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Autore: Shiki Ryougi    18/08/2020    1 recensioni
Devi sapere che è un mese che non esco dalla mia camera e qui fa freddo. Un freddo che sento dentro, nell’anima. Cerco di scaldarmi sotto le coperte e anche se fuori c’è il sole, esso non appartiene più a questo mondo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Introspezione egocentrica'
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Caro Eli,
sono qui a scriverti questa ennesima lettera perché non ho nessuno con cui parlare davvero, qualcuno che sappia ascoltarmi senza giudicare e sovrastarmi. Ci sei e basta, mi abbracci da lontano e io posso sentirti, posso percepire il tuo calore. Sei un faro nella notte che adesso si addensa davanti ai nostri occhi. Bloccata in casa, non posso fare altro che riflettere sul futuro, ma non solo. Credo che dovrei pensare anche a molto altro, ma ho paura. Ho realmente una paura enorme che forse riesci a stento a immaginare. Dopotutto tu vivi lontano da qui, in un posto dove la pandemia non esiste e nemmeno la crisi climatica. Sei di un altro pianeta ma sei il mio migliore amico e tramite queste parole indelebili posso rivelarti ogni mio piccolo segreto. Da diverso tempo ti scrivo queste lettere e da quando è iniziata la quarantena la nostra corrispondenza si è fatta più assidua. Sei silenzioso, sei paziente, sei la mia ancora. Senza di te mi sarei già persa nel mare di pensieri che affollano la mia mente complessa.
Questo perché mi ossessiono, cammino compulsivamente e piango lacrime asciutte dato che in realtà non riesco a far uscire che un lamento, singolo e pietoso. Non so più come sfogare questo dolore; per ogni morte, per ogni futuro spezzato. L’emergenza è lontana da me perché il mondo sembra essersi fermato, lo scorrere del tempo si è dilatato e come diapositive, mandate a rallentatore, va avanti e indietro con un ripetersi infinito di scene strazianti o vuote, che però mi appaiono lontane e indistinte.
Devi sapere che è un mese che non esco dalla mia camera e qui fa freddo. Un freddo che sento dentro, nell’anima. Cerco di scaldarmi sotto le coperte e anche se fuori c’è il sole, esso non appartiene più a questo mondo. Non posso goderne, non posso passeggiare anche se le mie diagnosi di autismo mi permetterebbero di fare dei brevi giri per il quartiere. Questo perché ho paura. Non del virus – anche di quello, quel demone che sta cancellando tantissime vite – ma delle persone. Si stanno trasformando: cantano e suonano sui balconi, appendendo colorati fogli di speranza, ma dentro nutrono un’oscurità che affligge ognuno di noi, me compresa. La paura la genera, il desiderio di dare la colpa a qualcuno, il cercare un capro espiatorio. Come predatori osservano chi esce in attesa della preda perfetta da denunciare. Anche se non fai niente di male, anche se esci per necessità mediche o alimentari, loro ti guardano con occhio torvo, in cerca di quella imperfezione per metterti il cappio sul collo.
La pandemia ha trasformato le persone, rendendo il futuro incerto e questo ci fa traballare, come ballerini su di un terreno poco stabile.
Sono una danzatrice in mezzo alle mosche, sono un automa in mezzo alla melma. Sono persa, qui nella mia camera, al buio.
Sopravvivo e a volte rido perché non so più piangere ma sento il cuore spezzarsi a ogni verso emesso dalla bocca aperta in una smorfia. Gli occhi socchiusi, rivolti al pavimento.
Vorrei arrendermi a tutto ciò: all’odio, alla paura e al desiderio di morte. Scomparire mentre il mondo resta immobile, in attesa di tempi migliori.
In qualche parte dell’etere, a me distante, vi sono persone che lottano e salvano vite. Martiri di questa guerra. Io resto invece al sicuro ma imprigionata.
Amen, così sia allora.
Non chiedermi a cosa sto pensando adesso perché non saprei risponderti. Sono solo annientata e scriverti tutto ciò mi spezza il cuore.
