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Autore: wanderingheath    05/08/2020    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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CAPITOLO 10.* (I)

Mousetrap


*Il capitolo presenta delle scene più forti
 
 
«I feel the adrenaline
moving through my veins
spotlight on me and
I’m ready to break.»

 
 
8:35 a.m. - Lowhood
 
 

I libri di storia accatastati gli uni sugli altri la minacciavano dalla scrivania.
Avrebbe fallito anche l’ennesimo test, ne era sicura. Le lacune che si portava dietro da almeno due anni aprivano voragini sempre più ampie, che promettevano di farla sprofondare nel totale oblio.
Se solo si fosse impegnata, adesso che aveva tutto quel tempo a disposizione, il pericolo della bocciatura avrebbe cominciato a scemare – non a svanire definitivamente, ma almeno a rimarginare quei crateri.
Stava torturando i lacci della felpa, intrappolata nell’indecisione.
Non riusciva a demolire quel vetro, un’abitudine in cui sedeva comoda.
Un risolino richiamò la sua attenzione.
Per un attimo pensò che si trattasse di uno di quei giocattoli a fischietto del cane, che spesso s’intrufolava in camera di soppiatto rimasticandone uno, ma la sua ipotesi si rivelò presto errata.
Il suono proveniva dall’angolo in cui si trovava il comodino. Proprio lì, sul tappeto che scorreva sotto al suo letto, qualcuno aveva montato una tenda con un paio di coperte, dei cuscini e quella che ricordava la tovaglia a scacchi della colazione.
Melanie aggirò la tenda a passi lenti, domandandosi a cosa diamine stesse assistendo.
Aveva un sapore nostalgico, quell’immagine, ma al tempo stesso errato, fuori posto, come se fosse stata strappata ad una fotografia scattata tanti anni prima.
La somiglianza con quella che realizzava da piccola, quando si arrabattava per ricreare le scene di cartoni animati che la tenevano incollata per ore allo schermo del televisore, era impressionante. Ricordava distintamente i pomeriggi trascorsi tra i cuscini, anche nell’afa di agosto, in compagnia di suo fratello o di Daphne.
La risatina si ripropose con maggiore vigore.
Melanie si accucciò sul tappeto, incapace di dare una spiegazione razionale a tutto quello.
Una mano minuta spuntò da una fessura tra i due tendaggi, seguita dal viso di Daphne Barnett.
«Vieni, Mel.»
Le faceva cenno di seguirla dentro il finto accampamento.
«Vieni con noi.»
Carponi e a capo chino, Melanie riuscì a farsi spazio all’interno, scostando il cuscino che di solito sonnecchiava sul sofà, in salotto.
«Che cosa sta…»
Dentro, un altro paio di ragazze la stavano attendendo. Attraverso la matassa cotonata di un biondo sabbia, riconobbe Alyssa in persona, nell’altra ragazza una sua vecchia amica d’infanzia: Josie.
«Sorpresa!» gridarono all’unisono, uno scampanellio cristallino.
Le stavano porgendo un volume storiografico assieme ad una monografia sulla guerra civile americana.
Josie le mostrava un album di fotografie vuoto con sopra iscritte cinque lettere in un corsivo svolazzante, incatenate a formare un arabesco: M, D, A, J, S.
«Stella ha la polmonite. Ti fa gli auguri, però.»
Daphne la scrutava con un sorriso compiaciuto: «Pensavi che ci fossimo dimenticate?»
«Ma, a dire il vero…» balbettò l’altra.
«Guarda cosa ho portato», la interruppe Alyssa. Teneva in mano dei cioccolatini imballati in una scatola trasparente, la cui coccarda rossa pendeva miseramente da un lato. «Josie l’ha già aperta», puntualizzò.
«Non ho resistito…»
«Sono gli Hershey’s Kisses» aggiunse Daphne. «I tuoi preferiti, giusto?»
Melanie era rimasta senza parole.
Non vi era un accordo che non suonasse stonato in quel quadretto.
Alyssa in camera sua? Insieme a Daphne e a… Josie?
Come era possibile che si fossero riunite lì, dopo tutto ciò che le aveva divise?
Ma poi, che diamine di fine aveva fatto Josie?
Da quel che vedeva, se ne stava a gambe incrociate sul pavimento; indosso la vecchia maglietta azzurro pastello con il logo di Kirby.
Un giramento di testa la spinse a ricercare una posizione più comoda, in mezzo ai peluche invitati a quello strano party. Un cono di luce calda, di fine estate, penetrava attraverso la stoffa delle coperte.
Quel dettaglio fu la definitiva secchiata d’acqua fredda.
«Ma voi che ci fate qui? Come siete entrate?»
Alyssa si scambiò un’occhiata divertita con Daphne. «Come sarebbe a dire come siamo entrate? Ci ha aperto tua madre.»
«Tutto questo è a dir poco… strano.»
«Strano?»
Era stata Josie a ripetere la domanda. Gli occhi color nocciola la scrutavano in un misto di interrogazione e offesa. Possibile che avesse conservato quello strano taglio di capelli per – quanti? – cinque anni?
«Dove sei stata per tutto questo tempo?»
Alyssa non trattenne una risata nervosa. «Tieni, mangia un po’ di cioccolata, Mel. Devi aver preso un’insolazione.»
Mentre lei accettava con estrema lentezza la scatola, Josie si alzò in piedi, rovesciando la tenda improvvisata. Il coro di proteste raggiunse il soffitto, mentre Daphne sbottava in una risata di pancia e si abbandonava al pavimento, stringendo un cuscino sotto al mento.
«Sai cosa possiamo fare adesso? Un tuffo in piscina!»
Josie si lamentava del fatto che non potesse immergersi con la digestione in corso, mentre Alyssa la accusava di essere un’ingorda.
«Che dici, Mel? Ti va un tuffo?»
Daphne attendeva entusiasta la sua approvazione.
«Oh, certo che le va», esclamò Alyssa, schizzando in piedi. «Qualunque occasione è buona per vederti in costume
Melanie sussultò.
Le due o tre parole che riuscì a spiccicare si srotolarono con estrema lentezza, poiché la lingua le era rimasta incastrata nel palato, ora completamente secco.
«C-c», si schiarì la voce. «Come hai detto, scusa?»
L’altra le sorrise con un velo di compassione: «Avanti, Mel, lo sanno tutti, a scuola. Tutti
Sentì il proprio cuore scivolare nei talloni. Lo sapevano tutti?
«Dai, prendi un altro Hereshey’s Kiss. O forse preferisci quelli firmati Barnett
Poi, uno strappo: il grido raggelante di Josie, che puntava con un dito, terrorizzata, il suo sterno.
Mel fece appena in tempo ad abbassare lo sguardo per ritrovarsi, disciolto sul petto, quello che sembrava il residuo di uno dei baci al cioccolato. Con l’unica differenza che lo strano dolcetto aveva assunto una forma oblunga e le stava scavando un foro nella carne.
Una sanguisuga.
 
