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Autore: shilyss    21/08/2020    23 recensioni
Fable! AU Barbablù
Dal cap. 5: La notte, quando lui e Thor erano bambini, lei si sedeva tra i loro letti raccontando le storie degli dèi del Nord, condannati da una profezia oscura a morire dopo un inverno fatto di sette lunghi inverni che si erano avvicendati l’uno all’altro, facendo sprofondare il mondo nel caos e nel terrore.
Londra, 1857.
L'oscurità ha una sfumatura color smeraldo. L'inganno ha il sapore di una pozione. La morte è un urlo raccolto dal buio. Loki sa che il suo piano è perfetto, come l'abito che Sigyn non dovrebbe sfoggiare.
Lo pagherò anche io, il prezzo. Avrebbe desiderato dirglielo svelando quanto costasse quell’inganno e ricordarle come l’unica certezza stesse nella formula che gli era servita per tingere la stoffa di un colore vivo e vibrante. Tutto il resto, erano vaghe pratiche apprese nel corso dei viaggi troppo lunghi che aveva passato alle estremità del mondo, mentre suo fratello ereditava la tenuta e il titolo, com’era nell’ordine delle cose che fosse.
Genere: Angst, Dark, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Heimdall, Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Lime, Soulmate!AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 7

La pietra vichinga

 

 

There's no saving anything

Now we're swallowing the shine of the sun

There's no saving anything

How we swallow the sun

But I won't be no runaway

'Cause I won't run

No, I won't be no runaway

(The National, Runaways)

 

 

“Credi che siano stati gli dèi di Asgard a salvare il conte?” La carrozza si sarebbe fermata di lì a pochi minuti. Se ci fosse stato il sole, dai finestrini avrebbero già potuto scorgere l’ombra delle lapidi che circondavano la chiesetta dalla guglia stretta, dove li attendeva il sacerdote. Loki teneva la fronte poggiata contro il vetro freddo.

“Pensi che il dio dell’inganno abbia regalato alla strega una pozione o suggerito un’erba capace di riportare il suo amante in vita?” insistette Sigyn.

Era pallida e bellissima. Cercava di mantenere un contegno aristocratico, ma i suoi occhi grigi lo fissavano spaventati e lucenti. L’alchimista le prese la mano inanellata, sfiorando la bella pietra chiara e il dorso liscio e morbido.

“Forse. Ma ora gli dèi di Asgard sono morti, Sigyn. Il Ragnarok li ha spazzati via, cancellati. Il dio delle forche è stato sbranato dal lupo Fenrir, quello del tuono è stato ucciso dal serpente che avvolge il mondo. Il dio dell’inganno è morto uccidendo il guardiano degli dèi. Asgard è bruciata,” disse, senza alcuna emozione nella voce appena svagata. “Forse erano già morti quando la strega li ha pregati,” spiegò. “O, forse, se ne sono andati perché nessuno credeva più in loro,” sorrise mestamente. “Deve aver usato un’erba o una pozione,” concluse ad alta voce, cambiando tono. Si concentrò sul proprio respiro, sforzandosi di mantenerlo lento e regolare, di imbrigliare il presentimento che gli mordeva i sensi. Era una notte fatale e Laufey gli aveva giurato di seppellirlo vivo, se solo l’avesse tradito. Lui, con le labbra che sapevano di rum, si era limitato e ridere e ad annuire, ma quella minaccia gli si era ficcata nelle ossa, raggelandolo, come se evocasse ben più di un avvertimento. Il suo mentore non parlava mai a vuoto. Le sue frasi erano secche sentenze, ponderate con voce cattiva. Gli aveva promesso una morte orribile e gliel’avrebbe data. A patto che.

“Tu vuoi salvarmi, ma non sai se salverai te stesso,” sibilò Sigyn.

“Ci troverà. E non ha niente, niente da perdere,” ammise l’alchimista lentamente. La carrozza si fermò. “Per qualche giorno sono riuscito ad allontanare i suoi sospetti, ma per liberarmi devo ucciderlo.”

