli odori corporei.
“Ranpo…”
Fece un passo all’interno, permettendo così anche a Chuuya di vedere la stanza giapponese, per quanto poco la luce gialla e fioca di una lanterna la illuminasse. Il luogo in sé non aveva nulla di strano, il tatami era in buono stato, la carta da parati pulita, ed era decisamente molto ben tenuto l’altare dove era un ritratto del defunto Presidente Fukuzawa, attorniato da piccole statue di Buddha. E davanti, seduto in modo scomposto, a capo chino e la schiena ricurva, quello che restava del brillante Detective Edogawa Ranpo.
“Ranpo, sono Dazai. Io e Chuuya siamo qui per darti una  buona notizia.”
Le spalle di Ranpo si mossero come percorse da un tremolio, sotto la capigliatura ormai totalmente color grigio fumo. Subito dopo giunse una voce che ancora conservava il timbro squillante. “E così è arrivato il momento, vero Dazai?”
Ignorandolo, lui proseguì. “Il duro lavoro di Poe e Oguri ha finalmente dato dei risultati. Hanno scoperto che tuo figlio si trova in Inghilterra, a Londra.”
“Il duro lavoro…” Ranpo ripeté quelle parole con tono amaro.
Non era stata esattamente una loro scelta, quella di investigare sulla scomparsa dei due ragazzi, Mafuyu e Moriarty. Piuttosto era il caso di dire che il Boss Mori li aveva sequestrati e rinchiusi nella sede della Port Mafia, salvo eventuali uscite in cui venivano scortati da degli agenti pronti a fare fuoco se si fossero azzardati a tentare la fuga. Non avevano altro da fare, se non investigare, quindi era ovvio che si impegnassero così tanto. E il responsabile era solo lui… La fuga di suo figlio Moriarty lo aveva segnato profondamente ed era stato totalmente incapace di investigare personalmente, così, di conseguenza, il Boss aveva usato le maniere forti con Edgar Allan Poe e Mushitaro Oguri. Era come se Ranpo avesse messo un cappio al collo ai suoi stessi amici…e per questo si odiava.
“Per quale motivo lo hanno detto prima a te, comunque?”
Dazai scambiò uno sguardo con Chuuya, quindi fu lui a fornire una spiegazione. “Lo hanno detto a me. So che gli accordi erano di informare direttamente te e il Boss Mori per primi, in caso di sviluppi, ma…” Fece una pausa, per trovare le parole giuste, quindi riprese: “Come saprai, il Boss non è più molto lucido da quando suo figlio Mafuyu è scomparso con Moriarty, così ho ritenuto opportuno tenerlo all’oscuro di qualunque novità e ricevere le informazioni al posto suo. A mia volta mi sono accordato con Dazai di venire a riferirlo subito a te, affinché potessi darci direttive su come agire. In ogni caso terremo segreta questa nuova informazione per tutto il tempo che tu riterrai necessario. Non vorrei che il Boss, in un moto di follia, decidesse di bombardare l’intera città di Londra solo per riavere suo figlio.”
“Pff… Hai un bel coraggio a parlare male di un padre folle ad un altro padre folle!”
Chuuya aggrottò le sopracciglia. Cosa stava dicendo quel tizio? Stava per porgli una domanda, ma Dazai gli fece un cenno negativo col capo. Quindi fu lui a parlare. “Contatto subito anche Yosano e Sherlock e dico loro di rincasare, così potremo parlarne meglio insieme. Hanno il diritto di sapere che…”
“Sapere cosa?” Lo interruppe Ranpo. “Che probabilmente Moriarty è diventato una minaccia per l’intera umanità? …be’, quello posso farlo io quando torneranno stasera.”
La mano di Dazai tremò in quella di Chuuya, la rabbia ora gli faceva brillare gli occhi. Eppure la sua voce non mutò. “Non puoi saperlo. Nessuno sa che cosa abbia intenzione di fare. Quando se n’è andato non ha lasciato alcuna traccia. Poe e Oguri hanno impiegato oltre un anno a trovare qualcosa.”