 
Melanie riaprì di scatto gli occhi.
Era schizzata a sedere sul letto con il fiato corto e la sensazione di un macigno a gravarle sullo sterno.
Abbassò le coperte, per verificare di non avere qualche strano animale incollato addosso.
Si sentì una sciocca, proprio mentre tirava un sospiro di sollievo, nell’essersi fatta suggestionare.
Riabbandonatasi al proprio cuscino, controllò l’orario riportato dalla sveglia: le otto e mezza passate. Probabilmente tutti gli altri studenti erano già alle loro postazioni, nelle comode classi dell’Arcadian. Si sarebbe persa qualche lezione di Storia, quella settimana, ma non lo rimpiangeva.
Decise di trascinarsi in cucina, sebbene sapesse già il desolante scenario che l’attendeva.
Alcuni frammenti del proprio incubo le volteggiavano attorno, legati al polso come i numerosi laccetti per capelli che vi agganciava. Si stropicciò un occhio con vigore.
La luce dorata, di una tipica giornata d'ottobre sgombra da nubi, bagnava le superfici dei mobili di castagno nel corridoio. Regnava una calma piatta, garanzia della zona suburbana in cui abitava: Lowhood si stiracchiava e animava ad orari molto più mattinieri.
Ricordava perfettamente cosa aveva sognato, prima della sanguisuga: uno scenario del tutto diverso, in cui stava terminando di asciugarsi le mani.
Nel disegno originale di chi aveva progettato quella gigantesca toilette per donne, tutti gli stucchi dorati, i ghirigori delle cornici, le saponette a forma di rosa che odoravano di sintetico dovevano essere stati assenti.
Chiunque invece avesse realizzato l’arredamento dell’ambiente si era probabilmente ispirato ad una casa per bambole o a qualche desiderio irrealizzato della propria infanzia. Tutto ciò che di maestoso, sovrabbondante - in definitiva, stucchevole – l’immaginazione avesse il potere di creare, era stato condensato in quello spazio.
Sebbene il sapone fosse inodore, un altro profumo permeava l’atmosfera claustrofobica: vaniglia? Fragola? Non avrebbe saputo dirlo con certezza, ma era sicura che se avesse passato un minuto in più dentro quel gabinetto, avrebbe finito per rimettere la cena.
Il suo alter-ego onirico si era dato una sistemata con dei gesti sbrigativi, intolleranti, ai capelli, sentendosi sempre più sbagliata in quel tubino nero.
Stava varcando la soglia del bagno, quando l’immagine di Daphne che veniva nella sua direzione l’aveva colpita in pieno stomaco. Neppure una minima frana granitica nel viso di roccia. Neppure una piega del labbro a scomporre i lineamenti.
Le erano bastati pochi secondi, un flash fotografico, per capire che la ragazza in quel vestito si sentiva fuori posto tanto quanto lei nel proprio. L’aveva tradita il modo in cui si graffiava le gambe, tirando la stoffa verso le ginocchia ed illudendosi di allungarla di almeno qualche millimetro, il tanto che bastava a ridurre il campo di pelle scoperto.
Quelle riflessioni si erano svolte in meno di dieci secondi, anche nel sogno, poco prima che una raffica di colpi si abbattesse sul fondo della stanza.
Una scarica di adrenalina. Lo slancio verso Daphne.
L’aveva atterrata e mentre slittavano sul pavimento con gli occhi serrati ogni cosa si era cristallizzata in un ridicolo slow-motion. Anestetizzato qualunque suono attorno a loro.  
Poi, gli schiocchi sordi dei proiettili, la pesante valanga di vetri dalla vetrina in frantumi, il tintinnio con cui i bicchieri si dissolvevano sopra ai loro corpi. Aveva portato le mani alla testa, sperando di ripararsi almeno dagli spuntoni più aguzzi.
Le urla d’orrore, quelle delle guardie, l’irruzione della security del Galaxy, il respiro affannoso di Daphne sotto di sé, l’acquazzone di schegge raccolto in pozze accanto alle loro mani. Le ferite apertesi sul dorso e tra le dita.
Le era parso che qualcuno avesse interrotto la loro esistenza per una frazione di secondo, derubandole di attimi vitali.
Daphne aveva cominciato a piangere in silenzio.
Avrebbe voluto abbracciarla, farle capire in qualche modo che si trovava al sicuro, che erano vive, che qualunque assurdità le avesse travolte, era finita. E poteva finire anche quella sciocca sfida all’indifferenza.
Si era sentita afferrare per una spalla e rialzare a forza.
E in quel punto era morto anche il sogno.
Evidentemente, il ricordo del party al Galaxy Hotel le era rimasto incavato sottopelle più di quanto sospettasse. O forse era stato il turbinio di eventi recenti a resuscitare quegli inutili spettri.
In cucina trovò zia Lydia a ruminare accanto al frigorifero, in un atteggiamento che rendeva il suo profilo, costretto fra la finestra e la penombra, ancora più arcigno.
Con simili spigoli duri avrebbe potuto spezzare del piombo, se solo vi avesse provato.
Appena avvertì la presenza della nipote, ritornò ai bricchi mezzi vuoti e alla pila di piatti che soffocava il lavabo, fingendosi indaffarata. Melanie mugolò un buongiorno che venne annacquato dal getto del rubinetto.
«Allora… soldi, chiavi, telefono… credo di aver preso tutto.»
