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Autore: SpenteStelle    22/07/2020    2 recensioni
L'uomo guardò il campo davanti a lui. Quello sarebbe stato il suo ultimo raccolto.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L' ULTIMO RACCOLTO

 

Prima di curvare la schiena e mettersi al lavoro, il vecchio mietitore si fermò un attimo a guardare la vasta distesa davanti a lui. Perché stava per fare quello che aveva fatto per tutta la sua esistenza, e lo avrebbe fatto allo stesso, identico modo di sempre. Ma quella volta, sarebbe stata l’ultima. Quello sarebbe stato il suo ultimo raccolto.


Quanti ne aveva fatti, prima di quello? Talmente tanti da averne perso il conto. Talmente tanti da essere diventati, nella memoria, un tutto unico e confuso. Una mietitura sovrapposta all’altra, ogni stagione che sfumava nella successiva. La sua esistenza era stata solo lavoro, duro e senza domande, perché la sola risposta a qualsiasi “perché?” sarebbe stata “perché sì”. I primi anni le braccia si erano rafforzate, gesto dopo gesto, raccolto dopo raccolto. Poi, quasi senza che se ne accorgesse, senza un inizio preciso, la schiena gli si era incurvata, il corpo si era indebolito, la fatica era aumentata. Raccolto dopo raccolto. Ma era il suo mestiere, era il suo compito. A volte aveva provato qualcosa, prima di affrontare l’ennesima messe, o mentre tagliava e tagliava? si chiese. Sì. Molte volte, anche se forse non di recente. Molte volte, e molte cose diverse. Sensazioni; emozioni – sì, persino in un lavoro così monotono potevano sorgere emozioni. All’inizio era stato entusiasmo. Giovanile, inconsapevole, stupido entusiasmo. Per la propria forza, per quello che faceva. Per gli steli che cadevano, recisi con un colpo netto, con un fluttuare perfetto della falce che quasi non gli costava sforzo. Tranciati da lui. Poi, un po’ per volta, qualcosa era cambiato. Lui era cambiato. A volte aveva provato rabbia, che aveva cercato di sfogare proprio in quel modo, mettendo tutta la propria forza in quell’attività monotona, snervante, quasi ossessiva, colpendo e colpendo, tagliando e tagliando. Anche se la sua rabbia nasceva proprio da quello che stava facendo, che era costretto a fare. Ma altre volte, era stata soddisfazione. Liberatoria soddisfazione, senza alcuna punta di amarezza o rimpianto. Quelle volte aveva pensato “è giusto, è questo il mio lavoro questa volta è giiusto che sia così”, ed era stato persino contento di essere lui a farlo. Perchè aveva tagliato erbacce, sterpaglie sterili e rovi colmi di spine taglienti.  Altre volte, anche se non avrebbe voluto ricordarlo, aveva provato amarezza. Forse dolore. Può un mietitore provare affetto e dolore per il raccolto? A volte sì, lo sapeva perché lo aveva sentito così chiaramente, dentro di se’. Dapprima con stupore, sorpreso di se stesso. Poi, con il tempo e la maturità, aveva imparato che era una sensazione quasi normale, anche se questo non l'aveva resa meno amara. Dolore, sì. Quando le messi erano cresciute a fatica, in un anno di siccità o di gelate e intemperie. Avevano stentato a nascere nel terreno spaccato dalla sete, a trovare la forza per alzarsi verso un sole spietato che sembrava volerle bruciare; eppure ci erano riuscite. Con un’ ostinazione, una forza, pur nella loro assoluta debolezza, che al momento di stroncarle con il taglio perfetto della sua falce gli parevano essere state così patetiche, tristi, sprecate. Gli era apparso ingiusto, in quei momenti, stroncare quelle vite esili, difficili, eppure tanto avvinghiate al suolo arso e ingrato in cui affondavano poche radici fragili. Avvinghiate a qualsiasi cosa a cui ci si potesse aggrappare. Avvinghiate, a volte, soltanto a se stesse. Non è giusto, si era detto. Ma era il suo lavoro, era ciò che l’eterno avvicendarsi dei raccolti gli chiedeva; e lo aveva fatto ugualmente. Perché a chi importa cosa prova, nel suo cuore, il mietitore? A chi interessa se il mietitore è stanco, infelice, amareggiato; se ha la schiena a pezzi, e forse anche il cuore?


