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Autore: adipocera    04/08/2020    0 recensioni
Perché proprio adesso House aveva deciso di sfoderare la sua pietà?
(Missing moment ambientato dopo il secondo episodio della quinta stagione, "Non è cancro".
Wilson-centric.)
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, James Wilson
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quinta stagione
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Quando Wilson chiuse la porta per la seconda volta non trovò resistenza da parte di House; l'ultima cosa che vide furono i suoi occhi cupi e indecifrabili svanire dietro il legno.
Poi esalò, rilasciando quel respiro che non si era accorto di star trattenendo. E non si mosse per un po'. Una parte di lui - una parte enorme che includeva il suo cuore, il suo stomaco e una fetta abbondante della sua testa - desiderava furiosamente che House bussasse di nuovo, ma non accadde. Wilson lasciò andare un altro sospiro, rimanendo insistentemente vicino a quella porta. Vi poggiò sopra una mano, logicamente senza sapere che, dall'altro lato, House stava facendo lo stesso, incapace di muovere un passo, ma incapace di ritentare, sporgendosi irrequieto verso l'una e l'altra intenzione. Logicamente, non poteva saperlo.
E contro ogni logica, quando finalmente si allontanarono da quella porta, fu nello stesso momento. Ma loro non potevano saperlo.
Wilson ripensò alla conversazione appena finita, e per quanto volesse sentirsi insultato dalle parole che era stato costretto a subire, sapeva bene che dentro di sé non aveva aspettato altro. Non voleva altro che ripiombare in quel mare di familiarità e conforto che era il suo rapporto con House - un'amicizia tanto tumultuosa e ambigua quanto cruda e viva. Forse malsana, ma vera.
Ripensò al suo "non farlo" di supplica quando House gli aveva chiesto "come stai", a come in realtà stesse sperando, con tutto il dolore, che House insistesse, che prendesse quella lama sottile dei suoi occhi e la usasse per incidergli l'animo con la noncuranza che così tanto lo contraddistingueva. Che gli scavasse dentro senza riguardo per le sue emozioni, sì, che lo costringesse ad arrendersi, che lo riportasse indietro, da lui. Ma neanche House sarebbe arrivato a tanto, e Wilson doveva chiedersi perché. Non lo fece, o forse spinse la domanda sul fondo del suo cuore, insieme alla risposta che non avrebbe mai, mai accettato.
La sua risolutezza, d'altronde, era solo una farsa. Per Amber, per Cuddy, per i suoi colleghi, per il mondo e per se stesso. Per due mesi aveva saputo reggere bene: aveva metabolizzato correttamente il suo lutto, grazie all'aria nuova e alla terapia di gruppo e alle buone abitudini e ai farmaci, e certo era ancora difficile svegliarsi in un letto vuoto, senza la donna della sua vita, ma era normale. Era normale che le mancasse, che piangesse, che ne parlasse. Ciò che invece non riusciva a metabolizzare era l'assenza di quello che era stato l'unico punto di riferimento, l'unico chiodo fisso della sua vita, da quel primo fortuito incontro al convegno fino a quell'ultimo pietoso sguardo scambiato in ospedale - fino a questo momento, la discussione avuta alla porta. E poi era andato via di nuovo, ed era colpa sua.
Perché proprio adesso House aveva deciso di sfoderare la sua pietà? La domanda che Wilson aveva ignorato stava rapidamente risalendo su dai meandri in cui era stata bandita, e Wilson si rese conto che, davvero, avrebbe preferito non pensarci. La risposta lo fissava da dentro se stesso con occhi tutt'altro che vacui, con occhi liquidi che somigliavano spaventosamente a quelli che aveva Cameron quando parlava del suo marito defunto.
Wilson si ritrovò seduto sul divano, sul posto che avrebbe preso se fosse stato a casa di House, e prese un cuscino, un paio di cuscini, per poggiarli accanto a sé - non tanto vicini da toccarli, ma abbastanza vicini da sentirne la presenza affianco al braccio, anche se non emanavano calore come un corpo umano. Rilassò le spalle sullo schienale e alzò il mento, fissando quel soffitto nuovo e vuoto e privo di risposte.
Socchiuse le palpebre fino a un piccolo spiraglio, troppo stanco per tenere gli occhi aperti ma terrorizzato dalle immagini che avrebbe visualizzato se li avesse chiusi del tutto. Ma l'immaginazione è un'arma potente, soprattutto quella di un preoccupatore seriale come Wilson, che di certo non si sarebbe fermata contro un tentativo così fiacco di sopprimerla.
E difatti, anche vedendo il soffitto del suo appartamento, e anche se il divano non era affatto come quello di House, Wilson ebbe come la sensazione di trovarsi a casa sua, ed ebbe come l'impressione che House fosse lì di fianco a lui. Non potè fare a meno di girare la testa sul lato, sperando di essere in quel sogno, ma sapendo a malincuore di non esserci affatto, e non vide nulla apparte i cuscini che lui stesso aveva posizionato, e un grande, inspiegabile vuoto.
Il suo occhio cadde su una carta appallottolata per terra a poca distanza dalla porta: le banconote accartocciate che House aveva gettato dentro pretendendo di poter comprare il suo tempo. Curioso, Wilson si strascinò per raccoglierli e vedere se erano davvero quattrocento dollari come aveva detto House. Sul suo viso lampò un'espressione contorta come se il cuore gli fosse precipitato nello stomaco, un senso di colpa straziante. House non aveva mentito.

