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Autore: Ghostclimber    10/08/2020    7 recensioni
Rukawa sembra essere vittima di una crisi d'asma proprio nel bel mezzo di una partita contro il Kainan.
La sua determinazione lo porterà a continuare comunque a correre, e il successivo, prevedibile incidente lo metterà sulla strada di una sconvolgente presa di coscienza.
E delle sue conseguenze.
Warning: hanahaki
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Kaede Rukawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciaossu,

chiedo scusa, oggi capitolo breve e non molto indolore, più presentazione loffia perché ho il morale sotto ai piedi. Grazie a chi continua a seguirmi, come sempre se gradite battete un colpo!

XOXO

 

 

 

 

Rukawa rimase in silenzio per molto tempo dopo che il dottor Yamamoto ebbe terminato di spiegargli in cosa consisteva la sua malattia.

Parlò solo quando Ayako si mise a esporre, molto delicatamente e a voce molto bassa, quale secondo lei fosse l'oggetto dei suoi sentimenti e, di conseguenza, la causa del morbo: -Fuori. Tutti.- disse soltanto.

Fosse stata un'altra persona, sicuramente avrebbe piantato su un casino, protestato, urlato, magari anche pianto: ma lui era Kaede Rukawa, e Kaede Rukawa non si scompone mai.

Beh, quasi mai.

Non appena la porta della sua stanza si fu richiusa con un sommesso “clic” alle spalle di Ayako, Miyagi e del medico, Rukawa si accoccolò su se stesso e si mise le mani in faccia.

Innanzitutto, per cominciare su una base abbastanza neutra di ragionamento, non credeva di essere stato così trasparente. Pensava di essersela giocata bene, come Johnny Depp in quel film dove interpreta un infiltrato dell'Fbi e spinge un boss mafioso a fidarsi completamente di lui, e invece eccolo scoprire di punto in bianco di essere lo zimbello degli altri.

Va bene, non di tutti, ma almeno di Ayako e Miyagi. Non aveva ben capito come lei ci fosse arrivata, né tantomeno come ci fosse arrivato il capitano, visto che con la prima lui si era ben guardato dal mostrare sentimenti propri al di là della passione per il basket e che il secondo sembrava sempre e solo concentrato sull'obiettivo di conquistare la sua Ayakuccia. Rukawa aveva sempre dato per scontato che il ragazzo soffrisse di una visione a tunnel degna di un cavallo con i paraocchi, e invece a quanto pareva non era così.

A meno che Ayako non gli avesse spifferato tutto, si disse, e al diavolo tutti i bei pensieri di amicizia che aveva riversato in lei per tanto tempo, e alla faccia dello psicologo della scuola che gli aveva caldamente raccomandato di aprirsi un po' con gli altri: balle! Aprirsi significa schiudere la porta, e schiudere la porta significa che chiunque può entrare. E i benintenzionati che entrano dove non sono invitati sono davvero, davvero pochi: a lasciare la porta aperta ci si ritrova molto più comunemente con la casa svaligiata, i mobili fracassati e magari anche un bello stronzo fumante sul letto.

Rukawa prese un respiro tremolante e cercò di riguadagnare un minimo di lucidità mentale: Ayako non era una cattiva ragazza, e non era il tipo da spettegolare. Quando Haruko si era messa con Aota e in spogliatoio avevano cominciato a girare battutine, lei si era dapprima astenuta, e poi aveva preso le redini della cosa, facendo irruzione nelle docce e rimproverando aspramente i ragazzi; per quanto in un primo momento l'unico risultato era sembrato essere un fuggi fuggi generale alla ricerca di mutande, accappatoi e asciugamani, le battute si erano arrestate.

Questo significava che Ayako fosse subdola? Prendere i ragazzi nel loro momento di maggiore vulnerabilità era senza dubbio una mossa inaspettata, come un blitz a mezzanotte, ma Rukawa non avrebbe potuto, in coscienza, dire che la cosa non era stata fatta con la migliore delle intenzioni. Parlando con la ragazza, qualche giorno dopo, Ayako gli aveva rivelato che Haruko aveva subodorato il loro scherno, e stava pensando di ritirarsi dal club di basket o di lasciare Aota: era sensibile alle prese in giro, e non credeva di poterlo sopportare.

