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Autore: ChrisAndreini    25/07/2020    1 recensioni
[Storia partecipante al Contest "Villain’s Ballad" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
Anahola, Kauai, metà Maggio. Una missione come le altre, o una vacanza inaspettata, che però porta con sé un profondo conflitto interiore e un incontro davvero singolare per May e le sue coinquiline.
DAL TESTO:
"Uno sparo.
Era da lì che cominciava sempre. L’impatto uditivo era stata la prima cosa che aveva sentito, mentre l’aria iniziava ad abbandonarle i polmoni, e gli occhi erano chiusi a metà e appannati dalle lacrime.
Era il terzo sparo che aveva sferzato l’aria quella calda notte di maggio, ma era l’unico che la bambina di sette anni premuta con forza nel pavimento ricordava. Forse perché era stato talmente vicino da assordarla qualche minuto. Forse perché le aveva cambiato la vita davanti agli occhi. O forse c’era un motivo più profondo che la portava a ricordare solo ed esclusivamente quello sparo"
Genere: Angst, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Hibiscus

Biancospino

 

Uno sparo.

Era da lì che cominciava sempre. L’impatto uditivo era stata la prima cosa che aveva sentito, mentre l’aria iniziava ad abbandonarle i polmoni, e gli occhi erano chiusi a metà e appannati dalle lacrime.

Era il terzo sparo che aveva sferzato l’aria quella calda notte di maggio, ma era l’unico che la bambina di sette anni premuta con forza nel pavimento ricordava. Forse perché era stato talmente vicino da assordarla qualche minuto. Forse perché le aveva cambiato la vita davanti agli occhi. O forse c’era un motivo più profondo che la portava a ricordare solo ed esclusivamente quello sparo.

Se qualcuno le avesse chiesto di portare alla mente i suoi primissimi ricordi di vita, era probabile che quella notte sarebbe stata la prima scena che le sarebbe venuta alla mente. Lo sparo e tutto ciò che ne susseguì.

Il dolore incredibilmente acuto all’altezza delle costole, dove la pistola che teneva in mano, già premuta contro il suo petto, gliene aveva incrinate alcune per via del rinculo.

L’aria che iniziava a ritornarle nei polmoni mentre la presa feroce attorno al suo collo si allentava abbastanza da permetterle di respirare ancora. E l’odore metallico, fastidioso, ingombrante, che entrò insieme all’ossigeno.

La bambina aprì completamente gli occhi, cercando di capire cosa fosse appena successo, e per un attimo, un breve eppure lunghissimo istante, incrociò lo sguardo con quello dell’uomo sopra di lei. I suoi occhi scuri e iniettati di sangue, che la fissavano con rabbia e incredulità.

Aprì la bocca per dire qualcosa, per urlare, forse per morderla, ma uscì solo uno spruzzo di sangue.

E la vista, il volto, la bocca della bambina si riempirono di rosso. L’odore metallico si fece più forte, e nel silenzio seguente lo sparo che aveva dato il via a tutto, un tonfo sordo, un peso enorme che si abbatteva sopra di lei, furono i due indizi principali di quello che aveva fatto.

L’arma che ancora teneva meccanicamente tra mani venne schiacciata tra i due corpi. La canna della pistola era ustionante, e la camicia da notte della bambina troppo leggera per evitare che la scottasse, ma non avvertì il dolore. Non chiaramente almeno.

Tutto, intorno a lei, era ovattato. L’aria tornò a mancarle, l’odore metallico era nauseante, si sentiva circondata, avvolta, sepolta da quella patina appiccicosa e rivoltante. Una protezione che sembrava più che altro averla appena intrappolata. Una trappola non letale, ma eterna.

Si voltò lentamente alla sua destra, cercando di sfuggire alla visione indistinta di quel volto sporco, gli occhi che si facevano vitrei, la barba irta che le pungolava il collo, e il suo sguardo si posò su una bambina identica a lei, ma pulita. Inginocchiata a terra, guardava la scena sorpresa e confusa.

La gemella provò a sollevare una mano verso di lei, una richiesta di aiuto che la sua voce non riusciva a tirare fuori. Lei si avvicinò.

Strisciò verso la massa informe a terra, che nel buio non riusciva probabilmente a distinguere chiaramente, ma si fermò quando la sua piccola mano affondò nel sangue appena versato.

