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Autore: AveAtqueVale    24/07/2020    4 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Erano passate due settimane dal compleanno di Magnus e da allora tutto sembrava andare semplicemente peggio.

Catarina era tornata a casa il mattino seguente lasciando per iscritto al suo amico una sentita lettera di scuse, lo sguardo basso quando Magnus aveva deliberatamente ignorato la sua presenza in cucina quando si erano incrociati al risveglio. Per Magnus era stato straordinariamente difficile trattare la sua amica a quel modo, ma in quel momento non riusciva proprio a guardarla in faccia né ad accettare ciò che aveva fatto. Aveva compreso i motivi che l'avevano spinta ad agire a quel modo e sapeva perfettamente che tutto ciò che lei voleva era proteggerlo, ma aveva sbagliato nonostante le nobili intenzioni. Aveva ferito due persone al posto di una ed ora Magnus non sapeva cosa poteva fare per risolvere la situazione che lei aveva distrutto.

Alexander non rispondeva alle sue telefonate ed in più doveva averlo bloccato perché improvvisamente non era più capace di vedere la sua foto né di leggere i suoi stati. Non poteva neppure vedere se fosse online oppure no ed il pensiero che il ragazzo avesse potuto decidere di escluderlo a quel modo dalla sua vita lo fece sentire ancora peggio. Non poteva crollare, però. Avrebbe voluto rimanere steso a letto a fissare il soffitto piangendo tutte le sue lacrime, cadendo in pezzi fino a dissolversi come polvere al vento, ma non poteva farlo.

Nel momento in cui si era crogiolato nell'idea di capitolare alla sua tristezza, i volti dei suoi pazienti erano apparsi dietro le sue palpebre andando a ricordargli che c'erano persone -là fuori, che avevano davvero bisogno di lui. Persone che contavano sul suo aiuto per star meglio, per affrontare la loro vita. Persone che erano state abbandonate e maltrattate da chi avevano amato di più e che avrebbero potuto crollare a loro volta se fossero state lasciate anche da lui. Magnus era il loro sostegno, la loro guida. Aveva scelto lui di esserlo e non poteva tirarsi indietro a dispetto dei suoi sentimenti e del suo dolore. Non si sentiva obbligato a rimanere in piedi, si sentì travolto dall'avvolgente desiderio di non abbandonarli. Non aveva mai sentito una cosa simile per i suoi pazienti prima d'allora. Non aveva mai dimostrato affetto nei loro confronti né davanti a loro né nel suo privato. Aveva sempre pensato di non essere realmente interessato alla loro presenza nella sua vita, ma l'idea di lasciarli sprofondare -adesso- appariva orribile e insopportabile.

Voleva che loro riuscissero a sopravvivere.

Voleva che loro ritrovassero la loro felicità.

Un equilibrio.

E così si era impegnato per non precipitare nell'oscuro abisso che si stava spalancando nella sua anima. Si era impegnato per rimanere a galla, per non crollare. Il pensiero di Alexander era divenuto un coinquilino pesante con cui condividere la propria vita e, al tempo stesso, un doloroso amante. Ogni sera si abbandonava al pensiero di lui ripercorrendo tutti i vari momenti del loro rapporto. Ogni sera si abbandonava all'idea di essere stato fortunato a trovare Alec nella sua vita e che molte altre persone al mondo non erano state fortunate quanto lui dal conoscerlo. Si crogiolava nei ricordi di quei rari momenti che li avevano visti così vicini da permettergli di inspirare a pieni polmoni il suo odore.

Gli piaceva il profumo della sua pelle.

Non sembrava il tipo di persona che si spruzzasse addosso profumi o dopobarba, per cui aveva immaginato che quell'aroma fosse suo caratteristico. Era dolce, delicato, quasi selvatico. Un profumo che col tempo aveva associato ad una sensazione di pace e benessere. Ricordava quanto fosse morbida la sua pelle al tatto, quanto calde fossero le sue guance ogni volta che le sfiorava. Ricordava cosa aveva provato e pensato nel notare tutti questi particolari ma, più i giorni passavano, più il reale ricordo di quel contatto iniziava a sfumare lentamente. Iniziava a non ricordare bene come fosse il suono della sua voce, che tipo di accento avesse quando parlava. Non ricordava se gli avesse notato nei addosso o un minimo accenno di barba. L'unica cosa che ricordava distintamente e che, probabilmente, non avrebbe mai dimenticato, era il colore dei suoi occhi.

