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Autore: Cladzky    11/08/2020    0 recensioni
Un cavaliere di ventura, dell'inizio del XII secolo, di ritorno dalle crociate, s'imbarca per andare a chiedere un feudo tutto per sé dopo il servizio reso in Terrasanta. Ma svariate figure sembrano frapporsi al suo cammino, fra cui un bel balivo biondo ligio al dovere e un cavaliere d'argento senza voce, che sembra deciso a reclamargli la testa. Ma la trama, in verità, è solo una scusa per la messa in scena di baruffe, complicazioni, intrecci d'amore, creature fantastiche, visioni celestiali e grandi mangiate. Un'opera anacronistica che si propone come un poema epico cavalleresco, buffonesco e cialtrone, che prende a piene mani dai capisaldi del genere per il solo gusto di giocare con i tópoi e rigirarli per far ridere o, si spera, anche emozionare.
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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"Gli dislocaste la mandibola?" Chiese una voce flebile, indebolita dal potente racconto di prima.

"Certo!" Ribatté Gattapelata sornione, con la stessa umiltà di un pavone di cristallo "E ora vi mostro le prove!"

E le mostrò davvero. Sui palmi delle mani v'erano segni di denti aguzzi che andavano in profondità, eppure, nonostante la ferita gravosa, il sanguinamento si era già fermato. Nella folla ci fu un mormorio di ammirazione corale. Gattapelata si beava più di un vescovo. Poi ebbe un sussulto e si piegò, arricciandosi su sé stesso per il dolore alla milza. Il suo racconto era stato così immersivo e appassionante da far quasi dimenticare ai paesani di medicargli le ferite. Subito finirono di pulirgli le lacerazioni con acqua calda, sale grosso e aceto, che bruciavano talmente tanto sulla pelle deturpata del Gattapelata da sfrigolare come soffritto in padella. Lo fasciarono poi fino a farlo rassomigliare ad una mummia, gli fecero annusare sali e tragugiare tisane di rosa Canina e decotti di Achillea. Pian piano il prode si rimise in sesto, ma al tempo stesso perdeva e forze, giacché cominciavano ad ammollarglisi le viscere dopo averle tenute tese per tutta la notte, precipitandosi di là e saccagnando di qua. Se avesse dovuto compiere un'ultima impresa, in quella notte infernale, sarebbe stato conquistarsi un letto. Fuori la luna cominciava a tramontare.

Gli si parò innanzi, fra il caminetto e la seggiola, il pacioccoso oste dalle guance molossiche.

"Gattapelata!" Pronunciò il suo nome con gaudio magno e alzando le braccia, proiettando sul muro un'ombra da crocifisso "Vi credevo un piantagrane irrecuperabile che si sarebbe meritato solo legnate a vita e invece siete una persona eccezionale per questo paese. Ci avete portato in dono un drago intero tutto per noi e, presente ancor più grande, una storia da raccontare ai posteri e che arricchirà le nostre leggende locali, di come non se ne sentirono mai di così avventurose in questo luogo in culo ai lupi. Mi sono quasi ricreduto sul vostro conto!"

"Quasi?" Stralunó gli occhi color cenere il povero Gattapelata. Che altro doveva fare ancora per convincerli del suo buon cuore?

"Quasi, sì, perché voi siete irrotto nuovamente qui pretendendo di saldare un certo conto e lo avete quasi fatto. Ma manca un dettaglio".

"Dettaglio?" Lo pappagallò il cavaliere, sudando grandi goccioloni.

"Un dettaglio, che nel dettaglio, ammonta a duecento scudi".

"Per la madonna!" Ansimó tremante l'avventuroso, impeperito. La sua guerra con la vita non accennava ad una tregua manco a pagare "Ma il drago da tremilaottanta libbre non vi basta?"

"Eh..." sospirò un po' mogio Giorgione "Quello è per il locale mezzo scassato. Ma vi manca ancora il conto della cena faraonica che vi siete sbafato bello mio".

"Corretto, tutto corretto" rispose mogio l'orchesco cavaliere, chiudendo gli occhi e chinando il capo, in segno di resa incondizionata. Si schiarì la voce tonante e prese a raccontare di nuovo "Ma ecco, vedete, preso dall'incontenibile orgasmo d'aver stroncato tal magna bestia e di tornar qui per reclamizzare il mio onore e le mie armi, obliai di recuperare pure il mio portamonete. Potevo forse io pensare al vil danaro quando era in gioco la mia immacolata reputazione? Chiedo venia dunque e di chiudere un occhio se ora mi allontano di nuovo a recuperarlo. Sarò di ritorno prima che sorga il sole, la spergiuro!"

"L'occhio lo chiudo, ma voi aprite bene la bocca!" E detto questo Giorgione gli assestò un robusto colpo secco a mano dritta all'altezza del diaframma che avrebbe decapitato una gallina. Gattapelata ebbe uno spasimo, si contorse, soffocò e infine fu costretto a sputare la sua sacca di iuta, comodamente nel palmo in attesa di Giorgione. L'oste si rigirò fra le mani quel disgustoso e salivante trofeo. Tutti persero la lingua.

"Vi siete ingoiato il danaro pur di non pagarmi per bene. Vergogna Gattapelata, mica son nato ieri io".

"Proprio un mascalzone, lo dicevo che andava buttato a fiume io!" Aggiunse Goffredo, adagiato alla moglie per tutti gli acciacchi che aveva preso quella sera.

"Un cialtrone coi fiocchi!" Sentenziò Frederico, indignato per quel tentativo di truffa ai danni del padre "Che vi dicevo io?"

Giminiano si staccò dal muro per fare il suo dovere, ma non ne ebbe la soddisfazione. Giorgione, prima sbuffante di rabbia, si rifece raggiante ed esplose in un grassa risata, dando una vigorosa pacca sulla spalla dell'imbarazzato Gattapelata, che per la sua resistenza non si mosse neppure, ma fu comunque sorpreso.

"Siete proprio un giovanotto pieno di risorse voi!" Lo rincuorò l'oste "A me non la si fa, ma bel tentativo. Siete un cialtrone ma un simpatico cialtrone, avete portato animo ad un paese mezzo morto".

La risata da baritono di Giorgione fu condivisa da tutto il locale. Le feste ripresero come prima, con canti, balli e grosse mangiate. Lo sgabello di Gattapelata fu sollevato da una dozzina di paia di braccia e, con fatica, portato a centro sala per fargli la festa, ma non più con una gragnuola di bastonate, ma nel vero senso della parola. Era un individuo talmente sopra le righe, imprevedibile e dalle doti eccezionali che il paese non aveva mai visto un suo pari prima di allora e mai si era emozionato tanto. Presto presero a rivestirlo delle sue vesti logore, gli legarono i laccetti, gli cinsero la cotta di maglia, gli issarono l'armatura a placche, gli agganciarono la cintura, gli infilarono lo spadone e lo coronarono con l'alloro come fosse un imperatore romano. Ma a dire la verità l'alloro era finito: lo avevano adoperato per l'ultimo coniglio alla cacciatora. Ma non si persero d'animo e presero ad intrecciare pazientemente rosmarino con foglie di basilico fino a che non ottennero un risultato similare, sebbene un po' buffo, e gliela posero in capo, allegandoci fiori qui e là. Gattapelata però era stanco e non reggeva più il peso della sua stessa armatura. Si addormentò sul posto, seduto sullo sgabello, chiudendo la visiera e chinando un poco la testa, mani sulle ginocchia, così rigido che si sarebbe detto ancora sveglio. Non consci che il loro fenomeno locale si fosse assopito, i paesani continuarono a girargli attorno, intonando inni per lui e la sua impresa, ballando e lanciandogli petali, riso e spezie di cucina. Ogni tanto gli rivolgevano delle domande, per chiarire alcuni punti oscuri della sua vicenda. Erano come bambini, volevano sapere proprio tutto e lui finì in un confuso stato di dormiveglia, sfumato fra il mondo dei vivi e dei cieli, dove rispondeva a domande poste da figure misteriose e poco nitide, mentre scivolava sempre di più in un sonno ben poco quieto, in un mare d'oblio.

"E il vostro cavallo, il fido Baldobracco?"

"Scappato, quell'ungulato infingardo. Ma se lo riacchiappo lo costringerò ad una dieta esclusiva di ortiche e rovi di more" Rispose lui, troppo spossato anche solo per arrabbiarsi davvero. Non lo pensava per niente.