Le spalle di Ranpo tremarono ancora, ma questa volta con più forza, mentre dalle sue labbra usciva una risatina distorta. “Davvero sei convinto che siano stati loro a trovarlo? Non ti facevo così ingenuo, Dazai! Quei due saranno anche intelligenti e dotati di buon cuore, ma ti assicuro che non gli sarebbero bastate tre vite a trovare i fuggiaschi con le loro sole forze. In poche parole, è stato Moriarty a farsi trovare. E’ una sua idea, è ciò che vuole. E’ l’unica cosa di cui ho la certezza. Moriarty è l’incarnazione del male.”
Questo era troppo. Davvero troppo. Dazai era furente di rabbia e a nulla valse il tentativo di Chuuya di trattenerlo, quando lui gli lasciò la mano e si lanciò verso Ranpo.
“Come puoi parlare così del tuo stesso figlio?” Non appena gli fu davanti lo afferrò per la camicia, appena sotto il colletto, e lo sollevò da terra lasciandolo coi piedi penzoloni. La  frangia grigia e sudicia copriva del tutto il volto di Ranpo, impedendogli di vedere la sua espressione.
“Non ti permetto di disprezzare il frutto dei tuoi lombi. Hai il dovere di amare tuo figlio e di fare ogni cosa per aiutarlo. Invece non hai fatto altro che rintanarti qui a frignare davanti alla foto del defunto Presidente!”
Ancora una volta Ranpo rispose con una risatina fastidiosa, facendolo arrabbiare ancora di più. Era la prima volta che Dazai si lasciava andare alla collera, d’altra parte l’argomento padre-figlio era diventato il suo punto debole da quando aveva scoperto gioie e dolori della paternità con la nascita del piccolo Akira.
“Che cos’hai da ridere?”
“Ah ah ah… Ahhhhhh…” A quel punto sollevò il capo, rivelando così il suo volto smunto, segnato da rughe dovute più alla preoccupazione che all’età, le labbra tirate in un sorriso forzato e gli occhi gonfi dal pianto e dalle notti insonni. Faceva quasi paura a guardarlo. “E cos’altro dovrei fare, secondo te? Eh Dazai?”
Provando improvvisamente pena per quel suo vecchio amico, Dazai lo riabbassò per permettergli di poggiare i piedi sul tatami, però non lasciò la presa per timore che se lo avesse fatto lui si sarebbe afflosciato a terra come un sacco di farina vuoto.
Gli occhi di Ranpo divennero lucidi, delle lacrime presero a scorrergli lungo il viso seguendo le vecchie scie dove era rimasta la traccia salina. “Non sono mai stato un buon padre, ma non credevo di arrivare a tanto. Hic Ho creato un mostro, Dazai….”
“No… Non è vero nulla di ciò che hai detto. E a riprova di questo, basta guardare Sherlock. E’ un ragazzo meraviglioso che dona anima e cuore a chi ha intorno e che sta facendo del suo meglio per seguire le tue orme di Detective lavorando per l’Agenzia. Lui ti ammira  e ti vuole bene. Non potrebbe essere altrimenti!”
Ranpo si morse le labbra, sforzandosi di trattenere il pianto, ma questo non voleva saperne di cessare. “Io non sono un esempio per nessuno. Ho sempre lavorato con pigrizia e senza impegnarmi davvero e se lo facevo era solo per divertirmi e soddisfare il mio ego. Sono un uomo orrendo. Sono stato un pessimo figlio adottivo per Fukuzawa, un pessimo compagno di vita per Akiko e un pessimo padre per i figli che lei mi ha dato. E adesso è lei la prima a pagarne le conseguenze.”
Scosse il capo con forza e terminò quasi gridando tra le lacrime. “Vorrei non essere mai nato! Sarebbero stati tutti più felici!”
