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Autore: blackjessamine    29/07/2020    16 recensioni
[Ole Nissen (OC), Homer Landmann (OC)]
Certi legami hanno lo stesso calore del sole: tracciano scie luminose che rimangono impresse negli occhi anche quando la notte sembra aver impiastricciato di nero una vita intera.
Sono i legami che sanno rinsaldarsi anche negli spazi vuoti creati dalla distanza, quei legami che un nome non lo vogliono nemmeno trovare, perché sono tenuti in piedi da sorrisi che negli anni non cambiano mai.
Un Guaritore figlio del mondo.
Uno psichiatra schiavo di un'empatia fuori controllo.
Sotto lo stesso cielo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Capitolo 7
 



 
Marzo 1999, Londra
 
Ole represse a stento uno sbadiglio, cercando di cancellarsi dal volto la stanchezza. Aveva l’impressione che, se avesse chiuso gli occhi per qualche secondo di troppo, sarebbe scivolato nel sonno: un conforto che aveva il sapore ingannevole del miraggio, perché sapeva sin troppo bene che, da quando era ruzzolato a terra nell’Ufficio Passaporte Internazionali del Ministero della Magia Inglese, le sue notti erano scandite solamente da lunghe insonnie e pensieri sconnessi.
Il cappotto color senape di Homer, sempre mezzo passo davanti a lui, lo stava guidando attraverso il freddo di quella serata di fine inverno, muovendosi con destrezza fra impiegati pronti a rincasare dal lavoro e i pochi, affannati turisti che osavano sfidare il gelo che ancora soffocava Londra. Camminavano ormai da una decina di minuti per strade che Ole non aveva mai percorso, inoltrandosi in una zona della città piuttosto curata, dove graziose abitazioni si affacciavano su strade punteggiate di colorati negozi e ristoranti accoglienti. La lunga giornata di lavoro pesava sulle spalle di Ole come un macigno gelato, ma quando Homer aveva proposto di evitare la Metropolvere e di fare una passeggiata, giusto per scrollarci di dosso la puzza di ospedale, Ole aveva acconsentito con un sospiro e un mezzo sorriso. Aveva annuito, e aveva ripensato a tutte quelle sere in cui, uscendo dalla clinica alla periferia di Portland, decideva di avviarsi a piedi lungo la strada che costeggiava la pineta. Non era solo voglia di fare un po’ esercizio fisico dopo una giornata intera di lavoro: accadeva soprattutto quando le cose andavano male, quando la terapia per un paziente non funzionava, quando il vorticare di pensieri contorti e stranianti che ogni giorno, con deliberata consapevolezza, si sforzava di sondare e sfiorare gli rimaneva addosso, inoculato sotto la pelle, minando i confini stabili della sua coscienza e minacciando di fargli perdere la presa sul mondo e su se stesso. Camminare in silenzio, da solo, era una sorta di decompressione: ogni passo, ogni goccia di sudore sotto il cielo estivo e ogni respiro affannato e denso di vapore in inverno era un lento abbandonare altrove le preoccupazioni della corsia, permettendogli di rientrare sempre più in sé.
Homer non correva mai il rischio di perdere se stesso in un paziente, non come lo faceva Ole, ma questo non cambiava niente. Homer il lavoro non lo lasciava mai davvero andare: non lo puoi fare, non quando sei un Guaritore, non quando il tuo nome viene sussurrato ai parenti disperati col tono di chi indica una speranza incrollabile: il Guaritore Landmann, il Medimago eccezionale, quello che con la bacchetta fa miracoli e trova sempre una cura. Quando però la cura non si trovava, o la si trovava troppo tardi, o non era comunque sufficiente, per scrollarsi di dosso le preoccupazioni del lavoro non bastava lasciare l'ospedale.
 
Ole e Homer camminavano in silenzio: non avevano bisogno di dirsi che l'odore di pozioni antibatteriche del San Mungo era ancora dentro i loro polmoni, ad avvelenare i profumi di cibo invitante che usciva dalle porte dei ristoranti che oltrepassavano, perché lo sapevano entrambi, chiaramente e innegabilmente.
Ole si guardò attorno, e improvvisamente la stanchezza tornò ad assalito, più forte ancora di prima. Era stanchezza, sì, stanchezza mescolata con un senso di impotenza e di resa che gli faceva venir voglia di alzare le mani e dichiararsi sconfitto.
Quella situazione era ridicola: che cosa ci faceva, lui, a Londra? Lui che ormai da vent’anni aveva stabilito abitudini e certezze dall’altra parte del mondo, in quella cittadina affacciata sull’oceano dove era stato un ragazzo solitario, uno studente disciplinato, uno psichiatra promettente e dove ora abitava il suo ruolo di dottore dai metodi poco ortodossi ma sorprendentemente illuminati; che cosa ci faceva lui a mille milioni di miglia dalla sua vita?
La vita di Ole aveva preso una piega tranquilla: la sua esistenza si reggeva su un equilibrio piuttosto stabile fatto di lunghissime giornate trascorse in ospedale e nel suo studio, e serate trascorse nella solitudine della sua casa affacciata sulla pineta. Se ripensava agli anni che avevano riempito la sua giovinezza, trasformandolo nell’uomo schivo e tranquillo che era ora, aveva l’impressione di non essersi mai mosso. Non si era mai mosso, in un certo senso, perché Portland era sempre stata la sua casa. Era solo scivolato da un ospedale all’altro, da un dottorato all’altro con una naturalezza silenziosa, senza attirare troppo l’attenzione. Aveva infilato i suoi pochi averi di studente in qualche borsa e aveva lasciato l’appartamento che divideva con degli inquilini chiassosi per sistemarsi in un appartamento di poco più grande, dove aveva ritrovato il suo silenzio, e anni dopo, mettendo da parte i tentennamenti, aveva acquistato una casa fin troppo grande per lui, una casa posta al limitare della foresta, lontana dal caos della città. Una casa in una posizione scomoda, forse, ma che lui aveva imparato ad amare come amava poche altre cose al mondo.
Qualche volta, quando si guardava indietro, aveva l’impressione che tutto fosse accaduto sin troppo velocemente. Che vent’anni gli fossero scivolati tra le dita senza lasciare che poche tracce, poche abitudini che lo avevano separato di poco dal ragazzino che era arrivato in America sperando di potersi lasciare alle spalle tutto ciò che era e che sempre sarebbe stato.
Eppure, era stato sereno in quella sua vita fatta di lunghi silenzi e di notti chine sui libri. Era stato sereno con le sue abitudini incapaci di scuotere il suo mondo e di risvegliarlo dal suo torpore, sereno al punto che ogni tanto aveva pensato che, se avesse potuto invecchiare per sempre così, sarebbe stato fortunato.
E allora perché, perché gli era bastata una lettera arrivata all’improvviso per lasciare tutto e tornare a Londra?
 