"Come avete fatto a non morire dissanguato? Con tutti i litri che avete perso dovreste essere secco come una nocciolina".

"Bah, che vuoi che ti dica" rispose fra uno sbadiglio e l'altro, forse per scherzo, forse sul serio, forse in sogno "Mi sono concentrato molto nella lotta che anche il sangue mi ha imitato e non si è disperso".

"Perché venivate in queste umili terre, cavaliere?"

"Perché di far la fame in Terrasanta non ne avevo proprio voglia" Stavolta la risposta fu un vero e proprio mormorio biascicato da labbra secche e screpolate, che andò scemando fino a trasformarsi in un russare sommesso. Nessuno riuscì a sentire la risposta. Gattapelata si addormentò alla fine, circondato da strane figure che gli danzavano in cerchio. Gli occhi e tutta la furia accumulata precedentemente gli si spensero come candele. Continuò a sentire, durante il sonno, domande vaghe e nebulose. Non riuscì ad aprire la bocca per rispondere, quindi smise del tutto di provarci e continuare a galleggiare.

Giminiano fremeva di rabbia. Lo smacco cresceva sempre di più. Quel drago che Gattapelata aveva ucciso a mani nude era l'unico caso che gli si fosse presentato in mesi di servizio da balivo. Era sulle sue tracce da quando era stato nominato tutore della legge della vallata e se l'avesse trovato prima e ucciso lo avrebbero probabilmente messo a far da balivo in un posto decisamente meno ignobile. E ora, quello smargiasso d'un orso fintosi umano, lo aveva preceduto, trovandolo per caso di notte e stroncando non solo la rettilesca macella, ma anche i suoi progetti. E peggio, molto peggio ancora: Gattapelata si stava prendendo non solo il merito, ma anche il favore e la simpatia di tutto il paese. Se lo avesse arrestato, seduta stante, quella notte stessa, molto probabilmente, quei villici avrebbero contestato l'autorità costituita e, messi contro di lui, avrebbero aiutato quel gorilla dal pelo rosso a scappare. Doveva trovare il momento giusto per agire e mettere ai ferri quella criminale bestiaccia.

Giminiano resistette alla tentazione di scagliare il coltello fra le fessure della visiera di Gattapelata e lo rimise nella fondina sotto il mantello porpora. Quindi, attraversando la sala gremita di presenti, che lo fecero passare timorosi, uscì dal locale. Si era dimenticato di quanto si gelasse fuori. E pensare che Gattapelata si era fatto mezza vallata nudo. La luna era quasi del tutto calata oltre le colline piene di boschi del confine. Dall'altro capo il cielo si tingeva di una leggera evanescenza d'azzurro. Udì uno scrosciare d'acqua regolare e individuò chi stava cercando all'abbeveratoio per cavalli di fianco l'entrata della stalla. L'oste stava pulendosi le mani dalla saliva del prode, strofinandosele con forza. Quando vide con la coda dell'occhio approssimarsi quell'insopportabile figura, Giorgione alzò gli occhi al cielo, mormorò fra sé un paio di bestemmie liberatorie per sfogarsi e poi gli si fece incontro, asciugandosi le mani sull'orlo delle braghe.

"Sior Balivo, si sta divertendo alla festa mi auguro!" E nel dirlo gli offrì la mano ancora bagnaticcia. Giminiano non considerò neppure di stringergliela.

"Niente affatto" Rispose il biondo ricciolato.

"Che novità" Avrebbe voluto ribattere Giorgione, ma si trattenne.

"Ciò che mi turba è che la festa la state riservando a quel criminale là dentro" Gli occhi da gatto di Giminiano brillarono. Non era buon segno.

"Criminale? Oh, ma figuratevi, il sior Gattapelata è diventato mio ospite d'onore per stasera. Non c'è bisogno che vi preoccupiate di perseguirlo sior balivo, io gli ho condonato tutto. Ha devastato la locanda e ci ha regalato un drago per il disturbo; non aveva pagato il conto e ora si è messo in regola; ha imbruttito il grugno dei miei clienti a cazzotti e sventole, ma guardi ora come festeggiano. Tutto il paese lo ha condonato!" Giorgione si era fatto giulivo e gli offriva il più grande sorriso smagliante che potesse, dipanando quelle guance da cane che si trovava da un orecchio all'altro. Giminiano non fu affatto colpito.

"È proprio questo il punto: Voi lo avete condonato, ma Pipino il Lungo no" Come diavolo si potesse riuscire a tenere una faccia seria pronunciando un nome simile lo sapeva solo Giminiano. Nessuno lo aveva mai visto sorridere neanche per scherzo "Il cosidetto cavaliere Gattapelata ha trasgredito l'ordine costituito, oltrepassando il confine di queste terre da cui era stato bandito. Voi vi siete occupati della faccenda non avvertendo la mia milizia e questo mi starebbe anche bene, ma non mi sta affatto bene che ora, voi villani ignoranti, lo trattiate da eroe".

Giorgione ebbe la tentazione di prendergli quel collo da galletto e tenergli la testa dentro l'abbeveratoio fino a quando non gli fosse entrata un po' d'acqua in testa ad occupare il vuoto lasciato nella scatola cranica, ma dovette constatare che Giminiano aveva ragione. La legge era dalla sua.

"Ma proprio non lo potete chiudere un occhio?"

"Neanche se me li cecaste entrambi potrei esimermi dal mio dovere" L'ultima sentenza lapidaria fu accompagnata da una folata di vento improvvisa, che sollevò il pesante drappo del martello di porpora, rivelando il folle arsenale di coltelli da lancio cinti con lacci e laccetti di cuoio intorno la vita e il petto "Come tutti gli esiliati che si fanno beffa della nostra legge, io ho il compito di portarlo, volente o nolente, vivo o morto, di fronte alla giustizia. E qualora lo portassi vivo, vi assicuro, chiunque preferirebbe essere morto prima".

"Insomma, non c'è modo di farvi cambiare idea" sospirò afflitto Giorgione "E sia, avete vinto voi. Vi consegnerò Gattapelata e ne potrete fare ciò che volete".

Neppure quando ottenne ciò che voleva da Giorgione, Giaminiano sorrise. Si limitò ad un cenno di approvazione e si diresse verso la porta della locanda, per rientrare e fare il suo dovere. Giorgione guardò nel vuoto un istante, cercando chissà che cosa, sconsolato. Poi, ridivenne allegro e richiamò subito il balivo, correndogli dietro.

"Giminiano, un momento per favore!"

Il balivo si fermò di colpo per essersi sentito chiamare non per la carica ma col nome proprio e mosse le orecchie da pastore tedesco. Girò il viso elfico e abbassò il mento appuntito, per guardare negli occhi l'oste. Non disse nulla. Non sbatté neppure gli occhi.

"Abbiate la comprensione di aspettare il mattino per l'arresto!"

"Perché dovrei?" Rispose con disprezzo l'ariano, quasi sputandogli in faccia.

"Gattapelata, come ha detto lei, viene trattato come un eroe popolare. Qui in paese è una vita che non si festeggiava così allegri e sarebbe un peccato rovinare tutto proprio adesso, nel bel mezzo della celebrazione".

Giminiano non disse nulla, ma conveniva con ciò che faceva notare Giorgione e cionondimeno non gliene importava un fico secco se a quelle scimmie da campo di second'ordine gli si fosse rovinata la festa o meno.

"Ubriachi e allegri come sono" Continuò Giorgione "Si rischierebbe una rivolta. Dia ascolto a me: ripassi di mattina, che se ne saranno tutti andati e sfiaccati dalla baldoria di stanotte. Quando il campanile suonerà le sette lei si faccia trovare qui e io le renderò Gattapelata".

"Sarebbe pericoloso lasciare un criminale del genere in circolazione"

"Chiaro, ma non circolerà da nessuna parte, perché, quando tornerà, lei lo troverà ancora addormentato. Ferito e stanco com'è, senza un cavallo, dove vuole che vada quel disgraziato? È innocuo".

Giminiano parve quasi convinto.

"Lo giura sulla sua testa?" Gli chiese a bruciapelo.

"Anche su quella del Papa" Ribatté lui sogghignando. Giminiano apprezzò il coraggio.