“Idiota…” Bisbigliò Chuuya, che per tutto il tempo era rimasto fermo ad osservare ed ascoltare. Andò incontro ai due e si fermò giusto dietro a Ranpo. “E’ troppo comodo così. Hai fatto quello che volevi per oltre cinquant’anni e adesso, alla prima difficoltà, te la vuoi svignare per l’uscita di emergenza? Io non ti conosco molto bene, non abbiamo mai lavorato insieme e non ci siamo mai frequentati, per me sei solo un insulso  membro dell’Agenzia, però… Però so che la Dottoressa è felice con te. So che avete deciso di comune accordo di vivere insieme quando lei è rimasta incinta. So che non avete mai parlato di matrimonio perché a legarvi c’è una grande amicizia e non un sentimento romantico come l’amore, motivo per cui dormite in camere separate anche se la vostra intesa sessuale è perfetta. Inoltre so che Fukuzawa, prima di morire, ha lasciato un testamento in cui affidava l’Agenzia a Kunikida non perché non si fidasse di te, ma per non caricarti addosso il peso di gestirla, che per te sarebbe stato eccessivo. Ma soprattutto, so che in cuor tuo desideri aiutare Moriarty e fermarlo prima che faccia qualcosa di irreparabile.”
Ranpo aveva smesso di piangere. Se n’era accorto per caso, tanto quel discorso lo aveva colpito. Sbatté le palpebre per scacciare le ultime lacrime che erano rimaste intrappolare fra le ciglia, con la mano scostò quella di Dazai che ancora lo teneva per la camicia, quindi si voltò verso Chuuya e lo guardò con grande sorpresa. “Tu…quest’ultima cosa che hai detto…come fai a…?”
Chuuya abbozzò un sorriso di sfida. “Come faccio a saperlo? Tsk! Ho un figlio anche io, se l’hai dimenticato. E posso dichiarare senza inganno che farei qualunque cosa per lui, anche se dall’oggi al domani si tramutasse in una calamità naturale.” Alzò la mano e puntò il dito indice, concludendo: “Lo giuro sulla vita di Dazai.”
Un coltello immaginario si conficcò dritto sulla schiena di Dazai.
Le sue labbra si inarcarono in un sorriso molto tirato. “Ehm…ti ringrazio, amore.” Ovviamente era un modo di dire!
Chuuya continuò a parlare con Ranpo… “Però su di lui non hai del tutto torto. La sua psiche potrebbe aver subito una mutazione a causa di Mafuyu. E’ vero che quel ragazzo ora esiste solo sottoforma di abilità e che in teoria dovrebbe essere sotto il controllo di Moriarty, ma c’è la possibilità che lo abbia influenzato negativamente spingendolo a pianificare chissà quale diavoleria. Io l’ho visto crescere e sono stato vittima delle sue attenzioni inopportune per diversi anni, quando ancora aveva un corpo umano suo, e ti assicuro che in lui c’era qualcosa di potente e distorto che non avevo il coraggio di affrontare.”
Nei suoi occhi c’era sincerità. Al contrario di Dazai e Ranpo, Chuuya era stato presente quando era avvenuta la fusione tra Mafuyu e Moriarty, cinque anni prima. Aveva visto coi suoi occhi quella scena che a lui era sembrata terrificante. Aveva osservato Mafuyu abbandonare il proprio corpo gravemente ferito durante la lotta, innalzarsi da esso come pura abilità e donarsi spontaneamente a Moriarty per divenire il suo potere e parte integrante del suo essere. In poche parole, un potere sconfinato e maligno aveva trovato casa in un altro ragazzo che era in possesso di una mente geniale. Non era difficile immaginare quali atrocità questa fusione avrebbe potuto generare. E ora Chuuya aveva scelto di aprirsi e fare quelle confidenze per convincere Ranpo ad agire, a costo di mettere in vetrina la propria paura. Il fatto che avesse arbitrariamente deciso di muoversi di nascosto dal suo stesso Boss era la prova che temeva profondamente Mafuyu. E questo significava che…
“Allora, per Moriarty forse c’è ancora speranza…” La voce di Ranpo uscì in un sussurro.