Sua madre fece irruzione dal salotto, un uragano elettrizzato pronto a travolgere chiunque. Si sarebbe portata dietro anche l’appendiabiti e la scarpiera, se le avesse trovate sulla strada.
«Sì, non ho dimenticato niente», commentò assestando tre colpetti alla tasca della giacca. «Chiavi… chiavi…»
«In salotto», fece zia Lydia, lapidaria.
Fu allora che Sophie Prescott intercettò la sagoma della figlia, accoccolata sulla sedia a sgranocchiare un biscotto al cioccolato. «Mel? Che fai ancora qui? Sei in super ritardo.»
L’allarme aveva spazzato via ogni accenno di frizzante euforia. Lo sfavillio si era spento, il tornado arrestato.
«Un po’ di febbre.»
Stava per chiederle dove fosse diretta, quando le sovvenne l’impegno che da una decina di giorni Sophie Prescott millantava: il colloquio di lavoro. La prima volta che l’aveva annunciato, né lei né la sorella le avevano prestato fede – il che l’aveva non poco mortificata – ma alla terza o quarta reiterazione si erano convinte a guardare l’annuncio che aveva raccolto dalla strada, dove si consigliava di contattare un numero per un lavoro in un negozio di toeletta per cani.
«Certo, c’è un baratro tra l’agenzia e questo,» aveva ammesso in un tentennamento, «ma per il momento può bastare. E poi noi abbiamo già un cane!»
Melanie le aveva spiegato che le cose funzionavano un po’ diversamente, che i cani li portavano i clienti, non i candidati o i dipendenti, ma alla fine aveva deciso di lasciarla fare quel che preferiva.
Anche suo padre le aveva detto che bisognava incoraggiarla, supportarla nei progetti più realistici, su indicazione medica. E quel tentativo di irrealistico non presentava nulla all’infuori dell’assunzione di una cinquantenne, uscita da un ospedale psichiatrico a seguito di un esaurimento nervoso e senza esperienza nel settore.
«Il colloquio», soffiò Mel. «È stamattina.»
«Sì!»
Sua madre piroettò sul posto, reggendosi allo schienale della seggiola. «Come sto? Troppo informale?»
Il completo nuovo che aveva acquistato in un negozio di abbigliamento - una traversa più distante da quello dei fratelli Vondrasek – le stava a pennello.
«Stai benissimo, ma’. Non preoccuparti.»
Fu la spintarella che le serviva.
Dieci minuti più tardi, Sophie Prescott era uscita in strada; sulla principale via di scorrimento avrebbe fermato un taxi al volo. Melanie l’aveva guardata sfumare all’orizzonte dalla finestra della cucina, l’animo in subbuglio.
Avrebbe tanto voluto vederla felice, serena, completamente in pace con se stessa: con chi era stata, con chi era diventata ora, con chi l’avrebbero sempre identificata gli altri.
Sua madre, purtroppo, aveva ricevuto il dono e la maledizione dell’accettazione.
Il consenso ricercato ad ogni costo era l’altra faccia di una stessa medaglia: l’approvazione altrui, agognata come una bevanda miracolosa, capace da sola di sorreggere una persona –non un mero fantoccio – e di spingerla avanti nell’esistenza. Come se davvero avesse avuto bisogno di sentire il cuore traboccante di gioia nel vedere una cliente soddisfatta stringerle la mano e ringraziarla, commossa, per il lavoro svolto; come se Sophie Prescott non bastasse a se stessa, per sentirsi accolta dall’umanità.
E Daphne non era forse lo stesso?
Entrambe fragili, talmente fragili da non sostenere da sole la propria corolla; gambi sottili che mai avevano imparato a sollevare il capo, dritti e solenni, nella loro piccola, ordinaria bellezza.
«Dovrai dirglielo.»
La voce tagliente di zia Lydia la strappò a simili riflessioni.
«Sto già pagando il mio fio, zia. Non c’è bisogno di coinvolgere anche lei.»
«È tua madre. Ha il diritto di sapere cosa avviene nella tua vita.»
Una pausa. Zia Lydia esitava davanti al lavabo. «A meno che…»
Si mosse verso la minuscola, instabile libreria che pendeva da un angolo della stanza, dove i ricettari venivano mescolati a manuali sul giardinaggio e a vecchie favole di quando Melanie e Jeremy erano stati piccoli.
Ne trasse un volume che esibiva segni del tempo, pur conservando una rilegatura preziosa; lo depositò sul tavolo, panacea di tutti i mali.
«A meno che non ritrovi la tua strada. Ti vedo molto persa ultimamente.»
Melanie buttò un occhio alla copertina della Bibbia, rabbrividendo al pensiero di farsi indottrinare.
Se fosse stata solo questione di una veloce lettura, si sarebbe prestata, ma quel minuscolo compromesso equivaleva a sottoscrivere un patto con sua zia, dalle condizioni invisibili e clausole pesanti.
La conosceva bene, la strada verso cui avrebbe desiderato spintonarla senza alcun riserbo.
«La strada della fede, Melanie. È una cosa molto importante, avere fede.»
«Prima che sia troppo tardi», aggiunse dopo una pausa riflessiva.
«Va bene. Ci penserò, zia.»
Una vibrazione fece cozzare il suo cellulare contro la tazza acquamarina del latte.
Una nuova mail in arrivo. Mittente: la direttrice dell’Arcadian.
Registrò solo la parte finale del testo, su cui si costrinse a tornare più e più volte, per evitare qualunque fraintendimento.
 