 

Se non l’avesse sposata e Laufey non fosse esistito, o se, pure morendo, l’avesse trascinato con sé nell’Oltretomba, lei, ripudiata dalla famiglia, sarebbe finita in una di quelle stanzette dei sobborghi che si affittavano già ammobiliate per pochi soldi. L’innata eleganza con cui l’aveva vista muoversi nei salotti della Londra aristocratica sarebbe stata sprecata su un marciapiede male illuminato da un lampione a gas; il suo viso delicato, con le labbra morbide e rosate e il naso dalla punta diritta e stretta, leggermente all’insù, si sarebbe sciupato per il cibo pessimo e scarso, per il belletto troppo vistoso. L’avrebbero avuta altri – tutti quelli in grado di pagarla, almeno. E le viscere gli si contrassero dalla gelosia e da un dolore fisico e acuto, al pensiero che fosse di estranei disgustosi e non più sua – che diventasse preda di clienti rapaci, sola, morendo, infine, tisica e infelice chissà dove. Laufey era un rischio calcolato e necessario, uno che doveva correre per dare un senso ai compromessi cui si era piegato, per rendere meno ignobile l’inganno perpetrato a danno di lei. Non gli interessava affatto espiare le proprie azioni, perché erano il frutto studiato della sete bruciante di conoscere e di sapere. E Sigyn non poteva più indossare l’abito di raso verde, ma sarebbe diventata sua moglie con un vestito chiaro, color avorio, con i bordi dorati. Prima di aiutarla a scendere, la strinse a sé per baciarle le labbra e non farle dire quant’era tragico il destino di quegli dèi che sapevano di non essere immortali per davvero, condannati dalla Voluspa a conoscere il modo in cui sarebbero morti. Erano stati in grado di riportare in vita il conte, suggerendo alla strega la pozione o l’incanto giusto da utilizzare, ma non avevano saputo o voluto salvare se stessi. E poi, anche quei due amanti lontani erano morti e, per qualche ragione che né l’alchimista né la ragazza conoscevano, non riposavano insieme, nello stesso tumulo. Lei era tornata nella sua terra aspra e selvaggia, bagnata dai fiordi, lui dimorava sotto il pavimento di pietra di una chiesa normanna. C’era qualcosa di terribilmente ingiusto e crudele nel destino della coppia antica, caduta nel sonno eterno in luoghi e tempi diversi. Loki si chiese se, in qualche modo, dando a Sigyn la gemma che teneva al collo, stava affondando in una maledizione di cui non conosceva i termini o le parole, stesse invischiandosi in una storia di altri, iniziata per ragioni diverse, ormai dimenticate.

E le labbra di Sigyn erano dolci e salate, bagnate di lacrime silenziose di cui non si era accorto: lo amava e non avrebbe dovuto farlo, così come lui non sarebbe dovuto cadere preda di un desiderio che lo aveva infiammato e inebriato finché non era stata sua completamente, totalmente. Ripensò con un brivido alla sera in cui l’aveva avuta e a quelle prima ancora, in cui le sue dita l’avevano accarezzata sotto la seta e il raso e il velluto, insinuandole nella mente che la voleva, fissandola con sguardi rapaci, baciandola come se da quella bocca dipendesse la sua vita, il suo respiro, il battito che martellava nel suo petto. Laufey l’avrebbe seppellito vivo, sì, vendicandosi per un tradimento più doloroso di una picca conficcata nella schiena, ma gliel’aveva portata via e, insieme a lei, sarebbe riuscito a sottrargli anche il segreto che circondava come un velo la morte.

Gli dèi di Asgard, che forse lo conoscevano, avevano scelto di non salvarsi, però. Con fierezza o stolidità, si erano convinti che era meglio accettare il Ragnarok che impedirlo, consci non solo del come sarebbero morti, ma anche per mano di chi. Perché?

Sigyn sollevò la gonna per non macchiare l’orlo e lo seguì sotto la pioggia, verso la chiesa dal tetto appuntito.

 

 