Gli occhi delle due bambine si incrociarono ancora una volta.

La confusione che prima aleggiava sul volto della sorella mutò in fretta in consapevolezza, incredulità, e poi terrore.

Indietreggiò in fretta, andando a sbattere contro il muro alle sue spalle.

E urlò.

Un urlo che la bambina, sepolta sotto il cadavere del padre che aveva appena  inavvertitamente ucciso, avrebbe ricordato per sempre.

 

Un urlo che la bambina, ormai diventata una donna, sdraiata su un letto che non le apparteneva, continuava a sentire risuonare nelle orecchie, a vent’anni di distanza.

May Campbell si portò le mani sul volto, scuotendo la testa in un inutile tentativo di far scomparire l’urlo che ogni anno, quel giorno esatto, le ricordava come una sveglia che razza di orribile persona fosse. Un’assassina, una pessima sorella, un virus dal quale sarebbe stato molto meglio liberarsi, e si rigirò nel letto cercando di trovare una posizione più comoda, ma finendo solo per rischiare di mangiare i propri capelli corvini che avrebbe decisamente preferito tagliare a zero.

L’urlo che le risuonava in testa ci mise un paio di minuti a dissiparsi, e solo allora May si decise a ad aprire finalmente gli occhi, e si guardò pigramente intorno, sperando di non trovare qualche sorpresa fuori posto.

Per fortuna, la casa che aveva affittato per un mese, a Kauai, nelle Hawaii, era perfettamente in ordine.

Massaggiandosi la testa che ancora pulsava dolorosamente dopo il solito incubo che aveva avuto, May si mise a sedere, e afferrò il telefono messo in carica sul comodino, per controllare il giorno e l’ora.

17 Maggio. 4.40 del mattino.

Puntuale come un orologio svizzero.

La giovane donna si buttò sul cuscino, chiedendosi se fosse il caso di tornare a dormire, ma sapendo bene che non ci sarebbe riuscita tanto presto.

Sospirò, e prese l’elastico che teneva sempre a portata di mano per legarsi i capelli in una coda che non permettesse loro di finirle in bocca ogni secondo, poi si decise ad alzarsi, e si avviò alla finestra, dalla quale si vedeva chiaramente il mare, nonostante fosse ancora avvolto dall’oscurità.

May non era tipa da mare. Non era neanche tipa da montagna. In generale non aveva preferenze e gusti particolari in fatto di posti, anche se le sarebbe davvero piaciuto stare da sola. La solitudine era il suo unico requisito.

Purtroppo, era praticamente impossibile per lei stare da sola. Non credeva di esserlo mai veramente stata, ma almeno era abbastanza brava ad ignorare l’ambiente circostante in modo da illudersi spesso di esserlo.

Aprì la finestra per far entrare un po’ d’aria, che iniziò a respirare a pieni polmoni, e si concesse il lusso di lasciare la sua mente vagare per un po’, grattandosi nervosamente il collo.

Controllò poi i messaggi sul telefono, eventuali note, me non c’era nulla che riguardasse quel giorno in particolare, o lei.

Neanche un messaggio di lavoro da Rachel, il suo capo e tutrice, la donna che l’aveva mandata lì senza spiegazioni e che non le aveva ancora detto il motivo nonostante ci stesse ormai da due settimane, senza essere mai uscita.

Certo, aver mandato lei non significava necessariamente che aveva un incarico per May in particolare, dato che erano un pacchetto che non si staccava mai, ma avrebbe davvero tanto voluto sapere che missione avrebbe potuto affidare ad una delle sue coinquiline lì, alle Hawaii.

In una zona neanche particolarmente turistica, grazie al cielo: Anahola.

May decise di non farsi domande, anche se avrebbe preferito che il viaggio di lavoro, o vacanza inaspettata, non fosse proprio il mese del suo compleanno.

Aveva dei rituali dopotutto: una lunga camminata, un po’ di autocommiserazione, una visita di cortesia ai suoi genitori morti proprio quel giorno e un’altro po’ di autocommiserazione.

Quasi tutto si poteva tranquillamente fare anche lì, ma May non aveva molta voglia di uscire. Non era uscita da quando erano lì, dopotutto, e la sola idea di incontrare persone non la entusiasmava per niente, e poi non poteva uscire senza avvertire.

…va bene, l’ultima era una scusa bella e buona.