“Siamo quasi arrivati”, lo rassicurò Homer, lanciandogli un sorriso stanco.
La folla si era diradata, ora che si trovavano in un quartiere residenziale piuttosto tranquillo, e i due poterono tornare a camminare uno a fianco dell’altro sull’ampio marciapiede di pietra chiara.
Se l’era chiesto spesso, Ole, cosa lo avesse spinto a lasciare in fretta e furia Portland, senza nemmeno fare i bagagli. Si era detto che lo aveva fatto per questioni meramente accademiche: al San Mungo, accanto al Guaritore Landmann, nessuno avrebbe fatto domande sospette davanti alla precisione sconcertante con cui lui riusciva a indovinare quel che si celava dietro la mente di un paziente. Tra i babbani doveva sempre stare attento: la sua magia, che con gli anni non aveva smesso di affinare in una sola direzione, gli permetteva di arrivare dove la scienza babbana si sarebbe dovuta arrendere, e la maggior parte delle sue giornate Ole le passava cercando di cucire insieme spiegazioni scientificamente accettabili per placare le domande dei suoi colleghi.
Eppure, nei vent’anni in cui aveva esercitato la professione di psichiatra in una clinica babbana non aveva mai davvero pensato di tornare nella comunità magica: avrebbe potuto farlo in ogni momento, ma aveva deliberatamente scelto di continuare in quella sua vita in bilico.
No, non era stata la descrizione del caso di Miss Clearwat1 e del ruolo che lui, con la sua empatia magica avrebbe potuto giocare nella sua guarigione a convincerlo a lasciare tutto e partire. Quella lettera, quella richiesta d’aiuto avrebbe potuto essere scritta dai migliori Guaritori del mondo, da un Ministro in persona, e probabilmente Ole l’avrebbe ignorata. Se aveva gettato pochi vestiti in uno zaino e si era precipitato subito alla sede del M.A.C.U.S.A. dell’Oregon era tutta colpa – o merito – dell’uomo che ora gli camminava accanto, senza avere la forza di scambiare con lui più di poche parole.
Homer.
Homer che, negli anni, si era trasformato in una sorta di marea lentissima. Homer che a ventiquattro anni si era lasciato afferrare dai flussi della sua nuova vita a Singapore, senza mai scalfire il silenzio dietro cui Ole si era trincerato per difendersi da un imbarazzo troppo grande. Homer che poi, all’improvviso, dopo più di un anno di silenzio aveva fatto recapitare a Ole un plico contenente decine di lettere, appunti sparsi, riflessioni, frasi, domande, il tutto appuntato sui supporti più disparati. Non erano tutte lettere indirizzate esplicitamente a Ole, ma in mezzo a quel disordine di idee e parole, Ole si era convinto – illuso, forse – di poter disegnare una conversazione silenziosa che Homer non aveva mai voluto lasciar cadere nel silenzio. Era come se per un anno intero Homer non avesse mai smesso, ogni tanto, di formulare pensieri che avrebbe voluto condividere con il suo amico, e allora li aveva appuntati su pergamene strappate, sulle ricevute della lavanderia, su fogli di giornale e su quaderni a quadretti babbani. Sapere che tutti quei frammenti di pensiero Homer non li aveva gettati nella spazzatura dopo un istante di ripensamento, ma li aveva conservati, uno per uno, e poi li aveva affidati a un’aquila che aveva attraversato il mondo per rovesciarli sulla scrivania disordinata di Ole aveva commosso quest’ultimo come poche altre cose erano state in grado di fare.
C’erano stati ancora tanti silenzi, tra di loro, tante cose di cui non avevano mai parlato, ma quei fogli appuntati di fretta erano diventati un’abitudine di entrambi.
La loro non poteva dirsi una vera e propria corrispondenza: non si scrivevano lettere, si lanciavano domande cui non davano una risposta, non davano una forma precisa e coerente ai loro pensieri. Perché, in fondo, una forma il loro rapporto non l’aveva mai avuta. Si erano trovati, e i loro pensieri si erano affastellati uno sull’altro, lasciandoli pieni di sorpresa e meraviglia per la facilità con cui le loro diversità si incastravano. E così era stato il loro scriversi, nel corso degli anni: scostante, privo di forma, impossibile da ricostruire in modo coerente, eppure Ole sentiva che era giusto così.
Fino a quando, nel suo studio, era comparsa una busta dall’aria formale, una busta di spessa pergamena verde acido, su cui era impresso il simbolo del San Mungo. Una busta correttamente intestata al dottor O. Nissen, contenente una lettera precisa, fatta di paragrafi mossi da una prosa schietta e vivace, una prosa che si perdeva in convenevoli e si attardava a descrivere con dovizia di particolari la condizione di una giovane donna a stento sopravvissuta alla recente guerra, una donna che ora lottava con la propria mente trasformatasi in una prigione.
La lettera, firmata dal guaritore H. Landmann, si concludeva con un poscritto che aveva fatto tremare le mani con cui Ole reggeva la lettera:
P.S.: Miss Clearwater ha bisogno di te, Ole, ma forse ne ho più bisogno io. Credo di essermi perso”.
E allora Ole era partito.
Senza fermarsi a pensare a quanto potesse essere sciocco lasciare tutto per una persona che non vedeva da ormai vent’anni. Senza pensare alle conseguenze, senza pensare a nulla. Per la seconda volta nella sua vita, aveva lasciato che fosse l’istinto a guidarlo, e aveva fatto ritorno in Inghilterra senza darsi nemmeno il tempo di pensare.
 