“… per espletare il vostro compito, cui avevo accennato di persona in sede di convocazione, siete pregate di prendere parte al team di volontari che lavoreranno all’allestimento dell’Arcadian Halloween Party, previsto per venerdì p.v.
Vi allego di seguito i referenti del progetto, a cui potrete fare capo per maggiori informazioni circa luogo e orario della…”

 
Appurato che non si trattava di una svista, la prima reazione di Melanie fu quella di inoltrare il messaggio al numero tanto agognato, che da alcuni giorni conservava in rubrica.
Lisa le rispose dopo una ventina di minuti.
Probabilmente stava seguendo la lezione di letteratura. Più volte aveva elogiato la sua insegnante, una donna sulla quarantina delicata e sensibile, in cui – secondo Melanie - per Lisa era facile riconoscersi. 
«Guarda che quegli affari finiranno per succhiarvi il cervello», l’ammonì sua zia, sbirciando da sopra la sua spalla. «Se apri la Bibbia nel passaggio in cui…»
«Sì, sì, tutto chiaro, zia. Dio non approverebbe la mia scelta.»
Probabilmente anche lei avrebbe concordato con Dio sul fatto che presentarsi al Webling Manor non fosse un’ottima idea, ma qualunque baluardo sarebbe crollato di fronte al messaggio di Lisa May, corredato da una faccina inviante un bacio: “Certo che ci sarò anche io! Altrimenti chi la sente mia cugina? A venerdì, genio del crimine”.
 
 
*   *   *
 
 
 