Chuuya si lisciò i capelli che gli ricadevano oltre la spalla, con fare civettuolo, e disse ammiccando: “Finalmente l’hai detto, Detective Edogawa!”
Dazai era rimasto spiazzato da quell’incredibile svolta. Era stato davvero cieco a non rendersi conto del lavoro che Chuuya aveva fatto dietro alle quinte per tutto il tempo. Mentre Ranpo si era ridotto ad uno stato vegetativo, il Boss folleggiava e Poe e Oguri investigavano, lui si era saggiamente infilato degli assi nella manica da tirar fuori al momento giusto. Il cuore gli stava per esplodere nel petto, tanto era orgoglioso dell’uomo che aveva sposato!
Alla fine avevano contattato anche Yosano e Sherlock, come detto, ed avevano discusso seriamente sul da farsi seduti al tavolo della sala da pranzo e spizzicando cibo in scatola. E’ risaputo che si ragiona meglio a stomaco pieno, no? Comunque, dopo aver vagliato ogni possibilità, si erano salutati con la promessa di aggiornarsi presto per prendere la decisione finale, il tutto rigorosamente senza che il Boss lo sapesse.
Appena usciti dal palazzo dove la famiglia abitava, Chuuya abbozzò uno scherzo, giusto per scrollarsi di dosso la tensione che lo aveva schiacciato per tutto l’incontro. “La Dottoressa è più severa di quanto credessi! Non stento a credere che quando riavrà il figlio a portata di mano non esiterà a strangolarlo!”
Dazai accennò un mezzo sorriso tranquillo. “Mh. Il suo istinto materno è sempre stato molto particolare.”
Bastò quello scambio di battute e furono in prossimità dell’auto. Chuuya premette il pulsante del piccolo telecomando per aprire le portiere da remoto e…di punto in bianco si ritrovò intrappolato nell’abbraccio di suo marito.
“Ehi, che ti prende?”
Lui mosse leggermente il capo, strusciando così la chioma folta contro il collo di lui. “Nulla. Ho solo bisogno di toccarti.”
Già…quella situazione lo prendeva fin nelle viscere e gli prosciugava le energie. Da padre, poteva solo immaginare cosa stessero provando Yosano e Ranpo nel sapere che uno dei loro figli poteva essere un potenziale criminale… Era una sensazione orrenda. Pregò di non doverla mai provare sulla propria pelle. Mentre formulava questo pensiero, la mano di Chuuya (per una volta priva di guanto!) si immerse fra i suoi capelli con affetto. Non c’era dubbio che anche lui stesse provando delle sensazioni pesanti, pur non lasciandolo a vedere. Il suo tocco così leggero e così rilassante gli diede conforto…anche troppo…soprattutto quando un dito lo sfiorò dietro l’orecchio, il suo punto più sensibile.
Nell’arco di un secondo cronometrato, aprì la portiera, vi spinse dentro Chuuya facendolo finire dritto disteso sul sedile posteriore, si infilò all’interno a sua volta e richiuse la portiera dietro di sé.
Chuuya ne fu talmente sbalordito che per un po’ rimase con la faccia affondata nel sedile, senza essere in grado nemmeno di pensare a cos’era appena successo! La scintilla che gli ridiede la ragione fu sentire le mani di Dazai slacciargli la cinta e abbassargli pantaloni e biancheria intima.
“COSA STAI FACENDO, IDIOTA???” Strillò.
Nessuna risposta verbale, solo quelle manacce grandi e dalle dita affusolate che cominciarono a toccarlo nelle parti intime senza fare complimenti!