Il colore del cielo all'alba, quel celeste così chiaro da risultare quasi trasparente, come fossero porte di vetro con accesso diretto alla sua splendida anima. Quelli, Magnus sapeva, non avrebbe potuto dimenticarli mai.

Ragnor e Raphael avevano iniziato a farsi vivi più spesso. Magnus non aveva detto loro nulla su quell'enorme e complicata situazione e dubitava che Catarina avesse raccontato loro qualcosa che non c'entrasse direttamente con la propria vita. Non era mai stata un'impicciona e considerate le conseguenze scaturite dall'unico momento in cui aveva deciso di esserlo, dubitava l'avrebbe fatto ancora. Più probabilmente i due si erano soltanto resi conto del cambiamento nell'umore dell'amico e senza chiedere alcun ché avevano deciso di stargli accanto. Magnus aveva apprezzato sinceramente il loro interesse, ma nemmeno la loro vicinanza fu in grado di rendere più sopportabile l'assenza di Alexander dalla sua vita.

Catarina non si faceva vedere ma faceva il possibile per essere utile quando serviva; dopo qualche giorno dalla loro lite Magnus aveva ceduto al bisogno di chiarire con lei ed era andato a trovarla per un caffé. L'incontro era stato lungo, teso, ma alla fine necessario. La ragazza si era scusata altre mille e mille volte, si era offerta di cercare il ragazzo per parlargli e risistemare le cose, ma Magnus sapeva che non era così semplice; ormai l'idea di essere deleterio per il terapeuta aveva messo radici profonde nel cuore del ragazzo e non sarebbe bastata alcuna parola al mondo per convincerlo del contrario. In ogni caso, non quelle di qualcun altro; Magnus sapeva che doveva essere lui e lui soltanto a raggiungerlo, che solamente lui poteva avere qualche speranza di mostrargli la verità: dopotutto, erano i suoi sentimenti al centro del disastro scatenatosi fra loro, no?

Così alla fine aveva in qualche modo perdonato Catarina per ciò che aveva fatto, comprendendo che non v'era mai stata cattiveria alla base del suo gesto ma semplice desiderio di proteggerlo, ma una parte di lui non riusciva a parlarle come era sempre stato solito fare. Non riusciva più a rivolgersi a lei quando aveva bisogno di confidarsi con qualcuno, non aveva voglia di sentirla come al solito. Le voleva ancora bene, ma il dolore provato a causa sua era ancora troppo forte per permettergli di dimenticare il torto subito. Non le portava rancore, non era più furente, ma nemmeno indifferente a quello che era successo.

Era come se Catarina avesse cancellato Alexander dall'esistenza.

Da quella sera era semplicemente-- svanito. Non si era fatto più vedere in studio, naturalmente, e neppure aveva telefonato o avvisato la sua segretaria per disdire i loro incontri. Magnus aveva informato Lucy personalmente del fatto che avrebbe potuto riprogrammare i futuri appuntamenti del terapeuta senza tener conto del signor Lightwood, il che le fece pensare che, forse, il ragazzo avesse informato Magnus direttamente di quella disdetta. Questa spiegazione la confuse nel momento in cui Maryse Lightwood si presentò impettita e furiosa nello studio con l'unica intenzione di voler parlare con “Il Dottor Bane”.

Magnus si era aspettato qualcosa del genere; dopo quel brevissimo momento di vicinanza che avevano condiviso, era certo che la donna si sarebbe precipitata da lui non appena avesse visto l'immediato peggioramento delle condizioni del figlio.

«Perché non si accomoda nel mio studio, signora Lightwood?» le aveva detto due giorni dopo la sera del suo compleanno, quando la donna si era presentata nervosa e tremante di rabbia nella piccola sala d'attesa del suo ufficio.

Maryse, senza dire una sola parola, lo aveva superato con la testa alta e le dita che artigliavano l'elegante pochette di velluto borgogna facendo risuonare tutt'attorno l'eco leggero dei propri passi.

Sospirando Magnus aveva richiuso la porta alle proprie spalle e quindi aveva raggiunto la donna ponendosi dall'altro lato della scrivania in mogano scuro.

«Cosa è successo a mio figlio?»