Il duca d’Asgardshire non uscì dalla casa di lord Vanir con il cuore leggero. Aveva stipulato a favore della futura cognata e dei suoi figli una vantaggiosa assicurazione e, seguendo il desiderio di suo padre e dei suoi antenati tutti, era riuscito a proteggere il buon nome della famiglia Odinson, ma sulla soglia era stato raggiunto da un messaggio che gli aveva gelato il sangue nelle vene. Uno dei suoi servitori più anziani era riuscito a rintracciare la casa dove si nascondevano suo fratello e Sigyn, avvertendolo di aver visto i due amanti salire su una carrozza. Stavano andando a sposarsi da qualche parte, da soli, di notte, per tornare in società solamente con un certificato di matrimonio in mano? Era possibile, probabile. Auspicabile, persino, perché Sigyn Vanir non meritava di finire come le donne perdute che circolavano ai margini della società o nei bordelli, rovinate dall’illusione un amore lontano e perduto cui si erano dedicate anima e cuore. Era giovane, bella e intelligente e le spettava un marito altrettanto acuto e brillante. Un Loki al meglio delle sue possibilità, lontano dai ragionamenti oscuri e contorti che gli avvelenavano il petto. Un gentiluomo coltissimo, ricco e sagace, che avrebbe potuto avere una vita felice e agiata, a condizione che. Eppure, il messaggio rapido, che si era ritrovato ad ascoltare sulla porta di una casa divenuta appena meno estranea, lo turbò. Sentì che quella era una notte fatale, in cui il destino della sua famiglia si sarebbe spiegato.

 

 

L’immaginazione è una creatura strana, è un drago che spesso si avvolge nelle sue stesse spire creando mondi possibili, aprendo porte affacciate sulle scelte che non abbiamo fatto. La chiesa era buia, a eccezione di un paio di candele fioche e lontane, che tremavano sotto le raffiche che qualche vecchio infisso lasciava trapelare. Sigyn si tolse il mantello zuppo e tirò indietro una delle sue ciocche chiare, sfuggite all’acconciatura. I suoi passi echeggiarono tetri lungo la navata centrale, accanto a quelli, decisi e marziali, di lord Odinson. Nella penombra, la sua bellezza le sembrò totale, assoluta. Studiò il profilo diritto e virile dell’alchimista, seguendo la linea tagliente del naso ben fatto, la piega che assumevano le labbra sottili segnate da una cicatrice ormai bianca, gli zigomi affilati e alteri. Tutto, nella sua figura, esprimeva forza ed eleganza: camminava come se il mondo gli spettasse di diritto, calpestando il pavimento di pietra con la sicurezza dei condottieri di cui aveva ereditato il sangue. Il prete li attendeva e pareva avere la loro stessa identica fretta.

Sigyn non si chiese se lord Odinson l’avesse pagato o si fosse messo a promettere donazioni e aiuti; si domandò cosa vedesse quel vecchio con le spalle ricurve e gli occhi scuri in loro. Che impressione dessero, di fronte all’altare avvolto nella tenebra. Due amanti fuggiaschi in rotta col mondo, che volevano riparare un torto? Una coppia già formata nella sostanza, che chiedeva di piegare la passione alle regole? Il prete la guardò con insistenza.

“Siete qui di vostra spontanea volontà?” le chiese, e dal modo in cui scandì le parole e dall’incertezza nel suo sguardo, Sigyn capì che il religioso le aveva già posto la stessa domanda e lei non aveva ascoltato.

“Desidero essere sua moglie,” confermò con una voce più solenne e decisa di quanto si aspettasse. Per un momento le sembrò di essere fuori dal tempo e di osservare la scena come se fosse seduta a teatro. Lei non era lì, accanto a Loki, davanti all’altare, ma nel suo palco, chiedendosi se i due innamorati avrebbero coronato il loro sogno. Ascoltò l’alchimista che pronunciava i voti con tono secco e deciso – per lui il rito era una formalità, rappresentava un modo per muoversi più liberamente, visse come in un sogno il momento in cui i loro nomi vennero scritti sul certificato. Lo stava sposando nella tenebra, di nascosto, senza feste né invitati, ma il suo abito era candido e incantevole e non avrebbe desiderato niente di diverso, per sé. Purché ci fosse lui a stringerle le mani fredde, a lambirle con feroce delicatezza le labbra sussurrandole di fidarsi, qualunque cosa fosse avvenuta.

Era ciò che aveva sempre desiderato, del resto. Un matrimonio d’amore, con un uomo capace di farla sussultare solo con uno sguardo, di capirla con un’occhiata[1]. Sagace e insolente nelle discussioni, ma di quell’irriverenza giocosa che si concede agli avversari che si considerano nostri pari. Se ne rese conto mentre il viso ragnesco del prete si addolciva in un’espressione più mite e rilassata, nel momento in cui l’espressione severa dell’alchimista si piegava in un ghigno furbo e, finalmente, soddisfatto.