A volte - facendo sempre lo stesso lavoro, da solo, anno dopo anno, stagione dopo stagione, si finiva davvero a pensare alle messi, a sentirle, come le moltitudini di piccolissime, infinitesime cose vive che erano - si era commosso, persino. Aveva provato una specie di triste tenerezza pensando all’eterno ciclo che si ripeteva: la semina, la gioia verde e fresca dei primi germogli che, finalmente liberi dalla morsa buia della terra, scoprivano il sole, l’aria, il cielo. La crescita, i frutti. E poi il lento seccare, sotto l’implacabile sole estivo, quello stesso sole che in primavera era apparso così dolce, accogliente ed amico. Tanto sforzo solo per arrivare a quel momento, all’incontro fatale con la sua falce. E poi ancora una semina, e tutto che ricominciava: altri germogli che facevano conoscenza dell’aria e del cielo, come se fossero i primi al mondo a scoprirli. Inconsapevoli, illusi. Come se tutto non fosse già accaduto mille volte, come se non fosse destinato a finire in un tagliente attimo che tutto recideva e portava via, come mille altre volte.


Il mietitore guardò ancora una volta l’ampia distesa dorata, che il vento muoveva leggermente e in modo irregolare, creando geometrie che duravano un attimo e poi erano già cambiate, già altrove, già svanite. Si passò la mano sulla fronte per tergersi il sudore che, chissà perché, l’aveva imperlata prima ancora che cominciasse il lavoro. Sarà l’emozione, si disse: non amava pensare di avere emozioni ma questa se la poteva concedere, davvero era strano pensare che stava per compiere quel rito per l’ultima volta, che non ce ne sarebbero state altre. E le domande erano lì, pronte, in agguato. Domande nuove, questa volta.
Cosa sarebbe stato di lui, dopo, senza ciò che gli aveva permesso di esistere? Cosa sarà del mietitore, quando non potrà più mietere? Ma evitava di chiederselo. La sua stessa esistenza non sarebbe più stata la stessa. Eppure, non poteva stare lì, sul ciglio del campo, ad esitare tutto il giorno. E allora via pensieri, timori, forse rimpianti. Via, tutto.
Via.
Via.


E, per l’ultima volta, si mise al lavoro.




Finì mentre il sole calava (niente di più appropriato, pensò). Raddrizzò la schiena e, per la prima volta, si concesse di guardarsi intorno. Era in piedi solo, in mezzo a quello che fino a quel mattino era stato un campo, in mezzo al deserto che lui stesso aveva creato. Controllò ancora. E lo vide. A una decina di passi da lui, un unico stelo, esile, era sfuggito alla sua falce. Lo raggiunse, alzò la lama e la roteò di piatto, nell’ampio, preciso movimento ad arco che aveva eseguito innumerevoli volte. Lo stelo cadde come niente: si era sentito solo il sibilo del metallo affilato che tagliava l’aria, lo stelo, cadendo, neanche aveva fatto rumore. Il vecchio mietitore avrebbe voluto dedicare almeno un pensiero, a quell’ultimo fuscello, l’ultimo tagliato dalla sua falce. Ma era caduto tra tutti gli altri, non lo distingueva più. Tutte le spighe erano uguali, alla fine.


Il vecchio mietitore non si concesse un altro sguardo intorno, alla spianata senza più vita. A passi lenti tornò alla piccola casa al limitare di quello che era stato un campo. Assurdo, pensò: aveva mietuto tutto il giorno, eppure continuava a pensare a quell’ultimo fuscello. L’ultimo degli ultimi. Era così esile, tanto più sottile degli altri. Non aveva senso e non era da lui, eppure avrebbe voluto sapere almeno questo: cos’era stato? Un ragazzo, forse un bambino? Un vecchio devìbole e fragile, ridotto quasi a un nulla?
In ogni caso, era stato l’ultimo. L’ultimo dell’ultimo raccolto. L’ultimo degli esseri umani. Ora quel piccolo pianeta era libero, libero da quella strana forma di vita. Qualcuno avrebbe ancora seminato quel campo, in un futuro lontano? Non gli era dato saperlo, a lui spettava solo la mietitura. Ma se ci fossero ancora stati semi, quello lo capiva da solo, sarebbero stati di un’altra specie, completamente nuova. Questa, aveva avuto la sua possibilità. E l’aveva persa.



Si chiuse la porta alle spalle e appese la falce al chiodo da cui non l’avrebbe mai più tolta. Poi raccolse da terra un vecchio straccio e coprì il piccolo specchio, per non vedere mai più il proprio volto.
 

   
 
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