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Autore: Sarane    30/07/2020    0 recensioni
Feri è uno scapestrato ragazzino di periferia, Janos il fratello maggiore, la sua guida e il suo esempio.
Budapest il loro regno, l’Ungheria la loro vita.
Aglaja è un’impertinente teppistella di Cracovia, che ruba libri dalle bancarelle dello Stare Miasto e ha gli occhi più belli di tutta la Polonia.
Nulla li lega, se non gli stessi ideali e uno strano destino che li unirà sotto la bandiera della medesima Rivoluzione.
Prima della caduta del Muro di Berlino, prima dell’89, due paesi lottano per la propria indipendenza e la propria identità, segnando una svolta nella storia.
***
“Noi ci riprenderemo tutto!” e non sapevano nulla di quel “tutto”, ma sentivano che c’era ed era più grande di loro.
Poi si era voltato, Janos, spontaneo come un melo selvatico, il sorriso spavaldo di un ragazzo che giurava di vivere in eterno.
“Dobbiamo resistere, Feri, la battaglia è tutto ciò che abbiamo, dobbiamo vivere per combattere”
Genere: Malinconico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Noi c'eravamo

 

 

 

Il Danubio era il suo sogno.
Feri non lo sapeva, cosa lo legasse a quell’incanto di acque torbide screziate dalle luci della notte che ammantavano la città. Era sempre stato il ricordo delle sue sfumature blu, delle sue correnti, a spingerlo a tornare.

Anche se era verde.

Anche se aveva il colore del piombo quando pioveva.
Si era annidato in lui, quel fiume, con una commozione nostalgica. E allora si sedeva su una panchina e ne contemplava le acque nervose, osservava i traghetti, i passanti.
Il confine di un mondo, il suo, era sempre stato il Danubio.

Che cosa infantile, darsi un confine

Se lo ripeteva spesso, Ferenc, fin dall’infanzia. Fin da quando, ragazzino scapestrato e inconsapevole, lo ripercorreva la sera con Janos, per raggiungere il Gellért con qualche birra e alcune riviste trafugate al padre dell’amico.
Là sopra, dalla rocca, con il vento che frustava le fronde degli alberi, Pest si mostrava maestosa e infinita, sotto il loro cielo umido di nebbia, grigio di tormenti e di una pioggerellina leggera, costante.
Una patina velata in grado di far apparire Buda come un’isola di vetro, una Avalon orientale.
Se lo ripeteva ancora, adesso che gli anni erano troppi per sperare di poterli contare sulle dita. Era Budapest, ad essersi presa il suo cuore.
L’onore, la dignità di un Paese, il sangue sputato fino a non avere più fiato, per lei.
Per la libertà.

Vero Janos?
Era questa, la nostra città, era un sogno, era l’ideale che ha mosso ogni passo
Che mi ha portato qui, adesso

Perché c’era tanta nobiltà, nella sua Budapest, da annichilirlo. Era stato facile perderci l’anima, vederla sbriciolarsi in frammenti minuscoli infiltrati tra le pietre delle strade e dei muri. Era stato facile, scavarsi un posto in un angolino polveroso e dimenticato di un Paese intriso di storia e sofferenza.
Le chiatte prendevano posizione tra i quattro grandi ponti adornati di stelle, la folla si riuniva sugli argini e dalle bancarelle si levava il profumo di pietanze e risate.

È troppa bellezza, Janos, è tutta insieme e stento ad assorbirla
Mi soffoca come la leziosa melodia di un carillon, un suono che è mancanza, è assenza
Era questo che volevamo?

Era allora, che il pianto lo sorprendeva e stentava a frenarlo.
L’età lo aveva reso malinconico, con lo sguardo rivolto ad un passato distante, sfocato, offuscato dal troppo splendore che lo intossicava e lo faceva soffrire di un dolore quasi gradevole.

Lo vorrei, per non crogiolarmi nella mediocrità di me stesso
Lo vorrei perché l’Io qui non esiste, non deve esistere, davanti ad una simile bellezza deve esserci solo tutto il resto
Non l’amarezza, né la fatica, solo un estasiante senso di meraviglia

C’erano molti ragazzini, gruppi di adolescenti festosi, bambini.

Famiglie.

Loro non sapevano, nemmeno s’immaginavano quanto era costato esserci stati, aver combattuto, per quella libertà, per poter vedere il Danubio come un cielo stellato e il Parlamento un riflesso increspato d’oro e magia, in una notte che aveva il sapore dei racconti di mezz’estate.

Loro non lo immaginano, ed è giusto. È per questo che abbiamo lottato, perché non sapessero
Cosa diresti, Aj, di tutta questa amarezza?
Sono lo spettro della tua esistenza come tu sei un riflesso pacato della mia giovinezza?
Diresti qualcosa di astratto, di filosofico, lo so
Mi apriresti un mondo
Mi basta il pensiero per sentire che, forse, non è stato tutto perso. Ogni mia lacrima sarebbe solo un tributo all’altare della meraviglia, sarebbe solo un accenno dell’emozione che provo nel sapere che siete esistiti, che ci siete stati
Una lacrima come tributo non basterà mai a ripagarvi

Budapest salutava con il suo miglior vestito da festa, raggiante di sole e adorna di nuvole.
Ma Feri voleva ricordarla piovosa, quasi dispettosa.
Voleva ricordarla malinconica, però non triste, serena come la sua gente, una madre che sospirava tra i capelli di un bambino in un gesto d’affetto.
Voleva ricordarla con l’amore che lo aveva ricondotto a casa.
Voleva ricordare l’orgoglio provato davanti ad Hősök tere, quando aveva solo quattordici anni e aveva dovuto dire addio.

Voglio ricordare quanto mi era mancato, guardare Pest dal castello, quanta nostalgia struggente
La dolcezza del Danubio, di una città che può essere compresa solo così, abbracciandola tutta con un grande sguardo fino a morirne, ché la città brilla solo se la si ammira da lontano

Era questo, attraversare il Danubio: era camminare su un sentiero di stelle, lastricato di sogni e speranze.
Era la strada che riportava a casa.
Una casa vuota.

Ma era casa nostra, vero Janos?
Non sono pentito, Aglaja, davvero
Non lo sono
Ma era questo che volevamo?
 
Quando aveva conosciuto Janos, Feri era solo un bambino.
Un bambino discretamente piccolo e insignificante, con i vestiti larghi che gli ricadevano addosso e l’aria da pulcino spaurito e arruffato.

