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Autore: Tindomiel    17/08/2020    0 recensioni
[Arturo Pérez-Reverte]
[Arturo Pérez-Reverte] [Il maestro di scherma]
Che cosa pensava Jaime Astarloa, impeccabile maestro di scherma, una volta risolto l'enigma che aveva portato alla morte di tanti suoi amici?
Quali pensieri si affastellavano nella mente del vecchio maestro mentre la sua mente ripercorreva i movimenti che, succedutisi con meccanica perfezione, gli avevano svelato il segreto della Stoccata Perfetta, il suo Graal inseguito per tutta la vita e che lo avrebbe consegnato all'olimpo della sua arte?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi guardai attorno non appena l’alba inondò la stanza, dopo essere entrata, serpeggiando con discrezione dalle persiane.
La luce spezzò l’incanto, sorprendendomi sull’orlo di un sogno.
La crepuscolare tragicità di quella notte si dissolse, lasciando il posto al tumulto, volgare, moderno e progressista che dilagava per le strade di Madrid.
Isabella II infine andava in esilio.
Prim era arrivato.
Sorrisi, uscendo dallo stato onirico in cui ero piombato nel momento in cui, con certezza fulminante e matematica, la certezza che deriva dall'esperienza dei miei vecchi muscoli più che dai miei nervi, messi a dura prova dagli ultimi avvenimenti.
Avevo trovato la stoccata.
La stoccata perfetta.
Lucien de Montespan sarebbe stato fiero di me.

“La stoccata perfetta non esiste. Ogni colpo che raggiunge il proprio scopo è perfetto.”

Così il maestro dei maestri liquidava la questione ogni qual volta qualcuno gliela poneva.
Scossi appena il capo, poi mi attorcigliai un baffo in un gesto di modesto orgoglio e mimai un accennato inchino al mio riflesso, moltiplicato dagli specchi scheggiati della sala di scherma.
Touché.
Ero giunto alla fine della mia ricerca.
Avevo trovato il mio “Graal”, come il marchese de los Alumbres soleva chiamare la stoccata a caccia della quale ero andato per più trent’anni.
Sentii un sorriso malinconico sfiorare i miei occhi.
Peccato che Luis de Ayala non avrebbe potuto leggere il trattato di scherma che, dopo quella scoperta, ormai poteva darsi per concluso.
Gli sarebbe piaciuto, pensai.
Il marchese amava sopra ogni cosa la scherma, dello stesso amore appassionato che nutriva verso i cavalli di razza e le donne.
Immaginai il suo volto quando avesse appreso la notizia, come si sarebbe arricciato il baffo impomatato, sollevando il labbro inferiore in quel sorriso che aveva un ché della smorfia sorniona e beffarda che dedicava solo ai suoi amici più intimi.

“Ve lo avevo detto, don Jaime.” immaginai di sentirlo dire, con il tono di un bonario rimprovero, “Voi siete sempre stato il solo in grado di portare a termine una così ardua impresa. E vi siete riuscito. Congratulazioni, maestro.”

Maestro.

Malgrado il marchese fosse stato, fino a qualche tempo prima, uno dei migliori spadaccini della corte, e probabilmente di Spagna, amava chiamarmi “maestro”, benché di certo non necessitasse delle mie lezioni.
Mi rividi nella sala d’armi della sua residenza di Villaflores, a brindare al successo del mio trattato con un bicchiere di jerez e, benché non fossi un bevitore, andai in soggiorno, senza curarmi ancora della ferita che avevo riportato sul costato, e me ne versai un bicchierino.

“Alla vostra salute, don Jaime.” immaginai di sentir dire al marchese.

“E alla vostra, Eccellenza.” mi sentii rispondere.

Tuttavia, quella mattina non potei dire nulla e levai il bicchierino in un brindisi solitario, che dedicai alla mia stoccata non meno che alla memoria dei morti.
A Luis de Ayala, Agapito Carceles ….
E anche a lei.
L’assassina che giaceva, riversa sulle assi della sala, e il suo sangue impregnava le frange del tappeto, rilucendo di tenui riflessi rossastri sotto i raggi incerti del mattino.
Rividi nella mia mente il momento in cui l’avevo vista per la prima volta, nel salone della sua casa in calle de Riaño.
Già allora mi aveva sconcertato.
“Era molto bella.” sussurrai, ricordando le parole, rotte e commosse, che avevo sussurrato al commissario Campillo quando ancora credevo che il cadavere martoriato, ripescato dalle acque limacciose del Manzanares, fosse quello della stessa Adela de Otero che ora giaceva riversa sul pavimento della mia casa, e non quello della povera innocente che lei aveva sacrificato con terribile freddezza alla sua devozione verso quel suo infame protettore, il banchiere Bruno Cazorla Longo.
Lo sguardo mi si velò di malinconia.
Lo sdegno mi aveva privato dello struggente amore che avevo provato per quella donna, e ora che anch’esso si era spento nel compimento di quella vendetta che dovevo a tutte le morti da lei causate, provavo solo la tranquilla, lucida fierezza più che legittima, di un uomo che, pur giunto al crepuscolo dei suoi giorni, riesce a trovare infine ciò alla cui ricerca ha dedicato la vita intera.
E animato dallo stesso sentimento mi affacciai alla finestra, tenendo ancora in mano il bicchierino di jerez .

Voi dopo tutto non avete mai difeso il progresso , mi aveva detto il marchese de los Alumbres mentre passeggiavamo in un giardino, sfiniti dalla calura estiva.

Annuii al ricordo.
Non avrei più avuto bisogno di lottare per rimanere a galla nei tempi che sarebbero arrivati. Finalmente potevo permettermi di sedere alla finestra e osservare lo scorrere del tempo.
Il mondo in continuo fermento non influiva più su di me.
Avevo trovato il mio Graal.
Mi ero consegnato alla Storia.
   
 
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