"Allora siamo d'accordo. Ritornerò qui alle sette precise" E, detto questo, si cacciò due dita in bocca e lanciò un fischio che pareva più la melodia di un flauto traverso. Subito, dalla stalla, rispose un nitrito ch'era invece una sviolinata, seguito da un trotto fatto di onomatopeici tamburini. Giorgione fu sfiorato da una cometa pallida e dal manto corto che per poco non lo investiva, che venne immediatamente montata al volo da Giminiano con un salto a gambe larghe, atterrando sulla sella come una foglia atterra leggera su uno stagno. Il balivo fece un giro su sé stesso in groppa alla sua cavalcatura per rallentare e fronteggiare di nuovo l'oste, stavolta da ancora più in alto che ora gli pareva un moscerino e, dal suo sguardo, si intuiva che avesse la stessa considerazione per ambedue.

Giminiano era in sella al suo cavallo, un purosangue bianco e snello, ma non secco da vedergli le ossa, con la stessa costruzione fisica di un levriero regale e dagli zoccoli piccoli ma duri. Era ammantato di latte e la criniera la si sarebbe potuta accostare allo zucchero filato se solo all'epoca fosse esistito. La coda era legata in un fiocco fosso, mentre la criniera era decisamente più arricciata del resto del pelo. Giorgione non avrebbe onestamente saputo distinguere il cavallo dal cavaliere.

"Passerò di qui alle sette in punto" Promise, o meglio, minacciò il novello balivo, tirando a sé le briglie, facendo arretrare il cavallo per direzionarlo sul selciato "Voglio trovare pronto il prigioniero quando arrivo. Rispettate le condizioni, o sarò costretto a levarle un peso dal collo".

"Si figuri, passi una buona serata anche lei" Il sorriso di Giorgione non piacque per nulla a Giminiano. Lo fulminò con lo sguardo un'ultima volta, quasi volesse strappargli l'anima con quegli occhi felini, poi spronò il cavallo, che partì al galoppo, ma non un galoppo normale ovviamente, un galoppo che sembrava premesse sui tasti di un organo da chiesa. Perché si trattava di Beltegeuse, l'arabo personale del balivo Giminiano.

Giorgione sospirò. Questa era andata per ora.

***

Giminiano non era un emerito imbecille e si rese conto di non potersi fidare di un accordo simile. Sapeva, che alla prima occasione, quegli avvinazzati ne avrebbero approfittato per far tagliare la corda al loro simpatico fenomeno da baraccone. Si portò quindi lontano e girò il capo per guardarsi le spalle. Appurato di essere ad una distanza considerevole e immerso nel buio, deviò dal selciato e si inerpicò sul fianco di una collina erbosa, frenò Beltegeuse e scese con un balzo leprino. Si trovava in cima ad un piccolo colle da pascolo a riposo e fece qualche passo nell'erba alta prima di giungere in un punto dove questa gli arrivava al ginocchio e lì s'acquattó ad attendere, con solo cavallette e mosconi a fargli compagnia fra il glicine e il sambuco. Si voltò verso Beltegeuse e gli fece segno con la mano di nascondersi. Questo, ubbidiente come un cane e furbo come un gatto, intese subito e si portò, al passo, sotto una macchia vegetale, all'ombra di un melo. Si nascose in mezzo a cespugli di glicine e ciuffi di lavanda a brucare l'erba fiorita di margherite e denti di leone. Si mimetizzava perfino all'olfatto, perché quel cavallo non odorava di bestia sudata e polverosa, ma dello stesso aroma di fiori da campo che andava brucando.

Giminiano, steso sulla gramigna, scostó gli steli di papaveri e carote selvatiche, strizzando gli occhi per bene. Da quello spiazzo poteva tenere d'occhio la locanda e nessuno sarebbe potuto uscire senza che lui non lo venisse a sapere ora. Diede un'occhiata furtiva al campanile del monastero vicino, stagliato, completamente in ombra e nero, contro un cielo violaceo e nuvoloso. Presto sarebbero suonate le tre e mezza. Subito tornò a guardare la locanda e vi rimase tanto immobile nel mentre che mosche e falene presero a zampettargli sul volto senza che desse alcun segno di reagire. L'attesa sarebbe potuta essere piuttosto lunga e infatti lo fu.

***

Suonarono le quattro, poi le mezza e il giorno proseguì fino al rintocco delle sei . Il suo corpo cominciava a intorpidirsi a causa della posizione continua che aveva assunto, si sentiva percorso da strani tremori sottocutanei, faceva un freddo dell'anima e aveva solo un mantello per coprirsi, non poteva muoversi per scaldarsi, gli stava venendo il torcicollo, gli insetti si sentivano tanto a loro agio che a momenti si sarebbero messi a deporgli uova addosso, gli stava venendo fame e lo appesantiva il sonno. Non si permetteva neppure di farsi scappare uno sbadiglio e ne aveva soppressi così tanti che arrivò al punto che a momenti sbadigliava dalle orecchie. Inaudito che dovesse passare un simile tormento per colpa di quegli zotici incartapecoriti a cui faceva da balivo e la loro voglia matta di proteggere un tale cercopiteco troppo cresciuto, cervello escluso.

Se Gattapelata non si fosse fatto vivo si sarebbe addormentato sul posto, prospettiva non esattamente allettante, visto che si sarebbe trovato in mezzo ad un branco di mucche al pascolo, che sarebbero giunte il mattino presto. Forse Giorgione non mentiva affatto. Nel mentre le api si adagiavano sui suoi capelli, scambiandoli per mimose, rumiginò sul fatto che forse avrebbe veramente fatto meglio a fidarsi e tornarsene a casa. Si sarebbe infilato sotto le coperte, si sarebbe svegliato alle prime luci del sole e avrebbe fatto colazione con formaggi, pane, frutti di bosco e un po' d'idromele. Quindi avrebbe sellato e imbrigliato Beltegeuse e avrebbe camminato a passo tranquillo fino alla locanda di Giorgione, dove gli avrebbero consegnato senza problemi il futuro carcerato ancora addormentato e indebolito dal trambusto della sera prima. Si sarebbero stretti la mano e sarebbe partito a servirlo su di un piatto argentato a Pipino il Lungo.

"Ahi, lasso" pensò forte, struggendosi al pensiero di aver perso una notte a far l'insonne per niente "se sol la premura nostra fosse stata prematura a le premure del concittadin nostro! Che gran male c'arrecarono lo scetticismo e il sospetto nel buon cuore umano. Ahi, infiducia, vituperio delle genti! Non ci si rivolga al cielo ma si miri ora come giaciamo derelitti in terra! Fatti non fummo a viver come bruti, noi dalla carne di reale sustanza".

Probabilmente Giminiano si sarebbe messo anche a lagrimar e strapparsi i capelli, invece si strappò solo le ragnatele di dosso quando trasalì. Il suo spettacolo privo di spettatori fu interrotto da un gran vociare e subito i suoi occhi giaguareschi brillarono di una luce strana e ridiedero attenzione alla locanda in fondo la valle. Il cielo ormai era quasi azzurro e il sole stava quasi per mostrarsi, ma il mondo restava in penombra sotto un accumularsi di nuvole grigie di varia intensità.

Sotto i suoi occhi si stava generando un corteo di rispettabili dimensioni. A quanto pare tutto il paese aveva partecipato alla festa di quella sera. Accompagnavano una figura corazzata di scintillante metallo alla stalla adiacente, nel mentre che gli facevano il girotondo e gli lanciavano fiori addosso. Un piccolo quartetto formato da una cetra, un cornetto, un tamburello e un grosso liuto accompagnavano il corteo celebrante, suonando una musica ben più fiacca e triste d'addio. Il corteo scomparve un momento nella stalla, dove s'udirono rumori di nitriti, selle agganciate, musi imbrigliati, pellicce strigliate e zoccoli ripuliti con scalpello e mazzuola. La musica si era arrestata. Indeciso se intervenire o meno, Giminiano attese fremente, pronto a dare il segnale al suo cavallo.

D'improvviso ecco sentire una pacca poderosa, un nitrito che pareva un ruggito e uno scalpiccio frenetico di zoccoli. Subito dalla stalla saltò fuori un dardo di balestra a forma di cavallo, un frisone nero, grosso e robusto, dal collo corto e muscoli impressionanti, che sbuffava un alito caldo come una pentola a pressione e lo sguardo perennemente incazzato.

In cima a questa terrificante cavalcatura, con i piedi ben piantati nelle staffe per non cascare all'indietro, stava l'armatura di prima, grossa poco meno del cavallo. Da come vibrava e rimbalzava disarticolata si sarebbe detto non ci fosse nessuno all'interno, invece c'era eccome perché il fantino si teneva l'elmo fermo bruno con una mano guantata in metallo, mentre con l'altro teneva salda la briglia, sebbene si fosse detto che fosse il frisone a condurre piuttosto.

