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Autore: Akainatsuki    11/08/2020    0 recensioni
Aki Ross è una giovane kitsune e vive come fattorina e tuttofare del Tampopo, il ristorantino di udon che richiama i tanti mutaforma che gironzolano nella città di Hillside. Una vita tranquilla e quotidiana per gli standard di una kitsune adolescente, fino a quando qualcuno dal suo passato non decide di ritornare al piccolo locale.
***
Di mezzi asiatici con i capelli colorati ce ne erano a bizzeffe in giro, ma quello che ora sedeva accanto a lei, osservandola sottecchi, era tra i più ricorrenti nomi delle chiacchiere in aula.
“Kozaki” borbottò, toccandosi il cerotto che aveva sulla fronte. “Buon pomeriggio anche a te.”
Si erano incrociati spesso dal suo ingresso alla Hillside High School, ora davanti allo studio del preside per l’ennesima ramanzina, ora a farsi sistemare il naso in infermeria. Non si erano mai davvero parlati, qualche occhiata derisoria o sbuffo di stizza esclusi, dato che non avevano mai nemmeno avuto nulla da dirsi. Inoltre, parlare con un ragazzo significava che c’era qualcosa sotto, e Aki voleva evitare di avere altri problemi oltre ai suoi casini quotidiani.
Genere: Azione, Dark, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Avere una kitsune in famiglia, aveva portato ad alcuni cambiamenti nella vita del Tampopo. 

Punto primo, Aki occupava la stanzetta che era stata di Alan da piccolo. Adibita a ripostiglio fino ad allora, avevano trasferito tutto quello che era stato ordinatamente impilato al suo interno in una serie di scaffali fatti arrivare tempestivamente all’ingresso del locale, insieme a un manica di tuttofare che si erano occupati di sistemare ciò che nella notte era stato fatto saltare in aria o distrutto ad artigliate. 

All’ovvia domanda in merito a come dalla cucina nessuno avesse sentito un solo rumore di quello scardinare di porte e crollare di mobili, l’ometto in camice aveva semplicemente sorriso sotto i baffetti argentati, sistemandosi gli occhiali sottili sulla punta del naso.

Punto secondo, il Tampopo apriva solo a cena. C’erano altre cose da fare durante il giorno, sia per i suoi Kin sia per la nuova arrivata, e quell’improvvisa chiusura del mezzogiorno era l’unico modo per portare avanti gli apprendistati dei due giovani iniziati a quel mondo. 

I Lin del negozio di alimentari non vendevano solo pacchi di riso e soia fermentata, e si erano proposti di prendere quel bel ragazzo di un cuoco sotto la loro ala, indirizzandolo a un loro Kin poco fuori città, a sua volta proprietario di un piccolo locale vegetariano famoso nella comunità di hipster-hippie-esotico-alternativi di Hillside. Ada aveva lasciato andare un borbottio su come non voleva vedere ramen o gyoza nel suo Tampopo ed era stata rassicurata a proposito.

“E tu, Aki?” 

Finì con un gorgoglio il frullato che aveva ordinato, giocherellando con la cannuccia e alzando gli occhi verso Nida, seduto dall’altra parte del tavolino del diner bianco e arancione.

Sospirò, scuotendo il capo. “Qualcosa sto imparando da quella vecchia volpe di Kinuta-sensei, ma sembra sempre non volermi dire tutto per intero - come se dovessi avere un’illuminazione o qualcosa del genere.”

Storse la bocca al pensiero di quell’ometto in occhialini, fin troppo parco di parole, che era diventato una presenza quasi costante nella sua vita quotidiana prima e dopo la scuola, fino al suo ritornare in sella alla motocicletta scassata del Tampopo, che aveva pian piano imparato a usare per le consegne serali a cui si erano aggiunte le sue incombenze, oltre alle consuete pulizie.

Nida era rimasto in silenzio, il capo piegato di lato e le braccia conserte, come se stesse rimuginando su qualcosa. Dopo averlo lasciato - suo malgrado - svenuto nel bel mezzo del cantiere, Aki aveva tirato un sospiro di sollievo nel vederlo ricomparire tra i corridoi di scuola.