Quindi, alla luce di ciò, come interpretare il fatto che Ryota “Anata Dake Mitsumeteru” Miyagi sapesse della segreta cotta di Rukawa per Sakuragi? Il moro meditò a lungo, e infine si disse che forse, data l'amicizia del capitano con il rosso, Ayako aveva pensato di fare la cosa giusta a coinvolgerlo: chi meglio di lui avrebbe potuto aiutarla a fare da Cupido? A parte Mito, che comunque sembrava essere un amante del poco noto hobby di farsi i cazzi propri, probabilmente nessuno conosceva Sakuragi Hanamichi a tal punto da sapere come fare a buttare giù piccole allusioni senza correre il rischio di essere fatto a pezzi, sventrato e poi seppellito in un cantiere.

Plausibile, e sotto un certo punto di vista anche gentile, eppure Rukawa non riusciva a vederla come una mossa del tutto onesta. Ayako sapeva quanto Rukawa amasse mantenere la propria privacy, e prima di allora non aveva mai fatto trapelare nulla degli affari suoi, almeno nulla di cui Rukawa fosse a conoscenza. Cercò di ripetersi che probabilmente la ragazza aveva anche altri motivi che a lui sfuggivano, ma non riuscì a rispondere quando la voce nella sua mente gli chiese quali fossero.

E, in ogni caso, non credeva davvero che Miyagi sarebbe riuscito a convincere Sakuragi che Rukawa fosse un buon partito. Forse ci sarebbe riuscito solo Michael Jordan, se fosse apparso alla palestra dello Shohoku, ma probabilmente avrebbe prima dovuto perdere tempo a presentarsi e a far capire che lui era lo stesso tizio che il rosso aveva visto alla tv quando con i compagni si erano riuniti tutti a casa Akagi per vedere le finali dell'NBA. E forse gli sarebbe convenuto anche portarsi dietro una dichiarazione scritta e controfirmata da qualche pezzo grosso per garantire sulla propria identità. E un test del DNA. Ammesso e non concesso che Sakuragi non si mettesse comunque a sbraitare di imbrogli e complotti come suo solito, quel ragazzo sapeva essere davvero idiota quando ci si metteva... e va bene, anche quando non ci si metteva.

Oh, balle!

Rukawa si lasciò cadere di schiena sui cuscini, e non si premurò di risistemarli anche se con il suo movimento in avanti si erano spostati; rimase lì, incurvato all'indietro, scomodo come un ciclista su una bicicletta senza sellino, a riflettere su Sakuragi.

Quel ragazzo gli era entrato dentro, metaforicamente parlando, sin dal loro primo incontro. Ok, dalla loro prima scazzottata, e va bene. Ma Rukawa aveva realizzato che quella sensazione nella pancia non era un tamagoyaki indigesto ma solo la famigerate “farfalle nello stomaco” solo quando, poche ore dopo, l'aveva visto gettarsi nella sfida disperata contro Takenori Akagi. Aveva visto in lui la stessa determinazione che era l'unico tratto caratteriale di sé che amava, circondato da un seducente sprezzo del pericolo, da un umorismo trascinante e in qualche modo autoironico, e poco a poco aveva cominciato a cogliere degli sprazzi di ciò che si nascondeva dietro alla sua facciata di buffone megalomane. La sua insita insicurezza, il suo buon cuore, il senso della giustizia, il modo in cui si impegnava per fare il finto tonto quando, almeno agli occhi di Rukawa, aveva capito benissimo cosa stava succedendo, tutte cose che era certo che Sakuragi cercasse strenuamente di nascondere. Aveva raccolto qui e là informazioni su di lui, discernendole dalle conversazioni origliate tra lui e i suoi amici e raccogliendole poi di prima mano pedinandolo fino a casa, nel vano tentativo di trovare qualcosa che convincesse il suo stupido cuore a disamorarsi di quel tornado umano, inutilmente. L'aveva visto sfoderare un lato più dolce e affezionato, cucinare per la madre e occuparsi della casa al posto suo, che diamine, l'aveva addirittura visto aiutare una vecchietta a portare la spesa! E poi, di nuovo con gli amici, rieccolo a fare il duro e il pagliaccio, con quei ritardati che parevano cascarci in pieno; tranne Mito, che aveva sempre l'aria di saperne molto più di quel che diceva, e che Rukawa aveva visto intrattenersi in lunghe, serie conversazioni sussurrate con Sakuragi, soli al parco o in casa di quest'ultimo.