“Eccoci, abito qui, all’ultimo piano… non avevo mai vissuto in un quartiere babbano, sai?”
Homer si era fermato di fronte a un edificio di pietra chiara dall’aria piuttosto moderna: sulla facciata si aprivano ampie finestre prive di davanzali, che sembravano promettere stanze leggere e piene di luce.
Home esitò un pochino davanti alla porta d’alluminio e vetro specchiato – sembrava la porta di un ufficio, si ritrovò a pensare Ole – le mani affondate nelle tasche del suo cappotto color senape e lo sguardo fisso su un punto poco sopra la spalla di Ole.
Homer era preoccupato.
C’era qualcosa che lo turbava, qualcosa di cui sembrava non avere il coraggio di parlare. Se anche non ci fosse stato quel poscritto nella sua lettera, Ole avrebbe colto in fretta l’esitazione che frenava il suo amico di sempre. E l’avrebbe colta non nel modo in cui coglieva l’esitazione di chiunque, con la coda dell’occhio della sua mente: l’avrebbe colta nell’ombra che gli calava negli occhi anche quando si sforzava di indossare il suo ampio sorriso, o nel modo in cui troppo spesso il suo sguardo si perdeva nel vuoto, quando credeva di non essere osservato.
Ole se n’era accorto quando era arrivato in Inghilterra soltanto da poche ore, ma nelle settimane che poi avevano trascorso a lavorare l’uno di fianco all’altro nello studio del Primario Landmann non aveva mai trovato il modo di domandare a Homer che cosa non andasse. Non ne aveva avuto il coraggio, a voler essere sinceri: perché fare una domanda del genere avrebbe implicato una presa di coscienza che Ole non si sentiva pronto ad affrontare, una misurazione di quella distanza orribile che, a dispetto della corrispondenza asimmetrica che per due decenni aveva collegato Portland a qualsiasi anfratto del mondo che Homer avesse deciso di chiamare casa, inevitabilmente si era stesa tra di loro, allontanandoli.
Si erano ritrovati con un sorriso teso, Homer l’aveva abbracciato e per un istante, per un solo istante la felicità di Homer era sembrata così intensa da spazzare via ogni cosa, cancellando tutti gli anni trascorsi illudendoli che nulla fosse cambiato.
E forse nulla era cambiato, ma ritrovare le certezze di sempre attraverso quei vent’anni di silenzio era un’impresa estenuante.
Si erano gettati nel lavoro, prendendosi a cuore il caso di Miss Clearwater più di quanto avrebbero fatto per un paziente qualsiasi: si erano gettati nel lavoro perché così restare nella stessa stanza senza riuscire a dare forma ai propri pensieri faceva meno male, perché così il loro cercarsi sembrava avere una giustificazione. Perché con il capo chino su una cartella clinica non c’era bisogno di porsi alcuna domanda, ma potevano ritrovarsi a parlare per ore, ad affastellare supposizioni, a seguire le intuizioni dell’altro senza che nulla sembrasse fuori posto.
Ma niente aveva più un suo posto, e Ole cominciava a pensare che non ce l’avrebbe mai più avuto.
 
“Prendiamo l’ascensore?”
Il tono di Homer, per un attimo, spiazzò Ole: sembrava che l’uomo si fosse lasciato improvvisamente alle spalle la preoccupazione che gli appesantiva lo sguardo, mentre le sue dita indugiavano sul pulsante illuminato di blu che serviva a chiamare l’ascensore. Ole non sapeva perché Homer si fosse ritrovato improvvisamente a vivere in un appartamento babbano, ma la sua gioia nel poter disporre di un aggeggio come un ascensore alimentato a elettricità era evidente: sembrava un bambino davanti a una giostra.
“Prendiamo l’ascensore”.
Si trattava di un macchinario moderno, che quasi non fece rumore quando scese fino a loro: la cabina era ampia e fortemente illuminata da tubi bianchi al neon, che li accolsero con scarsa benevolenza, rimandando tutto attorno le loro immagini riflesse sugli specchi che ricoprivano le tre pareti interne dell’ascensore.
Homer premette il pulsante che li avrebbe condotti al quinto piano, poi affondò di nuovo le mani nelle tasche del suo cappotto color senape, tornando a fissare un punto vuoto di fronte a sé. Un punto vuoto che, però, questa volta era occupato dal riflesso del viso di Ole: Ole avrebbe voluto abbassare lo sguardo, sfuggire come sempre al confronto, ma qualcosa lo trattenne. Si ritrovò a far scivolare lo sguardo dal viso di Homer al proprio, cercando di definire i contorni e di prendere le misure del tempo trascorso. Homer era rimasto lo stesso: il suo sorriso forse non era più svelto come un tempo, ma quando compariva, era ancora capace di illuminargli tutto il viso. Aveva sempre lo stesso sguardo gentile, gli stessi occhi luminosi e caldi, che ora affondavano forse un poco di più in una sottile rete di rughe appena accennate, quando aggrottava la fronte o si concentrava su qualche cosa. Non aveva più riccioli ribelli da scostarsi dal viso con un gesto meccanico, ma li portava più corti, e sulla tempia sinistra si allargava una leggera striatura di fili argentati in mezzo ai suoi capelli scuri. Homer non era più un ragazzo, ma un uomo, e accanto a lui anche Ole si ritrovò a riconoscersi irrimediabilmente adulto, così adulto da sentirsi esausto.
“È da quando sei tornato che vorrei farti conoscere la mia famiglia”.
Le parole che Homer aveva pronunciato solo un’ora prima, quando erano ancora in ospedale e Ole tremava per lo sforzo a cui si era sottoposto cercando di comunicare con Miss Clearwater, tornarono a risuonare nella mente di Ole.
Abbassò lo sguardo, sfuggendo gli occhi di Homer: la sua famiglia. Ole non avrebbe saputo dire perché quelle poche parole erano state in grado di scavargli dentro così in profondità, o forse lo sapeva ma non aveva alcuna voglia di ammetterlo.  Sapeva solo che non voleva conoscerla, la famiglia di Homer. Non voleva guardare negli occhi una bella donna – una che nella sua mente somigliava in maniera inquietante a Eloise Pearson, la compagna di scuola a cui non pensava da più di vent’anni – e sentirle dire Ole, che piacere, Homer mi ha parlato tanto di te, non voleva guardare la complicità tra di loro, quei gesti fatti di familiarità e di quotidianità condivisa e priva di segreti.
Non voleva, ma una parte di sé invece desiderava conoscere tutto, appuntarsi nella mente le mani che disegnavano carezze distratte su spalle contratte, i sorrisi affiatati, le piccole battute che Ole non avrebbe mai compreso perché si basavano su una vita vissuta assieme. Voleva tutto, e voleva inciderselo nella testa, per tornare a Portland e confrontare la sua solitudine con i sorrisi di Homer e di quella donna misteriosa.
Era un desiderio distruttivo a cui non avrebbe dovuto dare alcun seguito, lo sapeva, ma provava una certa soddisfazione nel pensare che ben presto avrebbe potuto sostituire le sue fantasie sciocche con una realtà ben definita.
Nell’infinita quantità di parole che negli anni Homer gli aveva scritto, quella famiglia non aveva mai trovato posto, ma non aveva importanza. Homer non gli aveva mai nemmeno parlato dei cambiamenti nella sua vita, né dei suoi trasferimenti o delle promozioni o di qualsiasi altra cosa. Era un tipo di conversazione tutta diversa, quella che avevano faticosamente cercato di tenere in piedi in tutti quegli anni, una conversazione dove non c’era posto per qualcosa di così banale come la vita quotidiana.
 
