Singing
is the answer
19 – Let’s try again
«Tesoro, come stai?»
Una frase d’esordio tipica la sua: Aya stava
chiamando Raon al telefono per l’ennesima volta, così
spesso ormai da averne perso il conto. Gli ultimi giorni per le ragazze non
erano stati particolarmente facili: dopo l’incontro scontro con la madre di lei
non avevano avuto più modo di rivedersi. Non che Aya
non ci avesse provato, semplicemente l’amica sembrava essersi chiusa a riccio
all’interno di casa, o almeno questo pensava. Riusciva soltanto a scambiare
qualche parola rapida ma quando tentava di scavare un po’ più a fondo, riceveva
solamente parole di incoraggiamento vaghe e fumose.
“Tutto a posto, tranquilla.”
“Ho trascurato lo studio negli ultimi giorni, sto solo tentando di recuperare
le ore perse.”
“Mi fa ancora male la caviglia, ma vedrai che passerà presto.”
Aya era convinta fossero semplici scuse ma non ne
aveva ancora compreso il motivo: perché mai qualcuno con cui aveva instaurato
un rapporto solido e sincero, cresciuto nel corso del tempo con incredibile
profondità, avrebbe dovuto raccontarle delle bugie? Eppure
lo sentiva, ne avvertiva le tracce tra i messaggi – pochi – ed i vocali sempre
più brevi. Le chiamate non erano più proficue, anzi: nascondevano un imbarazzo
sempre maggiore. Aveva pensato alle possibili cause di un tale cambiamento
nelle loro abitudini, riconducendo il tutto a qualche giorno prima in casa Lee.
«Tutta colpa di quell’incidente.» Avrebbe voluto dirle, ma l’altra aveva già
riattaccato liquidandola con qualche parola di scuse e con un sommesso “sono
stanca, mi butto a letto.”
Alle nove e quarantasette.
Altra abitudine completamente sballata rispetto ai classici ritmi.
Non che stesse andando meglio in altre direzioni, anzi. Non si sentiva affatto
fortunata, anche perché dal momento in cui aveva messo da parte Josh per andare
da Raon, quest’ultimo non l’aveva più considerata.
Nessuna risposta, e ancor peggio, messaggi visualizzati: lui la stava
deliberatamente ignorando senza curarsi di nasconderlo in alcun modo. Possibile
stesse diventando una presenza sgradita a tutti coloro cui teneva? Sbuffò
stendendosi a letto sulla coperta leggera, morbido sostegno fittizio in un
momento simile. Si sentiva rifiutata, rigettata.
Fuori casa, così come dentro.
Da chi avrebbe potuto cercare conforto?
Era notte, casa Lee era particolarmente silenziosa e Han sapeva perfettamente
cosa mancava: Raon, la
vivace sorellina che lo stressava continuamente con il quotidiano, i piccoli
grandi problemi, inezie accostate alle incomprensioni, preoccupazioni per lo studio,
per il futuro. Avevano sempre o quasi parlato di tutto da bravi parenti quali
erano, senza risparmiarsi faccende private o questioni imbarazzanti; la
complicità che caratterizzava la loro convivenza era invidiabile.
Fino a che non si spezzò quell’equilibrio tanto rincuorante che li aveva sempre
contraddistinti. La ragazza non parlava più neppure con lui, se non lo stretto
necessario: niente scherzi, niente risate o battutacce, niente sguardi
impiccioni a tentare di decriptare da lontano messaggi apparsi sul suo telefono.
Sembrava cambiata, una persona diversa, qualcuno che neppure lui riusciva più a
riconoscere. Non era certo la prima volta che madre e figlia s’erano scontrate
in casa e fuori, eppure la questione veniva liquidata con un mancato saluto,
fredde risposte a messaggi scarni, contatti telefonici rari ma mai apprezzati.
Il vantaggio di Raon però era quello di incassare e
trasformare l’energia negativa di quegli scontri con la donna in sorrisi,
entusiasmo, carica.
Non era più accaduto.
Non più dall’incidente.
Non più, dallo schiaffo ricevuto da una persona infilatasi senza permesso
nuovamente nella sua vita, impicciandosi di affari non propri. Senza alcun
diritto, avrebbe potuto tranquillamente aggiungere.
Aveva sempre tentato fin da giovane di fare da paciere tra le due, ma Min Soo e Raon
Lee erano nate assolutamente incompatibili tra loro e neppure la crescita aveva
appianato i loro continui disaccordi. Adolescenza difficile passata nel
chiedersi se fosse essa stessa la causa della separazione dei genitori, fino a
rassegnarsi all’inevitabile sensazione di abbandono che s’era palesata quasi
senza alcuna traccia, arrivando all’esplosione di rabbia, ansia e stress
sfociati in attacchi e crisi difficili da superare. Han credeva nella ragazza,
nelle sue ragioni, ma sapeva anche che lei guardava e aveva sempre letto la
situazione da un unico, coinvolto punto di vista. E questo era male per lei, un
dolore misto a mancata rassegnazione per i trascorsi che tanto l’avevano fatta
soffrire. Temeva di rivederla passare da un medico all’altro nella speranza di
riuscire a mantenere un equilibrio psicologico che non sempre era in grado di
gestire, e dunque vederla ricadere nei pianti incontrollati, in improvvisi
piccoli tremori, tra le occhiaie brune per il sonno disturbato e il conteggio
delle ore da una somministrazione di ansiolitici all’altra.
