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Autore: ReaRyuugu    26/07/2020    0 recensioni
Era un pomeriggio afoso di un agosto così caldo da essere quasi opprimente, non importava quanto avessero tentato di scappare dall’arsura della città per trovare conforto nelle campagne semi-abbandonate in cui, in un impeto di avventurosità, avevano deciso di passare una piccola frazione delle loro vacanze estive: sul portico di una casuccia tradizionale in mezzo al verde, il frinire insistente delle cicale che sembrava arrivare contemporaneamente da tutte le direzioni gli entrava nel cervello e lo rimbambiva, portandolo a fare associazioni che mai nella vita si sarebbe azzardato a tirar fuori.
{HitoJaku angst; in cui Hitoya si perde a ripensare a quel che erano, quel che non sono mai stati, e quel che vorrebbe che fossero.}
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Niente raga non scrivo qualcosa di più lungo di 500 caratteri dal pleistocene


--- And we'll wish we could come back to these days

Dita che scivolavano, eleganti, sulle corde di un’arpa paradisiaca.

Hitoya Amaguni, dall’alto della sua tarda adolescenza, in realtà non aveva mai visto qualcuno suonare un’arpa; allo stesso tempo, però, associare il gesto tanto spontaneo quanto regale di Jakurai che si sistemava una ciocca di capelli dietro l’orecchio a quello che, nella sua giovane mente, era forse l’apice della celestialità, gli venne semplicemente naturale.

Era un pomeriggio afoso di un agosto così caldo da essere quasi opprimente, non importava quanto avessero tentato di scappare dall’arsura della città per trovare conforto nelle campagne semi-abbandonate in cui, in un impeto di avventurosità, avevano deciso di passare una piccola frazione delle loro vacanze estive: sul portico di una casuccia tradizionale in mezzo al verde, il frinire insistente delle cicale che sembrava arrivare contemporaneamente da tutte le direzioni gli entrava nel cervello e lo rimbambiva, portandolo a fare associazioni che mai nella vita si sarebbe azzardato a tirar fuori. Il torpore di quel pomeriggio rendeva però pure troppo facile l’indugiare in fantasie, pensieri, o anche solo osservazioni che nel rigore di giornate passate a perseguire l’eccellenza erano esistiti, sì, ma non avevano mai trovato lo spazio di sfociare nella coscienza: non si era mai soffermato su quanto i capelli di Jakurai fossero cresciuti nell’ultimo anno, ricadendogli come fili di seta sulle spalle scoperte per metà da una maglietta troppo larga per il suo fisico slanciato, ma esile. Non si era mai soffermato sul suo profilo perfetto, sulle ciglia lunghe, socchiuse su occhi chiari che sembravano sempre assorte a scorgere, in lontananza, orizzonti di cui Hitoya ignorava l’esistenza.

Jakurai, in qualche modo, era allo stesso tempo la persona a lui più vicina e quella più lontana. Nessuno dei suoi altri coetanei poteva vantare l’intesa che Hitoya aveva instaurato nei suoi confronti; nessuno, per quanto ci provasse, per quanti fossero stati coloro che avevano tentato di riuscirci, era mai arrivato alla sua altezza. Con una punta di spocchia, Hitoya sapeva fin troppo bene di essere ben sopra la media rispetto a coloro che lo circondavano — e proprio per questo aveva trovato in Jakurai, così simile a lui, un’amicizia repentina e un affiatamento impareggiabile.

Ma, contemporaneamente, Jakurai era irraggiungibile. Non era solo una questione di risultati scolastici, di voti, di rendimento: come se guardasse il mondo da una dimensione leggermente sfasata rispetto a quella in cui viveva Hitoya, Jakurai osservava lo scorrere degli eventi con lo stesso distaccato interesse di qualcuno che da quella realtà non era davvero coinvolto; separato, lontano, chiuso nella sua bolla di invalicabile mistero. Proprio per questo più ci passava tempo insieme, e più sentiva il bisogno di stargli vicino: a Hitoya non interessava di scardinare quel mistero, di renderlo suo, di strapparlo prematuramente dal petto del suo migliore amico e di straziarlo come un bimbo curioso avrebbe fatto dilaniando la corolla di un fiore non ancora sbocciato; a Hitoya bastava che Jakurai fosse a suo agio abbastanza, accanto a lui, da essere portato gradualmente e senza forzature a comportarsi secondo ciò che era.