L’ascensore si fermò con un piccolo sussulto, e di nuovo Ole incrociò, per un istante, lo sguardo di Homer riflesso nello specchio: era lo sguardo incupito di chi si trovava ad affrontare qualcosa che lo preoccupava molto. Homer esitò un istante, la fronte lievemente aggrottata, come se stesse per parlare, e Ole sollevò le sopracciglia, in una muta esortazione ad andare avanti. In risposta, ebbe solo una scrollata di spalle.
“Niente, tanto adesso vedrai”, mormorò Homer, rivolto più a sé stesso che a Ole.
Il cappotto color senape di Homer percorse il lungo corridoio dal pavimento lucido, fino a fermarsi davanti a una porta di legno chiaro e dalla maniglia lucidissima. Scioccamente, Ole si ritrovò a pensare che quella maniglia sembrava troppo lucida per essere vera, come se non fosse mai stata usata abbastanza. Come se quella non fosse una vera casa, ma solo un posto dove fermarsi ad aspettare che il mondo smetta di girare.
E poi la porta si aprì, e i due uomini avanzarono in un piccolo disimpegno luminoso, riempito solo con un attaccapanni laccato di bianco dove faceva bella mostra di sé una giacca a vento nera, una giacca troppo piccola per appartenere a Homer. Una giacca da donna, inequivocabilmente.
Homer appese il suo cappotto e si fece consegnare anche quello di Ole, mentre annunciava la sua presenza con un semplice, familiare sono io.
“Eccoci!”, rispose una voce femminile e allegra, e mentre Homer conduceva Ole in un soggiorno dalle pareti chiare e arredato con gusto, ma in un modo che a Ole ricordò una rivista di moda, più che una casa davvero vissuta, dei passi leggeri risuonarono nell’appartamento.
Quando la donna fece la sua comparsa nel salotto, Ole dimenticò ogni regola di buona educazione, e si ritrovò a fissarla a bocca aperta. Quella non era una donna: era una ragazzina graziosa, una figuretta esile infagottata nella felpa di un gruppo rock che Ole non conosceva, e sorrideva un po’ impacciata a Homer da dietro le lenti di un paio d’occhiali dalla montatura leggera. A stento sembrava raggiungere la maggiore età, per la miseria! E, come se non fosse già abbastanza turbato, Ole si rese ben presto conto che la ragazza stava accarezzando i capelli riccioluti di un bimbo che le trotterellava accanto.
Mentre la ragazza fissava Ole con sguardo curioso e leggermente impertinente, Homer si chinò a sollevare tra le braccia il bambino, baciandogli una guancia, e poi la fronte, e poi l’altra guancia come se si trattasse di un gioco, un rito ormai prestabilito a cui era impossibile sottrarsi. E Ole fu travolto da un’ondata di sensazioni confuse che per un attimo lo fece barcollare: su tutto, regnava un immenso sollievo, come se qualcuno avesse allentato la morsa su un terrore buio e freddo che lo aveva imprigionato fino a un istante prima, e che ora era semplicemente svanito. Ole ci mise qualche secondo a capire che quel terrore mutato in sollievo apparteneva al bambino accoccolato nell’abbraccio di Homer.
“È andato tutto bene?”
Homer si rivolse alla ragazza senza nemmeno accennare a rimettere a terra il bambino, che, dal canto suo, non aveva detto nemmeno una parola, né aveva degnato Ole o la ragazza – sua madre? – di uno sguardo, perso com’era a contemplare con aria seria e concentrata il viso dell’uomo a pochi centimetri dal suo.
“Tutto benissimo, sì. Solo una crisi al momento del pisolino… una crisi piccola, però”.
La ragazza sembrava piuttosto nervosa, quasi che temesse la reazione di Homer davanti all’ammissione di quella fantomatica crisi da pisolino. E tutto questo non aveva senso, perché Homer, l’Homer che Ole conosceva e a cui voleva bene, non avrebbe mai fatto un figlio con una ragazzina che sembrava avere ancora la Traccia addosso, e se anche lo avesse fatto, di certo non l’avrebbe messa nelle condizioni di temere a quel modo una sua reazione.
Homer sospirò, e poi rivolse un sorriso gentile – stanco, sì, ma gentile – alla ragazza.
“Va bene, Maddie, grazie. Domani riesci a venire ancora per le sette?”
La ragazza, Maddie, rivolse uno sguardo curioso a Ole, il quale cercò di rivolgerle un sorriso impacciato, senza però riuscirci. Homer, però, non fece nemmeno un cenno per cercare di presentarli, limitandosi a mormorare con tono di voce basso e rassicurante qualche domanda sciocca all'orecchio del bimbo.
“Domani alle sette, sì, capo. Timmy ha già mangiato, e in cucina c’è del pasticcio di carne – sì, lo so, devo dire alla mamma che non è necessario, e lo faccio anche, ma è solo uno spreco di tempo, perché lo sai com’è fatta”.
Il fiume di parole svogliate della ragazza strappò a Homer un altro sospiro stanco: si lasciò cadere sul divano, sistemandosi il bimbo sulle ginocchia, e lanciò a Ole un’occhiata con cui sembrava scusarsi per la confusione di quella strana accoglienza. Ole, però, riusciva solo a guardare gli occhioni scuri e seri con cui il bambino si guardava attorno, e poi gli occhi scuri di Homer, e i loro capelli che si arricciavano sulla sommità del capo nello stesso identico modo.
“Homer… mi prendi il cappotto?”
Maddie si rigirava tra le dita la sua bacchetta, e aveva sul viso un sorrisetto malizioso e pieno di aspettative.
“Maddie…”
“Eddai! Vero che anche Timmy vuole vedere le magie africane2? Eh?”
Il bambino, però, sembrava molto più interessato all’animaletto di pezza che teneva fra le mani, e non degnò nemmeno di uno sguardo i due adulti.
“E va bene, ma è l’ultima volta”.
Homer si sistemò meglio il bambino sulle ginocchia, tenendolo saldamente con la mano sinistra, mentre con la destra disegnò un movimento elegante nell’aria: un movimento lento e controllato, che accompagnò il frusciare di stoffa del cappotto di Maddie, intento a fluttuare nell’aria fino a posarsi sulle spalle della giovane.
“Grande! Io continuo a esercitarmi, ma proprio non ci riesco”.
Con la fronte corrugata, Maddie copiò il movimento di Homer – con molta meno eleganza, si ritrovò a pensare Ole – e dopo un attimo di immobilità, il pupazzo schizzò via dalle mani del bimbo, andando a sbattere con un gesto inconsulto contro la parete bianca del soggiorno.
“Oh, no! Scusami, Timmy, non era quello l’obiettivo!”
Davanti al mento che aveva cominciato a tremolare di Timmy, la ragazza si affrettò a recuperare quello che Ole riconobbe come un koala di pezza, porgendolo al bambino con tutta una serie di moine e versetti che distrassero il piccolo.
Ole ebbe la sensazione che quel momento durasse in eterno: Homer e Maddie chini sul bambino, intenti a scambiarsi parole rapide e gesti concreti, completamente dimentichi di quell’uomo impacciato che se ne stava in un angolo della stanza, tutto assorbito da quella convinzione di essere totalmente fuori luogo.
 