 Erano marito e moglie. Firmò e, nel farlo, macchiò il foglio. Spaventata, soffiò che era un cattivo presagio. Loki rise e la baciò ancora, rapace, stringendo a sé il suo corpo avvolto nella seta candida, ma non priva di ombre, figlie della notte.

 

Fu quello il momento in cui Laufey scelse di palesarsi, entrando da una porticina laterale. Lo fece seguito da alcuni suoi uomini, avanzando tremante verso la navata. In mano stringeva una pistola. Sparò due colpi senza dire una parola. Il primo mancò il bersaglio, andandosi a conficcare in una delle antiche colonne che risalivano al tempo in cui la chiesa non era ancora tale – forse era stata qualcos’altro, e le sue fondamenta si fondevano con quelle di un tempio di qualche religione perduta e dimenticata. L’altro, invece, andò a segno, anche se non esattamente nel modo in cui Laufey sperava. Era destinato a Sigyn, solo che.

 

Lord Odinson aveva visto il sacerdote impallidire e fissare un punto dietro di lui e, intuendo il pericolo, si era gettato sulla ragazza – su sua moglie – facendole da scudo col proprio corpo. Assecondò l’istinto atavico di proteggere lei, che, tra le sue braccia, era seta delicata e pelle morbida e profumo di miele[2]. Fragile eppure potente – così tanto da spingerlo a rompere un patto tremendo col mentore che aveva seguito da un capo all’altro del mondo, da fargli rischiare di perdere anni interi di ricerche per avvinghiarsi a lei e farla sua nelle ore più buie della notte, e svegliarsi, infine, con la sua testa posata sul petto. Amante incantevole, che lui avrebbe dovuto irretire e ingannare per gioco e che, invece, alla fine aveva preteso per sé, bramandola con lo spasmodico desiderio di un drago verso l’oro. Il dolore lo colse all’improvviso, stupendolo con la sua bruciante intensità.

Lui e Sigyn erano a terra, il prete non c’era più – forse era riuscito a mettersi in salvo, spinto dall’occhiata rapida che si erano scambiati. La prima cosa che notò fu il sangue. Imbrattava il vestito candido di Sigyn, il suo seno diafano che si alzava e abbassava irregolare, sconvolto dal terrore. Lei iniziò a tastarlo, troppo disperata persino per singhiozzare o lasciare che le lacrime le rigassero le guance pallide, gli occhi sgranati e persi. Poi capì – capirono – e lo sorpresero il dolore lancinante della fitta che gli trapassava la spalla, acuto e terribile, il calore del sangue che sgorgava dalla ferita. Lei era salva – lui no, e il passo irregolare di Laufey era sempre più vicino.

“Tu sei un traditore, un ingrato, un bugiardo,” soffiò il vecchio puntandogli nuovamente contro la pistola. La canna era talmente vicina che sarebbe stato impossibile sbagliare il colpo e non ucciderlo. “Ti farò saltare il cervello,” promise. La mano ossuta e nodosa gli tremava per l’ira, gli occhi freddi non esprimevano alcuna pietà, né Loki la voleva, del resto. Aveva un’arma, nascosta nel cappotto: un lungo pugnale indiano dall’elsa finemente intarsiata, eredità dei suoi viaggi negli angoli più remoti dell’impero britannico – del mondo. La sua pistola, invece, era rimasta nella carrozza, ma non faceva alcuna differenza. Non sarebbe mai riuscito a estrarre il coltello prima che Laufey gli sparasse. Il vecchio lo avrebbe sacrificato senza problemi sull’altare della conoscenza o di qualunque altra cosa ben prima che lui gli rubasse Sigyn. Non si sarebbe fatto alcuno scrupolo nell’abbandonarlo a una morte impietosa, e gliel’aveva detto molte volte. Non importava che fosse un allievo e la cosa più vicina a un figlio che avesse mai avuto in vita. Aveva osato intralciare i suoi piani, portandosi via l’unica donna, al mondo, il cui volto ricordava, con dolorosa precisione, quello di un fantasma.

Loki riconobbe che lui e Laufey avevano in comune la spietatezza, oltre a Sigyn. Fu per questo che scelse di provocarlo. Era l’unico modo per prendere tempo e distrarlo abbastanza da tirare fuori quel pugnale o fare in modo che la pallottola non gli fracassasse la testa.