Non attese neppure che Magnus si sedette, né che dicesse qualcosa. Non appena lo ebbe visto rientrare nel proprio campo visivo puntò su di lui lo sguardo ferreo e arrivò al punto del discorso senza alcun tipo di preambolo.

Il medico si sfilò la sciarpa di raso dorato poggiandola sulla scrivania e sbottonò il primo bottone della camicia leopardata con la sola mancina.

«Cosa intende dire, signora Lightwood?». Naturalmente Magnus sapeva perfettamente cosa l'altra intendesse; poteva chiaramente immaginare l'espressione buia di Alexander e i suoi silenzi densi ed impenetrabili, ma non poteva certo dire alla donna a cosa questi fossero dovuti, né che avessero a che fare con lui.

Maryse osservò l'altro in volto in rigido silenzio per una manciata di lunghi secondi prima di raddrizzare la schiena in una posa sicuramente scomoda ma autoritaria. «Credo che lei sappia perfettamente cosa intendo dire.» disse inspirando silenziosamente dal naso. «Proprio l'altro giorno stavamo parlando di come ultimamente stesse aprendosi uscendo fuori dal suo guscio dopo anni di distanza e silenzio. Adesso, da due giorni, è chiuso nella sua stanza e non parla con nessuno, a stento mangia.»

Ascoltare le parole della donna non fece che peggiorare l'umore di Magnus; sapere in che condizioni era ridotto Alexander a causa sua gli faceva rivoltare lo stomaco ma non poteva certo tapparsi le orecchie e rifuggire la realtà. Lo doveva a lui e alla famiglia che aveva deluso.

«Ha saltato il vostro appuntamento, dubito vorrà presentarsi ai prossimi. L'altra sera è tornato a casa e si è chiuso in camera senza fiatare. Mi sembra ovvio supporre che sia successo qualcosa che lo abbia stravolto e se c'è qualcuno che può saperne qualcosa allora sono sicura che questo è lei.»

Lo sguardo penetrante della donna si era fissato severo in quello di Magnus senza mancare di mostrare una sfumatura di fragilità e timore. Disorientata, persa, parve aggrapparsi disperatamente all'unica strada per lei sensata. L'uomo si umettò le labbra sapendo che l'altra non avrebbe aggiunto una sola parola. Attendeva che fosse lui a parlare, a darle una spiegazione.

Ma cosa avrebbe mai potuto dirle? Che aveva spezzato il cuore di suo figlio? Che lo aveva illuso di aver trovato qualcuno che l'avrebbe aiutato e che poi gli è stato strappato via?

Per un eterno istante si sentì galleggiare sul posto, come se stesse cadendo verso un fondale marino profondo e distante. Si sentì privo di sostegni o respiro e col cuore che accelerava violento nel petto si schiarì la gola espirando stancamente.

«Non so cosa dirle, signora Lightwood.» chiosò alla fine sollevando uno sguardo mortificato e grave. «Sicuramente qualcosa ha turbato l'equilibrio che Alexander aveva raggiunto con tanta fatica e ora ci sta facendo i conti, da quel che mi ha detto. Il fatto stesso che non voglia più venire qui è sintomo del fatto che ha lasciato la presa sull'ancora che gli era stata lanciata-» l'idea di mentire alla donna lo turbava profondamente. Lo faceva sentire sporco, colpevole e meschino al tempo stesso. Avrebbe preferito gridare a gran voce come tutto quanto fosse colpa sua, ma sapeva che farlo non avrebbe aiutato nessuno, anzi; probabilmente avrebbe solo reso Alexander più triste e miserabile di quanto non si sentisse già adesso. «-tuttavia questo non toglie che non so cosa sia accaduto e che, se anche lo sapessi, non potrei parlargliene.»

«Ma io sono sua madre!» esclamò la donna quasi indignata, sgranando gli occhi e fissando il terapeuta con aria oltraggiata.

«E Alexander è un adulto. La sua privacy è sua e sua soltanto.» ribatté l'uomo sostenendo con forza lo sguardo dell'altra, non senza una certa difficoltà. «Io capisco perfettamente quanto per lei sia difficile accettarlo, mi creda.» capitolò dopo poco Magnus sospirando e abbandonandosi alla propria poltrona, stanco. «Anche io vorrei poter fare qualcosa per aiutarlo, ma l'unico modo per riuscirci è aspettare che sia lui a volersi far aiutare. In questo momento stargli addosso è la cosa peggiore che potremmo fare.» spiegò l'uomo cercando quasi di convincere più se stesso che la madre del ragazzo. «Fargli domande, chiedergli cosa sia accaduto non farà altro che farlo sentire ancora più in difficoltà, sotto pressione: sentirà di dovere delle spiegazioni a qualcuno anche se non è ancora pronto e la cosa lo porterà a voler fuggire ancora di più e a chiudersi definitivamente.»