Se avesse potuto tornare indietro le avrebbe evitato tutto quel carico sulle
spalle, ma era giovane pure lui e veder disgregarsi la famiglia davanti agli
occhi giorno dopo giorno, non era stato affatto facile.
Si sarebbe rifatto delle mancanze di fratello – inesistenti forse – di cui
ancora si stava incolpando dopo tutti quegli anni… sì, avrebbe fatto il
possibile per poter mantenere un nuovo equilibrio in casa Lee. Si alzò dal
divano, motivato come non mai, una nuova energia a scuotergli i muscoli
indolenziti dalla tensione di quei giorni; cucinò dei pancake con la dovuta
calma, decorandoli con burro fuso e zucchero, estremamente dolci ma
speranzosamente efficaci. Si dipinse in volto un sorriso di cortesia gioviale e
accondiscendente e salì al piano di sopra, in direzione del rifugio personale
della sorella.
Bussò quattro volte, così come pretendeva il codice segreto inciso nella
memoria da bambini. Nessuna risposta naturalmente, ma questo se l’aspettava.
Tentò di invogliare la ragazza ad uscire rimarcando con voce complice quanto
avesse lavorato a quel piatto stuzzicante ipercalorico e goloso. Appoggiò la
fronte alla porta di legno nel captare qualsiasi suono provenire dall’altra
parte, invano. Aspettò un minuto o due, e ormai convinto dell’inutilità del
proprio gesto lasciò cadere mollemente le spalle dalla posizione rigida che
aveva assunto nell’attesa. Aveva perso, così come tutte le volte precedenti da
quel maledetto litigio. Ci avrebbe provato ancora, ancora senza arrendersi, non
avrebbe gettato la spugna tanto facilmente. Ciò che non sapeva era che
all’interno della stanza Raon stava strappando ogni
singola fotografia rimasta che ritraeva lei e la madre. Una soltanto s’era
salvata dalla distruzione, dalla foga del gesto di disprezzo che si stava
ripetendo automatico, scatto dopo scatto. La rappresentava assieme ai genitori,
ritti in posa nel giardino di casa della nonna: i codini disordinati, le
ciocche selvatiche ad incorniciarle un visino perennemente sorridente, le
ginocchia sbucciate come di consueto. La prese tra le mani, racchiusa in una
cornice risalente a chissà quanti anni prima, l’estrasse dal vetro leggermente
sbiadito e ne lacerò una sola parte, risistemandola con un pezzo mancante.
Raccattò con distacco il risultato del suo tempo, ripulendo con perizia ogni
singolo frammento di carta fotografica sparso sul letto, ne fece un mucchio
incredibilmente ordinato sul davanzale della finestra, e dette fuoco con un
accendino recuperato dal cassetto della scrivania.
Guardò momenti preziosi andare in fumo e cenere, sbiadire fino a scomparire. Il
suo volto non mostrò alcuna emozione, s’era stancata di provarci ancora una
volta a perdonare la madre: tante volte aveva dato una chance al loro rapporto
deteriorato, inesistente, ma l’ultima era stata la peggiore. L’aveva umiliata
davanti ad altri, estranei, non familiari, in un momento di difficoltà; l’aveva
giudicata davanti ai parenti senza risparmiarsi nulla, e non era stato lo
schiaffo a bruciarle, ma tutto ciò che aveva cancellato tra loro in un singolo momento.
Soffiò via fuori dalla finestra quello che era rimasto dei ricordi fisici di
un’infanzia all’apparenza nella norma, per poi scrivere un messaggio ad Aya. Digitò qualche lettera in maniera apatica, evitando
per l’ennesima volta i messaggi di Åsli. Ne aveva
ricevuti più d’uno, ma non era intenzionata ad aprirli, non dopo aver intuito
che quel pezzo di idiota – testuali parole – non sapeva neppure d’averla
baciata.
E lei cretina, s’era data della cretina a lasciarsi trasportare da un momento
tale, per poi faticare a dormirci sopra e rendersi conto di quanto poco potesse
valere per qualcuno un gesto simile. Non certo per lei, ci dava il giusto peso.
Evidentemente aveva a che fare con un pallone gonfiato dallo stesso ego con cui
si stava strozzando, rovinandosi la vita. Prima o poi sarebbe esploso con tutte
quelle arie. Fece spallucce, bloccò la schermata dello smartphone e si rese
conto una volta di più che non aveva neppure avuto modo di recuperare il
contatto di Tae; ecco, lui sì l’avrebbe ringraziato volentieri ancora, magari
davanti ad un caffè, magari mangiando qualcosa.
Magari passando un po’ di tempo con lui.