“È stato più forte di me,” ghignò. Con una mano proteggeva Sigyn, ancora stesa sotto di lui, con l’altra premeva il fianco offeso. Se allungava le dita, poteva sentire il metallo freddo dell’elsa, nascosta in una tasca della giacca. “Come potevi pensare che te la lasciassi? Che permettessi a un orribile vecchio come te di… di fare cosa, Laufey? Sua madre non ti amava da viva e non ti amerà nemmeno da morta, neppure se riuscissi davvero a farla tornare!”

Il vecchio strinse le labbra e strabuzzò gli occhi, offeso dalla beffarda canzonatura dell’altro. Sparò prima che Loki potesse sfoderare il pugnale, comprendendo, per la prima volta nella sua vita e con una chiarezza livida ed estrema, la tragedia della propria esistenza e il suo amore patetico per una ragazzina di nemmeno vent’anni che lo fissava con orrore e si aggrappava disperata al collo dell’uomo che amava. Per tutta la vita, Laufey aveva lottato contro il destino e la morte. Non riusciva ad accettare l’idea che fosse condannato a morire come tutti, così come non era stato in grado, in gioventù, di sopportare il peso del rifiuto dell’incantevole e divertente ragazza che lo aveva allontanato per poi morire nemmeno dieci anni dopo. Sigyn era il ritratto di quella donna. Al contrario di lei, non lo fissava con divertita supponenza, ma con orrore. Eppure si affidava a un uomo, Loki, che gli assomigliava per temperamento, ideali, spietatezza, intelligenza. Come lui, anche il figlio cadetto del duca Odino era ossessionato dalla morte e desiderava scoprirne i segreti. Lo sconcertava la paura gelida di non lasciare segni del suo passaggio sulla terra, di diventare polvere che si sarebbe mischiata ad altra polvere, in un ciclo senza fine e senso. Lo raggelava il vuoto che c’era stato prima di lui e che ci sarebbe stato dopo: un baratro immenso in cui la sua essenza sarebbe svanita. Era ossessionato da una febbre interiore e perenne, che lo spingeva a desiderare di poter gettare nel caos l’ordine in cui si spiegava la vita di ogni uomo, perché solo distruggendo è possibile ricostruire. E desiderava osservare quelle rovine dall’alto, studiarle e manipolarle come la creta, piegarle al suo volere, assoluto e dispotico. Loki voleva sfuggire alla rete che ingabbiava l’esistenza in un processo che, partendo dalla nascita, arrivava alla maturità, alla vecchiaia e alla morte. Sebbene fosse ancora giovane, Laufey aveva riconosciuto in lui l’ansia che assale l’animo degli uomini quando si accorgono che la maturità sta cedendo il passo alla senilità e alla perdita della forza fisica e mentale. Eppure, Sigyn lo amava, tanto da aver risposto con uno slancio trepidante alla domanda del prete. Entrambi erano corrotti e, in un altro tempo, sarebbero stati chiamati stregoni, eppure Sigyn avrebbe potuto amare uno solo di loro: Loki dallo sguardo fiero e quasi trasparente, Loki che piegava le labbra strette in un sorriso feroce, Loki col suo portamento altero e principesco, coi suoi modi di fare sicuri e precisi.

Laufey premette il grilletto desiderando con ogni fibra del suo essere di uccidere quel suo figlio putativo che gli aveva strappato le migliori conoscenze e si presentava al mondo come una versione più carismatica e affascinante di lui, ma la vecchia pistola, forse per la troppa umidità, s’inceppò[3].

 

Una luce sinistra barbagliò negli occhi di lord Odinson: era la sua occasione per ribaltare la situazione. Estrasse il pugnale, incurante di stare trascurando la ferita, e tentò di colpire il vecchio mentore, ma nemmeno questo colpo era destinato ad andare a segno; due degli uomini che accompagnavano Laufey scansarono l’uomo appena prima che la lama affondasse nella carne, facendo rimediare al loro capo una ferita di striscio. E Loki fu raggiunto dalla consapevolezza, esatta come una freccia conficcata nel bersaglio, di aver fallito. Gli sgherri si accanirono contro di lui, prendendolo a calci sulle costole, mentre il vecchio mago gli strappava Sigyn dalle braccia. Lei urlava e scalciava e graffiava – e lui non poteva fare niente altro che immaginare il seguito con la spietata acutezza che lo contraddistingueva. L’alchimista si augurò, di nuovo, che il prete fosse fuggito e avesse raggiunto la sua carrozza: lì, avrebbe potuto, con l’aiuto del cocchiere, chiamare aiuto – rintracciare suo fratello. In un altro momento, il pensiero di doversi far salvare da Thor lo avrebbe disturbato, facendogli increspare le labbra in una smorfia d’insofferenza, ma la ferita alla spalla bruciava e il pestaggio inferto senza pietà non gli lasciava possibilità di alzarsi o di difendersi. Poi, fu il buio.