Eppure, ne aveva un ricordo incredibilmente vivido.

Janos aveva un anno in più ma ai suoi occhi era un eroe, di quelli che avrebbero meritato una statua a Hősök tere.
Lui l’avrebbe senz’altro avuta, la sua statua, ne era stato certo.
E, come un segno, era proprio nella Piazza degli Eroi che lo aveva incontrato.

Un sorriso luminoso e abbagliante sul suo volto di bambino

Era proprio nella Piazza degli Eroi che si erano scambiati le prime parole.
Le prime di molte.

Sguardo limpido e sincero, occhi di cielo e nuvole

Era straordinario già allora, quel suo strano amico, con il capo inclinato all’indietro e il naso all’insù, quei capelli biondi scarmigliati e le iridi grigie come l’aria satura di pioggia, mentre i suoi occhi mangiavano con la fame del coraggio le statue di quegli eroi che per la loro patria avevano dato la vita e tutti i loro sogni.
Sognava già di essere uno di loro, Janos, e Feri lo aveva capito.
Pioveva piano, ed era bagnato fin nelle ossa, Feri.
Pioveva piano e aveva freddo, ma abitava lontano.
Era andato lì per testardaggine, era andato lì perché nonna Deborah gli raccontava la storia degli eroi di Hősök tere tutte le sere.
Lui voleva vederli, quegli eroi.
Però aveva visto solo fredde statue ed era stanco.
Non c’era nessuna magia.

Solamente freddo metallo, scolpito da incisioni che sapevano di ferite troppo dolorose.

E a Feri la sofferenza non era mai piaciuta, ne provava impressione.
Era stata la mano di Janos a posarsi sulla sua spalla, a riscuoterlo dal torpore in cui il gelo lo aveva gettato.
Tremava, non era contento, era terribilmente insoddisfatto, aveva immaginato di più.

Poi Janos aveva abbozzato un sorriso sghembo da prenderlo a sberle.

«Anche tu lo senti?» era stata una semplice domanda, ma era suonata come una certezza, come se lo avesse sentito subito, che loro si sarebbero trovati.
Feri lo aveva pensato spesso, Janos lo stava aspettando. Stava aspettando qualcuno che avesse nello sguardo la stessa luce e cercasse di afferrare le stesse stelle, di tirare giù il cielo per stringerle, le stelle, per non essere più guardati dall’alto in basso con quell’irriverente, distante bellezza.
«Che cosa?»
Una scrollata di spalle e gli occhi che si alzavano.
«Il coraggio. Gli eroi sono votati al coraggio»

Il coraggio di non mollare, Feri.
Il coraggio di morire.
Il coraggio di vivere.
Il coraggio di lasciarci il cuore in quel sogno di libertà, un sogno così puro e alto che forse sì, forse è come una stella impossibile da far cadere.

«Senza coraggio non c’è Rivoluzione»
Aveva spalancato gli occhi e guardato quel ragazzo davanti a lui come non era riuscito a guardare le statue di eroi lontani. Janos sapeva di una nobiltà perduta, una raccolta di orgoglio e fierezza, come un antico cavaliere pronto a servire la propria Signora fino alla fine.
Se lui era stato Tristano, Budapest era la sua Isotta.
«E cosa è la Rivoluzione?»
Ancora quel sorriso sfrontato e quella mano sconosciuta, eppure già familiare, fra i riccioli neri.
«La Rivoluzione è il colore dell’arcobaleno dopo una tempesta»
Aveva smesso di piovigginare ma il cielo era ancora grigio, come lo sguardo di Janos.
Non c’era alcun arcobaleno, Janos però lo vedeva, lui sapeva guardare più lontano di chiunque altro.
Lui sapeva sognare più di chiunque altro.
«Come ti chiami?»
«Ferenc Sándor Lajta»
«Noi la lasceremo nell’aria, come i colori, la Rivoluzione. Noi troveremo l’inizio dell’arcobaleno»

Feri aveva capito, avrebbe voluto vederlo, quell’arcobaleno.
Avrebbe voluto cercarne i colori.

Era stato facile, trovare in Janos la guida della sua vita.
Era stato facile riconoscerne la forza.

Ammirarne l’ardore.

Per Janos era un bambino, Feri, un moccioso adorante che gli correva incontro con un sorriso immenso, per strada.
Che agitava le braccia per attirare la sua attenzione.
Per Feri, Janos era il fratello maggiore tanto desiderato, l’esempio che i suoi genitori non avrebbero mai voluto seguisse.
Gli piaceva il Parlamento, a Jan, gli piaceva guardarlo dalla riva di Buda, dal Bastione dei Pescatori.
Sedeva su quei gradini, in contemplazione.

I capelli biondi, una pennellata di colore nel grigiore del Danubio.
Gli occhi plumbei come nuvole cariche di tempesta.

«La nostra città puoi capirla solo da qui, Feri, solo da lontano. Solo abbracciandola con un unico sguardo»
Ferenc se lo era ripetuto sempre.

Un unico sguardo, per amarla fino a morirne

Sorrideva Jan, a qualcosa di troppo astratto per lui «Non è bellissima?»
Sussurrava, sognante.
«Per qualcosa di così bello, vale la pena rinunciare a tutto, non pensi?»  
Allora Feri era minuscolo, secco e storto come un ramo, uno spaventapasseri di meraviglia e curiosità.
Non pensava che la loro Rivoluzione avesse un volto.

Non immaginava che quella stella si sarebbe plasmata in una figura di carne, sangue e sogni.

Non ci credeva, che le stelle si potessero fare mortali per esaudire i desideri degli uomini, guardati da lontano con tanto disprezzo.
L’avrebbe incontrata, la sua stella spezzata.

Avrebbe incontrato la Rivoluzione.

Voleva dirlo a Janos, l’arcobaleno esiste.

L’arcobaleno beve vodka pura e legge libri di filosofia prima di andare a dormire
L’arcobaleno raccoglie il suo splendore nell’oro bianco dei suoi capelli, nel fiordaliso di quegli occhi immensi
Aglaja è la stella del nostro cielo, lo aveva scritto all’amico, gli aveva scritto molto.
 