«E cosa vuole che faccia? Che lo abbandoni così?» intervenne Maryse alzandosi in piedi di scatto, come offesa dal dire altrui. «Per lei è un paziente come un altro, ma lui è mio figlio. Non starò a guardare mentre cade a pezzi!»

Magnus si levò in piedi a sua volta sentendo il suo corpo pesare chili e chili di più.

«Nessuno le ha detto di abbandonarlo a se stesso, signora Lightwood.» mormorò guardandola negli occhi, paziente, colpevole. «La cosa migliore da fare per ora è rimanergli accanto. Non chiedetegli nulla, non mettetegli pressione, limitatevi a esserci. Stategli accanto, invitatelo ad uscire, a mangiare, sorridetegli. Abbracciatelo se ve lo permette, rassicuratelo sul fatto che qualunque cosa accada voi sarete nella stanza accanto, a portata di mano.» spiegò lui con le mani poggiate ora sulla superficie della scrivania dinnanzi a sé a fornirgli un blando appoggio. «Lasciate che veda che non è solo. Che gli volete bene ma che rispettate i suoi tempi. Il resto verrà da sé.»

Maryse deglutì in silenzio soppesando le parole dell'uomo per ragionare sulla validità del suo consiglio, guardinga e circospetta.

«Alexander non è un paziente come un altro.» si lasciò sfuggire alla fine Magnus quasi come una sentita rassicurazione nei riguardi dell'altra. «E' un ragazzo incredibile e mi sono sinceramente affezionato a lui. Non scambiate la mia impossibilità di fare qualcosa per indifferenza... Io...» ma la voce gli venne meno nel momento stesso in cui si rese conto che non sapeva cos'altro aggiungere. Forse, aveva già detto troppo.

Maryse deglutì ancora una volta e schiarendosi la gola mosse una mano in un cenno atto a volerlo silenziare.

«Va bene. Seguirò il suo consiglio. Gli lascerò spazio.» disse come se volesse semplicemente ignorare il dire del terapeuta in merito al proprio coinvolgimento nella vita del figlio. «Ma se dovessi vedere la situazione peggiorare... non starò con le mani in mano.»

E detto questo, quasi fosse una minaccia, se ne andò dallo studio senza neppure salutare.

Magnus rimase dietro la sua scrivania con il bisogno di rimanere solo e di bere, la voglia di sentire una volta ancora la voce di Alexander a consumarlo dall'interno.

*

Le giornate passavano monotone e identiche da quella maledetta sera.

Si svegliava, si rigirava nel letto, fissava e rifissava la loro ultima conversazione e dormiva di nuovo. Per i primi giorni si addormentava dopo violenti attacchi di pianto e crisi di panico che gli toglievano il respiro, ma più il tempo passava, più si sentiva svuotato di ogni cosa. Ossigeno, lacrime, sentimenti. Non sentiva neppure più la tristezza, né il dolore. Tutto stava scivolando via da lui lasciandolo inerme, nudo. Vuoto.

Si sentiva perso e privo di stimoli.

Non aveva voglia di alzarsi, di cambiarsi, di mangiare.

Non usciva dalla sua stanza se non per andare in bagno quando il suo corpo arrivava al limite di sopportazione. Sul viso aveva cominciato già a comparire una barba ispida e ruvida dopo due settimane di incuria. I capelli erano un groviglio spettinato simile al nido di un uccello, i suoi occhi erano cerchiati di una leggera sfumatura violacea a causa del sonno nient'affatto ristoratore che nell'ultimo periodo lo metteva a dura prova. Non aveva fame, non aveva sete. Rimaneva solo al buio sotto le coperte col cellulare stretto fra le dita, consapevole del fatto che non avrebbe più squillato.

I primi tre giorni Magnus aveva provato a chiamarlo trentasette volte in totale.