E poi, finalmente, Maddie baciò i riccioli scuri di Timmy, promise a Homer di salutare sua madre, e con una piroetta un po’ incerta si Smaterializzò lontano da lì.
Il silenzio, densissimo, tornò a invadere la stanza: a Ole sembrava che ci sarebbe potuto annegare, in quel silenzio atroce, quel silenzio fatto di tutto ciò che non era stato detto, e che ora sarebbe stato troppo tardi dire.
Infine, Homer si voltò appena, senza mai alzarsi dal divano, così che Timmy potesse posare i suoi occhi scuri su Ole.
“Lo vedi questo signore?”, domandò Homer, le labbra vicinissime ai capelli del bimbo.
“Si chiama Ole, ed è il più caro amico del papà. Gli fai ciao con la mano?”
Ma Timmy non fece ciao a Ole, limitandosi a voltarsi e affondare il faccino timido contro il petto di Homer. Contro il petto di suo padre.
Contro il petto dell’uomo che aveva presentato Ole come il suo più caro amico, ma in tre settimane non aveva trovato il tempo di pronunciare tre semplici parole: ho un figlio.
Perché tutto ciò bruciasse così tanto sotto la pelle di Ole, lui non riusciva a spiegarselo: o forse sì, perché essere estromesso da qualcosa di così importante suonava come un’ammissione di estraneità, un’ammissione che improvvisamente rese ridicole tutte le convinzioni di Ole che le cose, dopo vent’anni, potessero non essere cambiate.
 