“TI SEI BEVUTO IL CERVELLO?” Inutile tentare di dargli un pugno in testa, tanto sapeva già che non sarebbe servito, quindi riabbassò il braccio e posò la fronte sull’avambraccio. Il sangue gli era già sceso dalla testa per concentrarsi in basso. Strinse i denti, disprezzando la propria debolezza. “Accidenti… Ngh…”
Fu un lavoretto molto veloce, in verità, poiché Dazai conosceva alla perfezione il corpo di sua moglie e sapeva come prepararlo in fretta, quando aveva necessità così incombenti. Detto fatto, tirò fuori dai pantaloni la propria virilità e la massaggiò con le mani umide dei liquidi rilasciati dal corpo di Chuuya, quindi la direzionò sull’apertura anale e inarcò i fianchi in avanti.
“AH… Dazai… Dannazione, ma ti pare di farlo in auto? Non siamo più adolescenti!” Si lamentava ma, dal modo in cui teneva ben sollevato il bacino per favorire la penetrazione, era evidente che stava godendo nel sentirsi possedere dall’uomo che amava.
Dazai ridacchiò, cominciando a muoversi dentro di lui. “Hai ragione! Ma questo non lo rende meno piacevole!”
Dato che l’auto era insonorizzata, Chuuya si lasciò andare liberamente a grida di piacere e se ne fregò altamente delle altre auto che talvolta passavano per quella strada, i cui passeggeri, anche senza sbirciare dal finestrino, di certo capivano tutto dal movimento inconfondibile della vettura!
“Ah… Anf anf… Chuuya… Mh!” Le mani salde sui suoi fianchi. “Ti amo! …e tu? Anf… Mi ami…anf…almeno un po’?”
“Ma che-AH!” *un improvviso colpo più forte* Deglutì e riprese fiato. “…anf anf… Ma che domande fai, imbecille?”
“Rispondi e basta.”
Facile a dirsi, non era lui quello che si stava facendo montare come un mobile dell’Ikea!
“E’…ah…è il motivo per cui…ah!” Maledizione, non riusciva a parlare con tutto quel movimento. Certo che anche lui, mettersi a fare domande simili durante il rapporto!!! Si fece forza, i pugni stretti in segno di resistenza, e voltò il capo all’indietro più che poté per riuscire a guardarlo in faccia.
“E’ il motivo per cui ti sono ancora accanto, stupido!”
Vedendo il suo viso arrossato e gli occhi lucidi, Dazai diminuì la velocità delle spinte. Qualunque cosa stesse accadendo a Chuuya, non voleva perdersela.
“Davvero non lo capisci? Fin dal primo calcio che ti ho dato al nostro primo incontro a Suribachi, scaraventandoti contro la parete di una casa in rovina. La nostra prima missione. Il nostro primo litigio. La prima volta che ci siamo stretti le mani per salvarci. La nostra prima sbronza. Il nostro primo bacio. La nostra prima scopata. La prima volta che mi hai fatto piangere. La volta in cui mi hai abbandonato. La prima volta che hai detto di amarmi. La notte in cui mi hai chiesto di sposarti…” Il suo sguardo carico di lacrime d’emozione tremava, facendo sembrare i suoi occhi due gemme preziose a contatto con la luce. Strinse i denti un momento, quindi riprese: “Ogni singola cosa è avvenuta perché fra di noi c’è un legame voluto dal destino ancora prima che c’incontrassimo. E ora, mentre mi scopi sul sedile posteriore della mia auto, mi fai una domanda così stupida? Dazai Osamu, sei un idiota senza speranza!”
…ok, non aveva ben capito il significato di quel discorsetto, che probabilmente era dettato dalla mancanza di sangue nella testa (LOL), però la cosa era piuttosto interessante! Per stuzzicarlo, Dazai gli diede un altro bel colpo di reni, giusto per strappargli un gemito e vedere i suoi occhi lacrimare di piacere.
“Comunque non mi hai ancora risposto, Chuuya!”