Il sogno che abbiamo inseguito per tutta la vita.
L’ameresti Janos, se non fosse troppo, troppo per noi.
L’ameresti fino ad odiarla, perché non potresti toccarla, tanto è sfuggente.
L’ameresti come me, perché è facile amare le stelle,
anche se loro non ci guardano.
Aglaja è un sogno infranto raccolto in una meraviglia,
una stella spezzata, caduta.
Aglaja è vertigine.
Aglaja è Rivoluzione.
Ferenc Sàndor Lajta - 12 Aprile 1987
 
Quante lettere aveva scritto all’amico, quanto le aveva parlato di lei.
Di quella sua amica polacca tanto insolita, di quella città, Kraków, che non era sua, non gli apparteneva.
La temperatura calava sempre bruscamente, quando arrivava settembre, ma non cambiava molto.

Non a Kraków.

A Kraków il cielo era sempre limpido, terso di un azzurro che feriva gli occhi, un celeste troppo luminoso, come un tappeto di petali di nontiscordardimé.

Come gli occhi di Aglaja.

Era una sfumatura che gli sarebbe sempre stata estranea, nonostante il tempo. Feri quel cielo non poteva conoscerlo, come non avrebbe mai imparato a vedere oltre, oltre gli sguardi di Aj, oltre la superficie, fino all’anima.

Era un Paese dallo spirito inafferrabile.

Si erano trasferiti all’improvviso, era stato deciso in fretta, e lui che conosceva solo le vie dei quartieri più malfamati di Pest, era stato strappato alla sua casa.
Era stata la morte della nonna, a finire tutto.

Perché nonna Deborah era testarda, perché lei amava il suo Paese
Lei non voleva andarsene

E invece, i suoi genitori non avevano desiderato altro.
Il tempo dell’addio era stato breve, una serata come un’altra. Una sigaretta divisa in due, due bottiglie di birra. La città ai loro piedi e loro che si sentivano invincibili, anche con i maglioni consunti, le scarpe consumate.
Pioveva, era stato triste come separarsi dal seno materno.
Pioveva, il Monumento della Liberazione alle loro spalle era solo la continuazione di un pensiero.

Di un sogno.

Feri si sentiva rassicurato, da quella palma protesa al cielo.

Sentiva un senso, una possibilità.

La speranza.
«Mi mancherà venire qui con te»
Lo diceva con il sorriso, Janos.

Lo diceva con lo sguardo perso

Sguardo di cenere arsa.

«Continuerai a crederci, anche quando non sarai qui, Feri?»

Sempre

Gli erano mancate le parole.
Il fuoco dei suoi occhi, impastato di sangue e speranze, avrebbe riportato la luce nella loro città, Feri lo sentiva.
«L’Ungheria è stanca, Ferenc. Ma non è sconfitta»

Gli era mancata la voce, la forza.

Aveva solo annuito.
 


Kraków era estraniante come potevano esserlo soltanto i luoghi limpidi e luminosi.
Non c’era nulla, che avesse il sapore di casa.

Tranne un ponte.

Un’immensa struttura di metallo che imprigionava il paesaggio lontano in un reticolo di forme geometriche.
Il Most Marszałka Józefa Piłsudskiego s’immetteva direttamente nella Krakówska, la via principale che tagliava a metà il quartiere di Kazimierz.

Il suo quartiere.

Allora, quando era iniziata la scuola, Feri aveva preso l’abitudine di camminare lentamente sotto le mura dello Zámek wawelski, che ombreggiavano la strada.
I prati erano tappeti di foglie secche, lo ricordava, lo ricordava come se i suoi passi stessero ancora calcando i sentieri che costeggiavano la Vistola.
Ricordava l’acqua che rifletteva il sole in accecanti rombi di luce, che abbracciava con una svolta le linee del castello.
Seguiva la Bulwar Kurlandzki fino in fondo, fino al ponte, tutti i giorni.
Era su quel ponte, che aveva conosciuto Aglaja.
Era la fine del 1983, non c’erano più i carri armati per le strade, ma l’oppressione soffiava ancora sul collo.

Era l’inverno dell’83 e le scuole avevano riaperto da poco.

Era una compagna di scuola, Aj, ma di un’altra classe, di un anno più piccola.
Non le aveva mai parlato.
Però quella ragazzina irriverente un giorno lo aveva chiamato lo stesso, mentre era appoggiato al parapetto e smarriva lo sguardo tra gli alberi e i bambini che si rincorrevano tra i giochi di legno rovinati.
Era malato di nostalgia già allora, e la Vistola era per lui un baluginio di sole e acque pulite cristalline, blu come il cielo di Polonia, distante da ciò che aveva imparato a conoscere e ad amare.
Perché anche se faceva freddo, anche se nevicava e gli inverni lì erano veramente spietati, si mangiavano la carne e le ossa e consumavano l’anima, non gli era mai importato; il Paese che avrebbe potuto annientarlo non era mai stato quello, non avrebbe mai potuto avere quel potere, non era mai arrivato al suo cuore. Ferenc aveva continuato a guardare quel mondo attraverso la lente del passante distratto.
Il suo cuore no, apparteneva ad un fiume grigio di polvere da sparo e tristezza, il suo cuore era impigliato nel Danubio, molto, troppo distante da lì.
«Ehi, ma quindi è vero che sei ebreo?»
Quella voce argentina l’aveva costretto a sollevare lo sguardo in alto, verso il cielo.
I piedi sospesi nel vuoto erano stati la prima immagine di lei.
Poi, l’aveva messa a fuoco. Si era arrampicata sul complicato reticolo di metallo e da là osservava la sua città perdersi all’orizzonte.
I capelli erano una nuvola bionda e leggera di fili sparsi al vento.
«È una sciocchezza»
«Ma abiti a Kazimierz, ti ho visto. E tuo padre è un gioielliere»
Era inquieto, Feri, non gli piacevano gli ebrei.
Nessuno gli aveva mai detto niente di simile, a Budapest, eppure viveva a Erzsébetváros, non lontano dalla Grande Sinagoga dorata.
«Non vuol dire nulla»
Aglaja aveva riso.
«Non è che mi faccia differenza»
Non le aveva più parlato, Feri, se ne era andato.
Imbronciato, offeso per quell’accusa insensata. Suo padre era davvero un gioielliere.

Ma il mondo era pieno di gioiellieri.

Kazimierz era pieno di persone, non solo di ebrei.
Erano fuggiti quasi tutti, gli ebrei.
C’era stata l’Aaliyah nel dopoguerra, il Regime comunista era stato spietato.

Erano fuggiti quasi tutti verso Israele, gli ebrei.

Perciò no, Feri era normale, un normale cittadino.