«Ferma, ferma, ferma!»
Stava gridando a squarciagola, ruzzolando dietro al veicolo. L’ultimo autobus che l’avrebbe portata a destinazione in perfetto orario, forse giusto un filo in ritardo sul trillo della campanella.
L’aveva appena perso.
«Cazzo», imprecò con un calcio al vuoto.
Erano stati registrati ben due ritardi dall’inizio dell’anno scolastico e in meno di un mese: un record perfino per una ritardataria cronica come lei.
Quella mattina avvenne l’impensabile. Il bus rallentò fino a fermarsi al semaforo poco distante.
Frances Hurst s’impegnò nello scatto più atletico che avesse improvvisato nella propria – scarsa – carriera da sportiva. Le gambe le tremavano quando raggiunse il mezzo.
Assestò tre colpi decisi sulla porta automatica e rimase in attesa.
Per qualche secondo non successe nulla; poi, il conducente spalancò tutti gli accessi e i passeggeri si riversarono in strada, sbuffando e sgomitando nell’ammasso di zaini, cappotti, ventiquattr’ore.
Frannie si ritrovò travolta dal marasma e, spingendosi controcorrente, provò a salire di un paio di gradini.
«Rotto», le annunciò l’autista. Fatta salva quest’unica notizia, non le dedicò più attenzioni, interamente assorbito dalle comunicazioni del ricetrasmettitore.
La ragazza se ne tornò alla fermata, consolandosi con una sigaretta. L’accendino, però, non voleva saperne di funzionare; quasi si consumò il pollice nel tentativo di farlo scattare.
A coronamento di una mattinata già cominciata di merda, si ritrovava adesso anche quell’affare scarico: non le era concesso accendersi neppure una sigaretta.
Una voce, alle sue spalle, la costrinse a voltarsi.
«Serve una mano?»
La presenza di un ragazzo della sua età alla fermata del bus era passata del tutto inosservata. Teneva l’accendino blu elettrico in una mano, nell’altra un libro dalle pagine spiegazzate con una prima di copertina dal sapore vintage. Accettò lo scambio equo: una sigaretta per una fiammella.
«Pensavo che in questa zona i servizi fossero di un certo livello.»
Lo sconosciuto abbozzò un sorriso. «Se pensi che Baywick sia un posto di classe, sei fuori strada. Fammi indovinare: nuova?»
«Che acume. Lo Sherlock Holmes di cui Norwall non credeva di avere bisogno.»
L’altro scosse il capo, ridacchiando.
«Scusa,» si riprese subito, «non volevo essere acida. È una giornataccia.»
«Sei diretta in centro?»
Annuì, espirando una boccata di fumo. Se chiudeva gli occhi, poteva già sentire la stizza di poco prima placarsi. «Ginger Blooms.»
«Non dirmi che anche tu studi all’Arcadian
Frannie confermò, notando come fosse l’unica scuola privata, in centro, a non richiedere di indossare l’uniforme quotidianamente.
«Fino ad un paio di anni fa c’era l’obbligo della divisa, in effetti», commentò l’altro. «Poi l’etichetta è stata modificata, ci hanno permesso di respirare. Dobbiamo tutto ai rappresentanti d’istituto, che hanno perorato la causa davanti alla preside e hanno vinto.»
«Potenti, questi rappresentanti», ironizzò lei. «Poche private approvano jeans e felpe.»
In verità, la sua esperienza nel settore era esigua, dal momento che prima dell’Arcadian non aveva frequentato una privata in vita sua. Sapeva, però, che altrove il dress code era molto più rigido.
«Sono previste a breve le nuove elezioni. Qui da noi funziona con il ricambio annuale.»
Dopo una pausa, in cui entrambi cercarono disperati tracce di mezzi pubblici in lontananza, il giovane le tese la mano per presentarsi. «Mi chiamo Ethan, comunque.»
«Frances, ma ormai tutti mi chiamano Frannie.»
«Da quanto sei in città, Frannie? Non ti ho mai visto in giro.»
Gli raccontò di come fosse approdata a Norwall per pura casualità, assieme a sua madre, grazie ad un’intercessione da parte di un amico di famiglia e con la benedizione di sua nonna – che viveva in un altro Stato, ma desiderava saperle felici entrambe.
In quei due mesi che aveva trascorso a Baywick e nell’istituto dell’Arcadian si era fatta un’idea abbastanza precisa della città e dei suoi abitanti. Con il sangue da nomade che si ritrovava – espressione coniata da lei stessa e di cui andava fiera - vagabondare per i quartieri agli orari più disparati era divenuta un’abitudine e ormai poteva affermare di conoscere Norwall come le proprie tasche.
«Un verdetto per niente positivo.»
«Ah no?»
Ethan tentava con ogni fibra del proprio corpo di metterla a proprio agio, ma la verità era che quella sconosciuta con la chioma corta e gli occhi brillanti pizzicava corde remote della sua curiosità: forse era il fascino della nuova arrivata o di una donna già vissuta ad avvolgere Frannie, o forse il modo in cui impugnava la sigaretta, pizzicandola fra le unghie variopinte come se si fosse trattato del bastoncino di un lecca-lecca. Gli pareva racchiuso in lei tutto ciò che di misterioso ed occulto la vita avesse da offrire e a cui lui non si sforzava di arrivare.
«C’è del marcio nell’Arcadian», ironizzò lei.
Però lo intendeva sul serio, Shakespeare a parte.
Tutta la storia inquinata della impopolarità di Melanie, la ragazza incontrata a mensa, gli sguardi diffidenti di perfetti estranei pronti a restringerla in una categoria, pur di sentirsi al sicuro nel preservare le gerarchie; l’assoluta impertinenza con cui quel gruppo di ragazzine le si era avvicinato per metterla in guardia su Melanie Prescott... certamente uno specchietto per allodole, ma cos’altro celava?
«Perché non provi a candidarti?»
«Come rappresentante di un istituto in cui mi sono appena iscritta.»
L’altro assentì: «Potresti provare a scombinare qualche carta in tavola».
«Sarebbe divertente, in effetti.»