Il paese intero gli corse dietro poco dopo uscendo dalla stalla come vespe inquiete, agitando fazzoletti e lanciando gli ultimi fiori. La banda seguì subito dopo, suonando una marcia frenetica ed energica da battaglia. Tutti quelli senza uno strumento musicale in mano gli urlarono dietro un ultimo augurio.

"Arrivederci Gattapelata, tenga gli occhi sulla strada, mi raccomando!"

"Gattapelata, si copra che fa freddo!"

"Gattapelata, casomai tornasse, si ricordi di andare a prendere un altro drago. Ma di razza stavolta, eh!"

"Si ricordi di mettersi la tunica che le ho regalato, Gattapelata!"

"Se torna avvisi prima che così le faccio conoscere mia sorella!"

"Disutile plebaglia lavorativa di scarto, fedigrafa, infedele e priva di adeguata materia cerebrale, atta solo a slealtá e macchinazioni assortite ai danni della brava gente, ingannata da voi turlipinatori massimi" Furono queste, più o meno, le buone parole che passarono di mente al balivo per descrivere i servi della gleba nel mentre che si rialzava dolorante, ricoperto d'erbacce e insetti e saltava, con un balzo d'antilope, in sella a Beltegeuse, che aveva già capito di essere nel bel mezzo di un inseguimento. E non parliamo poi delle parole cattive.

Non ci fu il tempo per sviolinate varie, il cavallo zompò senza rincorsa, superando, in un arco soltanto, tutti i cespugli dietro cui si era riparato, cominciando a galoppare non appena toccò di nuovo il suolo dopo vari secondi di volo. Giorgione era venuto meno ai patti, contava di fregarlo con la più bassa delle tattiche, convintissimo che lui ci sarebbe cascato, ma si sbagliava di grosso, perché Giminiano non aveva il sangue rosso, no, lui aveva il ribollente sangue nero degli uomini superiori, di coloro che facevano la storia. Dentro di lui scorreva il sangue di una razza che partiva dai patrizi romani, passava per la corte nobiliare Longobarda e finiva a sgorgare in una ricca famiglia di generali dell'esercito. Avrebbe dimostrato, a quei sempliciotti del terzo stato, che non si sarebbero mai più dovuti azzardare a scherzare con uno del suo sangue.

Correvano al cardiopalma giù per il manto erboso scosceso. Uno zoccolo messo per errore e sarebbero scesi dal colle rotolando in una brodaglia, ma così non fu. Perché Beltegeuse era un arabo purosangue, si diceva Giminiano, buon sangue non sbaglia. Arrivarono infine a raggiungere il selciato, di ghiaia e fango rappresso e spaccato, con un ultimo balzo. Cambiarono direzione in aria con uno strattone del fianco e gli zoccoli del cavallo sollevarono un gran polverone all'arrivo. Si piantarono per bene, quasi affondando nella terra, e, con una base solida per la partenza, si rimise al perseguimento del frisone davanti a sé, ormai lontano, ma non abbastanza. Il frisone correva senza sforzo verso il crocevia, diretto al confine, ma Giminiano non gli avrebbe permesso di raggiungerlo. Ebbe per un momento la voglia di voltarsi e dare una lezione di fioretto a quella manica di menagrami alle sue spalle, ma non poteva perdere tempo e si ripromise di passare dopo a dargli il ben servito.

Il frisone era veloce, quasi non avesse nulla in groppa. Correva veloce come il vento con il Gattapelata strattonato sù e giù, ma non aveva fatto i conti con Beltegeuse, che nell'aria scivolava quasi senza attrito. Ciononostante lo stacco era ancora notevole e non accennava a colmarsi presto. Giminiano si strinse forte al collo del suo animale, sia per togliere ancora più resistenza con l'aria alla loro cavalcata, sia per incitarlo all'orecchio.

"Corri Beltegeuse, corri, non farti lasciare indietro da quel mulo, non assaporargli la polvere! Sibila nell'aria, fatti ippogrifo e raggiungilo in volo!"

Come se intendesse la parlata umana, Beltegeuse sembrò comprendere e, in un modo o nell'altro, riuscì anche a correre più veloce di prima. Vuoi per la maggior aerodinamicitá, vuoi per dovere di trama, Giminiano s'approssimò al fuggitivo tanto che poteva contare i peli della coda alla sua cavalcatura, spessi come fieno.

Il frisone, che era stato appena svegliato e subito mandato al galoppo di prima mattina, cominciava a perdere terreno, mentre l'arabo, ben allenato e più sveglio, gli si portò di fianco. Ormai Giminiano dovette tirare il freno per non sorpassarlo. Li dividevano due metri circa di un tappeto di ghiaia e terra brulla che scorreva sotto di loro a velocità fantastica. Cadere lì sotto sarebbe costato un bel ruzzolone e una parcella salatissima al becchino.

Correvano da appena due minuti, ma ad un ritmo tale che la locanda era già lontanissima, quasi all'orizzonte. Ai lati del selciato, ora, stava alla destra il limitare del bosco e alla sinistra, oltre un fosso acquitrinoso, un campo di miglio. Questo era lo sfondo che si offriva a quella che si prospettava come una tremenda fracassata.

"Gattapelata!" Urlò Giminiano alla sua destra, col volto contorto dall'ira. Il mantello, isterico quanto lui, si muoveva in preda al vento e così anche i bei capelli dorati. L'elmo traballante si voltò verso il balivo. Dentro era così buio pesto che credette di star parlando ad un'armatura fantasma, ma, guardando meglio nella visiera, poteva scorgere due occhi stralunati, incorniciati da delle rughe non di vecchiaia, ma sorpresa. Giminiano doveva veramente incutergli timore.

"Dica" Chiese di rimando Gattapelata, incerto su quell'instabile arcione, più in imbarazzo che sgomento.

"Per ordine di Pipino il Lungo, signore del feudo, ti dichiaro in arresto! Accosta o subiscine le conseguenze!"

"Viecce!" Gridò di rimando lui e subito rimise gli occhi, ora divampanti di decisione, sulla strada. Diede uno strappo secco alle briglie e spinse il cavallo imbizzarrito sulla sinistra. Mirava a dare una sonora bordata, col fianco robusto da barile del suo frisone, al magro arabo e far finire, cavallo e cavaliere, a mollo nel fosso accanto. Ma a Giminiano bastò dare un colpo con gli speroni ai fianchi del bianco animale per spronarlo ad uno scatto fulminante in avanti, eludendo la manovra e portandosi in testa, ma non ci restò a lungo. Gattapelata aveva appena evitato di finire lui stesso nel fosso, ridirigendo il cavallo con un altro strappo repentino per raddrizzarlo, che si ritrovò Giminiano accanto, sulla destra. Volle tentare un'altra bordata, ma non gli riuscì, che il balivo lo precedette e fu lui ad avvicinarsi con Betelgeuse. Questi allungò il braccio e, rapido, strinse le dita lungo le briglie avversarie, tirandole a sé, per tentare un freno forzato e come l'artiglio si serrò, anche la sua bocca si serrava in un muro di denti bianchi e stridenti per la vittoria. Ma la vittoria non venne, anzi, venne al suo posto un sonoro calcione nel fianco che gli fece perdere il fiato e la presa, allontanandolo di nuovo, tutto dolorante al costato sinistro. Udì Gattapelata ridersela tanto che la sua risata fece vibrare la superficie stessa dell'elmo, mentre infilava di nuovo il piede destro nella staffa come fosse il fodero d'una spada.

L'unico motivo per cui Giminiano non ebbe modo di reagire a quel banalissimo contrattacco da manuale era dovuto al fatto che le sue articolazioni erano ancora irrigidite dalla snervante osservazione che aveva condotto neanche cinque minuti fa, senza contare che, per la rogna, alla festa aveva mangiato e bevuto quasi niente e, oltretutto, era in piedi da più di un giorno e il sonno gli bussava inopportuno all'anticamera del cervello. Ma ora, punto nell'orgoglio e preso a calci nei fianchi, gli era rimontata in corpo tutta una foga antica, la stessa che aveva animato nei tempi bui i suoi avi conquistatori. Beltegeuse aveva perso terreno per il colpo ed era andato in confusione per l'improvviso mollare della briglia da parte del suo fantino gemente. Girò il capo, nitrendo di preoccupazione per la salute del suo cavallerizzo e, di conseguenza, il frisone aveva guadagnato terreno di svariate pertiche e continuava a farlo, mentre la sua premura invece gli fece guadagnare solo un altro colpo di speroni.