La sera in cui lo aveva bloccato, il mattino dopo, la sera quando sicuramente doveva aver staccato dal lavoro. Non aveva mai risposto, si era limitato a rannicchiarsi sotto le coperte a fissare il nome di Magnus che lampeggiava sullo schermo stringendo il telefono con forza nella mano, quasi come se si stesse aggrappando ad esso, combattendo con l'atavico bisogno di rispondere e sentirlo. Le lacrime uscivano copiose dopo ogni telefonata persa e mordendo il cuscino soffocava contro la stoffa il dolore che provava internamente. Si sentiva solo. Perso. Spaventato.

Le telefonate cessarono il quarto giorno.

Magnus aveva rinunciato a cercarlo, a sentirlo. La cosa avrebbe dovuto sollevarlo, ma fu solamente peggio; sapeva di essere stato lui ad allontanarlo, a dire “basta”, ma ogni telefonata gli dava una scintilla di vita che si mescolava al dolore del non poterlo raggiungere davvero ed ora non gli rimaneva che l'assordante silenzio della sua stanza, l'assenza ora totale di lui dalla sua vita. Si chiedeva se fosse arrabbiato, se con una scrollata di spalle avesse semplicemente scelto di dimenticarsi di lui e fosse andato avanti con la sua vita concentrandosi sul lavoro o magari su un prossimo disastroso appuntamento da cui poi Ragnor avrebbe dovuto salvarlo...

Ma poi saliva incontrollata la colpa; come poteva pensare che Magnus fosse tanto meschino da dimenticarsi semplicemente di lui in questo modo? Per qualcosa di cui alla fine era all'oscuro e che anzi, aveva cercato persino di risolvere? Magnus non era così, lui non abbandonava le persone. Magnus era premuroso, attento, gentile. Un guardiano silenzioso capace di donare ciò di cui si aveva bisogno senza che ci fosse neppure bisogno di chiedergli alcun ché. Un angelo le cui ali dorate donavano conforto e pace a chiunque ne venisse avvolto e cullato.

Lui, per un breve periodo, era stato stretto dal dolce abbraccio delle sue piume.

Ricordava il calore, il benessere di quel tocco.

Ricordava la sensazione di libertà provata nel suo studio, in casa sua, sotto il suo sguardo paziente.

Ricordava la sfumatura dorata della sua pelle... o era forse più caramellata? Magari olivastra? Fu straziante il momento in cui si rese conto che, alla fine, non ricordava più così bene quei piccoli particolari che tanto gli erano stati a cuore. Avrebbe voluto averlo guardato meglio quell'ultima sera. Avrebbe voluto sapere prima che sarebbe stata l'ultima volta che lo avrebbe visto, sicuramente avrebbe memorizzato meglio i lineamenti del suo viso, i tratti del suo volto, le sfumature dei suoi occhi. Questo tipo di riflessioni accompagnarono Alexander per le due settimane successive la festa fino a quando, la sera del sedicesimo giorno, qualcosa non interruppe i suoi pensieri.

«Mi hai proprio rotto, Alec!» La voce di Isabelle esplose nel silenzio della sua stanza mentre la sua figura compariva sulla soglia inondando di luce l’interno della camera, straziandone il buio altresì denso. «Mi hai sentito?» aggiunse avanzando nella stanza a grandi passi, avvicinandosi al letto. Afferrò con decisione le coperte e le strappò di dosso al fratello che, mugugnando, si rotolò sul fianco opposto dandole le spalle.

Sapeva che doveva star facendo ammattire sua sorella con il suo comportamento, erano giorni che lei cercava di convincerlo a parlare, a mangiare, a fare qualsiasi cosa non fosse vegetare nel suo letto, ma al tempo stesso si sentiva furioso con lei. Furioso perché non lo lasciava in pace, furioso perché non capiva quanto bisogno avesse di spegnersi così, sempre di più, giorno dopo giorno.

«Ah no, non pensarci nemmeno» disse con una mezza risata isterica, aggirando nuovamente il letto per metterglisi davanti. «Puoi continuare a fare il depresso quanto vuoi ma questo» e indicò la finestra serrata, il letto disfatto, il tanfo di chiuso che riempiva la camera «deve finire.»

«Vattene» replicò il ragazzo cercando nuovamente di girarsi, rannicchiato su se stesso come un bambino troppo cresciuto, con le sue gambe troppo lunghe, le sue braccia ad avvolgere quasi il cuscino sotto il capo.

