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Autore: AminaMartinelli    15/08/2020    2 recensioni
Una diagnosi che il dr Watson si aspettava, ma che John non riesce ad accettare perché il suo senso di colpa per aver abbandonato Sherlock lo uccide.
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Non la voleva quella diagnosi, non voleva ascoltarla.

Eppure l’aveva già fatta lui, secoli prima, come avrebbe potuto non farla? Le droghe (e lui sapeva quali e quante anche se tante volte aveva fatto finta di non sapere), l’ereditarietà, che altro?

Quanti fattori avevano concorso alla formulazione di quella diagnosi?

Quelle parole che non significavano nulla, non per un paziente come Sherlock, ma che passavano un impietoso colpo di spugna su ogni residuo di positività nel cuore e nella mente del dr Watson.

Disturbo schizo affettivo della personalità.

Non significava niente. Niente era cambiato, rispetto a ciò che John sapeva già, di quello splendido animale di cui si era innamorato al primo sguardo, prima ancora che aprisse bocca per fargli una radiografia impeccabile, una diagnosi, anche lui, in quel primo incontro nel laboratorio del St. Bart’s.

Niente era cambiato nei suoi sentimenti, nei suoi occhi, che continuavano a vederlo come un magico essere di un altro mondo, sceso ora dal Tardis dopo che l’ennesimo Dottore lo aveva incontrato in chissà quale galassia.

E invece no.

Niente più illusioni, niente più fantasie.

L’uomo che si trovava davanti ai suoi occhi, disteso in quel letto di un ospedale psichiatrico, coperto solo da uno di quegli umilianti teli con laccetti che in realtà non coprivano nulla e che non lasciavano spazio, neanche un millimetro di spazio, alla dignità umana, era un paziente psichiatrico in piena crisi psicotica, appena sedato da una dose industriale di antipsicotici, antiepilettici, neurolettici (sempre antipsicotici, ma con più classe).

Un paziente che era il suo Sherlock. Il suo amato, idolatrato, Sherlock. L’uomo senza cui non poteva più vivere. L’uomo che non era più neanche un uomo, a sentire gli specialisti del reparto.

Non avrebbe più potuto andare avanti senza il cocktail di farmaci che gli stavano già somministrando, con la previsione di aumentare il dosaggio. Ma con quel veleno salvavita che gli scorreva nelle vene, quello non era più altro che un corpo inerte, una mente bloccata, un’anima spenta.

Quando era successo lui, il dr John Watson, “very good” come si era lui stesso definito alla domanda di Sherlock “A good one?” il giorno dopo essersi conosciuti, lui non c’era.

Non aveva quindi potuto difenderlo in nessun modo. Non era potuto intervenire per far capire ai paramedici che “quello”…quello che loro stavano bloccando, sedando, rendendo innocuo, era la mente più brillante del pianeta Terra dopo Leonardo da Vinci…

“ma solo perché Da Vinci è già morto”, gli aveva detto Sherlock una volta, mentre lui lo stringeva forte e delicato tra le braccia, per dargli il tempo di riprendersi, di tornare alla realtà, di capire che andava tutto bene, dopo che entrambi avevano perso la ragione, uno nell’altro, mentre John gli sussurrava quanto lo amasse e Sherlock continuava a chiedergli “Perché”.

Non c’era un perché. Non c’era mai stato. Non ce n’era bisogno.

E adesso? Adesso avrebbe dovuto spiegare agli specialisti e al primario che se ne sarebbe preso cura lui (e cosa cambiava?), che si sarebbe preso lui la responsabilità di somministrargli ogni singolo farmaco, nei tempi e nei dosaggi stabiliti, che lo avrebbe accudito, curato e portato regolarmente ai controlli.

Per la prima volta nella sua vita stava sentendo la mancanza di Mycroft.

Sarebbe bastato un suo alzare il sopracciglio perché tutti, TUTTI, la smettessero di trattare Sherlock come un pazzo pericoloso e lui, John, come un povero illuso innamorato.

Mycroft forse non l’avrebbe fatto subito, e certo non lo avrebbe fatto per John.

Ma lo avrebbe fatto.

Perché per Mycroft niente e nessuno era più importante del suo piccolo Sherlock.

Non lo avrebbe mai ammesso. Ma John lo sapeva bene.

Ma Mycroft non c’era.

Era chissà dove, irraggiungibile, immerso in una missione sotto copertura dopo secoli.

Tempismo perfetto.

E, del resto, non ci si sarebbe dovuto aspettare nulla di diverso dai due fratelli Holmes. L’ennesima sfida. L’ennesima faida infantile, che però ora assumeva toni adulti e pericolosi.

Uscirono dalla clinica in ambulanza. Ma non si diressero a Baker Street, né al vecchio appartamento di John. Troppe facce conosciute. Troppa gente che non aspettava altro che di vedere il mito cadere ancora una volta, una volta per tutte.

John chiese di essere lasciati in una via a cui nessuno avrebbe pensato: l’appartamento in cui Greg aveva vissuto dopo il divorzio, prima di trasferirsi da Myc.