Un normale ungherese.
 


Aglaja si arrampicava spesso, su quel ponte.
 La trovava sospesa sul vuoto.

La trovava con un libro in mano.

Leggeva molto, Aj, con i capelli lunghi che le ricadevano sulla fronte, che le entravano negli occhi.
Aveva un neo sulla guancia, Aglaja, una goccia di cioccolato.


Una lacrima di Pierrot.

Davanti a loro, la vista sull’altro ponte. Più avanti, le case lontane dello Stare Miasto, dall’aria antica e nobile, un fondo di opulenza che la guerra aveva guastato.
Un’opulenza che i nazisti si erano portati via quarant’anni prima e non avevano mai restituito.
La vita era difficile lì, Feri lo pensava spesso.
La carezza delle chiome verdi degli alberi e delle barchette modeste che ripercorrevano la Vistola non bastava a lavare il senso di decadente povertà che, come ruggine, corrodeva quel mondo.
La vita a Budapest non era tanto diversa, non era più semplice.

Era una lotta costante.

Era guadagnarsi il proprio posto di prepotenza e spesso fallendo.
Ma non era tanto disperata.
Era familiare come il proprio respiro, come le linee rozze delle proprie mani.

Come Janos, maledetto Janos, abbarbicato sulle statue di Piazza degli Eroi, mentre urlava Per la patria!”

Era questo che mancava a Kraków:

un senso di appartenenza;
l’orgoglio della sua gente, la disponibilità.

Quei sorrisi stanchi, sfibrati, ma sempre sinceri.

Protesi come una mano in aiuto.

I polacchi erano diversi, forse la guerra aveva logorato i loro spiriti.
Li aveva resi diffidenti, distanti.

Una distanza che non poteva colmare.
Una distanza che lo rendeva estraneo in terra straniera.

Aj, però, non era come loro.
Era una squattrinata teppistella di periferia, che rubava libretti malconci dalle bancarelle dello Stare Miasto e si sfilava bottiglie di vodka distillata dai vestiti informi.
Era diffidente Ferenc, ma non gli dispiaceva parlare con lei.
Così, abbandonava la cartella e la raggiungeva. In pochi minuti si accomodava a cavalcioni sulla grossa trave di metallo e si appoggiava alla struttura.
La bellezza era tale da strappargli il respiro.

La prima volta, aveva avuto paura.
Un’immensa paura.

Aglaja però lo aveva sfidato, spronato a sfidarla, la paura.
Gli aveva ricordato Janos.

Per la prima volta, non gli era mancato il suo migliore amico. Janos era uno scavezzacollo e lo aveva abituato a cose ben più impensabili.

Era un’idealista ribelle
Un fomentatore della folla

Gli aveva scritto questo e che, insieme ad un gruppo di studenti, faceva propaganda.

“Budapest è casa mia!”

Lo sosteneva ringhiando: contro il Partito, contro i comunisti. Contro l’opprimente piede straniero che dal ’56 aveva spezzato il sogno di una nazione.

“Posso fare quello che voglio a casa mia!”

«Ehi, una mano no?»
Aglaja nascondeva spesso gli oggetti sotto i maglioni, Feri ne riconosceva il gonfiore.
«Ciao anche a te, Aglaja. Sei sempre splendida»
La canzonava, per il suo nome, per i suoi modi bruschi e l’aria arruffata e ruffiana che la contraddistingueva da chiunque altro.
«Aglaja di nome e di fatto»

Come una delle tre Grazie.

Ma lei della Grazia non aveva nulla, solo la bellezza.
Aj sembrava composta di vento e forza, nel suo maglioncino celeste che ricamava il colore delle sue iridi graffiate dalle ingiustizie.
Avevano visto troppe cose brutte loro, e non importava.
Le cose brutte non avrebbero vinto.
Incrociavano gli sguardi e Feri leggeva questo, negli occhi inafferrabili dell’amica.

Le cose brutte non vinceranno, vincerò io

E poi un sorso di vodka liscia, un rivolo che le colava sul mento.
Aglaja che lo puliva con prepotenza, con il polso e l’orlo di quel maglione sformato che tanto le donava.
«Aj, non bere così tanto»
«Feri, non fare la donnetta. Sono una polacca, mica una femminuccia»
 


«Bottino del giorno» diceva con un sorriso ferino, soddisfatto.
«Aj, tuo padre ti mena quando ti prende»
«Se mi prende»
«Ti prende, maledizione, lo sai che ti prende»
Però poi le sfilava la bottiglia di mano e sorseggiava con più moderazione, perché era fortissima, imbevibile.
Aglaja si addolciva, gli dedicava una tenerezza silenziosa, opposta a quel suo solito essere polacca.
Quando mostrava un barlume di fragilità, quando arrossiva dalla meraviglia che qualcuno potesse desiderare di curarsi di lei, Feri pensava che avrebbe voluto trascorrerci la vita, ad inseguirla. Perché era come Janos lei, ardente di giustizia e libertà.
Malinconica come la lacrima sul suo viso.

Una creatura troppo pura per lasciare che scivolasse come un’ombra nelle strade di quella città, fino a dissolversi con il buio della sera.
 


Erano così le loro giornate, trascorse a trafugare la vodka fatta in casa dal nonno di Aglaja, un signore polacco fin nel midollo, che la ingurgitava come fosse acqua di fonte.

Da cui la nipote aveva ereditato una spaventosa resistenza agli alcolici.

Era così che trascorrevano il tempo, a filosofeggiare sul ponte, prima di tornare a casa.
A volte, Aglaja arrivava con qualche libretto nuovo, lei che i soldi non li aveva nemmeno per mangiare.
«Come lo hai comprato?»
E lei, dotata dell’innocenza più primordiale, sollevava i suoi occhioni limpidi, un frammento del cielo della sua terra.
«Non l’ho comprato»
«Non puoi farlo, Aj»
E lei scrollava le spalle.
«Nessuno spenderebbe soldi per i libri, in casa mia»

Nessuno aveva soldi per dei libri, in casa sua.

E Feri lo sapeva.
Ma non lo accettava.
Non accettava di guardarla e sapere che non avrebbe mai avuto nulla tra le mani.
«Se mi dici cosa desideri, te lo comprerò io»
E Aglaja rideva di lui.

Dei suoi desideri.

«Ehi, Ferenc, non ti preoccupi troppo?»
 



