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Autore: _aivy_demi_    09/08/2020    26 recensioni
Una ragazza sbadata, disordinata e senza alcun pelo sulla lingua.
Un ragazzo famoso, allontanatosi dalla propria città in cerca di qualcosa.
Si incontrano, si detestano fin da subito.
Una simpatica commedia romantica het piena di malintesi, incontri fortuiti (e non), umorismo e una punta di ironia che non guasta mai.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Singing

is the answer

 

 

19 – Let’s try again




«Tesoro, come stai?»
Una frase d’esordio tipica la sua: Aya stava chiamando Raon al telefono per l’ennesima volta, così spesso ormai da averne perso il conto. Gli ultimi giorni per le ragazze non erano stati particolarmente facili: dopo l’incontro scontro con la madre di lei non avevano avuto più modo di rivedersi. Non che Aya non ci avesse provato, semplicemente l’amica sembrava essersi chiusa a riccio all’interno di casa, o almeno questo pensava. Riusciva soltanto a scambiare qualche parola rapida ma quando tentava di scavare un po’ più a fondo, riceveva solamente parole di incoraggiamento vaghe e fumose.
“Tutto a posto, tranquilla.”
“Ho trascurato lo studio negli ultimi giorni, sto solo tentando di recuperare le ore perse.”
“Mi fa ancora male la caviglia, ma vedrai che passerà presto.”
Aya era convinta fossero semplici scuse ma non ne aveva ancora compreso il motivo: perché mai qualcuno con cui aveva instaurato un rapporto solido e sincero, cresciuto nel corso del tempo con incredibile profondità, avrebbe dovuto raccontarle delle bugie? Eppure lo sentiva, ne avvertiva le tracce tra i messaggi – pochi – ed i vocali sempre più brevi. Le chiamate non erano più proficue, anzi: nascondevano un imbarazzo sempre maggiore. Aveva pensato alle possibili cause di un tale cambiamento nelle loro abitudini, riconducendo il tutto a qualche giorno prima in casa Lee.
«Tutta colpa di quell’incidente.» Avrebbe voluto dirle, ma l’altra aveva già riattaccato liquidandola con qualche parola di scuse e con un sommesso “sono stanca, mi butto a letto.”
Alle nove e quarantasette.
Altra abitudine completamente sballata rispetto ai classici ritmi.
Non che stesse andando meglio in altre direzioni, anzi. Non si sentiva affatto fortunata, anche perché dal momento in cui aveva messo da parte Josh per andare da Raon, quest’ultimo non l’aveva più considerata. Nessuna risposta, e ancor peggio, messaggi visualizzati: lui la stava deliberatamente ignorando senza curarsi di nasconderlo in alcun modo. Possibile stesse diventando una presenza sgradita a tutti coloro cui teneva? Sbuffò stendendosi a letto sulla coperta leggera, morbido sostegno fittizio in un momento simile. Si sentiva rifiutata, rigettata.
Fuori casa, così come dentro.
Da chi avrebbe potuto cercare conforto?