Da lì avrebbero preso l’auto di Mike, generosamente messa a disposizione senza chiedere spiegazioni, e si sarebbero diretti alla loro destinazione finale.

Dove “finale” assumeva, involontariamente, un suo macabro significato.

Il cottage di famiglia, dopo la morte di Sieger, era rimasto disabitato, perché Violet aveva raggiunto sua sorella a Dover.

Sarebbe stato il rifugio perfetto.

Nessuno ne conosceva l’esistenza, nemmeno Mrs Hudson. Ma John lo ricordava bene, anche se ogni ricordo era una potente stilettata che gli faceva pensare che se allora non fosse stato tanto stupido ora forse non sarebbero stati in quelle condizioni.

Forse.

Perché con Sherlock non c’erano certezze. C’erano solo degli enormi, pesantissimi “forse”.

Varcata la soglia, con il corpo di Sherlock abbandonato contro il proprio, un fragile gigante contro un granitico Hobbit, Sherlock respirava a fatica ma riusciva a mettere un piede avanti l’altro e si lasciava guidare, disperatamente docile, dovunque quelle braccia forti e amorevoli che lo sorreggevano lo avrebbero condotto.

Anche all’inferno.

Ma no. Lì no.

Perché Sherlock, sotto la pesante coltre dei farmaci, faceva brillare ancora qualche sinapsi e, lo sapeva bene, all’inferno ci si trovava già da giorni (mesi?), ed erano state proprio quelle braccia a fargli muovere i primi passi per uscirne.

John lo condusse al piano di sopra, lo fece stendere sul letto e andò nel bagno a far riempire la vasca di acqua a temperatura corporea, versandoci dentro più di qualche goccia del bagnoschiuma preferito di Sherlock.

In quella devastante circostanza la sua mente torturata riusciva solo a racimolare spiccioli di memorie, fra cui le sacre raccomandazioni della nonna, secondo cui un bel bagno con tanta schiuma poteva risolvere situazioni disperate.

Mentre preparava il tutto, faceva avanti e indietro dal bagno alla camera, per non perdere mai d’occhio il suo assistito.

Ma quello giaceva nella stessa posizione in cui era stato adagiato, senza aver mosso un muscolo, forse senza aver neppure mai battuto le palpebre.

Era così orribile vederlo in quello stato.

John avrebbe fatto a cambio con lui immediatamente, senza indugi.

Niente, che potesse succedergli, avrebbe mai potuto farlo soffrire quanto vedere l’uomo della sua vita ridotto così, senza poter fare alcunché per aiutarlo ad uscirne.

La sensazione di impotenza era annichilente, il dolore nel petto era un fuoco che scavava caverne senza fondo.

Lo prese con delicatezza per i fianchi e lo fece alzare dal letto. Poi lo fece immergere nella vasca preparata per lui e si inginocchiò lì accanto.

Chissà cosa si aspettava.

Il pensiero magico dei rimedi infallibili di sua nonna e soprattutto il desiderio straziante di poter cancellare in un istante tutta la sofferenza, avevano obnubilato la sua mente pragmatica e razionale, dandogli in pasto una scena da finale di fiaba, in cui la Bella Addormentata si risveglia alle cure amorevoli del suo principe.

Si diede dell’idiota e ricacciò indietro le inutili lacrime che minacciavano di sgorgare senza permesso dai suoi occhi stanchi.

Mentre Sherlock giaceva nella vasca, inerte esattamente come sul letto, John prese a lavarlo con lentezza, con tocchi leggeri e mai indiscreti, come si lava un bambino.

L’unico, vistoso, cambiamento fu la resa delle palpebre di Sherlock che si socchiusero dopo alcuni minuti, segno, forse, di un principio di relax oppure solo dell’arrendersi ad una stanchezza mortale.

Alla fine lo riportò, pulito ed asciugato alla perfezione, nella camera.

Gli fece indossare il pigiama e lo fece accomodare nel letto, rimboccandogli le coperte. Spense la luce sul comodino. Si aspettava una qualsiasi reazione. Non ce ne furono.

Andò nella stanza degli ospiti. Si distese a faccia in giù sul letto senza scoprirlo e senza spogliarsi e pianse tutte le sue lacrime.

La mattina successiva era pronto per la sua nuova vita. Avrebbe preparato la colazione. Avrebbe svegliato Sherlock. Lo avrebbe aiutato a mangiare qualcosa, così da potergli dare i farmaci della mattina.

Lo avrebbe portato a lavarsi e vestirsi e poi…e poi…no, non sapeva cosa avrebbe fatto poi. Ci avrebbe pensato al momento.

La routine impostata da John era impeccabile.

Ogni giorno faceva tutto ciò che c’era da fare per Sherlock e ogni notte dava sfogo al suo dolore senza fine concedendosi l’amaro sollievo di lacrime brucianti e singhiozzi silenziosi.

Al primo controllo in clinica gli fecero i complimenti: non avrebbero scommesso mezza sterlina sulla possibilità di gestire quel paziente fuori dalla clinica.

Mentalmente il dr Watson elencò le decine di modi diversi in cui avrebbe potuto porre fine alle inutili esistenze di quegli pseudo dottori, infliggendo loro la maggior sofferenza possibile.