Frannie si mordicchiò un labbro, prendendo in seria considerazione la proposta.
Un tentativo non avrebbe nuociuto a nessuno. «Vedremo», si limitò a dire. «Farò le mie ricerche.»
Spense il mozzicone contro il vetro della pensilina, terminato l’ultimo tiro.
«Beh, direi che ci conviene incamminarci, se vogliamo arrivare entro mezzogiorno», scherzò Ethan.
Fosse stata il tipo di persona da lasciare ammutolita, Frannie avrebbe sgranato gli occhi, ma l’unica scorta che non esauriva mai era proprio quella: le parole.
«Intendi a piedi? Ma sei pazzo?»
«Realistico. E poi, non so te, ma non ho alcuna lezione di educazione fisica oggi.»
Arrivarono a destinazione una mezz’ora dopo, costeggiando l’esigua spiaggia che si diramava in arterie granellate, disciolte dal moto dell’Atlantico.
Frannie, approfittando di un silenzio, gli aveva chiesto del volumetto che pizzicava tra pollice e indice.
Era in difetto sulla riconsegna di almeno qualche giorno. Apparentemente lei non era la sola ritardataria cronica dell’Arcadian.
Quando furono di fronte alla cancellata monumentale, una voce chiamò la ragazza dal cortile interno.
«Frannie! Ehi, Frannie!»
Un ragazzo trafelato, con un ciuffo di capelli dorati a gravargli sull’occhio, li raggiunse in fretta, scortato da quello che doveva essere un suo amico stretto.
Oh, no. Non di nuovo lui. Il ragazzo della spiaggia.
«Ricordi ancora il mio nome?»
James annuì. «Tu hai già scordato il mio?»
«Dimentico tante cose. Jaiden? Jared?»
«James.»
Frannie fece schioccare le dita. «James, giusto. Ricordo tutto il resto, però.»
Resosi conto solo in quel momento della presenza di Sallinger, il giovane amico di James lo squadrò contrariato. «Ethan, voi vi conoscete?»
Il diretto interessato spiegò come si fossero incontrati per caso alla fermata e delle peripezie mattutine. Un’altra casualità, quella di frequentare lo stesso istituto, li aveva uniti nella lotta contro il tempo.
«Abbiamo tentato il tutto per tutto», concluse con semplicità. «Per fortuna ce l’abbiamo fatta.»
«Che avventura», commentò James senza il minimo entusiasmo. Tornò a guardare la ragazza, stavolta impaziente. A tradirlo, il tremolio della gamba e lo strano modo in cui accalcava frasi su frasi a velocità doppia.
«Senti, mi dispiace per la brutta figura della volta scorsa. Sono stato davvero un deficiente per quello che ti ho detto…»
«Perché?» lo interruppe lei. «Cos’hai detto?»
Rimase interdetto a fissarla, svoltolando della propria mente le possibilità che gli si presentavano: approfittare della sua dimenticanza e riavvolgere il nastro, come se nulla fosse successo, oppure decodificare, lettera per lettera, le sue espressioni poco felici davanti ad Ethan Sallinger. Uno sguardo di sbieco all’amico.
Non accennava proprio ad andarsene, quel ficcanaso.
«Okay, ehm… era qualcosa tipo…»
«Sbaglio o hai detto che ricordavi tutto il resto?»
Era stato l’altro ragazzo a parlare, quello mingherlino con la frangia laterale, segno di una chiara fase emo non del tutto superata. Frannie si stupì: «Il tuo amico è sveglio. Saresti?»
«Logan. Ci siamo visti nei corridoi.»
«Beh, Logan, hai ragione. Il suo commento, me lo ricordo bene purtroppo. Qualcosa sulle ragazze che non temono certe etichette.» Inarcò un sopracciglio, abbozzando un sorriso di strafottenza. «Da quando la vita sessuale è divenuta un’etichetta?»
James scosse la testa, risoluto. «Mi hai frainteso. Intendevo il contrario, cioè che le ragazze non dovrebbero temere di essere etichettate in un certo modo, di rientrare in una categoria. Ognuna è libera di fare quel che vuole…»
«Ah beh, grazie davvero, a nome di tutto il genere femminile. Adesso che abbiamo ricevuto il tuo beneplacito, dormiremo sonni tranquilli.»
Raddrizzatasi lo spallaccio, avvoltosi su se stesso, Frannie fece per congedarsi. A trattenerla fu un’affermazione di Logan. «Ehi, puoi anche continuare a fare l’acida, ma ti sta chiedendo scusa.»
Una delle lezioni che Frances Hurst aveva imparato nel suo essere donna era l’inevitabilità d’incontrare muri di ignoranza e il dovere che lei aveva, ogni volta, di provare a sfondarli.
Nessuno, però, l’aveva avvertita che avrebbe dovuto farlo di prima mattina.
Sua madre era una strenua sostenitrice dell’educazione; non parlava di educazione sui libri, ma di educazione alla civiltà, all’umanità e per l’umanità. Frannie seguiva i suoi gesti, il suo impegno, fin da bambina, quando “emancipazione” e “discriminazione di genere” erano ancora lontani dal suo comprendonio.
Prese un respiro profondo. «E quindi? Devo essergli grata per questo?»
«No, assolutamente.» Logan manteneva la propria posizione con sguardo duro. «Però non travisare il suo discorso. Voleva dire che vengono spesso applicate delle etichette, non che siano giuste. È una realtà triste, che va cambiata, non alimentata.»
«D’accordo. Gli concedo il beneficio del dubbio», assentì lei. «Ma non sta a voi decidere cosa una donna, o un qualunque individuo, possa fare o meno nella propria vita privata.»
James annuì con vigore. «Assolutamente d’accordo. Possiamo ricominciare con il piede giusto?»
Lo esaminò a lungo, gli occhi a fessura e il naso arricciato in una smorfia. Alla fine, si decise a dargli una seconda possibilità. Se non altro, sarebbe stata l’occasione per farsi qualche amico a Norwall e per illuminare le loro menti foderate di stereotipi deleteri.
«Va bene. Devo scappare a lezione adesso. Vi lascio alle vostre disquisizioni sulla libertà sessuale.»
«Vieni alla festa di Halloween?» le gridò dietro James. «Al Webling Manor. Ci sarà da divertirsi.»
Lei si fermò sulla scalinata d’ingresso con una scrollatina di spalle.
«Forse sì. Prova a cercarmi.»
 