«Ah-ah» replicò la sorella con diniego, palesemente intestardita nella sua missione. «Te lo scordi. Ti ho lasciato ammuffire qui dentro per due settimane e non è servito a niente, adesso passiamo alle maniere forti e vediamo se almeno quelle serviranno a qualcosa.» disse secca, decisa, spalancando la finestra da cui entrò una ventata di aria gelida e pulita.

«Devi alzarti Alec.» riprese una volta giratasi nuovamente verso il letto. «Sul serio, hai bisogno di una doccia e di cambiarti queste lenzuola: puzzi.» lo rimproverò con un tono che iniziava ad assomigliare inquietantemente a quello di sua madre.
«Piantala. Ho detto vattene, Isabelle.» La voce di Alec venne fuori appena più decisa, sicuramente irritata, ma al tempo stesso vagamente rauca: erano giorni che non spiccicava parola, dopotutto.

«E io ti ho già detto di no.» esclamò altrettanto irritata lei sbattendo un piede contro il pavimento, un tentativo disperato di scaricare la frustrazione su qualcosa che non fosse la faccia del fratello. «Non mi importa un fico secco di quello che ti è successo se è quello che ti preoccupa. Non ti voglio fare un interrogatorio né costringerti a parlare. Puoi tenerti i tuoi misteri o quello che ti pare, ma non ti lascerò marcire in questo letto un’ora di più!»

A quel punto lo afferrò per un braccio, allungandosi sul suo letto e tentò di tirarlo verso di sé costringendolo ad alzarsi.

Alec si ribellò a quel gesto strattonando il proprio braccio, quasi finendo col tirarsi addosso Isabelle nel mentre.

La ragazza strinse i denti, trattenendo malamente la voglia di imprecare e lui poté sentire il momento in cui cercò di riacquistare la calma inspirando a fondo con un sibilo impercettibile del naso.

«Va bene Alec. Se la metti così non mi lasci altra scelta.»

Il ragazzo sentì i passi della sorella allontanarsi verso la porta e per un brevissimo istante osò sperare che si fosse arresa. Ma ci volle poco perché sentisse la sua voce, nel corridoio immediatamente esterno alla stanza, rivolgersi a qualcuno apparentemente lì presente.

«Buttalo sotto la doccia»

Alec aprì gli occhi, pur non muovendosi dal suo letto, solo per vedere la figura di Jace farsi largo nella stanza col suo solito passo sicuro e fiero, le mani a pressarsi le une sulle altre, alternativamente, facendo schioccare le dita.

«C-cosa?» boccheggiò il moro sgranando gli occhi, sollevandosi appena dal letto mentre vedeva l’amico farsi pericolosamente vicino. «Jace, per-per favore…»

«Ah, mi dispiace amico, ma sto con Isabelle questa volta.» replicò lui con tono greve, chinandosi per afferrare l’altro per un braccio e tirarselo sostanzialmente addosso. «Stai davvero facendo l’idiota»

Se resistere alla forza di sua sorella era stato semplice, lo stesso non si poteva dire adesso con quella di lui. Anche nel pieno delle forze gli sarebbe stato impossibile competere con la forza fisica di Jace, figurarsi adesso che era debole dal quasi digiuno e dalle troppe notti passate senza un reale riposo. Alec si sentì strappare via dal materasso, mezzo sollevato e mezzo disteso, con un braccio bloccato fra le mani di Jace e l’altro a tentare di far resistenza con le dita che artigliavano -inutilmente- le lenzuola.

«Jace!» esclamò il moro più sconvolto che irritato, imbarazzato da quella situazione nella sua interezza, umiliato dalla sensazione dell’essere osservato in quelle condizioni sia da lui che da sua sorella che da Clary, in piedi sulla soglia al fianco di Isabelle.

«Sì?» disse il ragazzo smettendo di tirare il braccio altrui ma senza accennare minimamente a mollare la presa. «Preferisci alzarti con le tue gambe?» domandò sollevando le sopracciglia, per niente intenzionato a lasciar perdere la cosa. «Io ti consiglierei di dirmi di sì perché al prossimo rifiuto ti prendo in braccio, che tu lo voglia o no.»

Se solitamente Jace usava rivolgersi all’amico con tono scherzoso e divertito, adesso era preoccupantemente serio. Alec ne era perfettamente consapevole, abbastanza da sospirare e strattonare via il braccio dalla sua presa con uno sbuffo infastidito.