“Io…anf anf Io…ah AH! Mhhh….” Stremato dal piacere, Chuuya batté i pugni contro il sedile e gridò: “TI AMO! TI AMO CON TUTTO ME STESSO, PEZZO DI DEFICIENTE!!!”
Soddisfatto, Dazai aumentò nuovamente il ritmo, entrò dentro di lui fino in fondo e si immerse nel rapporto con tale ardore da finire col chinarsi sopra la schiena di Chuuya, il viso a sfiorare il suo, il fiato caldo che sbatteva contro il suo collo. E poco dopo, gridando quasi contemporaneamente neanche volessero mettere alla prova il sistema di insonorizzazione, lasciarono che l’orgasmo esplodesse.
*
 
La porta si aprì e comparve Hikaru sulla soglia. “Otou-san, sono a casa!”
Dalla cucina arrivò un canterino e allegro: “Bentornatooo!!!”
Sfilò le scarpe e le sistemò con cura nell’angolo, poi appese la tracolla all’appendiabiti e fece un balzo energico per affacciarsi alla cucina. In realtà si trattava più di un cucinino dotato di una credenza, la quale comprendeva anche piano cottura, forno e frigorifero, e che ricopriva l’intera parete. Ci entravano giusto due persone, ma con difficoltà a muoversi tanto l’ambiente era stretto!
“Mmmmh che profumo! Stai già cucinando!” Il visetto soddisfatto e le narici dilatate per aspirare il buon odore che proveniva da una grande padella fumante.
Kenji, con addosso una comoda tuta azzurra e i capelli biondi legati in un codino alla nuca, prese un pizzico di sale dal contenitore accanto al fornello e lo sparse sopra alle due bisteccone rosse ed invitanti che friggevano nel loro grasso ormai sciolto. Si rivolse al figlio con un sorriso buffo disegnato sulle labbra: “Ho pensato che saresti rincasato affamato!”
“Ah ah, in effetti!” Si passò una mano sul ventre, stando al gioco.
“Fai giusto in tempo a cambiarti, prima che sia pronto! Il bagno lo farai più tardi!”
“Oh non c’è bisogno! Oggi ho già fatto la doccia due volt-” Si bloccò da solo nel rendersi conto di cosa stava dicendo, soprattutto per l’occhiata maliziosa che gli lanciò suo padre.
“La mia piccola ape laboriosa ha giocato col polline insieme a Riku, eh?”
Hikaru desiderò di sprofondare, il che non era una cosa impossibile considerando quant’era vecchio quell’appartamento. Comunque… Il suo viso cominciò a cambiare colore, da rosa a fucsia, da rosso a paonazzo, per poi concludere con una tonalità violacea, prima di esplodere con tanto di pugni stretti ai fianchi: “NON PRENDERMI IN GIRO!!!” E filò via. E’ doveroso specificare che filò solo nella stanza accanto! L’appartamento oltre che vecchio era piccolo, composto solamente da tre stanze. Cucina, stanza da bagno e sala. La sala dava l’impressione di essere piuttosto spaziosa solo perché conteneva poche cose, un chabudai che era messo al centro solo durante i pasti e poi spostato in un angolo, due futon piegati contro un altro angolo, i quali poi venivano stesi la sera, un mobiletto con delle mensole per i libri e con sopra un vaso pieno di fresche peonie e uno stretto armadio che conteneva i vestiti di entrambi. Hikaru raggiunse quest’ultimo per riporre la divisa di fatto ancora pulita ed infilare una tuta verde bosco dello stesso modello di quella del padre. Avevano sempre condotto una vita semplice in un ambiente semplice, senza necessitare di cose superflue, poiché per loro la vera felicità era data dall’amicizia, dall’affetto e dalla natura.
“A tavolaaa!” Annunciò Kenji, un attimo prima di comparire con due piatti su cui le bisteccone facevano una gran figura.