 

 

C’era una donna, a Londra. Una che fingeva di credere agli spiriti, perché sua nonna, una volta, le aveva detto di avere il dono di parlare con i morti. Guadagnava raccontando alla gente quello che voleva sentirsi dire, fingendo di riportare un messaggio dall’Aldilà. Consolava mogli che si ritrovavano vedove troppo presto e madri che desideravano solo poter sentire sotto le dita le guance paffute dei loro bambini perduti. Lavorava creando atmosfere fatte di sussurri, sospiri e mani che si muovevano appena, divertendo e spaventando il bel mondo facilmente impressionabile dell’aristocrazia inglese. A volte, però, qualcosa c’era davvero. Capitava raramente – la donna non ne contava più di due o tre in tutta la sua luminosa carriera – eppure, quelle rare manifestazioni bastavano a farle salire un dubbio atroce: che l’inganno perpetrato a danno delle sue amiche e clienti, spesso le cose si confondevano, contenesse, al suo interno, una spaventosa traccia di verità. La medium, però, non era come il sagace lord Odinson o il lugubre Laufey. Non desiderava conoscere l’inconoscibile, non le interessava sollevare il velo che divide le anime dei vivi da quelle, a volte tormentate, dei morti. Quasi un anno prima, aveva annullato una seduta perché colta da un fremito inspiegabile, da un freddo che nemmeno gli inverni più rigidi le avevano mai instillato. Un gelo sinistro, che si era acuito quando, al suo cospetto, era arrivata una ragazzina dell’alta società dai capelli d’oro. Non aveva nulla di particolare a parte un viso grazioso e un sorriso trascinante e luminoso, eppure, attorno a lei – a loro, per un terrificante momento, si erano accalcate voci che parlavano in una lingua sconosciuta. Le era sembrato che una delle ombre si staccasse dalla parete per ghermirla la vita sottile, il collo abbellito con una sottile collanina di perle, come se fosse l’ostaggio o la preda di qualcosa di oscuro e crudele. L’aveva mandata via e si era impegnata a non rivederla mai più, certa che nel destino della giovane donna si celasse una futura tragedia. Quella notte, alzandosi dal letto, provò la stessa sensazione di freddo estremo provata mesi prima, ma non volle chiedersi perché, né ebbe la forza di pregare. Solo di attendere, seduta sul letto, in camicia da notte, che il gelo passasse.

 

 

“Loki!” L’ultimo calcio ricevuto sulle costole lo aveva quasi tramortito, offuscandogli la vista. Si rese conto di aver perso i sensi forse per un paio di minuti, ma sentiva la testa vuota. La ferita pulsava. Distintamente avvertì che gli spietati colpi capaci di mozzargli il respiro erano cessati; la navata della chiesa era tornata a riempirsi di passi, grida, movimento. Lord Odinson si sollevò appena e, ansante, riconobbe la voce e il volto preoccupato di suo fratello.

“Sei ferito.” La terribile constatazione era stata pronunciata da Thor, che, dopo averlo liberato dal suo aggressore, stava tentando di soccorrerlo come poteva, cercando di capire quanto fossero gravi le sue condizioni. Loki si riscosse, deglutì, bevve un sorso di whisky da una fiaschetta che gli porse il duca. Quest’ultimo, spinto da un presentimento inspiegabile, aveva deciso di raggiungere l’unica chiesa il cui sacerdote non temesse suo fratello; era giunto in tempo per incrociare la carrozza dove il religioso e il cocchiere stavano salendo per andare a chiamarlo. Una circostanza così fortunata riaccese, in Loki, la necessità di provare a impedire che il destino terribile di Sigyn si compisse. Immaginò che, nel brevissimo tratto fatto insieme, il prete avesse raccontato a suo fratello i dettagli dell’assalto che avevano subìto.

“Lei è ancora qui. Non può averla portata lontano,” ragionò – boccheggiò.