C’era forse un nome, alla presunzione che motivava le sue convinzioni? Al desiderio di stargli vicino, di conoscerlo con naturalezza e, col passare del tempo, di essere visto in maniera definitiva come suo pari? Una definizione c’era, a ballargli sulla punta della lingua, a rimbombargli nel petto e nella testa tutte le volte che quelle placide fantasie estive si facevano un po’ più vivide, ma non poteva permettersi di cadere nell’errore grossolano di dargli voce prematura L’incanto sarebbe caduto nel momento in cui avrebbe osato muovere un passo falso verso di lui, e per quanto forte fosse il bisogno per quei sentimenti di trovare la loro culminazione, Hitoya decise, in quel preciso momento, che non era ancora abbastanza vicino a Jakurai per dirgli la verità: sarebbe rimasto lì, accanto alla sua bolla, in attesa di essere abbastanza da poterla realmente sfiorare.

---

Riguardare a quei momenti era qualcosa che Hitoya non faceva spesso, ma certe volte il whiskey era più bravo ad aprire il cancello a qualsiasi pensiero volesse entrargli intesta piuttosto che a chiudergli la mente e a garantirgli, nella sua vita a metà tra la frenesia di un successo guadagnato con le unghie e con i denti e la frustrazione di un futuro che non sarebbe mai stato, un momento di inebriata tregua. Immerso nella poltrona nel silenzio del suo ufficio non sentiva alcun rumore provenire da fuori, ma se chiudeva gli occhi il cantare incessante, insistente, ossessivo delle cicale ricominciava a sbattere contro le pareti del suo cervello: era in quei momenti che diventava tutto troppo vivido; era vivido il ricordo dei sentimenti che aveva provato, della decisione di imbottigliarli e fingere, sfacciato, che non esistessero, almeno fino a che non avevano deciso di avvelenarlo.

Perché il tempo passava, e in qualche modo, nonostante gli sforzi, Jakurai era sempre un passo avanti, e Hitoya abbastanza non lo era mai stato. Forse non lo sarebbe nemmeno mai stato, e non avrebbe mai dovuto avere anche solo l’audacia di pensare di poterlo essere: era una gara che aveva perso sin dal principio, perché quell’orizzonte lontano, quello che lui non era mai riuscito a scorgere, Jakurai l’aveva già raggiunto da un pezzo.

Era già lì, Jakurai, e ci era arrivato senza nessuno al suo fianco; senza avere bisogno che Hitoya, tra tutti, fosse al suo fianco.

Un impeto di frustrazione, una rabbia bruciante, un colpo secco che sembrò risvegliarlo da quel sogno funesto insieme al dolore che pungente e caldo gli straziava il palmo della mano: i frammenti del bicchiere che aveva sbattuto contro la scrivania affondavano nelle sue carni, scavando sadici come a punirlo, a ricordargli che se era arrivato lì, allora, non era certo stato crogiolandosi nella nostalgia, nel rimpianto, nel dolore. Era stata l’ira ad accenderglisi nel petto e a spingerlo a stringere i denti e andare avanti. Il risentimento, l’arroganza, la vanagloria — c’era stato ben poco di santo, nella sua scalata al successo, eppure anche Hitoya Amaguni aveva tutto il potenziale di stringere il mondo nel palmo di una mano.

E l’avrebbe fatto; sarebbe arrivato ancora più avanti, ancora più in alto di quell’uomo che mai l’aveva riconosciuto come pari, e l’avrebbe spodestato dal suo trono di misteri e presunzione: solo allora, forse, Jakurai Jinguji avrebbe smesso di scrutare il mondo dalla sua campana di vetro, riconoscendo il valore di colui che in fondo non aveva mai smesso di inseguirlo.

E forse il tempo sarebbe tornato indietro; e sarebbero ritornati come non mai vicini a ciò che erano — due ragazzini con le gambe penzolanti dal portico di una casa di campagna, ignari di essere l’uno ciò che c’era di più simile all’anima dell’altro e viceversa, immersi nella quiete temporanea di un’afosa estate.

   
 
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