 
*   *   *



Non aveva mai sentito parlare del Webling Manor prima di allora.
Attraverso delle ricerche su Internet, aveva appreso che si trattava di una costruzione non recente – risaliva alla fine del diciannovesimo secolo – in una località al confine con Norwall. Da Lowhood erano una cinquantina di minuti in macchina, considerata l’aumentata viabilità delle strade una volta usciti dal centro.
Dal sito web si evinceva che i gestori andavano fieri di tre cose: l’architettura georgiana, la nobiltà della famiglia che ne aveva commissionato l’edificazione, l’assoluta pace che avvolgeva il complesso.
Quando era giunta a destinazione, Melanie aveva compreso a cosa si riferissero.
La serenità ed il silenzio erano assicurati dal fatto che intorno non vi fosse nulla, assolutamente nulla.
Il maniero, riadattato ad occasionale bed and breakfast, più spesso affittato a grandi gruppi per eventi speciali – alla voce “portfolio” vi erano decine e decine di foto di matrimoni – sorgeva in una distesa verdeggiante, ma del tutto isolata.
Melanie aveva cominciato ad intuire il tipo di location verso cui si stava dirigendo nel momento in cui aveva visto gli alberi rimpiazzare cavi ed elettrodotti, nello scenario che la accompagnava fuori dal finestrino.
Superata una cancellata automatica, completa di merletti da film horror, e percorsa una strada sterrata che sembrava non finire più, aveva trovato ad attenderla un ampio spiazzo dove parcheggiare l’automobile.
Prima di entrare, si era trattenuta qualche istante nel cortile, per averne una visione d’insieme.
Le divenne chiaro il perché i rappresentanti d’istituto avessero selezionato proprio quel sito fuori mano, per l’allestimento del party: statue in pietra simili a gargoyle, pareti divorate dall’edera, un pesante color antracite e inglobare ogni millimetro della facciata.
«Melanie, sei qui!»
Lisa emerse in una corsetta dal buio dell’ingresso. Sventolava una mano con entusiasmo.
Doveva essere un’abitudine, questa di correre anche per brevi distanze e condire il tutto con un saltarello finale. Melanie non poté trattenere un sorriso.
«Gli altri sono già dentro. Ci siamo messi all’opera subito, anche se il grosso del lavoro l’hanno fatto nei giorni scorsi. Vuoi una mano con quelle?»
Il rappresentante che aveva dovuto contattare via messaggio l’aveva incaricata di portare delle candele elettriche, altre di cera autentiche con candelabri annessi, un borsone di ovatta grigiastra per costruire delle finte ragnatele.
«No, tranquilla, ce la faccio», replicò Mel sollevando le buste da terra. «Vai avanti tu.»
Lisa la guidò dentro l’edificio, oltre l’ingresso e la reception, nel salone principale. In quanto a disponibilità di spazio, il maniero superava di gran lunga la sala da ballo e del rinfresco del Galaxy Hotel.
Come anticipato dalla ragazza, i lavori più impegnativi erano stati svolti: i tavoli rimossi, sostituiti da divanetti a tre posti, poltrone e poltroncine, sotto cui erano stesi vecchi tappeti acquistati al mercatino delle pulci; luci e attrezzatura stereofonica erano state già predisposte, così come i grappoli di ragni e pipistrelli ad ogni angolo, zucche intagliate sulla mobilia. Il settore dedicato al rinfresco risultava ancora in allestimento, ma laddove gli organizzatori erano stati più lenti, l’arredamento del maniero aveva sopperito da sé.
La boiserie color onice dell’ingresso e quella più tenue, verde, nella sala da biliardo le procuravano un senso d’inquietudine maggiore di dolcetti a forma di teschio.
«Da brividi, eh?»
Lisa sembrava una bambina a Disneyland. Le esibiva ogni angolo come se si trattasse di una reliquia sacra e la trascinava di qua e di là, per farle cogliere da una prospettiva inedita una sfumatura di quel lampadario o di una finestra istoriata.
«Mi sembra di essere finita dentro una specie di Cluedo», fece Mel sarcastica. «Manca solo il cadavere.»
L’altra trasalì: «Non dirlo nemmeno per scherzo».
Il tour del maniero si arrestò davanti ad un dipinto della famiglia Webling. Il ritratto scuro, ad olio, sfumava grigi e ocra sullo sfondo, da cui emergeva prepotente il profilo acuminato di un settantenne col panciotto; l’orologio da taschino emetteva riflessi tenui, mentre gli occhi arcigni del vecchio giudicavano gli astanti.
«Che sguardo cattivo», bisbigliò Lisa.
Melanie le assestò una debole gomitata. «Come ti permetti di insultarlo? Il grande Benedict Balthazar Webling, il capostipite della famiglia.»
«Come fai a saperlo?»
«È scritto lì.»
Melanie indicava un minuscolo angolo della cornice: la targhetta riportava il nome di autore e soggetto dell’opera. Un ritratto con tutti i crismi.
«Secondo me è morto in qualche congiura dinastica», azzardò Mel. «Magari il suo spirito aleggia ancora tra le mura del maniero, per assicurarsi che sia frequentato solo da nobili. Fuori gli indegni.»
Lisa sussultò. «Smettila di dire queste cose. Mi mettono i brividi.»
La scrutò con circospezione. «Non crederai davvero ai fantasmi, Lisa?»
«Ah, Lisa, eccoti qua. Tua cugina ti reclama.»
Ad interromperle un ragazzo alto, con una strana capigliatura a spazzola e un fisico da atleta, munito di cartellina in legno. «Tu, invece, devi essere Melanie. David,» si annunciò, «ci siamo sentiti per le decorazioni».
Lei gli mostrò le buste all’ingresso. «È tutto lì.»
«Perfetto. So che ai ragazzi del buffet serve una mano.» Un invito cortese a rimboccarsi le maniche e a supportare il resto del team.
D’altronde, quello non era un soggiorno di piacere… le restava una punizione da scontare.
David si congedò nell’immediato. «Ora scusatemi, ma devo lasciarvi. C’è ancora molto a cui pensare. Per qualunque cosa mi trovate sul retro, accanto alla piscina.»
Lisa, dal canto proprio, prese un profondo respiro e con un’occhiata mesta: «Sarà meglio che vada da Cindy. Oggi è particolarmente agitata».
«Non sei la sua serva», le fece notare l’altra.
Quella annuì, poco convinta. Poi, in un tono completamente diverso, gioviale: «Da cosa ti travesti?»
Davanti alla sua assoluta indifferenza, parve rimanere delusa: «Non hai un costume».
«Dovrei?»
«Beh, sì, dal momento che è una festa di Halloween in maschera. Ci penseremo dopo,» sorrise con un filo di malizia, «per tua fortuna, sono conosciuta come la maga del make-up».
 