Era curioso, pensò incoerentemente, come pensare alla propria insicurezza lo facesse solo incazzare e ripetere a se stesso di farsi crescere un paio di palle, mentre pensare all'insicurezza di Sakuragi gli faceva invece venir voglia di andare da lui, prendergli il viso tra le mani, coccolarlo e baciarlo e rassicurarlo che non c'era nulla di cui lui dovesse preoccuparsi, che era unico e insostituibile e che il mondo sarebbe stato un posto molto più buio senza di lui. Ma forse, si disse, derivava dal fatto che a prescindere da quanto profonda fosse la sua insicurezza, Sakuragi in un modo o nell'altro trovava sempre la forza di alzare la testa e far sentire la propria voce. Gli tornò in mente una vecchia intervista a Freddie Mercury, nella quale il giornalista gli aveva chiesto cosa ne pensasse della stampa che nell'ultimo periodo era stata molto severa nei suoi confronti; la star aveva risposto “Beh, perlomeno stanno parlando di me!” e se da un lato Rukawa si rendeva conto che fosse una frase facile da travisare, dall'altro riconosceva in essa una grande forza. Non si trattava di far parlare di sé in ogni caso, bello o brutto, facendosi notare con scandali e negatività; era un riconoscere che la qualcuno avrebbe sempre parlato male, che questo era uno dei tanti costi della notorietà e che non valeva la pena di prendersela. E Sakuragi sembrava vivere allo stesso modo: qualcuno avrebbe in ogni caso parlato di lui, per la sua aria da teppista, per il suo fare esuberante, per i suoi capelli rossi, così inusuali per un giapponese, quindi tanto valeva continuare a farsi vedere e farsi dire le cose in faccia invece che alle spalle. Invece, Rukawa curava la propria insicurezza mostrando una facciata quanto più vicina possibile alla perfezione: aveva il sacro timore, mai confessato ad anima viva, che non avrebbe saputo reggere le critiche, anche quando queste fossero state del tutto infondate.

 

E ora, quel meraviglioso ragazzo che Rukawa non riusciva a smettere di amare avrebbe potuto essere la causa della sua morte, o peggio della sua rovina.

Stando a quel che aveva detto il dottor Yamamoto, non c'era modo di guarire dalla sua malattia se non spingendo in un modo o nell'altro la persona amata a ricambiare i propri sentimenti. Mestamente, Rukawa ripensò al famoso discorso di Michael Jordan sul numero di tiri fatti, sull'esercizio e la preparazione, e i fallimenti e tutto ciò che l'aveva portato ad essere il grande campione che era diventato, e si chiese quanto avrebbe potuto reggere, di spirito e di corpo.

Quanto al corpo, lo strumento di cui si era servito per tutta la vita sembrava aver deciso di tradirlo all'improvviso, regalandogli quella splendida asma ricorrente, la tosse e la debolezza che conseguiva alle sue crisi respiratorie. E il medico aveva detto che pareva che le condizioni tendessero a peggiorare gradualmente, fin quando il paziente non moriva a causa dell'infestazione di fiori nel cuore e nei polmoni. Da poche settimane a un paio di mesi, aveva detto, ammettendo di non sapere se l'aspettativa di vita dipendesse dallo svolgersi dell'azione, dalle condizioni fisiche di partenza o da un miscuglio di entrambe le cose.

Quanto alle condizioni di partenza, Rukawa era già terrorizzato alla velocità di degenerazione del proprio corpo in soli due giorni; e quanto allo svolgersi dell'opera di convincimento, le speranze di successo erano così basse da essere praticamente inesistenti.

(Ma ti è venuto a trovare! Voleva prenderti in giro ma non l'ha fatto! Quindi forse...!)

Rukawa tacitò la voce speranzosa nella sua mente schiaffandosi un cuscino in faccia. Era inutile farsi viaggi mentali di quel genere quando c'era in ballo la sua sopravvivenza. Potevano essere un piacevole diversivo quando si voleva fuggire da una lezione di storia di quelle che ti fanno cadere le palle, ma illudersi di qualcosa di inesistente in quella precisa situazione era addirittura dannoso.

Il dottor Yamamoto aveva detto chiaramente che avrebbe dovuto prendere una decisione alla svelta, se avesse voluto optare per un'operazione chirurgica.