Era notte, casa Lee era particolarmente silenziosa e Han sapeva perfettamente cosa mancava: Raon, la vivace sorellina che lo stressava continuamente con il quotidiano, i piccoli grandi problemi, inezie accostate alle incomprensioni, preoccupazioni per lo studio, per il futuro. Avevano sempre o quasi parlato di tutto da bravi parenti quali erano, senza risparmiarsi faccende private o questioni imbarazzanti; la complicità che caratterizzava la loro convivenza era invidiabile.
Fino a che non si spezzò quell’equilibrio tanto rincuorante che li aveva sempre contraddistinti. La ragazza non parlava più neppure con lui, se non lo stretto necessario: niente scherzi, niente risate o battutacce, niente sguardi impiccioni a tentare di decriptare da lontano messaggi apparsi sul suo telefono. Sembrava cambiata, una persona diversa, qualcuno che neppure lui riusciva più a riconoscere. Non era certo la prima volta che madre e figlia s’erano scontrate in casa e fuori, eppure la questione veniva liquidata con un mancato saluto, fredde risposte a messaggi scarni, contatti telefonici rari ma mai apprezzati. Il vantaggio di Raon però era quello di incassare e trasformare l’energia negativa di quegli scontri con la donna in sorrisi, entusiasmo, carica.
Non era più accaduto.
Non più dall’incidente.
Non più, dallo schiaffo ricevuto da una persona infilatasi senza permesso nuovamente nella sua vita, impicciandosi di affari non propri. Senza alcun diritto, avrebbe potuto tranquillamente aggiungere.
Aveva sempre tentato fin da giovane di fare da paciere tra le due, ma Min Soo e Raon Lee erano nate assolutamente incompatibili tra loro e neppure la crescita aveva appianato i loro continui disaccordi. Adolescenza difficile passata nel chiedersi se fosse essa stessa la causa della separazione dei genitori, fino a rassegnarsi all’inevitabile sensazione di abbandono che s’era palesata quasi senza alcuna traccia, arrivando all’esplosione di rabbia, ansia e stress sfociati in attacchi e crisi difficili da superare. Han credeva nella ragazza, nelle sue ragioni, ma sapeva anche che lei guardava e aveva sempre letto la situazione da un unico, coinvolto punto di vista. E questo era male per lei, un dolore misto a mancata rassegnazione per i trascorsi che tanto l’avevano fatta soffrire. Temeva di rivederla passare da un medico all’altro nella speranza di riuscire a mantenere un equilibrio psicologico che non sempre era in grado di gestire, e dunque vederla ricadere nei pianti incontrollati, in improvvisi piccoli tremori, tra le occhiaie brune per il sonno disturbato e il conteggio delle ore da una somministrazione di ansiolitici all’altra.
Se avesse potuto tornare indietro le avrebbe evitato tutto quel carico sulle spalle, ma era giovane pure lui e veder disgregarsi la famiglia davanti agli occhi giorno dopo giorno, non era stato affatto facile.
Si sarebbe rifatto delle mancanze di fratello – inesistenti forse – di cui ancora si stava incolpando dopo tutti quegli anni… sì, avrebbe fatto il possibile per poter mantenere un nuovo equilibrio in casa Lee. Si alzò dal divano, motivato come non mai, una nuova energia a scuotergli i muscoli indolenziti dalla tensione di quei giorni; cucinò dei pancake con la dovuta calma, decorandoli con burro fuso e zucchero, estremamente dolci ma speranzosamente efficaci. Si dipinse in volto un sorriso di cortesia gioviale e accondiscendente e salì al piano di sopra, in direzione del rifugio personale della sorella.
Bussò quattro volte, così come pretendeva il codice segreto inciso nella memoria da bambini. Nessuna risposta naturalmente, ma questo se l’aspettava. Tentò di invogliare la ragazza ad uscire rimarcando con voce complice quanto avesse lavorato a quel piatto stuzzicante ipercalorico e goloso. Appoggiò la fronte alla porta di legno nel captare qualsiasi suono provenire dall’altra parte, invano. Aspettò un minuto o due, e ormai convinto dell’inutilità del proprio gesto lasciò cadere mollemente le spalle dalla posizione rigida che aveva assunto nell’attesa. Aveva perso, così come tutte le volte precedenti da quel maledetto litigio. Ci avrebbe provato ancora, ancora senza arrendersi, non avrebbe gettato la spugna tanto facilmente. Ciò che non sapeva era che all’interno della stanza Raon stava strappando ogni singola fotografia rimasta che ritraeva lei e la madre. Una soltanto s’era salvata dalla distruzione, dalla foga del gesto di disprezzo che si stava ripetendo automatico, scatto dopo scatto. La rappresentava assieme ai genitori, ritti in posa nel giardino di casa della nonna: i codini disordinati, le ciocche selvatiche ad incorniciarle un visino perennemente sorridente, le ginocchia sbucciate come di consueto. La prese tra le mani, racchiusa in una cornice risalente a chissà quanti anni prima, l’estrasse dal vetro leggermente sbiadito e ne lacerò una sola parte, risistemandola con un pezzo mancante. Raccattò con distacco il risultato del suo tempo, ripulendo con perizia ogni singolo frammento di carta fotografica sparso sul letto, ne fece un mucchio incredibilmente ordinato sul davanzale della finestra, e dette fuoco con un accendino recuperato dal cassetto della scrivania.
Guardò momenti preziosi andare in fumo e cenere, sbiadire fino a scomparire. Il suo volto non mostrò alcuna emozione, s’era stancata di provarci ancora una volta a perdonare la madre: tante volte aveva dato una chance al loro rapporto deteriorato, inesistente, ma l’ultima era stata la peggiore. L’aveva umiliata davanti ad altri, estranei, non familiari, in un momento di difficoltà; l’aveva giudicata davanti ai parenti senza risparmiarsi nulla, e non era stato lo schiaffo a bruciarle, ma tutto ciò che aveva cancellato tra loro in un singolo momento. Soffiò via fuori dalla finestra quello che era rimasto dei ricordi fisici di un’infanzia all’apparenza nella norma, per poi scrivere un messaggio ad Aya. Digitò qualche lettera in maniera apatica, evitando per l’ennesima volta i messaggi di Åsli. Ne aveva ricevuti più d’uno, ma non era intenzionata ad aprirli, non dopo aver intuito che quel pezzo di idiota – testuali parole – non sapeva neppure d’averla baciata.
E lei cretina, s’era data della cretina a lasciarsi trasportare da un momento tale, per poi faticare a dormirci sopra e rendersi conto di quanto poco potesse valere per qualcuno un gesto simile. Non certo per lei, ci dava il giusto peso. Evidentemente aveva a che fare con un pallone gonfiato dallo stesso ego con cui si stava strozzando, rovinandosi la vita. Prima o poi sarebbe esploso con tutte quelle arie. Fece spallucce, bloccò la schermata dello smartphone e si rese conto una volta di più che non aveva neppure avuto modo di recuperare il contatto di Tae; ecco, lui sì l’avrebbe ringraziato volentieri ancora, magari davanti ad un caffè, magari mangiando qualcosa.
Magari passando un po’ di tempo con lui.

   
 
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