I controlli della polizia erano massacranti, si poteva fare poco.
Feri in realtà non poteva comprare nulla, per lei, per se stesso. Persino le derrate alimentari erano razionate.

Si moriva di fame.

Anche se la legge marziale era stata abrogata pochi mesi prima. Feri non capiva perché la sua famiglia avesse voluto fuggire in Polonia.
La situazione lì non era migliore.

Il Regime era sbagliato.

Chi riusciva, fuggiva all’estero.
La famiglia di Aglaja no, era troppo povera.

Però poi, era successo.

Le persone avevano cessato di avere paura.
Si riversavano in strada, sotto la guida di Solidarność.

Si riversavano in strada a protestare contro un governo che non li guardava in faccia.

Walesa aveva ricevuto l’amnistia, e con lui gli altri prigionieri politici.
Erano ricominciate le contestazioni.

Le opposizioni sociali.
Come nell’81, gli aveva detto Aglaja, orgogliosa.

Gli scioperi degli operai che non accettavano più di essere oppressi.
Anche se Solidarność era ancora un’associazione clandestina, la Polonia ci credeva, la Polonia voleva liberarsi del partito unico di governo, voleva decidere per se stessa.
Feri ascoltava le notizie che volavano di bocca in bocca.

Era esaltato.

Aglaja ascoltava.

La fronte corrucciata, le labbra sigillate.

Era a Gdańsk, che si combatteva.
Era a Warszawa che i membri di Solidarność cercavano un riconoscimento politico, una legittimazione di essere.

Aglaja voleva essere a Warszawa.

Lo sapeva, Feri, ed era turbato.

Perché era come Janos

Impetuosa, testarda.

In prima linea

Era un’operaia bambina che non accettava di restarsene con le mani in mano.
Era un’operaia bambina che venerava Walesa e avrebbe voluto essere come lui.
Aveva vissuto la Legge Marziale che era solo una ragazzina, Aglaja.

Aveva visto i carri armati, i militari per strada;
il cibo sottratto, le scuole sospese.
La violenza.

Per lei era diverso, per lei era fondamentale.

La Libertà era fondamentale.
 



«Ferenc, dobbiamo parlarti»
Era stata una frase semplice, quella di sua madre.

Ma Feri non l’aveva mai scordata.

Il tono, l’inflessione.

La colpa nella voce

Aveva scoperto così, semplicemente, perché la sua famiglia era fuggita in Polonia.

Glielo avevano detto come fosse la cosa più ovvia del mondo.

Sua madre, suo padre, volevano tornare ad Israele.

Volevano tornare a casa loro
Nella loro terra

Una terra che Feri non conosceva, di cui ignorava l’esistenza.

Perché la Polonia permetteva liberamente l’Aaliyah verso Israele

Senza documenti di espatrio, senza visti di ingresso.

Perché lo stato ungherese era fortemente antisemita

E Feri non ne aveva idea.

Per proteggerlo dalla sua terra, gli avevano mentito.

Sempre.
Feri amava l’Ungheria.

Era la sua casa.

Ne provava una nostalgia tragica e dolorosa, un’assenza come di una madre perduta. E lui una madre l’aveva, provata dall’età ma elegante di una bellezza aristocratica e antica, nobile; eppure era stata la sua fredda e verde terra a donargli il primo sospiro di aria fresca, era stato il suo fiume gelido e crudele ad accarezzargli le caviglie magre, era stata la sua Budapest a dirgli chi era e chi sarebbe sempre stato.
Ed ora, ora era la sua Ungheria a tradirlo.
A tradire tutti.

Tutti quelli come lui.
Gli ebrei.

E se la sua madrepatria, il suo unico amore, lo aveva abbandonato, bastava perché lui potesse abbandonarla a sua volta?
Era un amante tradito che non riusciva a smettere di provare amore per la causa del suo dolore.
Non poteva rassegnarsi, era la sua casa.
Non poteva perderla, l’Ungheria, era la sua vita.
E come era il suo mondo prima, prima di quella passione, prima di tutto?
Forse c’era nato, con la dedizione nel sangue per una terra che sapeva solo sputargli in pieno viso e ricordargli che non era niente, era solo terriccio, un numero, uno dei tanti pronti a versare la propria vita sulle strade lastricate di ingiustizie della sua Budapest di sogni irrealizzabili.
Forse era solo un numero.

Un ebreo

Glielo avrebbero tatuato un numero, marchiato a fuoco vivo sulla pelle, sulla tenera pelle del polso, come una bestia. Il suo mondo lo avrebbe venduto.
Aveva venduto sua nonna, prima.
Avrebbero potuto fare lo stesso con lui, la sua gente era stata tradita, la loro patria non li aveva considerati suoi figli, li aveva visti come cittadini di seconda categoria, come non valessero abbastanza. E Feri no, non lo aveva mai saputo.
Non ne aveva avuto idea.
Come avrebbe potuto?
Lui non lo sapeva, non sapeva di essere ebreo.
Li aveva sempre guardati con sospetto, gli ebrei.
Si era sempre sentito migliore.

Che ingenuo era stato.

Migliore in cosa, poi?
Non aveva mai capito niente. Non si era mai sentito tanto bambino, Feri, tanto impotente.
E non lo accettava.
Perché, perché la sua famiglia era fuggita?
Perché il loro grande amore per la patria era stato consumato dalla paura, bruciato con la stessa rapidità con cui un colpo di fucile squassava il silenzio ed una pallottola fendeva l’aria?
Come avevano potuto dimenticare, dimenticare la propria casa, accettare la sconfitta, chinare il capo.

Lasciare tutto.

Feri no, non ci riusciva.
Era arrabbiato, certo che era arrabbiato.

Era furioso.

Con tutti, con nessuno, con se stesso.

Per non aver capito.

Ma lui non era come sua madre, non era come suo padre.

Feri non aveva paura.

Feri non provava rancore.

Lui voleva liberarla, la sua patria, dai russi, dagli invasori, da tutti coloro che l’avevano piegata e umiliata e spinta a tradire quelli come lui, che non erano diversi, non erano cittadini di seconda categoria, erano ungheresi.
Feri non era solo un ebreo, Feri era soprattutto ungherese. Si sentiva ungherese con una fierezza destabilizzante, avrebbe lottato per quella fierezza, per quel senso di appartenenza. Anche se era stato tradito, perché la sua Budapest non lo aveva mai tradito davvero.

Aveva accolto lui e Janos quando nessun altro lo avrebbe fatto.