“Qualche trucchetto te lo posso insegnare - e parlare non mi dispiace: non siamo molti qui e senza la giusta preparazione anche la migliore delle kitsune non avrebbe molte speranze quando le si affida una missione” abbassò la voce, guardandosi intorno. "Ci sono quelli che credono che bastino un paio di code per uscirne vittoriosi, ma sono sempre quelli che fanno la fine meno onorevole."

Aki lo imitò appiattendosi sul tavolo e sporgendosi verso di lui, invitandolo a continuare. 

“Penso sia successo prima che tu nascessi. C’era questo gruppo di kitsune famoso per avere un paio di teste parecchio calde al suo interno che ha improvvisamente dato di matto dopo una serie di missioni: il Male li ha corrotti come non se ne vedeva un bel pezzo tra di noi.” Si mordicchiò una guancia, tamburellando sul bordo di formica. “Di solito sono i lupi a farsi spezzare dalle loro emozioni, noi siamo - almeno spiritualmente - più resistenti di qualsiasi ookami in circolazione. Grandi e grossi - e gradassi - che siano.”

Arricciò le labbra in un sorriso sghembo: “Non ti piacciono proprio i lupi.”

Rispose facendo spallucce, tornando a sorbire il caffè che aveva riempito di latte e zucchero: “Mi piacciono le volpine.” 

Appoggiò la tazza vuota sul tavolino, imitando la sua espressione di poco prima. Si alzò con un colpo di talloni, ignorando il rossore che aveva colorato le guance di Aki, incamminandosi fuori dal locale.

“Una volta ci sarebbe stata una vera e propria guerra per te.” Nida infilò le mani nelle tasche della giacca primaverile, trotterellando lungo il marciapiede. “I lupi si combattono e contendono ogni nuovo della loro specie, ma per noi è diverso: siamo agenti in solitaria e sappiamo qual è il nostro obiettivo e come raggiungerlo - senza perderci in inutili lotte contro l’imbattibile.”

Lasciò che continuasse, affiancandolo. Quel pomeriggio poteva lasciar perdere di vista l’orologio, essendo il giorno di chiusura del locale e benedetta dall’incredibile assenza di Kinuta-sensei.

“Distruggere il Male dall’interno: così come quel maledetto fa entrando nelle pieghe di questo mondo, possiamo fronteggiarlo allo stesso modo. Che i lupi continuino pure a combatterlo muso a muso, ma è da stupidi pensare di poterlo sconfiggere in campo aperto.”

Si grattò il naso, pensierosa: “Da quello che so siamo in minoranza numerica e - qualunque cosa sia questo Male - è grande come l’Universo.”

“C’è un vecchio detto, lo conosci?” incalzò, fermandosi all’improvviso e voltandosi verso di lei. “Un solo chicco di riso può fare la differenza tra vittoria e sconfitta.”

“E sarebbe?”

Alzò un sopracciglio, dondolando sui talloni: “Proprio te. L’hai detto tu stessa, siamo in pochi e ogni nuovo numero è importante per-” 

Si interruppe, in quello scomodo equilibrio di punta e tacco, rivolgendole quel sorrisetto saputello che Aki aveva imparato a malsopportare. Incrociò le braccia, restituendogli lo sguardo e invitandolo a completare la frase.

“Ne ho abbastanza di discorsi a metà: sia prima di scoprire quella che sono e soprattutto adesso” sbuffò, pestando un piede sul cemento. “Nida, piantala con le cazzate e finisci quello che hai da dire.”

Ridacchiò, per poi tornare serio: “Per le kitsune. Specialmente qui a Hillside.” La invitò a prestargli orecchio, abbassando nuovamente la voce. “Forse non te ne sei accorta, ma proprio quel cantiere in cui sei finita qualche notte fa non è un posto normale. Un comune essere umano non sarebbe in grado di capirne la differenza dai tanti luoghi abbandonati della città, ma quelli come noi possono avvertirla, anche inconsciamente - anche se non ancora davvero completi.”

In quel momento le sovvenne il suo inaspettato comparire tra le macerie e il calcestruzzo, fronteggiando il gruppo mascherato che era mutato sotto i suoi occhi.