Ma a voce li ringraziò per i complimenti e riportò due corpi senza vita, il suo e quello di Sherlock, al cottage.

Per mesi la perfetta routine non subì modifiche di sorta, a parte i cambiamenti di dosaggi che i luminari della clinica suggerivano.

Ogni controllo si svolgeva tranquillo e sempre uguale. Ogni ritorno al cottage si prospettava pieno di Sherlock di giorno e conteso fra lacrime e incubi di notte.

Le cose andavano tanto “bene” che un pomeriggio John si azzardò a lasciare Sherlock da solo, per raggiungere il villaggio e fare scorte di alimenti e generi di prima necessità.

Gli sarebbe bastata un’ora e il suo paziente stava dormendo (faceva poco altro), quindi si sentiva tranquillo.

Scese dalla macchina (odiava guidare e non aveva mai guidato quando viveva a Baker Street…e neanche dopo, lui sopportava solo andare in bicicletta, ma la necessità di sbrigarsi a tornare da Sherlock gli aveva fatto modificare anche questo), prese le buste dal sedile posteriore e si incamminò lungo il vialetto verso la porta scura del cottage che, a dispetto della tristezza, sfoggiava la tradizionale ghirlanda natalizia di famiglia, visto che ormai il Natale era all’orizzonte.

Prima di infilare la chiave nella serratura qualcosa bloccò John, paralizzando ogni suo muscolo.

Qualcosa che lì per lì il suo cervello non riuscì nemmeno a decodificare, ma che le sue orecchie percepirono benissimo.

Il suono intermittente di un violino proveniva dal cottage.

Sembravano gli stentati esercizi di un bimbo alle prime armi.

Sembrava che qualche folletto impietoso si stesse prendendo gioco di lui, come se non stesse soffrendo abbastanza, come se il suo cuore non fosse ormai in briciole, frantumato come una vecchia porcellana.

Ma non c’erano altre spiegazioni, l’unico scenario possibile era quello che gli si parò davanti e che per poco non gli procurò un infarto: Sherlock Holmes, il paziente psichiatrico, lo schizoide senza appello, teneva in mano il suo amato Stradivari e con l’archetto rincorreva memorie frammentarie e suoni che riverberavano sotto la sua pelle, nelle sue vene, dentro ogni singola fibra muscolare, attraverso ogni cellula del suo corpo.

Spezzoni di una vita lontana come un altro universo, ma così suoi, così veri, da non aver bisogno del permesso del cervello, dei farmaci, né tantomeno degli eminenti psichiatri della Sloane Court Clinic, per venire alla luce e prendere vita, sovvertendo ogni regola, stravolgendo ogni routine.

Il dr Watson, dopo aver lasciato cadere le buste della spesa sulla soglia, entrò con cautela, silenzioso come un gatto, lui che era sempre stato il proverbiale elefante in una cristalleria.

Scostò la porta premurandosi di non farla cigolare e si trovò davanti lo spettacolo più incredibile e commovente che avesse mai visto, pur essendo la scena più comune nei suoi ricordi: Sherlock che suonava il violino.

Ma questo Sherlock aveva cinque anni e un broncio adorabile sul viso, una postura che ne denunciava lo sforzo fisico e una tecnica che tentava disperatamente di riaffiorare tra i meandri di un labirinto fatto di neuroni stanchi e farmaci potentissimi.

Non trattenne le lacrime, il dr Watson. Si precipitò verso quella meravigliosa visione e gli sorrise meglio che poté.

Sherlock si voltò verso di lui e sussurrò:

“Non sono più capace…”

John gli prese delicatamente il viso tra le mani e unì le loro fronti:

“Non è vero, amore mio, hai solo bisogno di tempo”

Sherlock abbassò il violino e incatenò i suoi occhi in tempesta, ancora appannati e confusi, a quelli di John.

“Tu – iniziò, poi non sembrava saper continuare – io…”

John ritrovò dentro di sé la forza di sorridere come faceva un tempo e gli sussurrò:

“Noi. Noi, Sherlock. Come sempre e per sempre. Qualunque cosa tu voglia fare, qualunque inferno dovremo attraversare. Saremo “noi”. Insieme.”

Un lampo di consapevolezza illuminò lo sguardo di Sherlock e l’ombra di un sorriso sfiorò il suo volto.

“J-John...uno di noi due è pazzo…”

John gli scostò un ricciolo dalla fronte, con apparente leggerezza, e sentenziò:

“Tutti e due, Generale, tutti e due!”(*)

(*) parafrasando un aneddoto-barzelletta in cui un soldato di Napoleone aveva imparato a memoria tre risposte alle domande standard che Napoleone faceva passando in rivista le reclute.

La terza domanda era, di solito, “ti piace di più il rancio o la divisa?” e la recluta doveva rispondere “tutti e due!”.

Quella volta Napoleone cambiò le prime due domande, così le risposte del soldato sembravano folli.

Quindi Napoleone disse “qui uno di noi due è pazzo” e il Soldato senza esitazione rispose “tutti e due, Generale, tutti e due!”
   
 
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