"Non pensare a me!" Fu l'immediata strigliata del biondo balivo, come se quel calcio di poco fa lo avesse ridestato dal torpore "Stagli dietro, non lo mollare come ho fatto io!"

E l'arabo riprese subito, e più di prima, a passo di carica, sudando davvero, cominciando a perdere il suo dolce profumo. Gattapelata si guardò indietro e, seppure non lo poteva vedere in faccia, Giminiano sapeva che trasalì a vederselo ancora ai calcagni con tanta foga che se ce li avesse sotto i denti glieli avrebbe mangiati crudi. Gattapelata gli tagliò la strada, uno, due, tre volte. Non gli avrebbe permesso di farsi abbordare un'altra volta, rendendo così inutile la velocità di Betelgeuse.

Giminiano fu costretto a tenere sempre un poco tirato il freno per non schiantarsi sul retro dell'animale. Decise quindi di mettere mano ai suoi coltelli e ne sfilò uno da una delle molte fondine. Tirò indietro il colpo argentato e poi subito in avanti, contro la nuca del cavaliere. La colpì in pieno, con un fracasso di stoviglie, ma rimbalzò innocuamente via senza lasciare tracce. Gattapelata se la rise ancora di più.

"Inutile, inutile, inutile" si rammaricò Giminiano e prese quindi di mira il cavallo, ma non gli riuscì di scagliare il coltello. Gattapelata insisteva a star davanti il muso del suo cavallo e se lui avesse scagliato, addosso il suo di cavallo, un coltello alla coscia, questo sarebbe probabilmente crollato di fronte a Betelgeuse e quest'ultimo gli sarebbe inciampato addosso e spezzato l'osso del collo a cadere ad una simile velocità. Ma Giminiano non era finito. Carico di quella determinazione antica, che aveva fatto commettere le più grandi pazzie ai più grandi della storia, sfilò gli stivali dalle staffe. Poi, con cautela, stabilizzò l'arabo e mollò le briglie. Betelgeuse non capiva, ma persistette a correre, fiducioso che il suo padrone stesse compiendo qualcosa di sensato. Infine, Giminiano, si issò sulla sella, prima acquattato a rana, poi, a braccia larghe, si alzò fino a starsene in piedi, curvo sulla schiena del proprio animale. Il mantello faceva una pessima resistenza all'aria e lo tirava indietro, quindi lo sganciò, lasciandolo volare via, indietro nella polvere. Il frisone era vicino, abbastanza per un salto. Piegò le gambe, e senza paura, caratteristica che distingue eroi e assassini, si proiettò in avanti a piedi uniti, braccia tese in avanti a ghermire il nemico e faccia tranquilla, quasi non dovesse uccidere qualcuno di primo mattino.

Atterrò con un tonfo da fiocco di neve sulla sella avversaria, che Gattapelata manco se ne accorse. Si traballava molto su dorso di quel frisone e dovette aggrapparsi a qualcosa se non voleva cadere all'indietro. Portò quindi le mani in avanti e, passando con la sinistra sotto l'ascella del cavaliere, e con la destra intorno al collo del medesimo soggetto, rispettivamente strinse con una le briglie e con l'altra la gola del Gattapelata. Questo, sorpreso di trovarsi l'avversario alle spalle come per magia, quasi non reagì, limitandosi a mollare la presa sulle briglie e annaspando come sott'acqua, agitando le braccia in preda agli spasmi. Di conseguenza, il frisone, fu costretto ad una frenata perentoria e improvvisa, spaccando il terreno sotto i suoi ferri da che li piantò con forza.

Ma il Gattapelata non lo si doveva mica sottovalutare. Non provò neppure a liberarsi dalla morsa al collo ma risolse il problema alla radice. Sollevò il braccio sinistro sopra la testa e lo fece arretrare, assestando una penetrante gomitata corazzata al fianco, già dolorante, del balivo. Quest'ultimo mollò la presa delle briglie ma non del cavalleresco collo, cui si aggrappò furente pure con il braccio appena libero. Al prode cavaliere si ventura mancava l'aria, annaspava disperato, ma non si perse d'animo, raggruppò tutte le forze e si piegò in avanti come una molla, toccando la nuca dell'animale con la punta dell'elmo e trascinandosi dietro il balivo. Questi fu confuso, sinché non si buscò una riecheggiante testata sul mento, frutto del ritorno, alla posizione diritta, del cavaliere. La botta fu sufficiente a far sciogliere le braccia dall'avvinghiamento mortale che esercitavano e, per contraccolpo, Giminiano quasi cadde all'indietro, non fosse che si aggrappò disperatamente all'orlo in cuoio della sella. Con il labbro spaccato bruciante e col gusto di ferro in bocca, l'interesse nella vivisezione della gola umana, fu rivitalizzata nelle priorità del biondo. Si rimise a sedere in sella a tentoni, mentre Gattapelata si voltava per gestirlo faccia a faccia, sfilando già i piedi dalla staffa. Ma il prode fu colto alla sprovvista quando realizzò di essere nella traiettoria d'una coltellata al volto. Giminiano era riuscito infatti a sfilare uno dei suoi attrezzi e, impugnandolo con la destra, lama rivolta in basso, sferzò l'aria, sperando di portargli via un occhio. Ma la visiera sbarrata del Gattapelata lo protesse da tale eventualità, ma non dal pesante contraccolpo. Senza più i piedi nelle staffe, il cavaliere di ventura si trovò senza equilibrio e sul punto di precipitare in strada e restarci per sempre, ma s'aggrappò, cadendo, con tutte le forze, all'orlo della sella e la criniera del cavallo, che nitrì indispettito. La testa gli penzolava dal fianco destro dell'animale e le gambe ciondolavano, scalciando, dal sinistro. Non poteva mollare la presa per alcun motivo, perché aveva il baricentro talmente spostato fuori dal frisone e la sua armatura tanto pesante, che, era certo, sarebbe scivolato del tutto all'indietro se ci avesse provato.

Giminiano non sorrise, ma sapeva di avere la vittoria in pugno e, quasi mettendosi a cavalcioni sulla figura del cavaliere pendente, alzò di nuovo la mano destra per un secondo colpo. Lo calò, ma venne parato dal guantone sinistro del cavaliere, che aveva mollato la presa, dall'orlo della sella, per far da scudo improvvisato, rimanendo intonso e senza graffi. Le gambe del cavaliere si serrarono intorno al barile ch'era la pancia del cavallo, il suo cuore galoppava insieme a lui e la fronte gli grondava e aveva già riempito una pozzanghera in un angolo dell'ampio elmo. Non voleva proprio morire.

Giminiano pose la sua mano destra sul collo del Gattapelata, strozzandolo nuovamente e spingendolo sempre più giù, tanto che ormai l'erba alta che cresceva al limitare del bosco gli sfiorava la cima del capo. Sapeva che era solo un trucco per spingerlo ad impegnare la sua mano fatta a scudo e avere così libero accesso a sbrindellargli la faccia, ma non potè fare a meno di cercare di liberarsi da quella morsa costrittoria. Aveva bisogno di respirare, e dunque impiegò la sinistra per afferrare il polso della sinistra avversaria e spingerlo via. Il campo era libero da altri ostacoli.

"Gattapelata!" Gli gridò teatralmente il balivo pur essendo a meno di un metro di distanza, levando il coltello, alto e scintillante al sole, per un terzo colpo. "Potrei uccidervi ora, ma vi offro la possibilità di arrendervi! Cosa ne dite della mia magnanimità?"

Gattapelata tossì un poco. Gli faceva ancora male il collo e gli mancava dell'aria, ma infine rispose.

"Che se mi ci pulissi il culo, essa non cambierebbe sostanza".

"Sia fatta la tua volontà".