“Chi erano quegli gli altri?” domandò a quel ricordo, sperando che almeno lui fosse in grado di darle la risposta che tutti, da Ada a Kinuta-sensei, le avevano negato e ignorato.

L’espressione di Nida si indurì, stringendo le labbra in una linea sottile. Borbottò qualcosa a mezza bocca prima di prendere la parola, trattenendo a malapena il ringhio che gli si era formato in gola.

Norotta kusoyarou” sbottò, inghiottendo la rabbia. “Degli psicopatici corrotti a cui permettono ancora di camminare sulla terra. Da quello che ne so, sono dei poveri derelitti a cui affidano le missioni peggiori, ma non sono che pedine nelle mani degli altri: se non fanno quello che gli ordinano, non avrebbero pietà a liberarsi definitivamente di loro.”

Aki rabbrividì al ricordo del ragazzo a terra e quegli esseri mascherati che si avvicinavano a lei. Si sfiorò la spalla in un gesto istintivo, asciugandosi il sudore freddo che sentiva improvvisamente invischiato al collo.

“Si trasmette, la corruzione?” abbozzò, rivolgendogli un’occhiata preoccupata. “Come il raffreddore?”

Scosse la testa, sfiorandole le dita con cui si tormentava: “Ci vuole molto peggio.”

“Hai detto di potermi insegnare qualcosa in più, giusto?” continuò, aggrottando le sopracciglia e cercando di ricomporsi. “Quando cominciamo? Oggi ho la serata libera, niente consegne e niente pulizie.”

Soppesò la sua domanda per poi sorriderle e chinarsi verso di lei: “Vuoi fare a botte o preferisci qualcosa di più- mistico?” 

Arricciò il naso, scoprendo i denti in un ghigno divertito, sentendo il sangue tornare a infiammarsi di quell’andrenalina che poche volte aveva sperimentato nell’atterrare uno studentello attaccabrighe nel cortile della scuola. 

Indovina, Kozaki.”

Non c’erano boschi o vallate abbastanza vicine dove poter liberare quella bestia che ciascuno portava nel cuore, scorreva nel sangue e pompava nei muscoli: come lei, anche Nida sembrava essersi abituato a quel mondo di cemento e giardinetti curati, buoni per fare jogging, scavandosi la sua tana.

"Sei fottutamente ricco. Rivoglio indietro i miei scarsi risparmi per averti offerto il caffè" esclamó Aki, facendo il suo ingresso oltre la porta che si richiuse alle sue spalle. 

Era un enorme open space attrezzato a palestra, comunicante con un altro altrettanto ampio spazio proprio sopra la loro testa. Si staccò da Nida guardandosi attorno estasiata, le armi appese alle pareti, i finestroni che davano sulla cittá sottostante. 

"Possiamo avere un po' di privacy." Nida attirò la sua attenzione, sostituendo alle vetrate altrettanti pannelli, dipinti con lo stesso motivo delle carte hanafuda che campeggiavano incorniciate alle pareti. 

Aki saltellò sul suo posto, battendo le mani, eccitata: “Iniziamo? Non mi azzuffo seriamente da quando sono diventata kitsune. Mi hanno fatto promettere - di nuovo - di andare a scuola senza storie e senza risse e inizio a sentire male dappertutto a stare quasi sempre così.” Si indicò, piegando le labbra verso il basso. “Ada mi ha vietato di trasformarmi al locale, nemmeno per fare la mascotte: io ci entrerei in un posto che ha una bellissima volpe arancione da coccolare-”

Si interruppe, arrossendo e dissimulando un colpetto di tosse: “Posso farti vedere?”

Non aspettò la sua risposta, trasformandosi lentamente davanti ai suoi occhi come lui aveva fatto in quel chiassoso diner solo qualche tempo prima. Orecchie e naso a punta, baffi vibranti e un'enorme coda voluminosa: lo fissava divertita in quell’aspetto, quasi pretendendo un applauso.

Nida fece mollemente un passo indietro, osservandola con fare indagatore: "Forma completa.”