***
 
“Perché non mi hai detto niente?”
Mezz’ora era scivolata via nel silenzio: senza dargli il tempo di dire alcunché, Homer aveva cominciato a parlare di sciocchezze, rivolgendosi a Ole e a Timothy con lo stesso tono indifferentemente. Aveva fatto sedere Ole davanti a un piatto riscaldato di pasticcio di carne, aveva farfugliato qualcosa su Maddie che era figlia di una cugina di terzo grado di sua madre e di un babbano, sulle brutte esperienze che la ragazza aveva vissuto a Hogwarts durante la guerra e sui brutti attacchi di panico che le impedivano di cercarsi un lavoro vero, e su come fosse in fondo provvidenziale che lui avesse bisogno di un aiuto con Timmy, e di come Maddie aiutava lui e il bimbo, e lui aiutava lei, dandole un lavoro che non la obbligasse a uscire di casa.
E poi sparì, dicendo che era tardi e doveva cercare di far dormire il bambino, e Ole si ritrovò solo con il suo pasticcio ormai freddo e un gran senso di solitudine cucito addosso.
Mettere a letto Timmy richiese molto più tempo di quanto Ole si sarebbe immaginato – e del resto, che cosa ne sapeva lui di che cosa comportasse far dormire un bambino? Non aveva nemmeno idea di quanti anni potesse avere Timothy: non aveva avuto a che fare con molti bambini, Ole – e quando riemerse, sembrava non avere nemmeno il coraggio di guardare Ole negli occhi.
“Homer… perché non mi hai detto che hai un figlio?”
Homer alzò infine gli occhi, fissandoli in quelli di Ole: tutte le ombre che aveva cercato di nascondere in quelle settimane ora gli incupivano il viso, scavandogli rughe di preoccupazione così inappropriate, sul quel viso sempre tranquillo, che Ole sentì una morsa dilaniargli lo stomaco. Quella preoccupazione era del tutto sbagliata, del tutto innaturale: vedere Homer così era qualcosa di insopportabile.
“Perché… mi vergognavo”.
“Ti vergognavi?”
Homer si portò le mani al viso, massaggiandosi gli occhi e nascondendo la sua espressione desolata. Improvvisamente, a Ole parve di scorgere su quel volto stanco tutto il peso degli anni trascorsi: non c’era più traccia del ragazzino dal sorriso svelto; le risate avevano lasciato il posto a un uomo stanco e preoccupato, che cercava di tenersi a galla in un mondo che aveva preso a girare troppo velocemente anche per una creatura senza radici come Homer.
Homer riabbassò le mani lentamente, fissando Ole negli occhi con aria implorante: sembrava chiedere di non essere giudicato, di non essere lasciato andare, e per un solo istante Ole avrebbe voluto allungare una mano oltre il suo piatto ancora pieno, allungarla sulla distesa lucida del tavolo e trovare la mano di Homer, stringerla, rassicurarlo e trovare nella sua rassicurazione la certezza che Homer era ancora un punto saldo, era ancora una creatura luminosa, capace di rigirarsi il mondo nel palmo di una mano.
Ole rimase immobile.
Se era esistito un tempo – una vita, una notte soltanto – in cui un gesto del genere sarebbe stato accettabile, tra di loro, quel tempo apparteneva ormai al passato.
“Timothy compirà due anni il mese prossimo, ma io l’ho conosciuto solamente questo Natale. Io non… maledizione, Ole, io non ho la più pallida idea di come in tre mesi la mia vita sia precipitata così”.
Homer finì di parlare, e il suo viso sparì di nuovo, nascosto dalle sue mani un po’ tremanti.
“Ho detto una cosa orribile. Io gli voglio bene, gli voglio bene come non pensavo fosse possibile amare qualcuno, ma… è difficile”.
La voce di Homer si spezzò, e Ole stavolta non esitò: la sua mano trovò la spalla dell’amico, e con un gesto leggero convinse Homer a sollevare lo sguardo.
“Com’è successo?”
Ole e Homer potevano essersi persi di vista, ma il ragazzo che Homer conosceva non avrebbe mai abbandonato per due anni suo figlio.
“È una storia un po’ incasinata, a dir la verità”.
“Forse ti stupirò, ma ti assicuro che ho a che fare tutti i giorni con storie un po’ incasinate e con gente sicuramente più incasinate di te. Sono diventato bravo ad ascoltare le persone, sai?”
Homer questa volta sorrise, un sorriso appena venato di malinconia, ma pur sempre un sorriso, un sorriso come quelli che Ole ricordava.
“Sei sempre stato bravo ad ascoltare le persone”.
“E tu sei sempre stato bravo a parlarci, con le persone, quindi direi che siamo in una situazione ottimale”.
Homer sospirò, e poi cominciò a raccontare.
A raccontare di suo padre, che dopo una conferenza tenuta in Inghilterra era rimasto sconvolto dalla corruzione interna al Ministero della Magia Inglese, e aveva cominciato a mobilitare gli intellettuali di tutto il mondo per cercare di fare luce sulla situazione politica del Paese. E poi aveva parlato di sua madre, sempre più pratica e diretta, che non aveva perso tempo a ripetere davanti a una folla di accademici quanto la pace e i diritti umani fossero importanti: Cecilia Landmann aveva lasciato la sicurezza di Eugene, e si era adoperata perché le sue borse di studio andassero proprio a quei Nati Babbani che sembravano più in pericolo, dando loro un’ottima occasione per lasciare il l’Inghilterra – e chissenefrega se queste persone un pennello non lo avevano mai tenuto in mano. Ma non era stata cauta, Cecilia: si era fatta sempre più sfacciata, incapace com’era di pensare che davvero al mondo esistesse qualcuno che potesse credere nella violenza come valido strumento di cambiamento. La vendetta dei Mangiamorte era stata rapida e immediata: Cecilia Landmann era riuscita a fuggire, ma la sua vita per settimane era rimasta appesa a un filo.
Ole allontanò con un gesto nauseato il piatto che aveva davanti a sé: pur chiuso nel suo piccolo mondo babbano, Ole aveva ricevuto qualche eco della guerra che aveva straziato il suo Paese. Lo aveva accolto con apprensione, leggendo avidamente ogni scampolo di notizia in cui riuscisse ad imbattersi, convivendo per mesi con una morsa di ghiaccio che gli annodava lo stomaco.
E ora l’immagine degli occhi gentili di Cecilia Landmann tornò a riempirgli la mente – Cecilia che gli mostrava dove trovare gli asciugamani puliti nella casa delle vacanze dei Landmann, Cecilia che a King’s Cross non mancava mai di abbracciarlo stretto e di notare tutti i centimetri che aveva guadagnato, Cecilia che lo aveva aiutato a compilare i moduli per fare domanda all’università, durante le notti silenziose, quando Homer e il signor Landmann già dormivano – e un senso di malessere di fronte al male che poteva esserle stato fatto lo assalì.
“Non lo sapevo”.
“Adesso la mamma sta bene”, si affrettò ad aggiungere Homer, le labbra ancora strette dalla preoccupazione, “ma ha passato dei brutti momenti. È stato solo allora che io sono tornato in Inghilterra, e… è stato orribile. Non potevo fare niente per aiutare la mamma, e mi sono sentito così frustrato, così in colpa…”
Homer proseguì, raccontando che fino a quel momento lui non aveva saputo nulla dei piani dei suoi genitori, dei loro tentativi di fare qualcosa per aiutare quella povera gente: era stato troppo preso dalla sua sfavillante carriera, troppo preso dai traguardi accademici che raggiungeva, dalla fama che andava creandosi attorno a lui. E quando era tornato in Inghilterra, il mondo gli era franato sotto i piedi.
“Sono state settimane orribili, e io non credo di essere stato molto me stesso. E accanto alla mamma c’era anche Aline Castro… te la ricordi?”
Ole la ricordava, la ricordava fin troppo bene, fasciata nel suo abito elegante, bellissima e flessuosa mentre si lasciava stringere da Homer durante il valzer di tanti anni prima.
“Ecco. Ci siamo dati un po’ di conforto, e quando le cose si sono sistemate lei e la mamma sono tornate a Eugene, e io sono rimasto a lavorare al San Mungo3, e fino a questo Natale non l’ho più vista, quando si è presentata a casa mia con Timmy, qualche vestito del bambino e un brutto esaurimento nervoso”.
Homer sospirò di nuovo, poi rivolse un sorriso incerto a Ole, come se fosse ansioso di sfiorare i confini della sua reazione. Come se ne temesse il giudizio.
Ma Ole non aveva giudizi.
“E in due anni non hai mai saputo che… sì, insomma, di Timmy?”
Homer scosse la testa, il viso piegato in una smorfia guardinga.
“Non mi ha detto niente. O non ho voluto ascoltarla, non lo so. Mi scrisse spesso, in quei primi mesi, dicendo che aveva bisogno di parlarmi di persona, ma io non… non le ho mai risposto”.
Homer chiuse gli occhi, come se non fosse capace di proseguire nel suo racconto specchiandosi nello sguardo dell’amico.
“Credevo che avesse frainteso quello che era successo, e che volesse qualcosa di più. E invece per me quello che era successo non significava proprio niente, ma dirglielo… lo sai. Sono stato un codardo, ma non sapevo… se mi avesse scritto che era incinta, sarebbe stato tutto diverso”.
Sarebbe stato tutto diverso, perché forse Homer sarebbe davvero corso da lei, e forse Timmy sarebbe stato in grado di unirli. Sarebbero stati una bella coppia, pensò Ole, e quel pensiero, anche dopo tanti anni, fece male.
“Non ho mai voluto diventare genitore, perché non sono capace di dare stabilità a qualcuno. Ma ci avrei provato. E questi due anni… non posso perdonarmi per averli persi. E non posso perdonare Aline per avermeli sottratti”.
All’improvviso, un’ondata di panico assalì Ole. Intensa, indefinita, priva di qualsiasi causa, ma assolutamente presente.
“Ole! Stai bene?”
No, Ole non stava bene. Ole era solo, terribilmente solo, ed era tutto buio, e se avesse aperto gli occhi sarebbe stato ancora più solo, e non poteva sopportarlo. Aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa – a qualcuno – e di sentirsi rassicurare, di sentirsi stringere e accarezzare, di sentire la voce di papà che…
E allora Ole capì.
“Credo che tuo figlio stia avendo un incubo”.
Homer, senza ulteriori indugi, balzò in piedi e lasciò la stanza a grandi falcate, e non appena la sua figura scomparve oltre la soglia della cucina, l’appartamento fu invaso dal pianto disperato del bambino.
 