 
*   *   *
 

Erano partite alle 7:20 esatte dall’abitazione dei Russmith.
L’idea era di presentarsi né troppo in anticipo né troppo in ritardo rispetto all’orario riportato sui volantini. La festa di Halloween rappresentava un’istituzione per gli studenti dell’Arcadian, forse l’unica vera circostanza in cui fosse concesso di svincolarsi dalle direttive scolastiche, ambientare il party fuori dall’istituto e divertirsi senza freni.
Conoscevano bene l’etichetta, loro che erano state abituate fin da piccole a figurare nell’alta società e a sfoggiare i migliori prodotti firmati sul mercato.
Ronnie e Felicity avevano preteso, per l’occasione, di accordarsi preventivamente sui personaggi da interpretare, così da studiare qualche costume abbinato e magari vincere anche il premio per il travestimento più originale. Poco importava che non vi fosse alcuna competizione attiva. Avevano stabilito di prendere due macchine e d’incontrarsi direttamente all’interno del maniero.
Daphne, ospite dell’amica, aveva aspettato, seduta sul letto, che Alyssa finisse di prepararsi. Nell’attesa, aveva ingollato del succo di frutta – offerto dai coniugi Russmith e corretto dall’adorata figlia – un bicchiere di spumante per brindare e un sorso di aperitivo.
All’uscita dalla villetta aveva cominciato a traballare sulla scalinata d’accesso.
«Non dirmi che sei già ubriaca», l’aveva istigata Alyssa.
L’allarme sbornia era rientrato una ventina di minuti dopo, con suo grande rammarico. La verità era che non trovava un altro salvagente.
Di soffocare dentro l’ennesimo party da ricconi annoiati proprio non aveva voglia, eppure si era prestata a qualche foto pre-party, aveva indossato la stupidissima parrucca bionda ordinata online - che odorava di gatto morto – e ora se ne stava rovesciata nella Mercedes bianca guidata da Alyssa, ad ascoltare qualche canzone che passavano alla radio.
Credeva di aver sfiorato il limite nel confrontare Melanie, ma si era sbagliata: quell’episodio di infamante deprivazione emotiva l’aveva svuotata e poi, come per effetto di risacca, gonfiata più di prima.
E adesso era un colpo in canna, un sicario silente che si apposta per un obiettivo ancora da definire.
In una parola, sentiva di poter strabordare.
Per tenere a bada il rigurgito emozionale, giocherellava con l’aureola di plastica, indossando e sfilando di continuo la parrucca dorata. Alyssa gliel’aveva presa per l’occasione, così da creare l’impressione di un gemellaggio: Aly il diavolo, lei l’angelo.
Il presentatore su una delle stazioni principali lasciò sfumare la propria voce in apertura della nuova canzone. Daphne bloccò il gesto meccanico con cui la guidatrice saltava di stazione in stazione.
«Oh, lascia, lascia», le disse alzando il volume.
L’intro di I Feel It Coming era stata ritagliata dalla trasmissione, ma l’inequivocabile melodia le raggiunse subito, trasportandole indietro di qualche anno.
Daphne ripensò al confronto con suo padre, due giorni prima, presentatosi all’uscita da scuola: evento insolito, talmente assurdo da aver messo lui stesso a disagio.
Voleva riaccompagnarla a casa, banale pretesto per confrontarsi su varie questioni in serenità.
E ciò che Daphne proprio non riusciva a spiegarsi risiedeva lì, in quel nodo spinoso: com’era possibile che con lei suo padre comunicasse liberamente, ma che tra lui e Emma – sposati da chissà quanto – apparisse impensabile una conversazione lineare, diretta? Erano o no degli adulti?
Le aveva narrato dove fosse finito il week-end, come avesse trascorso ogni minuto speso nella camera d’albergo a pensare a loro, a come volesse tornare, ma anche a quanto insostenibile, invivibile, fosse divenuta l’atmosfera in casa.
Nessuna menzione all’elefante nella stanza: il divorzio.
Daphne lo sospettava da tempo, sebbene nessuno avesse il coraggio di evocarlo, come se pronunciarne anche solo nome lo vivificasse. Aveva osservato suo padre muta, impotente, con i ventricoli stretti in un pugno.
Il naufragio della loro storia. Della loro storia insieme, non solo come coniugi Barnett, ma come famiglia.
Alyssa le stava dicendo qualcosa.
Sollevò lo sguardo dal portaoggetti, sbalordita, frastornata. Non si era neppure accorta che avesse spento la radio e che a tener loro compagnia fosse rimasto solo il ticchettio del portachiavi ad orsetto contro il cruscotto. Erano arrivate al Webling Manor.
Aveva già impugnato la maniglia, quando l’amica la bloccò.
«Daffie, so che qualcosa non va. Non sono scema.»
Silenzio profondo.
«Pensavi non mi fossi accorta?»
La realtà era molto più triste e acerba di così.
«Ho rispettato i tuoi spazi», spiegò raddrizzandosi contro lo schienale. «Però non voglio che mi ritenga una superficiale.»
Accennò al maniero dalle cui finestre si spandevano luci multicolore e la pulsazione di musica ad alto volume. C’erano vita, gioia e spensieratezza lì dentro. E loro fuori, in un’altra scatola, più piccola e meno affollata.
«Le altre non chiederanno nulla», disse soltanto. «Ma io lo so, le vedo queste stonature.»
Daphne era una marionetta al termine dello show: vuota, spenta, non reattiva agli stimoli. Se ne stava solo lì, ad esistere, bloccata nella sua posa, come se qualcuno l’avesse impressa o scolpita nel mondo così, con una gamba già pronta a scendere.
No, aveva smesso di piangersi addosso.
Guardò Alyssa, abbozzando il migliore sorriso che poteva. «Non roviniamoci la serata.»
Temeva che la faccenda non potesse risolversi con una simile facilità, invece rappresentò il capolinea.
La guidatrice annuì e, slacciata la cintura, si piegò a ripescare un oggetto dal sedile posteriore. Prestigiatrice improvvisata, estrasse dalla pochette il rossetto che aveva abbinato al proprio costume infuocato.
«Ti serve il tocco finale. Per ravvivare un po’.»
«Ma non sono un angelo?»
L’altra si strinse nelle spalle con noncuranza. «Anche gli angeli portano il rossetto.»
Mentre ne passava un abbondante strato sulle labbra dell’amica, le fece una confidenza. Alla festa, con ogni probabilità, avrebbero incontrato anche Tom e la sua comitiva.
«Tom? Ma non va al college?»
L’ex di Alyssa, il primo ragazzo con cui avesse avuto una storia seria, durata un paio d’anni, frequentava un college sconosciuto in un altro Stato, di cui Daphne non aveva neppure registrato il nome. Per il modo in cui si era interrotta la loro relazione idillica, avrebbe dovuto bloccare qualunque forma di comunicazione: classico, nauseante tradimento. Alyssa c’era stata male per mesi, prima di mettersi in testa che Tom non valeva il suo tempo, né la sua salute fisica o mentale.
«Conosce qualcuno dei rappresentanti, credo.»
«E non ha niente di meglio da fare che imbucarsi ad un party di halloween per adolescenti?»
Alyssa scrollò le spalle. Le intimò di rimanere ferma, specialmente con il busto, per evitare di sbavare i contorni. La trattava come un’operazione chirurgica, al termine della quale emise un trillo di compiacimento.
Arrivò perfino a battere le mani, estasiata. Il riflesso che vedeva nello specchietto prometteva davvero miracoli per quella sera.
«Ho solo bisogno di un escamotage per farlo ingelosire. Non voglio mi veda da sola.»
«Che male ci sarebbe? Sei single e contenta, Aly.»
Quella scacciò la classificazione come se si fosse trattato di un insetto pericolosissimo. «Non scherziamo, Daffie. Piuttosto, il tuo amico biondo, quello un po’esaltato, è ancora libero?»
Avrebbe potuto stilarle un elenco delle ragioni per cui James non sarebbe stato un buon partito, ma quando Alyssa si metteva in testa qualcosa, era difficile – per non dire impossibile – scardinarle un’idea.
«Perfetto», decretò. «Troveremo un cavaliere anche per te. C’è sempre qualcuno in cerca di una benedizione.»
L’altra si era sganciata dalla cintura e finalmente anche dal veicolo, sebbene contrastata dalla proposta. «Non so cosa intendi, ma mi sono rimaste solo bestemmie stasera.»
Un lampeggiamento e lo squittio dell’antifurto. «Tanto meglio. Bella e dannata. Farai colpo, Daffie.»
Alyssa la scortò fino all’entrata, sfilando sul brecciolino come sulla passerella più ambita dall’intera nazione.
E dentro di sé portava davvero il sogno della passerella, delle stoffe aderenti al corpo e di riflettori più potenti, più bollenti, più accecanti del sole stesso, puntati addosso. Era tutta questione di atteggiamento. Parenti, amici, conoscenti l’avevano imbevuta in quella nozione fin dalla culla: il suo battesimo di fama.
Se per adesso doveva limitarsi a zucche, pipistrelli e musica macabra da Halloween, non avrebbe tuttavia rinunciato al portamento aggraziato, alla fila di spilli che sembrava sostenerle la colonna.
A Daphne ricordò un cigno, mentre planava davanti al portone. Un coro di candele accese tremolava sul selciato, ad indicare loro la strada; all’ingresso le accolse l’uscio chiuso dall’interno e un ululato registrato.
Alyssa suonò il campanello. Prese nella propria la mano di Daphne, pallida e sudata.
«Andrà bene», le assicurò. «Ci sarà da divertirsi.»
 



 
   
 
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