Quando riaprì gli occhi, Wilson era steso, la sua testa nel grembo di Amber a mo' di cuscino, e le dita di lei gli carezzavano gentilmente i capelli.
"Va tutto bene." gli disse, ed era come se la voce provenisse direttamente dalla sua testa anziché un'altra persona, come un'eco distante.
Wilson provò ad alzare gli occhi per guardarla in viso, ma una luce accecante la avvolgeva dal collo in su, ed era impossibile vedervi attraverso; quindi rinunciò, smorzando un sospiro frustrato. Amber non parlava così.
Allora Wilson si concentrò invece su cosa poteva vedere: era l'ufficio di House visto attraverso il vetro, dove i suoi aiutanti senza volto vagavano avanti e indietro come spiriti irrequieti. Dalla sedia di House sbucava una coda di capelli biondi, e Wilson si accorse di essere invidioso di quella figura che sedeva come in un trono non suo. Ella si alzò quindi dalla sedia, girandosi verso il vetro, fissando dritto nei suoi occhi. Con uno schiocco, inudubile a causa della distanza e del vetro, tirò fuori dalla bocca un lecca-lecca rosso e con un altro suono muto (un forte crac, immaginò Wilson) ne staccò un pezzo con i denti, sbarrando gli occhi con un sorriso provocatorio.
Wilson aveva capito di essere in un sogno, perché non aveva mai visto Cameron tanto stralunata, e allo stesso tempo non se n'era ancora accorto, perché dentro di sé sentiva crescere quell'invidia che prima, per confronto, appariva solo come un'ombra, un accenno della stessa. Invidia di cosa? Della sua devozione per House. Ma non era reale, anche lei era cambiata, anche lei gli aveva dato le spalle. Ma dire anche significava che lui aveva fatto lo stesso. Lo avevano fatto tutti, in fondo, incapaci di tollerare gli abusi continui, ripugnando a quella mancanza di normalità che lui, invece, considerava sacra. Quindi quand'è che aveva cambiato idea?
Dopo quanti pranzi pagati, soldi rubati, dopo quante chiamate nel cuore della notte, dopo quante sbronze, quanti litigi?
Dopo quanti divorzi? Dopo quanti consigli ignorati?

Wilson si svegliò nel suo letto senza nessuno accanto e in quel momento conobbe la risposta.
   
 
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