«Va bene, va bene!» si arrese mettendosi meglio a sedere, sotto gli sguardi lievemente sollevati dei presenti. Jace lo liberò dalla propria stretta e gli lasciò modo di alzarsi da sé. Tuttavia quando lo seguì nella sua avanzata verso il corridoio, Alec si ritrovò a fissarlo sgomento.

«Che c’è? Verrai sotto la doccia anche tu?» domandò grondante di amaro sarcasmo.

«L’idea non mi alletta ma se mi costringi…» si strinse nelle spalle Jace, fissandolo dritto negli occhi.

Alec sgranò gli occhi fissando basito l’amico, la sorella e Clary attorno a sé.

Tutti avevano sul viso uno sguardo scuro, ricco di sfumature che andavano dalla determinazione, alla tristezza, alla compassione. Clary, in particolar modo, aveva sul viso una sorta di espressione di scuse ed Alec dovette immaginare che la ragazza fosse per assurdo la persona più a disagio lì in mezzo: non aveva mai avuto troppa confidenza con lui, ma doveva esser stata richiamata al servizio da Isabelle e dal suo ragazzo. Alec non seppe se sentirsi ancora più irritato da quella cosa o colpevole. Li aveva fatti preoccupare davvero fino a quel punto?

Per l’ennesima volta stava ferendo qualcuno col suo atteggiamento, a quanto pareva, e senza che ne avesse neppure intenzione. Sembrava che fosse capace di distruggere qualsiasi cosa arrivasse a sfiorare.

Nella sua mente il ricordo della voce di Isabelle lo ammonì.

E no eh. L’autocommiserazione no!” si rimproverò mentalmente realizzando come, nel suo inconscio, avesse dato alla propria coscienza la voce della sorella.

«Non ce n’è bisogno. Ormai mi sono alzato…» capitolò alla fine Alec passandosi una mano fra i capelli. Dopo tanti giorni d’incuria li sentì scivolosi sotto le dita, grassi e sporchi in un modo nuovo e rivoltante.

Isabelle non sembrava propriamente convinta ma non lo seguì.

Jace tuttavia non sembrò desistere e si fermò fuori dalla porta con le braccia conserte.

«Io ti aspetterò qui.» gli disse ora meno minaccioso, poggiandosi con la schiena contro la parete accanto l’uscio. «Mi assicuro che non scappi dalla finestra.» aggiunse indicandosi con un dito l’orecchio.

Il moro scosse il capo e, alzando gli occhi al cielo, si chiuse la porta del bagno alle spalle.

Rilasciò un lungo sospiro mentre afferrava il bordo del lavandino con le mani e si poggiava a quello come se avesse paura di cadere da un momento all’altro. Si sentiva stanco, imbarazzato e colpevole. Gli dispiaceva averli esasperati tanto e apprezzava il loro tentativo di esserci e stargli vicino. Tuttavia al tempo stesso avrebbe voluto rimanere da solo. Solo con i suoi ricordi e i suoi rimpianti e la sua amarezza. Cose che non avrebbero compreso e che non sarebbe mai riuscito a confidargli.

Sollevò lo sguardo sullo specchio e arricciò il viso in un’espressione disgustata.

Aveva occhiaie scure sotto gli occhi, i capelli arruffati e sparati in tutte le direzione in maniera evidentemente non voluta e studiata; più barba di quanta ne avesse mai avuta sul viso gli scuriva la linea del mento e del volto e solo in quel momento, dopo averla vista, si rese conto di quanto gli pizzicasse.

Era ridotto ad uno straccio e persino lui dovette ammettere quanto fosse penoso starsi a guardare.

Stringendo le labbra in una linea sottile cercò di aggrapparsi a quel minimo di determinazione che ancora aveva in corpo e si sfilò il pigiama gettandolo nella cesta dei panni sporchi.

La sensazione dell’aria fredda a contatto con la pelle lo fece rabbrividire: era rimasto sotto il calore dei vestiti per giorni e aveva dimenticato quanto fosse pungente l’aria fuori dal suo involucro di coperte. Parzialmente fu grato di quella sensazione: sentirsi avvolgere dal freddo manto dell’inverno lo fece sentire in qualche modo ancora vivo.

Così, avviato il getto d’acqua, s’infilò sotto di quello cercando di farsi scivolare via di dosso, oltre allo sporco almeno parte del proprio dolore.
   
 
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