Giminiano non attese oltre e menò giù la lama. Passò perfettamente fra le fessure verticali dell'elmo e la sentì penetrare carne umana. Se aveva colpito giusto doveva averlo preso in mezzo agli occhi. Subito si levò, dalla visiera, una fontanella di sangue rosso acceso al vento, ma non in senso figurato, uno schizzo che pareva una fontana vera, che, partito dal volto del Gattapelata, centrò quello di Giminiano, macchiandolo completamente e quasi facendolo annegare da che era copioso e improvviso. Distratto, un po' disgustato, il balivo perse la ferrea presa dalla gola avversaria e Gattapelata, ancora vivo straordinariamente, riprese, con la sinistra, una presa salda della sella. Finalmente libero dal soffocamento, non più spinto fuori, libero dalla minaccia del coltello e incazzato come una biscia, Gattapelata subito si caricò il ginocchio destro al petto e scaricò una devastante pedata al petto del biondo balivo, ancora intento a ripulirsi il viso e sputare, che non ebbe modo di assorbire il colpo in modo dignitoso e fu buttato fuori bordo.

Invece di toccare il suolo e scorticarsi ripetutamente per terra, Geminiano fu preso al volo dal suo bianco purosangue arabo, Betelgeuse, bestia così buona e previdente che non se ne troverà mai più una simile in natura. Aveva seguito il combattimento senza mai rimanere indietro, sapendo bene che il suo compito non era finito e difatti ebbe modo di rendersi utile nuovamente. Il povero fantino, tutto concio e malmesso, si ritrovò steso di pancia sul dorso morbido del suo fido destriero. Ringraziò la sua buona stella di avergli donato un cavallo tanto meritevole e si rimise in sesto. Infilate le staffe e prese le briglie, si rimise all'inseguimento.

Era assurdo che Gattapelata fosse ancora vivo, ma dopotutto si trattava dello stesso individuo che aveva abbattuto un albero con la sua sola testa. Ci sarebbero volute ben più coltellate per finirlo. D'improvviso si chiese dove diavolo fosse finito. Si erano addentrati in un sentiero nel cuore del bosco, ma di Gattapelata non vi era traccia sul loro selciato. Eppure sentiva un scalpiccio di zoccoli diverso dal suo e a meno che il cavaliere, oltre che invulnerabile, fosse ora invisibile, doveva pur essere da qualche parte. Si rese conto di stare su una strada legermente in salita e guardò in basso, sulla destra. Non poteva crederlo! Su un sentiero parallelo, ma che si dirigeva invece giù per una depressione, il Gattapelata si dava alla fuga, calpestando funghi, muschio e tutto il resto del sottobosco.

Poi lo realizzò. Nel dargli il secondo calcio, evidentemente, i due dovevano aver attraversato un bivio. E lui, senza aver modo di riprendere il controllo di Betelgeuse per un pezzo, non poté imboccare la stessa via del fuggitivo. Ma se sperava che sarebbe bastato un bivio a divedere le loro strade egli non conosceva il potere della sua giustizia.

Con occhi ardenti, che lanciavano scintille, diede uno strappo e Betelgeuse, ubbidiente anche di fronte a imprese impossibili, e si lanciò giù dallo scosceso, irregolare e accidentato versante del colle, in una maniera che si sarebbe creduta possibile solo ad un capriolo. Ma Betelgeuse poteva, perché lui era un purosangue.

Gattapelata non si rese neppure conto di essere ancora inseguito e già si credeva in salvo, rallentando il passo ad un galoppo appena accennato, che fulminea, una figura da folletto imbruttito dal malumore, gli saltò addosso. Betelgeuse si era portato accanto al frisone nero e Giminiano poté di nuovo abbordare l'ignaro cavaliere. L'impatto del placcaggio fu tanto violento che i due caddero di sella entrambi, strappando di netto le staffe di Gattapelata. Avvinghiato al busto del cavaliere, come se mai lo avesse voluto lasciare di nuovo, Giminiano impattò col suolo erboso pieno di foglie cadute, che attutì di non poco lo schianto, che sarebbe stato altresì fatale. Ruzzolarono e girarono su sé stessi, alzando radici, sassi e foglie, che parve ad entrambi che il mondo fosse diventato un affresco che cola. Quando si fermarono erano troppo rintronati per rialzarsi subito e avevano la vista appannata. Giminiano provò a rialzarsi, con le vesti strappate e la faccia bellissima perturbata da tagli e bernoccoli, ma non ci riuscì, incespicò e cadde riverso in avanti. Si puntellò coi gomiti e si costrinse a guardare davanti a sé e oltre il dolore.

Gattapelata era riverso di schiena invece, qualche piede più in là. Pareva svenuto, le braccia abbandonate, le gambe aperte e il viso piegato da un lato. Forse era morto davvero. Giminiano sospirò, schiacciò un po' di foglie con i pugni, prese fiato e poi gridò.

"Gattapelata!" E qui dovette interrompersi per sputare sangue e saliva che gli si erano ammassati sotto la lingua "Per ordine di Pipino il Lungo, signore di questo feudo, ti dichiaro in arresto! Arrenditi o subiscine le conseguenze!"

"Posso subirle fra cinque minuti? Si sta così bene qui per terra" Mormorò il cavaliere, senza neppure provare a muoversi. Giminiano ne ebbe abbastanza. Aiutandosi con le mani, si rialzò, sbuffando di fatica, sgrullando le spalle dal fogliame, e si rimise in piedi, tentennante. Gattapelata invece continuava ad imitare l'erba. Giminiano si schioccò ogni osso del corpo cigolante, stirò i muscoli e recuperò fiato, fino a che non si sentì pronto per tornare all'attacco. Tirò fuori un terzo coltello. Era passato molto tempo da quando ne aveva usati così tanti per un uomo solo. Tenendolo alla rovescia, gli si fece incontro. Se si fosse arreso lo avrebbe risparmiato, ma Gattapelata aveva giocato troppo con la sua pazienza ormai. Gli si mise a cavalcioni sopra, una gamba lì e una gamba là. Quello continuava a non muoversi. Avvicinò una delle sue mani piene di graffi all'elmo, per togliergli la visiera e colpirlo una seconda volta e per bene.

Ma immantinente, la intercettò il guantone ferrato del cavaliere, prima che egli potesse privarlo della sua vitale protezione. l'instacabile Gattapelata non era null'affatto sfinito, solo a riposo. Giminiano tentò di colpirlo col pugnale, ma la sua traiettoria venne interrotta ancora una volta dalla mano libera del Gattapelata, contro cui stroncò il colpo, sprizzando baluginii e mandando in pezzi l'arma. Presto anche l'altro polso del balivo fu assicurato dalla presa del cavaliere e fatto questo, subito si rizzò a sedere, tenendosi davanti il divincolante biondo.

"E ora il mio gioco preferito" Sghignazzò Gattapelata "Un bel giro di giostra!"

Pose il suo piede di ferro sul ventre del ragazzo e il ginocchio sul petto e si tirò all'indietro di colpo. Con la schiena di nuovo in terra, la pancia di Giminiano sul piedone e i suoi polsi in pugno, fu allora che il gigante di latta poté far scattare la gamba tesa verso l'alto e così proiettare il balivo per aria. E il balivo, preso ai polsi dal cavaliere, fece un arco che come perno aveva le spalle di Gattapelata, venendo giù con foga, fu mollato e fu libero di schiantarsi di schiena fra le felci e i porcini, sollevando un mare di foglie. Se per quella foresta fosse passato un judoka avrebbe fatto un applauso per quel Tomoe-nage perfetto.

Atterrando sul morbido, Giminiano non fu ferito, solo sbalordito dal colpo e si guardava intorno con aria confusa, non sapendo bene che fosse successo. Tentò di rialzarsi, ma non gli fu concesso, che di nuovo, il suo fianco sinistro, fu vittima di una pedata da terremoto, che, affondandogli la punta del ferroso stivale nel rene, lo fece ribaltare di nuovo, sollevandolo in aria. Al povero Giminiano pareva di essere in un torrette di sventole tante botte aveva preso. Ma non poteva dargliela vinta a quella che caffetteria infernale, proprio no, e giacché non si reggeva più in piedi, si trascinò fino alle radici di un Juglans regia maturo, comunemente detto noce bianco. Lì, cinse le mani attorno alla scorza ruvida e muschiosa del tronco, quindi si tirò sù, con uno sforzo eccezionale date le sue condizioni. Si mise in piedi, si adagiò sudato, insanguinato ed ansimante al tronco, ma le gambe non gli ressero e, dopo un tremore di febbre, crollò nuovamente per terra.