“Non sono neanche le cinque, chi vuoi che giri a quest’ora?” le fece notare una divertita vocina nella sua testa, facendo roteare gli occhi di May, che non sopportava particolarmente quella vocina.

Decise però di assecondarla, dato che di dormire non se ne parlava proprio, e una camminata l’avrebbe di certo aiutata a non pensare troppo allo sparo che ancora vagamente udiva se si dissociava troppo.

E l’urlo che sicuramente l’avrebbe perseguitata per tutto il giorno, come al solito.

Scrisse una nota sul telefono, si vestì velocemente senza darsi la pena di truccarsi o metterci particolare cura e prese distrattamente la borsa che sapeva essere pronta all’uso. Si bloccò sui suoi passi quando il suo sguardo si fermò sulla pistola che aveva messo in un’alta mensola, fuori dalla portata di chi non sapesse dove fosse, e dopo qualche secondo di riflessione, decise che fosse molto più sicuro portarla, come assicurazione.

Era ottima per restare nel pieno delle proprie facoltà mentali, l’aiutava stranamente a focalizzarsi, e restare concentrata anche quando la sua mente sarebbe voluta andare in tutt’altro posto. E quel giorno la sua mente era molto più provata, stanca e dissociata del solito.

La mise con attenzione sulla schiena, a contatto diretto con la pelle e nascosta in modo che nessuno la notasse, poi prese le chiavi di casa e uscì, dopo essersi assicurata di aver chiuso bene la finestra.

Non che temesse che qualcuno rubasse qualcosa. Non c’era molto da trafugare, in quella casa in affitto. Ma non voleva comunque correre rischi. Non era al corrente di tutto ciò che avevano portato le sue coinquiline.

***

Un’ora e mezza, cinque chilometri, e una playlist sul telefono più tardi, si era concessa il lusso di fermarsi ad un bar sulla spiaggia per prendere un caffè. Erano ormai le sei passate, ed era improbabile che sarebbe tornata a dormire, e del caffè sarebbe stato utile se non necessario per svegliarsi del tutto ed evitare di svenire dal sonno nel corso della giornata. Per fortuna a quell’ora il bar era vuoto, ed era stata servita molto in fretta dal proprietario. Un tipo cordiale che però non le stava togliendo gli occhi di dosso. May avrebbe di gran lunga preferito che pensasse al suo lavoro e non a lei, anche se probabilmente osservare lei era in parte il suo lavoro. Solo che la ragazza odiava sentirsi osservata, o essere al centro dell’attenzione, e non apprezzava particolarmente neanche la normale cortesia, troppo falsa perché lei la prendesse sul serio. Le facciate delle persone accanto a lei erano sempre motivo di preoccupazione e attenzione. Non ci si poteva mai fidare di chi sorrideva senza intenderlo davvero, di chi salutava solo perché era educato farlo, di chi parlava senza mai agire. Quelle persone erano destinate a pugnalarla alle spalle.

May cercò di ignorare lo sguardo del proprietario, al momento impegnato a lavare qualche tazza sporca, e osservò le onde abbattersi sulla spiaggia. Sembrava un’ottima giornata per gli amanti del surf, non che May fosse tra loro. Ma i raggi del sole che iniziavano a ricoprire la spiaggia e il mare, tingendo il paesaggio di infinite tonalità calde, il vento che le accarezzava la faccia, e il silenzio che circondava il locale, le fecero quasi venir voglia di provare, o almeno di buttarsi nel mare e farsi trascinare dalla corrente. Divertirsi un po’.

“Non ti meriti divertimento…” le ricordò una voce nella testa, accompagnata da un pizzico sulla gamba, che la fece tornare in sé.

Si prese la mano destra per sicurezza, e controllò che il proprietario non si fosse accorto del suo momento di debolezza, ma per fortuna, lui non la stava più guardando. Il suo sguardo si era fatto cupo, e controllava un punto all’orizzonte, molto sul chi vive. May non capì cosa stessa guardando, e non le importava particolarmente.

Sollevata per il pericolo scampato, tornò al suo caffè, affrettandosi a finirlo per poter tornare a casa e restarci a tempo indeterminato.