Hikaru attese che li posasse sul tavolo, dove erano già state preparate una caraffa di acqua fresca e una piccola contenete un po’ di vino rosso, una terrina colma di insalata già condita e un’altra con dei pomodori ciliegini da gustare al naturale. Presero posto uno di fronte all’altro, sedendosi sui polpacci come da tradizione, quindi unirono le mani e recitarono in contemporanea: “Itadakimasu!” Avevano lo stesso luccichio da predatore negli occhi quando afferrarono ciascuno il proprio coltello e la propria forchetta e li conficcarono nella tenera carne succosa!
Quei due si assomigliavano in molte cose, compreso l’aspetto fisico, togliendo il fatto che Kenji aveva due grandi occhi chiari color ambra, mentre suo figlio li aveva di un azzurro chiaro e pulito ed era bassissimo di statura (155 cm!), però condividevano la stessa gioia di vivere, la stessa vivacità e lo stesso buon cuore.
Chiunque entrasse in quell’appartamento, restava affascinato dall’ampia collezione di fotografie che decoravano praticamente tutte le pareti (coprendo così l’orrenda carta da parati color paglia marcia!). Quella più grande e tenuta in bella vista sulla parete principale, ritraeva un Kenji giovanissimo e raggiante, attorniato da palloncini di congratulazioni, che teneva fra le braccia il piccolo Hikaru appena nato, ben avvolto da una copertina azzurra, con gli occhietti socchiusi e un’aria beata! E da quella si proseguiva con tutta una serie di foto ritraenti Hikaru durante la crescita, a volte solo, a volte col padre, a volte con gli amici di famiglia o col suo migliore amico (e attuale boyfriend!) Riku. E ovviamente nessuna figura materna.
Il motivo è presto detto. Un mattino come tanti, un Kenji appena ventenne era arrivato in ufficio col solito sorriso felice, si era accomodato alla scrivania ed aveva attaccato al bordo dello schermo del computer la foto di un’ecografia. Il primo ad accorgersene era stato Tanizaki, il quale gli aveva giustamente chiesto di cosa si trattasse e lui aveva risposto sprizzando gioia. “E’ mio figlio!” Dopo più che giustificate esclamazioni di sorpresa, con tanto di caduta dalla sedia da parte di Atsushi, si era poi prodigato in spiegazioni. Dopo la nascita di Hana, aveva così tanto amato quella bambina da desiderare un piccoletto tutto suo, però, non essendo particolarmente interessato alla vita di coppia, aveva cominciato a lavorare sodo e a risparmiare per racimolare un bel gruzzolo e affidarsi ad una madre surrogata. Questo significava dover pagare l’inseminazione, tutte le visite di controllo e la donna stessa, una giovane straniera in salute che desiderava aiutare il prossimo e, tra parentesi, la persona da cui Hikaru aveva preso il colore degli occhi. Insomma, una cosa pazzesca! Il piccolo e vivace folletto Kenji aveva stupito tutti con questa rivelazione! Comunque nessuno dei suoi colleghi si era mostrato contrario, e anzi, Atsushi e le donne dell’Agenzia lo avevano supportato e assistito soprattutto dopo la nascita del piccolo. All’epoca, Riku aveva circa un anno e mezzo, perciò era di fatto cresciuto con Hikaru. Diventati adolescenti, avendoli costantemente sott’occhio, Kenji aveva capito prima di loro che l’amore era nell’aria e, una volta accertatosi che i due pargoli avevano iniziato una relazione, aveva preso il vizio di scherzare sull’argomento per il semplice fatto che adorava vedere il viso di suo figlio cambiare colore per l’imbarazzo! Insomma, un genitore burlone che sotto certi aspetti faceva anche da fratello maggiore e da amico. Con uno così accanto, Hikaru non aveva mai sentito il bisogno di una madre e tantomeno era interessato a scoprire chi fosse la donna che lo aveva portato in grembo (cosa che comunque Kenji non poteva dirgli, secondo le normative sulla privacy).
 
 
[Continua…]
  
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