E meno male, aggiungo io autore, perché se fosse rimasto un poco di più a riposarsi avrebbe subito un taglio della barba molto in profondità. Gattapelata aveva infatti sfoderato il suo spadone da dieci libbre e sei piedi e gli si fece incontro quasi dovesse bastonare un cane cocciuto con una verga. Se Pietro e Andrea furono chiamati peacatori, allora, a ben donde si sarebbe potuto definire Gattapelata come un boscaiolo di uomini, perché fece adopero della sua grossa lama non differentemente da come avrebbe impugnato una pesante scure. E questo fu il suo errore fatale, perché gli spadoni non son certo fatti per tirar giù gli alberi, specie se si tratta di noci bianchi maturi, e l'arma bianca ci fece un fran solco dentro, profondo quanto il raggio dal centro della pianta e pulito che neppure una scheggia ne volò via.

Disperatamente tentò di estrarla, ma il peso del noce intero stava ora sulla lama, ed era così pesante da risultare inamovibile come la spada di San Galgano e solo chi fosse riuscito a sollevare il peso del noce sarebbe stato capace di estrarla. Gattapelata tentò, ancora e ancora, ma niente, pareva fusa nel legno ormai. Piantò un piede sulla corteccia antica e spinse forte in direzione opposta, provò a smuoverla di lato, ma niente, tentò anche di rovesciare il noce di lato a spallate, facendolo cadere e liberando la spada, ma il taglio era così pulito che il fusto pareva ancora intonso.

"Gattapelata" lo richiamò una voce debole di fianco a lui. Si voltò e vide Giminiano nuovamente in piedi, il volto paurosamente calmo pur deturpato, il sangue che gli colava ancora dal labbro, gli abiti stracciati e macchiati di sangue e sudore.

"Mi sembra di avervi già spiegato che non ho intenzione di arrendermi!" Gli gridò di rimando l'armatura infastidita.

"Non avevo intenzione di chiedervelo" Giminiano si afferrò le cinghie e i laccetti che gli legavano le fondine al petto e se le slacciò. Preso l'arsenale lo lasciò cadere in terra, con fragore "Perché mi sono stancato di giocare con voi".

Gattapelata rise a quella ridicola proposta. Sapeva di avere davanti ormai solo lo spaventapasseri di un balivo. Smise i suoi tentativi di estrazione dell'utensile guerresco e gli si fece incontro, stringendo i pugni di ferro. Conciato da straccio, non poteva proprio immaginarsi come il ragazzo potesse essere ancora una minaccia per lui. Voleva dire che avrebbe finito di mazzuolarlo per bene, cosicché la piantasse una buona volta di stargli appresso.

Subito si portò avanti, caricando un calibrato diritto destro. Ma quel diritto andò a vuoto, perché la testa che mirava a tumefare, quel cazzotto, si spostò di lato. E poi era stato un diritto calibrato, sì, ma senza tenere in considerazione i venti chili di armatura che si teneva addosso. Il cavaliere ebbe appena il tempo di vedersi il polso e avanbraccio afferrati da quelle dita sinuose e strattonato in avanti, che subito si trovò a testa in giù, sulle spalle del biondo balivo, gambe all'aria, petto sulle sue scapole. Fece un volo di tutto rispetto e cadde, con gran fracasso di tegami, in quel morbido tappeto vegetale. Se l'ipotetico judoka fosse ipoteticamente tornato, si potrebbe ipotizzare che avrebbe applaudito ancora di più a vedere un così superlativo Seoi-nage. Gattapelata si rialzò subito e credette d'esser diventato cieco. Invece gli era solo scivolato l'elmo al contrario. Se lo rimise corretto, ma solo per vedere di nuovo la terra da molto vicino, quando un poderoso calcio in culo lo mandò nuovamente steso in avanti ad assaggiare le foglie. Gattapelata si rialzò subito, più ferito nell'orgoglio che altro: quelle mosse non le aveva quasi sentite tanto era corazzato, ma lasciarsi cogliere così da quell'efebico sbarbatello sbarbato era troppo. Scosse la testa, facendo cadere dalla visiera tutte le foglie accumulatevisi, e si alzò prontamente per mangiarsi vivo quel fuscello vestito da balivo.

"Che storie sono queste?" Gli sbraitò contro Gattapelata, con un grido da far scappare via gli uccelli dalle fronde circostanti. Giminiano gli camminava intorno, tranquillo.

"Avete perso, pattume d'uomo, ecco tutto" Giminiano era impassibile. Gattapelata lo squadrò di nuovo.

"A me sembra che sia tu quello messo peggio".

"Controlla meglio" e detto questo prese un leggero slancio e gli si gettò nuovamente addosso. Stavolta era lui a tirargli contro un diretto destro. Che faccia pure, pensò il cavaliere, se odia tanto le sue nocche da infrangersele lasciamolo fare. Ma il ciocco che seguì non fu quello di un destro che si sfracellava contro la visiera d'acciaio d'un elmo, bensì dello stesso che si ode nelle frane. Giminiano aveva difatti sbriciolato un sasso sulla faccia schermata del Gattapelata. Aveva preso quel sasso e strettolo in pugno poco dopo la stivalata nelle terga, mentre ancora il cavaliere era indaffarato a levarsi fogliame marcio dall'elmo. La visiera, ovviamente, non si era spezzata, ma la concentrazione di Gattapelata sì. Giminiano aveva colpito tanto forte che anche lui né restò spinto indietro, ma si riprese e si diresse verso il vulnerabile avversario.

"Hai perso tutti i tupi vantaggi, vigliacco che non sei altro!"

Il cavaliere arretrava dolorante per la concussione spaventosa e non ebbe modo di difendersi quindi, quando dovette incassare un altro calcio, stavolta allo stomaco da farlo piegare in due, subito seguito da una ginocchiata al viso da farlo rimettere sull'attenti seduta stante. Poi si sentì afferrato per le gambe e gli venne tolto il terreno dai piedi. La sua schiena tornò a terra con un tonfo. Le sue gambe erano serrate fra le ascelle e il gomito di Giminiano, che gli spinse poi lo stivale destro sul viso, schiacciandoglielo a terra, girato di lato. Gattapelata lo fulminava da sotto la suola, ma era incapace di reagire.

"Senza più frisone e spadone, che ti rimane ciurmadore? Solo un'armatura vuota quanto la tua tecnica, ma non credere che basterà a difenderti da me. Tu che decantavi tanta forza, te ne è rimasta, anche solo un briciolo, per quest'ora fatale?"

E dicendo questo lo faceva volteggiare intorno a sé, tenendolo per le gambe. La vista del cavaliere era una giostra di macchie di colore ormai. Stava usando il suo stesso peso contro di lui. Perché Giminiano era stato cresciuto, sin da fanciullo, al dolore e all'arte della lotta greco-romana e libera, alla mischia a mani nude, che lui praticava con la stessa leggerezza con cui un'ape assapora il nettare. Lo mollò e quello volò lontano. Toccò il terreno e rotolò in un mare di foglie, finendo alle radici del noce bianco, lo stesso dove era stramazzato Giminiano pocanzi. Tastando la corteccia capì dove si trovava e cercò appigli per risalire. Non ce la faceva più a combattere: chi l'avrebbe detto che quell'armatura potesse essere così pesante da portare appresso? Era illeso, circa, ma gli stava venendo il mal di mare a forza di venire sballottato e sentiva che tutte quelle batoste, anche se parate dell'acciaio, stavano avendo un pessimo effetto sui suoi organi interni. Si rimise in piedi, appoggiandosi al fusto con tanto ardore come non ne mostrava se non alla propria madre. Sentì con il palmo destro una protuberanza strana infilata nel tronco. Era l'elsa della spada. Giminiano stava venendogli incontro inesorabile e continuava ad ammonirlo. Sapeva che non sarebbe mai riuscito ad estrarla in tempo, ma tentò ugualmente, serrando le dita, flettendo i muscoli, piegando le spalle e digrignando i denti.

"Perché è in ore come queste che si rivela l'uomo. C'è chi prova a nascondersi dietro balocchi come i tuoi e chi invece è fatto della stessa carne di cui è fatto il futuro. Oggi tu, Gattapelata, falso eroe e meschino rivale, capitoli per mano mia, onore ben più grande di qualunque infima impresa tu abbia adempiuto sinora".

Il cavaliere stava facendosi saltare i tendini da quanto tirava, ma il brando non voleva staccarsi. Non avvertiva uno scricchiolio da parte dell'albero, non accennava a rendergli la lama che gli sarebbe tornata tanto proficua ora. Sentì Giminiano corrergli addosso e saltare, si voltò e poté ammirare un paio di suole di stivali farsi strada nell'aria. Non vide altro, perché la sua visiera fu schiacciata da quella visione. Giminiano era atterrato con entrambi i piedi sul suo elmo, spingendolo indietro e schiacciandolo, tirandosi appresso tutto il corpo, sull'albero. Giminiano atterrò leggero sulle foglie, mentre Gattapelata rimase attaccato alla corteccia, fattosi incisione sul legno. Ora il balivo poté sedersi e riposare. L'inseguito non sarebbe andato più da nessuna parte.