Li aveva visti crescere.
Li aveva accarezzati materna con le sue piogge fitte e leggere, costanti di una tenerezza carezzevole così rassicurante che camminare sotto quella cortina di vapore acqueo era stato dolce come addormentarsi sotto un piumone la sera.
«Io ci potrei morire, per quella terra, anche se è lontana, così lontana che mi sembra d’impazzire per la nostalgia»
Aglaja, lei sapeva solo sorridere e scuotere i suoi serici capelli biondi, leggeri come raggi di sole dispersi attorno al suo capo in un’aureola di luce.
Alzava gli occhi grandi, azzurri di cielo, dal libro stretto fra le dita sottili, e lo guardava.
«Magari potresti viverci, per quella terra. Mi sembra una soluzione equa»
Aglaja era sempre stata più intelligente di tutti loro, lei per gli ideali non moriva dentro, lei per gli ideali ci viveva.

Li respirava.

Aglaja era Voltaire tornato dalla tomba per insegnare ai disgraziati come lui cosa volesse dire, credere davvero in qualcosa, crederci fino in fondo, fino a sentirlo nelle ossa e forse soffrirne.
Ma soffrire era vivere, era questo che diceva lei, e lo sosteneva con l’aria spensierata di chi sa prendersi gioco di ogni cosa e non sa prendere sul serio nulla, nemmeno il dolore.
 Sapeva solo sorridere e la lacrima sulla sua guancia pareva una raccolta di malinconia accarezzata dal sole.
«Lo sai che l’eternità è solo un momento, vero?»
Glielo aveva domandato, con la fronte aggrottata, e l’azzurro dei suoi occhi gli aveva dato le vertigini.
«Un attimo è quanto basta per uno scherzo, Feri! Non essere sempre così serio»
Allora Feri la guardava, e non poteva non chiederselo.
Prendersi tutte quelle eternità, le avrebbe permesso di continuare a sorridere sempre?
Eppure era semplice, la verità.

Non lo avrebbe mai saputo.
Non l’avrebbe mai vista, quell’Aglaja, quella adulta.
Non sarebbero più stati insieme.

Però a quel tempo aveva solo lei lì accanto, Aglaja e il suo maglione sformato, Aglaja e la sua eccessiva spensieratezza, un muro che nascondeva tutta l’amarezza accumulata in ogni giorno della sua grama e spietata esistenza.
C’era il vento, soffiava su di loro, attraversava il complesso di metallo del ponte, accarezzava la chioma di Aglaja che si disperdeva nell’aria in onde sottili, gli fischiava nelle orecchie e copriva il suono della confusione.

Della paura.

Della paura di perdonare.
Perché Ferenc ne era certo, lui la sua terra l’aveva già perdonata.
«Vivere per lei… Sì, non è male, Aj. Non è male per niente»

Non era un contabile come suo padre, Feri.
Non era tranquillo e remissivo come sua madre, non aveva la sua eleganza.
Era come nonna Deborah, era come nonno Eliyahou.

Feri non l’avrebbe mai lasciata, quella sua terra traditrice.

Ci sarebbe tornato, un giorno.

Feri, per l’Ungheria, per Budapest, avrebbe vissuto fino a consumarsi.
 


I capelli di Aglaja, raccolti in una lunga treccia scomposta sulla schiena, sembravano raggi di sole.
Di quel giorno, Feri rammentava quella lucentezza più di tutto, un ultimo bagliore d’alba.

Avrebbe sempre ricordato la sua bellezza.
Avrebbe sempre ricordato Aj.

«Ehi, Feri, quindi che si fa?»
E lui aveva guardato la borsa improvvisata, che pendeva mezza vuota dalla sua spalla esile, e mai gli era parsa tanto piccola e indifesa.
Aveva guardato il suo sorriso, la lacrima di Pierrot sul suo volto.
Erano arrivati alla stazione di Kraków.
Era stato facile seguirla, lasciare la sua famiglia.
Lasciare tutto, per credere in ciò in cui Aglaja credeva.

Adesso Feri, cosa farai?
Dove andrai?
La lascerai davvero andare?

Eppure, ne era stato certo non appena aveva incrociato quei grandi occhi strappati al cielo di Warszawa, Aglaja sapeva già tutto, tutto ciò che aveva taciuto anche a se stesso, che non aveva ancora compreso.

Non l’aveva mai davvero avuta, Aj.
Lei era inafferrabile.
Era un sogno.

Era per inseguire quel sogno, per poterlo sfiorare, che non poteva partire con lei.
Era per raggiungerla, che dovevano percorrere strade diverse.
«Janos ha bisogno di me, Aj»
Ma non era vero, non era solo questo, non era abbastanza.

E meritava solo verità, Aglaja, solo il più puro e nobile dei suoi sentimenti.

«La mia patria ha bisogno di me»
La gonna lunga sopra il ginocchio, il maglione celeste consumato, con la camicia stropicciata che faceva capolino dai bordi sdruciti, tutto di lei era fragile.

Tranne i suoi occhi.

Quegli occhi il cielo di Warszawa lo avrebbero fatto cadere, e Feri lo seppe, quasi dolorosamente: non aveva bisogno di lui.
Lei era la guida, lei era la verità.

Era lei, la Rivoluzione, era lei ogni visione di desiderio.

«Era ora che lo capissi anche tu» e poi, un sorriso ingenuo e sincero, infantile, di occhi strizzati in gocce di pioggia.

Janos, quanto vorrei mostrartela ora, ché bella come adesso, irraggiungibile come adesso, non lo sarà mai più
Così splendente, così luminosa
Così inarrivabile
Quanto vorrei, portarla con me
Quanto vorrei che portarla con me non la spegnesse fino a dissanguarla lentamente

Ma non gli era permesso, non avrebbe potuto.
Apparteneva alla sua terra, apparteneva al suo cielo, Aglaja.
Alzò gli occhi al tabellone, i treni in partenza e gli orari.
«Quindi le nostre strade si dividono» continuò Aj, e c’era orgoglio nella piega irriverente delle sue labbra, nell’inclinazione del suo volto morbido.
Si lasciavano tanto alle spalle.

Si lasciavano tutto.

Per cosa poi?
Un destino incerto, forse sventurato.
Ma non importava, ormai non importava più nulla.
Quei treni erano l’ultimo viaggio verso una speranza che, non si fosse realizzata, li avrebbe uccisi entrambi, e andava bene, era giusto.
Aglaja partiva per Warszawa.
Feri tornava a Budapest, perché non sarebbe potuto andare in nessun altro luogo.