Purtroppo, non fu abbastanza veloce, e la cosa, o meglio, la persona che il proprietario stava guardando all’orizzonte, rivelatasi essere un tipetto biondo basso e mingherlino, arrivò prima che lei potesse togliersi di mezzo, entrando nel bar stiracchiandosi e iniziando a parlare senza neanche accertarsi di non essere il solo cliente.

-Ciao Kenny, amico mio! Potresti farmi un caffè? Sono distrutto. Ieri è stata una nottataccia- esordì, a voce alta, sedendosi con sicurezza davanti al bancone e iniziando a batterci le mani a ritmo.

May lo prese immediatamente in antipatia. Era tutto ciò che più le dava fastidio: rumoroso, espansivo, nevrotico.

Si maledisse per aver ordinato anche un bagel, e cercò di finirlo in fretta senza però attirare l’attenzione del nuovo cliente, che sembrava il tipo di persona che iniziava una conversazione con chiunque si trovasse attorno e lui, specialmente nei momenti di attesa.

-Sono Kanuha per te, specialmente dopo quello che hai fatto ieri sera. Non sei più il benvenuto qui al bar- il proprietario incrociò le braccia, lanciando al biondo uno sguardo sdegnoso, quasi minaccioso.

-Amico, dai, l’ho fatto per te. Quella coppia stava chiaramente progettando qualcosa di losco, che ne potevo sapere che avrei rovinato la proposta di matrimonio di lui?- provò a giustificarsi il cliente, un po’ a disagio, continuando a battere le mani a ritmo.

-Hai chiamato la polizia perché temevi un attentato! Hai davvero superato il limite. Non scherzavo quando dicevo che non ti voglio più qui. Vattene prima che la polizia la chiami io- la voce del proprietario era bassa, ma rimbombò comunque in tutto il locale, facendo sentire tutto a May, che iniziò a considerare l’idea di rimettersi le cuffie in modo da non ascoltare l’inutile conversazione. 

-Sì, lo so. È un periodo un po’ ipomaniaco, te l’ho detto. Ma un paio di giorni e passa. E poi alla fine la polizia ha arrestato un tipo per possesso di droga, quindi ho fatto bene a chiamarla. Cercherò di essere più attento la prossima volta. Però ti prego, ho davvero bisogno di un caffè, e di mangiare qualcosa. Ieri non riuscivo a dormire dopo quello che è successo, soprattutto perché mi sono reso conto che questo bar è esattamente a metà strada tra casa mia e il mio negozio, e dovevo controllare, sai, che fossero esattamente alla stessa identica distanza. Quindi mi sono fatto a piedi tutto il percorso due volte contando i passi e sono, senti questa perché non ci crederai mai, seicentosessantasei passi. Ti giuro, spero di non aver inconsapevolmente evocato Satana con questa mia grande scoperta- il cliente ridacchiò tra sé. Il suo battere sul bancone iniziava davvero a dare sui nervi a May.

Anche il Kanuha sembrava parecchio irritato, guardava il biondo quasi con disgusto.

-Fuori da qui, prima che arrivino altri clienti. Tu sei completamente pazzo. E io non servo i malati di mente- indicò con decisione l’uscita, facendo sobbalzare il ragazzo.

May, dal canto suo, non riuscì a trattenersi dallo sbattere la tazza ormai vuota di caffè sul tavolo.

Non era sua intenzione, a dire il vero, ma le ultime parole del barman avevano innescato un moto di irritazione profonda nella ragazza.

Purtroppo la sua scenata non passò inosservata, e sentì senza neanche bisogno di girarsi a guardarli, gli sguardi di entrambi gli uomini su di lei. Si affrettò a prendere le monete per pagare la colazione e senza dire una parola o guardare i due litiganti, si alzò e si avviò fuori, prendendo le cuffiette per ascoltare la musica durante la passeggiata di ritorno.

Sentì distintamente la voce del proprietario aggiungere un risentito -Visto, spaventi i clienti!- ma aveva tutta l’intenzione di ignorare completamente l’intera situazione, tornarsene a casa e non mettere più piede dentro quel bar.

“Non serve i malati di mente? Che brutto bigotto piccolo figlio di…” la rabbia della sua voce interiore, che le faceva stringere i pugni irritata e per una volta si trovava d’accordo con May, venne interrotta da un contatto del tutto indesiderato che per poco non le fece tirare fuori la pistola.

Si trattenne per puro miracolo, e si scansò velocemente, mettendo mezzo metro di distanza tra lei e lo sconsiderato che aveva avuto la faccia tosta di prenderle la spalla e cercare di fermarla.