Dovrei essere forte, dovrei raccontarti che va tutto bene. Ma è davvero così? Forse la mia malattia non mi permette di vedere al di là della nebbia. La paura è forte e il dolore mi annienta.
Però sorrido mentre metto nero su bianco queste parole, perché so che tu leggerai senza giudicare e capirai. Mi starai accanto, piangerai al posto mio e mi terrai stretta.
Cerco il tuo cuore.
So che me lo darai, lo hai sempre fatto, e io me ne prenderò cura.
Dovrei però lasciarti un messaggio di speranza, un sorriso sincero e un groviglio di buoni propositi. Quello che davvero posso fare è aspettare, restando a casa, in silenzio. Non perché non abbia nulla da dire: io potrei urlare al mondo intero fiumi e fiumi di parole. Semplicemente però preferisco dire tutto solo a te.
Ti starai chiedendo come faccio con l’università e cosa dicano i miei genitori. Andiamo con ordine.
Con l’università ho deciso di non seguire nessuna lezione online, questo perché con le poche forze che ho voglio concentrarmi a preparare due esami, uno dei quali molto tosto. Una tutor, la quale mi è stata assegnata all’inizio dell’anno accademico, mi sta ora aiutato tramite skype. Facciamo un po’ di fatica ma i nostri incontri proseguono bene, nonostante le difficoltà che non ci sarebbero se potessimo incontrarci davvero, come facevamo in facoltà lo scorso autunno.
L’inverno appena passato, come già sai, è stato duro per me. Un vero periodo difficile in cui avevo in mente di arrendermi, di mollare ogni cosa, tra cui l’università. Quindi mi sono presa una pausa e a febbraio inoltrato ho deciso di tornare in facoltà per ricominciare a studiare ma poi… eh, poi è arrivato il virus e io sono precipitata di nuovo nel buio della mia camera, sotto le coperte.
Cosa diranno mai i miei genitori? Che finché studio almeno per loro va tutto ok.
Non riescono a entrare nel mio mondo. Non sfiorano nemmeno l’idea di ciò che mi passa per la mente. Sono distanti, sono alienati, sono presi dai loro problemi. Sono fantocci. E tu penserai che sono cose brutte da dire ma posso subito risponderti: io sto solo dicendo la verità.
Il mio ragazzo è subito venuto da me quando è scattato il lockdown. Rimasto qui a sostenermi, insieme a te, è una delle pochissime persone che davvero mi aiutano. Senza non so cosa avrei fatto. Sarei sprofondata.
Le giornate trascorrono tutte uguali: mi alzo, cerco di prendermi cura di me stessa, provo a fare un po’ di sport, leggero, giusto per tenermi allenata (come già sai, prima della pandemia praticavo karate; oh, quanto mi manca…), mangio la mia colazione, mi svago tra lettura, videogiochi e film, infine provo a essere una cittadina responsabile e studio. Concludo in serata con il completo relax, oppure mi faccio prendere da qualche ispirazione improvvisa e mi metto a disegnare o scrivere.
Forse penserai che è una routine misera, ma almeno è già qualcosa se riesco a fare tutte queste cose.
Semplicemente in alcuni giorni collasso nelle mie ossessioni, nel vano tentativo di sfogare l’ansia e la paura che mi invade. Prendo questi momenti così come vengono, li affronto come meglio posso, poi proseguo al mattino successivo.
Le nottate sono a volte insonni o scosse dagli incubi – recupero il sonno perso durante il giorno.
Sì, è difficile caro Eli, nonostante io sia tra le persone agiate, quelle fortunate. Dovrei ringraziare ogni giorno qualcuno che ci guarda da lassù perché deve esserci per forza. Ma non credo che sia onnipotente, ma questa è un’altra storia.
 
La tua cara Cecilia
 
 
Questa è una vera pagina di diario che ho romanzato. Fingo di scrivere una lettera a un amico immaginario, che abita in un altro mondo.
E' stato selezionato nel concorso Cronache della quarantena.


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Proprietà di Cecilia Maria Cimmino.
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