Aveva studiato le radiografie, e aveva detto che c'erano ottime probabilità che Rukawa se la cavasse bene se fossero intervenuti in fretta, ma Rukawa non aveva risposto.

Non era da lui decidere di mollare prima ancora che fosse iniziata la partita, e di solito quando si sentiva messo alle strette non faceva altro che gettarsi irato nella mischia, deciso a prendersi i suoi punti, mettere a segno i suoi canestri e portarsi a casa la partita.

Il punto era che non sapeva se una partita ci fosse: non si stava battendo contro un altro giocatore al cui livello poteva aspirare ad essere, si stava gettando nella mischia alla cieca senza neanche sapere come funzionasse il gioco.

Per quanto ne sapeva, avrebbe potuto rendersi conto troppo tardi di essersi presentato con una racchetta da tennis a una lotta con armi da fuoco.

O accorgersi, come Sakuragi alla sua prima partita, di avere sì delle buone potenzialità, ma di mancare delle basi necessarie per poterle mettere a frutto nello spazio di poche, cruciali decine di minuti.

Ancora lui, basta! Kaede, cazzo, ricomponiti!

Un pizzicore in gola; Rukawa lo accolse con un misto di terrore e rassegnazione, e prese in mano il pulsante con cui avrebbe potuto chiamare aiuto. Non si sentiva molto in vena di assistere nuovamente al viavai di medici e infermieri, ma riconosceva che decidere di crepare sul posto per l'ennesimo attacco di fiori era una via d'uscita quantomeno frettolosa, se non codarda.

Assecondò la tosse il più possibile, e non notò la porta che si apriva e il dottor Yamamoto che entrava; avvertì tuttavia le sue braccia che lo spingevano a spingere in fuori il petto e a ribaltare indietro la testa, per assicurare la massima ampiezza delle vie aeree.

La tosse gli rimbombava nel petto, percuotendosi nella gabbia toracica come se qualcuno gli stesse assestando dei violenti colpi al plesso solare, e Rukawa si sentì pian piano scivolare via.

L'ultima cosa che percepì, quando finalmente il fiore -un cosino giallo con tantissimi petali- si staccò dalla sua gola e gli volò nella mano che aveva alzato a coprire la bocca in un gesto di buona educazione che ormai gli era automatico, fu una sensazione di calore nel braccio destro.

Poi, l'oscurità lo avvolse.

 

Il dottor Yamamoto incrociò lo sguardo dell'infermiera e annuì; la donna terminò di svuotare il sedativo nella flebo del ragazzo e ripose la siringa, accuratamente smontata, sul vassoio d'acciaio del carrellino che si era portata nella stanza quando il medico l'aveva chiamata a gran voce.

-Questo fiore è diverso dal primo che ha tossito.- disse la donna.

-Siamo al quarto tipo di fiore. Ma che io sia dannato se capisco il perché.- ribatté il dottor Yamamoto, lasciando cadere il fiorellino in una provetta sterile; chiuse il tappo a vite con un gesto esperto e stizzoso, poi si tolse i guanti e li gettò nel cestino della spazzatura.

-Questo è un garofano giallo,- disse l'infermiera, -Non so se può avere un senso, ma nella hanakotoba significa “rifiuto, disdegno”.- il dottor Yamamoto la squadrò per un lungo minuto senza parlare. L'infermiera aprì la bocca, come per cercare di scusarsi, ma non trovò il coraggio.

-Sa, infermiera Sawada... se non è inopportuno, la inviterei a venire a vedere la mia collezione di fiori.- la donna emise un risolino imbarazzato e il medico corresse il tiro: -Mi perdoni, volevo sdrammatizzare. Le sarei grato se mi aiutasse a capire cosa significano gli altri fiori.

-Senz'altro, dottor Yamamoto. Tutto quello che posso fare per questo ragazzo.- rispose la donna con un piccolo inchino. Il medico annuì in segno di ringraziamento, poi controllò che i parametri vitali di Rukawa fossero stabili.

Appuntò sulla cartella appesa ai piedi del suo letto la quantità di sedativo iniettato e l'ora della somministrazione, poi uscì dalla stanza insieme all'infermiera.

 

 

Garofano giallo: rifiuto, disdegno

 
   
 
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