Steso sul fogliame riprese fiato e riordinò i pensieri. Anzi, riprese a pensare, perché non aveva avuto il tempo di farlo in tutto quel trambusto. Ce l'aveva fatta. Aveva preso Gattapelata. Contro tutte le condizioni a sfavore ci era riuscito. Guardò il cielo. Cominciavano a profilarsi i primi fulmini e i tuoni giungevano, seppur distanti. L'aria si andava facendo sempre più fredda e gli uccelli volavano basso. Non gli importava poi tanto, con quanto aveva sudato, un po' di fresco gli faceva bene. Una folata gli passò fra i riccioli biondi. Erano polverosi, pieni di rami, foglie e spettinati. Aveva l'orlo dei vestiti tutto stracciato per i capitomboli che aveva subito e in più parti, brandelli dei vestiti, erano stati strappati via, lasciando intravedere la sua pelle depilata e chiara. Il viso aveva smesso di sanguinare, ma il labbro spaccato e il sopracciglio tagliato bruciavano ancora. Si slacciò la cintura e si alzò le vesti per guardarsi il fianco, tanto martoriato in quello scontro. Era rosso e viola, un po' sfregato per tutti quei calci e gomitate, senza contare le varie cadute. Provò ad alzarsi, ma il fianco non glielo permise, gli pareva che il rene stesse per scoppiargli, strinse i denti, strizzò gli occhi e tornò a sedere. Si strinse le ginocchia al petto e appoggiò il mento sulle braccia chiuse intorno alle gambe, in posizione tipica del feto. Appena fatto ebbe un colpo di sonno. Betelgeuse gli si avvicinò per annusarlo e, notando il suo fischio tipico di quando dormiva, ovvero il pizzicare di un'arpa, decise di coricarglisi accanto. D'istinto, Giminiano, gli si coricò sul ventre caldo e morbido. Restarono così a lungo.

Ebbe sogni strani confusi, di lotte e dolori incomprensibili. Vedeva i visi ghignanti del Gatapelata, di Giorgione e suo padre, l'unico che non rideva affatto, ma che scuoteva il capo deluso. I calci e i pugni continuavano, sempre più spacca budella che, seppur fatti di pensiero, lo fecero svegliare di soprassalto. Erano scoccate le sette e il campanile le batteva alacramente, in lontanaza. Aveva dormito meno di un'ora e gli era parsa un'eternità. Aveva il viso tutto sudato e si alzò con aria sgomenta dagli incubi. Betelgeuse alzò il capo preoccupato dal suo atteggiamento. Lui non aveva mai dormito, era solo rimasto steso a terra a vegliare su di lui.

D'istinto, Giminiano, si mise in piedi, affondando le mani nel fogliame a terra scricchiolante. Il fianco aveva smesso di tormentarlo, se non del tutto, abbastanza per alzarsi. Il suo primo pensiero fu diretto al cavaliere. Era ancora lì, non era scappato durante il suo sonno, grazie a dio. Aveva smesso di abbellire la corteccia ed era cascato in terra, di faccia. L'elmo era un poco deformato. Dopo tutte quelle botte, anche quell'armatura impenetrabile, era stata violata, anche se di poco. La visiera a fenditure verticali era percorsa da sbarre ormai irregolari, piegate all'interno, in una depressione che combaciava con il suo doppio calcio decisivo.

Aveva preso a piovere. Il campanile smise di battere. D'improvviso, l'armatura fu percorsa da un fremito. Giminiano osservò quell'ammasso di placche tremare sempre di più. Gattapelata stava ridendo. Era una risata spaventosa, pazza, gioiosa e che proveniva dall'altro mondo. Giminiano sentì freddo. Si sarebbe avvolto nel mantello, se solo lo avesse avuto ancora. Scattò verso di lui, voleva farlo smettere, lo rigirò, era leggero. L'elmo vibrava a seconda della terribile risata.

"Smettila bastardo!" E gli mollò un pesante pestone a pungo chiuso sulla sommità dell'elmo, dall'alto al basso. Chi si fece più male fu lui a sbattere su quella superficie dura e la risata continuava a imperversare l'aria. Quindi, la sua mossa successiva, fu quella di levargli l'elmo per menarlo a dovere e fargli interrompere quello sghignazzo per knock out tecnico. Gli pose le dita alla base del collo e sollevò l'elmo tanto forte da farglielo saltar via, alle sue spalle. L'orrore lo pervase, quando si trovò davanti il viso sornione, sanguinante, bagnato da secchiate di sudore e un po' frutto di sbornia di...

"Goffredo" Biascicò Giminiano, mollando subito la presa e lasciandolo cadere contro la base dell'albero.

"E chi ti aspettavi?" Chiese e rise di nuovo l'uomo, pervaso dall'ilarità, mostrando il pomo d'Adamo al cielo "Brunilde?"

***

Una figura avvolta in cotta di maglia e cavalcante un ronzino trovò, dopo un giorno e una notte di viaggio, un monastero, alle prime luci dell'alba. Pioveva a dirotto e andavano a formarsi fiumi per le strade e fango nei sentieri e gli zoccoli della bestia bastarda faticarono a tirarsi sù fino al portone, in cima la collina. Arrivata, la figura barbuta, guardò al cielo, la pioggia negli occhi, e lanciò un grido da belva morente.

"Santuario! Santuario!"

Nessuno venne ad aprirgli. Scese dal ronzino, cadde in una pozzanghera fino alla caviglia, scivolò e sbatté il grugno, sbucciandoselo contro il portone di legno sprangato. Con gli occhi che ormai non ci vedevano più per il sangue e la pioggia, gridò ancora più forte, per farsi sentire fino ai cieli e oltre.

"Santuario per la madonna! Santuario ho detto!"

Ecco, cadde in avanti ancora, nel terreno bagnato. Si rimise in ginocchio e alzò gli occhi appannati. Il portone era stato aperto da due figure incappucciate di monaco, vestite di marroncino, che lo guardavano dall'alto in basso.

"Chi sei tu che invochi il nome della vergine invano?" Chiese quello alto e snello.

"E ti sembra invano questo, sacco di patate?"

"Il nostro fratello non ha tutti i torti" disse l'altro, osservando il cielo che continuava a scrosciare. Anche lui era snello, ma basso.

"Piano te" si risentì l'uomo in cotta di maglia "Io di fratello ne ho uno e non ha la tua faccia. Si trova qua dentro, fatemi entrare!"

***

L'abate Gregorio era solo nella sala della copiatura, a riscrivere a mano un testo di Seneca. Aveva acceso solo un alto candelabro alle sue spalle a tre bracci. Fuori, oltre i vetri e i muri di pietra, ululava ancora la tempesta. Stava rifinendo ora una miniatura, quando si ruppe l'austero silenzio. Si aprì una porticina di legno in fondo alla sala.

"Padre Gregorio" lo chiamò una voce dell'entrata che dava al portico centrale "Un uomo vuole vedervi".

"Gli dica di aspettare".

"Non è possibile. Dice di essere vostro..."

"Fratello!" Esclamò una voce dirompente dal fondo della sala. L'uomo aveva letteralmente scavalcato la testa calva del povero monaco ed era saltato oltre, atterrando con un tonfo sul pavimento rozzamente piastrellato. La mano dell'abate ebbe una contrazione involontaria, che tracciò a penna una striatura con l'inchiostro rosso. Subito si prodigò a versarci sabbia sopra e correggere. Si voltò, con volto sbigottito. La figura del nuovo arrivato era avvolta nell'ombra, ma aveva riconosciuto la voce.

"Tu qui?" Chiese con cenno stranito Gregorio, sollevando le sopracciglia che pareva dovessero volargli via dalla fronte.

Un fulmine illuminò la sala. D'improvviso, davanti all'abate si palesò un orso fatto uomo, dai capelli e barba di fuoco, sopracciglia a gobbe di cammello, fronte prominente e naso largo, avvolto in una cotta di maglia e tunica da fante sgualcita. A decorargli il capo stava una corona di rosmarino e basilico, ormai appassiti.

"Sì, io".

   
 
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