***

Ole e Homer sedevano vicini sullo stretto divano bianco: Homer aveva impiegato moltissimo tempo a calmare il pianto di Timmy, e alla fine era ricomparso con il bimbo – pigiamino e koala di pezza stretto in una mano – accoccolato fra le sue braccia.
“Ci sto provando, ma proprio non ne vuole sapere di dormire da solo. Forse lo sto viziando, ma mi sembra sempre così terrorizzato, ed è così fragile, e mi conosce a malapena… insomma, ormai dorme solo se io resto con lui”.
Il faccino arrossato di Timmy, infatti, si stava lentamente ammorbidendo, mentre il sonno prendeva il sopravvento.
Ole si ritrovò a sorridere: nel sonno, la bocca di Timmy aveva la stessa curva rilassata che aveva anche quella di Homer, e che Ole aveva osservato spesso, quando erano due ragazzini intenti a chiudere tutto il mondo fuori da un letto a baldacchino.
“Com’è bello. Ti somiglia, lo sai?”
Homer annuì, carezzando pianissimo i riccioli scuri e arruffati del bimbo.
“Mi somiglia tantissimo, sì. La mamma si chiede come possa aver passato mesi a giocare con il figlio misterioso di Aline senza accorgersi che era uguale al suo, di figlio”.
Il sorriso intenerito che Homer aveva rivolto a suo figlio si spense, fino a trasformarsi in un’espressione dura.
“Ha fatto conoscere Timmy a tua madre e non le ha detto niente?”
Homer scosse la testa, senza mai smettere di accarezzare i capelli del figlio.
“Non è stata bene, sai? Ha cercato di fare tutto da sola, di conciliare Timmy e il suo lavoro, e si è chiusa sempre più in sé stessa… mi ha portato Timmy solo quando si è resa conto di aver raggiunto il limite. Ora si sta facendo aiutare, ma nel frattempo Timmy è terrorizzato e si sente abbandonato… avrei voluto poter gestire tutto questo in modo diverso”.
Ole chiuse gli occhi, e ascoltò la pace che il bimbo gettava attorno a sé col suo respiro regolare.
“Si fida di te”.
“Cosa?”
Ole riaprì gli occhi, e indicò il bambino che dormiva fra le braccia di Homer: era una posizione scomoda, ma Timmy sembrava sereno.
“Si fida di te. Sa che tu non gli faresti mai scivolare via il mondo, e che tu sarai sempre il suo punto di riferimento”.
Ole non sapeva perché lo avesse detto, ma sentiva sotto la pelle, sentiva in ogni respiro, sentiva come si avverte un movimento con la coda dell’occhio che le sue parole rispondevano alla verità.
Eppure, Homer si incupì ancora di più, ascoltando queste parole.
“Non so cosa devo fare. Io non voglio che debba affrontare un altro cambiamento, ma non posso nemmeno continuare così. Maddie è una brava ragazza, ma non è la persona giusta per crescere un bambino, e qui al San Mungo io lavoro decisamente troppo. Aline… non sono felice di come si è comportata, ma è sua madre, e Timmy ha il diritto di crescere anche con lei”.
Ole osservò guardingo il viso di Homer: non poteva pensare davvero di rispedire quel bimbo dall’altra parte del mondo, non ora che aveva trovato un po’ di stabilità fra le braccia di suo padre.
“Mi sono licenziato. Resterò qui per il tempo di aiutare Miss Clearwater assieme a te, e poi io e Timmy ci trasferiremo a Eugene. Lì ho fatto domanda per lavorare in una clinica magica… non sarò certo un primario, ma avrò turni molto più snelli, e potrò passar molto più tempo con lui. E lì ci sono i miei genitori, perché la mamma non ha mai lasciato la sua accademia, e loro potrebbero darmi una mano ed essere una famiglia per Timmy. E saremo anche vicini ad Aline, se mai vorrà occuparsi ancora di lui”.
Ole sorrise, ammirato: Homer forse non lo avrebbe mai detto, ma Ole sapeva benissimo quanto dovesse essere difficile per lui rinunciare alla carriera brillante che già aveva intrapreso per accettare un posto qualsiasi in una clinica sperduta in mezzo all’Oregon. Eppure, si apprestava a farlo con serenità, nascondendo anche a Ole i rimpianti e le delusioni.
 