Perché aveva nostalgia di casa.

L’aveva accompagnata sul suo binario, l’aveva guardata salire i gradini, inclinarsi appena verso di lui.
L’aveva guardata sorridere.

Per l’ultima volta.

Avrebbe voluto dirle tanto, avrebbe voluto dirle ogni cosa.

Mi mancherai
Sei sempre stata ogni mio sogno e delirio, per questo non ho mai potuto sfiorarti
Portala con te, ovunque andrai, quella tua Rivoluzione che è già solo il tuo esistere
Arriva, insieme ai tuoi colori
Lasciali nell’aria di Warszawa, quei colori, cambia il tuo mondo

Non aveva detto nulla.
Si erano osservati in silenzio, un silenzio lungo e carico di aspettative.
E forse paura, se solo avessero potuto permettersela, se non avesse mangiato i loro sogni e nutrito i tormenti.

Carichi di addii che non sapevano esprimersi.

Poi, Aglaja gli aveva donato il suo ultimo barlume di coraggio.

Il coraggio di non tornare sui propri passi.

«Noi non saremo mai sconfitti, Ferenc Sándor Leitersdorfer[1]. Noi siamo fatti per combattere»
Le porte si erano chiuse.
La mano di Aglaja si era posata sul vetro, Feri aveva teso la sua, come a sfiorarla.

Ma era troppo tardi.

Il treno si era mosso e, insieme a lui, sulla banchina, scorreva nella memoria, inciso per sempre, quel sorriso sfuggente e vivido, una ferita mai rimarginata.
Ferenc non lo sapeva, cosa significasse realmente ricevere un “ultimo sguardo”.
Non ne aveva mai vissuti, di ultimi sguardi, di ultimi momenti.
Nemmeno immaginava, cosa gli avrebbero lasciato addosso, quanto potessero fare male.

Quello sarebbe stato il loro ultimo sguardo.
 

Se avessi saputo Aj, se avessi anche solo immaginato,
forse avrei osato, almeno un poco.
Forse, forse ti avrei sfiorato i capelli, ti avrei detto tutte le mie verità.
Forse ti avrei stretta, forse sarei venuto davvero con te.
Avrei tradito me stesso, avrei tradito ogni ideale, ogni mia speranza, e sarei partito.
Partito con te.
Ma non lo saprò mai, e questi innumerevoli forse mi accompagneranno sempre.
Accompagneranno il tuo ricordo, quella tua forza, quella tua aria confusa.
Non lo so, cosa avrei fatto se avessi saputo.
Aglaja, mia Aglaja, mia nostalgia struggente, mia follia marchiata a fuoco nell’anima, vorrei tornare indietro. Vorrei tornare indietro e avere la possibilità di sceglierti.
Ma Aj, tu lo sapevi meglio di me.
Tu lo avevi capito.
Noi, quella possibilità, non l’abbiamo mai realmente avuta.
Ferenc Sándor Leitersdorfer– 26 agosto 1991
 
Budapest era cambiata.
Sotto la spinta della Polonia, la sua gente si era risvegliata.

La sua gente aveva ritrovato l’orgoglio.
La forza di lottare.

La sua gente aveva ricordato i propri sogni.

Ma Feri non aveva ritrovato Janos.

La sua famiglia era un agglomerato di dolore e amarezza, una raccolta di sofferenza inspiegata.

Janos era morto.

Non c’erano state grandi spiegazioni, grandi verità.
Avevano ritrovato il suo corpo nei boschi del Gellért, una mattina.

Massacrato

Picchiato a sangue, fino a morirne.

Ucciso senza pietà sotto lo sguardo del Monumento della Liberazione

La palma della vittoria, della libertà conquistata contro la Germania nazista, non aveva mai avuto un sapore tanto amaro.
Avevano detto poco le autorità, era stato liquidato come un incidente.

Una rissa degenerata in un tragico finale.
Una rissa tra ragazzi ubriachi.

Ma non ci credeva, Feri, e nemmeno la sua famiglia ci aveva creduto.
Janos era sempre stato un piantagrane.

Un problema per il sistema.

E il sistema lo aveva fatto sparire. Era una pedina piccola, Janos, un esserino che insieme a studenti dissidenti cercava di gridare per far sentire la sua voce, anche se era solo un miagolio, un sussurro.
Era l’insieme di sussurri che sollevava sotto la bandiera della sua Rivoluzione, il vero problema. Era il colore del suo arcobaleno, a scuotere gli animi, a spingere chi non era dalla sua parte a guardarlo con sospetto.

Forse era stata la polizia.
Forse altri studenti, altri ragazzi.
I comunisti.
Forse.

La verità era che Feri non lo avrebbe mai saputo e non lo avrebbe più rivisto.
 


Questo era ciò che volevi, Janos
Questo era ciò per cui hai lottato tutta la vita

Ottantamila persone che manifestavano per le strade di Budapest.

Pacificamente.

Ottantamila persone che chiedevano Democrazia.

Che marciavano verso Hősök tere.

E mentre urlava, Feri sentiva la voce graffiare la gola.

Sentiva le lacrime che graffiavano gli occhi.

Mentre cercava di sovrastare le altre grida, di unirsi a quella folla, di sollevare i propri ideali al cielo, d’innalzarli dove tutti potessero vederli.
Solidarność aveva aperto i negoziati con il Partito Comunista polacco e l’onda di entusiasmo, come una scossa, aveva attraversato l’Est Europa.

Perché il nemico doveva cadere, l’Unione Sovietica aveva perso il diritto di schiacciarli, di opprimerli.
Erano liberi.
Avevano il diritto di essere liberi.

E sotto quel cielo umido, sotto la pioggerellina leggera che come una patina sottile avvolgeva le statue di Hősök tere, proprio lì dove tutto era iniziato, Feri aveva alzato il viso, chiuso gli occhi.

Aveva lasciato che l’acqua gli scorresse sul volto.

Ce l’hai fatta Janos
Ce l’hai fatta, Aj
Ce l’abbiamo fatta
Siamo liberi.
 
Il 18 Giugno, Solidarność aveva stravinto le prime elezioni semi-libere.

Il 27 giugno, l’Ungheria aveva tagliato la barriera del confine che divideva il suo Paese dall’Austria.