-Woo, Margo! Tutto bene? Non ti ho vista quando sono entrato, mi dispiace per la scenata di Kenny. Non ti facevo così mattiniera. Se l’avessi saputo ti avrei offerto un caffè. Perché mi guardi così? Sembra che tu abbia visto un fantasma. Sei…- il biondo logorroico e nevrotico che aveva sollevato un polverone la squadrò completamente, con le sopracciglia aggrottate -…un po’ strana in effetti- commentò poi, massaggiandosi il mento pensieroso.

May indietreggiò di qualche passo, valutando l’idea di scappare. Chi era quell’invasato? Perché conosceva Margo? Quanto bene conosceva Margo? Cosa avrebbe dovuto fare May al riguardo? 

Ma prima che potesse sfoggiare la sua migliore imitazione da Margo, il ragazzo si tirò una manata in testa, come se fosse arrivato da solo alla soluzione. 

-Tu non sei Margo!- indovinò, facendo piombare ulteriormente May nel panico. Doveva sembrare Margo agli occhi di chi la conosceva. Diamine, era la prima regola! Ed ora un tizio a caso a Kauai sapeva della sua esistenza. Ottimo, davvero ottimo. Un segreto che conoscevano in pochi spiattellato così per colpa di un caffè mattutino e una mente provata da incubi e ricordi.

-Sei sua sorella, giusto?!- indovinò il biondo, battendo il pugno sulla mano aperta, con sicurezza e soddisfazione.

May rimase un attimo interdetta.

-Margo ti ha… parlato di me?- chiese, confusa, indagando un po’ meglio.

-Sì, cioè, no. Cioè, non proprio. Stavamo parlando di mio fratello, no, che ogni tanto passa a trovarmi e mi aiuta anche con le medicine. Sai, sono bipolare. Non che lo dica troppo in giro ma Margo lo sa quindi lo saprai anche tu, o se non lo sai lo scoprirai, e in generale non lo nascondo nemmeno, insomma, non sono mica pericoloso, solo un po’ svalvolato, ma in senso buono, secondo me. Comunque, stavamo parlando di lui, e lei mi ha detto che ha una sorella, e le vuole un sacco bene. Io posso capirlo, anche io voglio bene a mio fratello. Ha tre anni più di me ma abbiamo un buon rapporto. Lui è il mio fiore di loto, lo ammiro un sacco. Ma stavo dicendo, mi ha detto di avere una gemella, ma non mi ha detto molto altro. Suppongo che tu sia la sua gemella. Scusa se ti ho confuso per lei, ma non pensavo che foste in vacanza insieme, non mi aveva detto nulla. Io sono Sammy, comunque. Samson, in realtà, ma tutti mi chiamano Sammy- con una parlantina così fitta che May a malapena riuscì a distinguere ogni parola, il biondo spiegò velocemente la situazione, e le porse la mano.

May valutò la situazione, ma alla fine cedette e si adeguò al flusso degli eventi.

-May- disse senza stingere la mano di Samson. C’era qualcosa in lui che non la convinceva del tutto. Qualcosa che superava le evidenti incompatibilità che i loro due caratteri avevano. Aveva un aspetto vagamente familiare. Forse la forma del naso, o le labbra. Era sicura di non averlo mai visto prima, dato che aveva un’ottima memoria circa i volti delle persone, soprattutto quelle pericolose, ma c’era qualcosa in lui che la metteva leggermente all’erta. O forse era solo la sua mente a farle bruti scherzi. Era il giorno peggiore per pensare a queste cose, dopotutto.

Gli voltò le spalle e iniziò ad avviarsi verso casa, decisa ad ignorarlo.

-È davvero un piacere conoscerti, May. Hai davvero un bel nome, sai. Siete nate a Maggio? Un momento, siamo a Maggio! Quand’è il vostro compleanno? Devo pensare a un regalo. Sicuramente Margo adorerebbe dei gigli. Tu hai un fiore o una pianta preferita? No, aspetta, voglio indovinare. Mi sembri una tipa da biancospino. Foglie spinose e fiori tardivi, che mostrano la tua natura un po’ scostante ma che si apre con le persone giuste- il ragazzo però iniziò a tallonarla, seguendola saltellando e gesticolando con enfasi mentre parlava a tutto spiano delle proprie teorie sconclusionate. Certo, aveva indovinato il fiore preferito di Margo, o più probabilmente glielo aveva detto lei, ma cos’era questa strana fissa per le piante?