La sua bocca si stirò in una smorfia di disappunto. Annuì, restando per un attimo pensierosa nella sua posizione, raccogliendo le energie necessarie al nuovo cambiamento per poi mutare in quella forma da battaglia di cui stava pian piano prendendo confidenza - vestiti compresi. 

Non ebbe tempo di sbattere le palpebre appena la trasformazione si concluse che si ritrovò ad evitare il calcio assestato diretto al suo sterno: balzò all’indietro, parando la sequela di colpi che si avventarono su di lei da parte dell’enorme volpe che aveva sostituito la forma umana di Nida.

Tre code: lui era quello che veniva detto sanbi. Aki scioccamente pensò alla sua unica, singola coda, che la contraddistingueva come ichibi, ovvero la - patetica - novellina delle kitsune

Fu quell’arrovellarsi sulla sua maledetta condizione di ultima arrivata a farle perdere l’equilibrio all’ennesimo calcio mirato, ruzzolando sul pavimento dove rimase a terra, dolorante. 

“Non credere che provi ad avvicinarmi a te: sei una volpe anche tu e so benissimo cosa stai macchinando di fare” commentò Nida, sollevando un angolo del muso in un ghigno e incontrando lo sguardo corrucciato che gli venne rivolto mentre tornava umano. “Riprendi la tua forma, è meglio che riposi. Oppure, vediamo questa mascotte di cui parlavi, immagino sarai bellissima.”

Dal suo pezzo di pavimento, Aki ringhiò divertita, diminuendo la sua stazza fino a raggiungere le dimensioni di una piccola volpina dal manto folto. 

Nida si abbassò sulle ginocchia invitandola a sè. La sentì mugolare di gioia, impettita sulle zampette marroni, la grossa coda fatta ondeggiare sotto il suo naso. Indulgette nell’accarezzarle la testa e grattarle le orecchie, finché quell’ammasso di pelo arancione non gli provocò uno starnuto.

“Ti preparo dell’acqua. Le prime volte non è mai facile e a me veniva sempre una gran sete.” Si rizzò sui talloni, allontanandosi verso il piccolo frigo che riluceva contro una delle pareti. “Riprendi pure la tua forma umana, sei stata bravissima.”

Osservò sottecchi Aki ritornare alla normalità, lasciandosi cadere con un tonfo sordo sul pavimento per poi massaggiarsi le giunture e sistemarsi gli abiti. A un primo sguardo, non era cambiata dalla teppistella petulante e sboccata che aveva incrociato a rimuginare su una lettera di sospensione sui gradini all’ingresso della scuola, tuttavia, a differenza di quei miseri Kin della sua bettola o degli altri vegliardi psicotici che l’avevano presa in custodia, lui poteva vedere quel qualcosa che brillava sotto la sua pelle umana, che combatteva per uscire alla luce. 

Era una rabbia grezza la sua, sprecata contro i ragazzini contro cui si accapigliava nei corridoi, che doveva imparare a plasmare e usare contro il loro nemico comune: sarebbe stato lui a insegnarle, a farle da maestro e renderla davvero forte come la sentiva voler diventare. 

Non riuscì a trattenersi dal distendere le labbra in un sorriso soddisfatto, che la superficie del frigorifero gli restituì in una smorfia distorta: le aveva detto chiaramente come un chicco di riso poteva fare la differenza. E due ancora di più.

Sentì la bocca seccarsi a quel pensiero. Scosse la testa, cercando di riprendere il controllo sul sangue che gli si era infiammato nelle vene: poteva - doveva - aspettare, giocare una schermaglia ben misurata fino al momento giusto, senza fretta. Era consapevole di avere un compito nella sua famiglia e lei - l’unica kitsune nel raggio di migliaia di chilometri e dopo decine di anni - ne era il mezzo più che ottimale. 

Inoltre, era carina.

Aprì la porta del frigorifero, affrettandosi a spegnere quel ribollire che sentiva dentro, in un sorso d’acqua ghiacciata. 


*** Small Talk ***
Grazie per aver letto fin qui!

Spero che l'assenza di intrecci romantici - (coff coff) per ora - non vi stia annoiando troppo, ma non preoccupatevi, siamo circa a metà! Per cui qualcosa potrebbe accedere - più avanti.

Alla prossima! - Aka

   
 
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