La Cortina di Ferro era caduta, la Germania Est era libera.
Feri aveva assistito ad un miracolo.

Al coraggio che vinceva sulla paura
Alla giustizia che vinceva contro gli oppressori

Ad un mondo in grado di rinascere dalle sue ceneri.
Perché la forza dei singoli aveva fatto la differenza, perché grazie a loro, grazie a quelle lotte, cinque mesi dopo un milione di persone aveva manifestato a Berlino, spinto dalla loro forza.

Perché cinque mesi dopo, il Muro era caduto, sotto i colpi dei loro sforzi.
Smantellato dalle mani nude di chi non aveva smesso di credere, di sperare.

Era la fine della Dittatura, la fine di un’Era.

Non so dove sei Aglaja, ma so che sei fiera
So che sei felice e orgogliosa di te, della tua gente, della tua Nazione
So che non è ancora finita, che la Rivoluzione è un focolare che attraverserà tutta l’Europa, che il nemico è in ginocchio ma non ancora sconfitto
Ma so anche che crollerà, perché il Drago muore sempre alla fine della storia, perché ci abbiamo creduto troppo, per poter fallire
 



Dopo tanto tempo, si chiedeva solo cosa fosse rimasto del resto, Feri.
Di quegli ideali che bruciavano come febbre e li avevano accompagnati e consumati ad ogni passo, della libertà che era visione e follia, dei fantasmi.

Del passato

Aveva sempre creduto che fosse la sua casa, l’Ungheria, il luogo sicuro a cui poter fare ritorno.
Ed ora avvertiva solo un grande vuoto, Feri, e se ne domandava la ragione.
Poi, pensava a Janos, alla loro adolescenza bruciata tra le strade di Budapest, a quel giorno in cui si era aggrappato alla statua affacciata sul Danubio, all’ombra del Parlamento, e gli aveva sorriso sfacciato.
La statua di Attila József.

La statua del suo eroe

Di quel poeta che aveva creduto nella poesia e nella Rivoluzione.

Che aveva creduto nella sua giovinezza, nella sua forza
Noi ci riprenderemo tutto!” e non sapevano nulla di quel “tutto”, ma sentivano che c’era ed era più grande di loro.

Poi si era voltato, Janos, spontaneo come un melo selvatico, il sorriso spavaldo di un ragazzo che giurava di vivere in eterno.
Dobbiamo resistere, Feri, la battaglia è tutto ciò che abbiamo, dobbiamo vivere per combattere
Gli occhi rubati al cielo, uno stralcio di sogno

“Noi non saremo mai sconfitti! Anche solo un momento, anche solo per un giorno, noi vinceremo tutto, te lo prometto, Feri”
Non aveva capito niente da ragazzo, era troppo ingenuo.
Non aveva visto la realtà.
Non aveva compreso che il Danubio brillava di quell’irreale bellezza perché erano stati loro, lui e Janos, insieme, a donargli un’altra luce.
Non aveva capito che la Vistola era nostalgica e malinconica come la lacrima di Pierrot che decorava lo sguardo sognante di Aglaja.

Loro erano la mia casa

Budapest era una festa di fuochi che si riflettevano nelle acque torbide.

Abbiamo avuto la pace, abbiamo conquistato la nostra libertà
È per questo che abbiamo combattuto
Eppure, le nostre statue non decoreranno Hősök tere ed io non riavrò mai più indietro la mia famiglia
Quindi, che cosa resta di tutto?

Solo il ricordo di quei due scapestrati, delle bottiglie di vodka sotto i maglioni sformati di Aglaja, delle birre condivise con Jan, della filosofia spicciola a notte fonda, bastava a strappare un sorriso.
Feri ricordava, ricordava quel giorno in cui si erano tenute per mano, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, e non erano stati popoli diversi, razze diverse, ma solo persone. Due milioni di persone, una catena che credeva in qualcosa di più alto, nella Libertà, nella Giustizia. Persone che non erano fermate da confini, non erano fermate da un potere più grande.

Persone che ad una dittatura non volevano più credere

E da qualche parte, tra quelle mani, Feri sapeva esserci Aglaja. Anche se erano distanti, anche se non potevano vedersi, Feri lo aveva sempre saputo, quella catena li aveva uniti.
In quella stretta c’era Janos, c’era tutto ciò in cui aveva sempre creduto, per cui aveva sempre combattuto.

Mi resta il ricordo
Restiamo noi, quello che siamo stati

Il Monumento della Liberazione, dalla cittadella, vegliava ancora la città.
Era tutto come nelle sue memorie.

Solo una cosa era cambiata

L’iscrizione originaria.

Perché dopo l’89 tutto era cambiato
“Alla memoria di tutti coloro che hanno sacrificato la propria vita per l’indipendenza, la libertà e la prosperità dell’Ungheria”

Il mondo non lo avrebbe mai saputo di loro, non avrebbe mai saputo di Janos, né di ciò che avevano fatto e di quello che avevano perduto.
Nessuno avrebbe mai saputo quanto avevano sacrificato, per quella libertà, perché erano un numero piccolo in un numero infinitamente più grande.
Sorrise Feri, tra sé e sé.
Sorrise sotto i fuochi d’artificio.
Sotto il cielo di una Budapest liberata, ma non libera.
Sotto un’Ungheria che ancora, nonostante il tempo, lo rifiutava.
Rifiutava quelli come lui.

È il numero piccolo nel numero più grande, a fare la differenza
Non il condottiero, ma chi lo segue
E forse di quegli ideali non resta nulla
Ma resto io
Io ricordo
Solo io
So che noi c’eravamo.
 
 
[1]  “Lajta” è la versione ungherese del cognome ebreo “Leitersdorfer”. La politica di magiarizzazione comprendeva anche la magiarizzazione di nomi propri di persona e cognomi.
 


NOTE

Questo racconto è in realtà una bozza di un progetto più ampio a cui sto lavorando da un po' di tempo e a cui tengo particolarmente per come è nato, la prima volta che sono stata in Ungheria cinque anni fa e ho respirato un senso di appartenenza che non avevo mai percepito altrove, tanto questo slancio era positivo, buono.
Mi sono innamorata di quel paese e così, da questo amore, è nato Ferenc. Un giorno tutto questo avrà spero, uno sviluppo maggiore, nel frattempo però ho voluto provare a condividerlo... così, per mettermi alla prova ogni tanto!
Spero possa allietare le ore anche solo di qualcuno di voi :)
   
 
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