-Sbagli, sono un cactus. Ed ora lasciami in pace- provò a toglierselo di torno, affrettando il passo.

-Sì, forse. Se lo dici tu. Ma non mi sembri un cactus. Continuo a sostenere la mia teoria del biancospino. O Agrifoglio. Il significato è più o meno lo stesso. Sai, mi piacerebbe fare amicizia. Io e Margo siamo diventati grandi amici, e mi fa piacere conoscere anche te. Sai, io non sono un granché in fatto di amicizie…- continuò ad insistere Sammy. May non faticava a credere che le persone preferissero stargli alla larga -…ma faccio del mio meglio. E ho finito le medicine, purtroppo. Sono felice di essere in un periodo ipomaniaco perché se fossi in stato depressivo sarebbe molto più difficile, ma parlare aiuta davvero molto. E lavorare. Cavolo, ho bisogno di un caffè. Tu hai preso il caffè? Cioè, ti ho visto al bar con la tazza in mano e un bagel, ma sei andata via così in fretta che non sono certo tu l’abbia finito- il ragazzo parlava a tutto spiano, un po’ tra sé, un po’ con May, che ad un certo punto semplicemente non lo resse più, e si fermò.

Lui continuò qualche passo.

-No perché se vuoi un caffè c’è un posto decente vicino al mio negozio. Qui è meglio, ma comunque sveglia, e fanno una macedonia davvero… tutto bene?- dopo aver fatto quasi una cinquantina di metri senza rendersi conto dell’interruzione, Sammy si voltò verso May, con sguardo interrogativo.

-Non mi piace essere pedinata- la ragazza andò dritta al punto, senza neanche premurarsi di indorare la pillola o cercare parole più gentili. Non le importava minimamente di ferire i sentimenti di quel tipo, e voleva solo tornare a casa e prendere un aspirina, dato che iniziava ad avere un atroce mal di testa.

L’unica cosa che le stava impedendo di crollare era la consapevolezza del freddo metallo della pistola premuto contro la sua schiena.

-Oh, ma non ti sto pedinando. Il mio negozio è in questa direzione. Pensavo stessimo semplicemente facendo la strada insieme- spiegò lui, indicando a grandi linee dove si trovava il suo fantomatico negozio.

-Beh, non mi piace fare la strada insieme a nessuno. Non mi piace quando la gente parla a tutto spiano e non mi piace stare in compagnia delle persone, soprattutto non il giorno del mio compleanno. Quindi va per la tua strada e io vado per la mia, in solitaria- gli fece presente, con voce ferma e stringendosi nelle spalle.

Sammy rimase in silenzio per qualche secondo, e May ebbe l’impressione di aver appena commesso un errore madornale. 

Non a parlargli male, parlava sempre così a tutti, non era una novità, ma forse gli aveva dato un’informazione di troppo che sarebbe stato meglio non riferirgli.

-Va bene, non ti scaldare. Basta dirle, le cose. Non volevo infastidirti, ma senza medicine è un po’ difficile controllare il flusso di pensieri e tendo a parlare troppo, quindi…- si interruppe, coprendosi la bocca e facendo un profondo respiro -…ecco, appunto- sospirò, un po’ tristemente -Vado in negozio, allora, biancospino. Buon compleanno, comunque- la salutò, prima di rimettersi una mano sulla bocca e continuare per la sua strada, a passo più spedito e testa bassa.

Diamine! Gli aveva appena detto che quello era il suo compleanno! Non riusciva a credere di aver commesso un tale errore!

Beh, almeno se lo era levato di torno. Era stato anche meno difficile di quanto si aspettasse, anzi, il biondo aveva dimostrato un atteggiamento insolitamente maturo, tranne per quel ridicolo e stupido nomignolo.

Finalmente May mise le cuffiette per ascoltare la musica, e valutò la strada meno trafficata per tornare a casa.

Scrisse una nota nel telefono raccontando a grandi linee cosa aveva fatto, e sottolineò con attenzione l’incontro con Sammy e l’informazione che le era purtroppo sfuggita.

Sperava che Margo non si arrabbiasse.

   
 
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