Parlarono ancora a lungo, Homer intento a dispiegare tutti i suoi timori, Ole pronto ad accoglierli e a cercare di smontarli uno per uno, opponendo una tranquilla razionalità alle paure e alla confusione di Homer.
“Che hai da ridere?”
Homer, che per tutto quel tempo non aveva mai smesso di abbracciare Timmy – anche durante il sonno, il bambino si teneva stretto a suo padre con una determinazione che improvvisamente rese chiaro perché il suo animale di pezza fosse proprio un koala4 – sollevò uno sguardo confuso sul sorriso di Ole.
“Niente. È che… è sempre stato il contrario, no? Sono sempre stato io quello che pensava troppo e aveva paura di tutto, e tu sei sempre stato quello che sorrideva e mi diceva di fare un bel respiro. Forse forse ho imparato davvero a guardare il mondo come lo guardi tu, e non è poi così male”.
Anche Homer sorrise, e finalmente dal suo viso la tensione sembrò sciogliersi, lasciando emergere il ragazzo dallo sguardo luminoso che Ole aveva rincorso per tutta la sera.
“Be’, non sarei mai riuscito a immaginare te combinare un pasticcio del genere. Tu non avresti mai fatto un figlio con qualcuno con cui sei andato a letto solo un paio di volte”.
E Ole, con una leggerezza che non aveva mai provato prima, si ritrovò a dire quello che non aveva mai detto a nessuno, non in maniera così diretta, non ad alta voce.
“Le persone con cui io andrei a letto solo un paio di volte non potrebbero mai restare incinte, Homer”.
“Io intendevo…”
“Lo so cosa intendevi”, sorrise Ole, ripensando a quella manciata di notti dove la solitudine sembrava divorarlo vivo, quelle notti in cui goffamente aveva cercato anche lui conforto in sorrisi resi ispidi da accenni di barba scura – non erano mai abbastanza luminosi, quei sorrisi – o affondando le dita in un nido di riccioli scuri – non erano mai quelli giusti.
“Ma sono umano, e tu sei umano, e forse forse in fondo ci siamo sempre comportati nello stesso modo”.
Ole ripensò al silenzio, a quelle lettere che non erano lettere che avevano continuato a scambiarsi, al suo restare fermo in un posto solo senza mai stabilire un legame, e al girovagare per il mondo di Homer, fuggendo da qualsiasi possibilità di mantenere dei legami stabili.
“Sono felice che tu abbia lasciato tutto per venire qui ad aiutarmi con Miss Clearwater”.
“Non ho lasciato poi molto, e non è Miss Clearwater che mi ha convinto a venire”.
Homer annuì piano, sorridendo appena.
“Tornerai a Portland, quando avremo finito di aiutarla?”
Fu il turno di Ole di annuire: sapeva che sarebbe tornato, lo sapeva prima ancora di partire: era giusto così, qualunque cosa fosse successa.
“Sai”, mormorò Homer, fissandolo con i suoi occhi caldi e luminosi, i suoi occhi così intenti a cercare di mostrare a Ole un significato ben preciso, che andasse oltre quelle semplici parole, “da un lato sono contento di tornare a Eugene. È una cittadina piccola, ma non dista poi tanto da Portland… anche un bimbo dell’età di Timmy potrebbe sopportare senza problemi la Materializzazione. Dicono che ci sono dei bei parchi lì attorno, e a Timmy potrebbe far bene respirare un po’ di aria buona”.
Ole sorrise: stava per compiere quarantadue anni, e aveva passato gran parte della sua vita a misurare la distanza che lo separava da Homer. Eppure, ora la vita presentava loro quella che sembrava una nuova opportunità: un’opportunità fatta di tempi lentissimi e avvicinamenti cauti. Ole non era più un ragazzino terrorizzato all’idea di perdere il suo unico amico, e Homer non era più un ragazzo che non aveva mai imparato a mettere radici: forse nella loro vita tutto aveva sempre avuto il ritmo sbagliato. Si erano trovati quando avevano più bisogno l’uno dell’altro, ma qualcosa li aveva comunque allontanati, perché avevano entrambi bisogno di diventare adulti misurandosi solo con le proprie forze.
“Sai, conosco un tale, un dottore un po’ strano, che vive proprio sul limitare di una foresta, vicino a dei sentieri poco impegnativi, delle passeggiate che dicono siano molto belle da fare con i bambini. Sono sciuro che vi offrirebbe volentieri un bicchiere d’acqua, al ritorno da una passeggiata”.
“Non ho un grande senso dell’orientamento. Dici che questo dottore ci darebbe anche qualche indicazione, nel caso ci perdessimo?”
Ole sorrise, sentendo finalmente il calore di quello sguardo su di sé – sentendolo come una fiamma in grado di scaldarlo per davvero.
“Dico che sarebbe molto felice di poter continuare ad essere un punto di riferimento umano”.



 

Note:
Sarò brevissima, perché per la prima volta da che scrivo concludere una storia mi ha lasciato seriamente con le lacrime agli occhi.
Vorrei dire tante cose su quest’ultimo capitolo, che forse serve più a chiudere il cerchio per chi ha letto “Love, walk the autumn, love”, che per concludere veramente questa storia, ma non ho la forza di fare praticamente nulla.
Quello che è certo è che difficilmente lascerò andare questi personaggi (o meglio, difficilmente loro lasceranno andare me).
Questi personaggi mi sono entrati nel cuore come mai mi era capitato, e io vi ringrazio con infinita gratitudine per tutto l’affetto che avete dimostrato nei loro confronti. Grazie, davvero grazie di cuore.

 
 

[1] Sono stata volutamente generica nel riferirmi a questa faccenda: Ole e Homer nascono come personaggi secondari della long “Love, walk the autumn, love”, e lì approfondisco molto meglio questi eventi. Essere più precisa qui mi avrebbe costretta a rivelare svolte di trama che forse potrebbero rovinare un pochino la lettura di chi non fosse in pari con la long e avesse voglia di recuperarla. Non si tratta comunque di elementi cruciali per la comprensione di quest’ultimo capitolo.
[2] Homer ha studiato a Uagadou: a quanto ricordo da un articolo su Pottermore (o come si chiama ora), lì si studia un anche un tipo di magia più arcaica, risalente a quando i maghi ancora non avevano imparato a incanalare i propri poteri attraverso strumenti come le bacchette: gli incantesimi venivano quindi eseguiti soprattutto attraverso gesti delle mani.
[3] So che in “love, walk the autumn, love” avevo già accennato ai motivi che avevano riportato Homer in Inghilterra, dopo la guerra, e sono consapevole che questi due racconti siano leggermente incongruenti: quando ho scritto la long, non credevo avrei approfondito così tanto la storia di Homer, quindi far combaciare tutto mi è stato impossibile.
[4] Per ogni riferimento ai koala, si ringrazia Rosmary: un figlio di koala non poteva che essere koala.
   
 
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