Thor lo aiutò a sollevarsi.  “Hai perso molto sangue.”

“Laufey è un mostro,” fu la replica detta senza badargli, ma aggrappandosi alla spalla robusta dell’altro. E, nel dirlo, Loki riconobbe freddamente che le differenze tra lui e il mentore erano quasi insignificanti: se il vecchio non era degno di essere annoverato in altro modo, privo di umanità e di coscienza com’era, cosa poteva dire di se stesso il figlio cadetto del duca Odino Odinson? Al contrario di quest’ultimo, che si era pentito poco prima di raggiungere il letto di morte, Loki non aveva mai nemmeno pensato di rinnegare la propria natura insaziabile. Conoscere qualcosa equivaleva a possederla, a saperne – condividerne – i più reconditi segreti: lui desiderava questo, svelare i misteri più oscuri e indicibili del mondo, levargli la pelle, svuotarli della loro aria di impenetrabilità, violarli. Mentre abbandonava la navata tranquillizzando il fratello sulle proprie condizioni, negli istanti in cui intuì che Laufey si era rifugiato, certamente, nella cripta nascosta sotto la chiesa, non poté soffocare un brivido maligno: davvero il vecchio mentore aveva trovato la formula per riportare indietro le anime dei defunti e sconfiggere, così, la mortalità che calava, come una maledizione, su tutta l’umanità, rendendola troppo lontana da Dio? Dubitava che l’intruglio che Sigyn avrebbe dovuto bere non avrebbe avuto conseguenze sul suo fisico delicato; gli esperimenti fatti in tal senso si erano risolti in modo orrendo, tutti. E ora lei stava per accostare a un calice tanto venefico le labbra dolci e morbide che lui aveva lambito, conosciuto, sfiorato col trasporto che hanno i desideri intoccabili quando vengono rapiti e, finalmente, posseduti.

 

E se non ci fosse stata lei, la sua amante, la sua meravigliosa moglie, nella cripta in fondo ai gradini di pietra umidi e scoscesi da cui si intravedeva già una fioca, tetra luce, Loki seppe che si sarebbe trovato lì, a braccia incrociate, a osservare con perfido interesse se era possibile ingannare la morte, dominarla, asservirla. Varcò un arco senza leggerne le iscrizioni, ma anche se lo avesse fatto, le antiche frasi latine abbreviate, come l’uso del tempo imponeva, non gli avrebbero suggerito nulla di rilevante.

Sì, se non ci fosse stata la sua incantevole Sigyn dai capelli d’oro e l’intelligenza vivace, dal fisico snello e flessuoso, capace di inarcarsi con tanta squisita grazia contro il suo, lui sarebbe stato nella cripta assieme al suo maestro, malvagio come lui, a fissare con morbosa curiosità una donna che beveva un intruglio, in trepidante attesa di scoprire se le teorie di Laufey avevano un senso. Invece lei era bella e, con la sua curiosità lo aveva incantato, stregato, maledetto, condannato a un sortilegio orribile che gli imponeva di desiderare la conoscenza, ma di non volerla sacrificare sull’altare della sapienza.

La cripta gli si svelò in tutta la sua lugubre bruttezza. “Lasciala, o ti ucciderò come un cane!” gridò, fissando gli occhi cattivi del vecchio. Ma se gli avesse sparato, ragionò, il rischio era quello di colpire lei. Era arrivato troppo tardi?

 

 

Thor, dietro di lui, imprecò. Armati e sgomenti, i due fratelli fissarono con occhi mobili e inquieti la scena. Laufey era dietro la ragazza e la stringeva. Una mano le ghermiva il fianco, impedendole di scappare, l’altro era vergognosamente posato sul seno morbido coperto dalla stoffa pregiata dell’abito. Lei non era riuscita a impedirsi di piangere, ma invece di supplicare, prometteva al suo rapitore la peggiore delle sorti: il fallimento. Vedendo, oltre il velo delle lacrime, Loki, singhiozzò il suo nome. Intravide il sangue, lo stesso che le macchiava l’abito e la pelle, e riconobbe, nello sguardo feroce e sprezzante dell’altro, nella smorfia d’ira che gli fece scoprire i denti bianchi, una determinazione fatale. Lord Odinson era un lupo pronto ad attaccare alla gola il vecchio capobranco per riprendersi ciò che gli spettava di diritto: lei e la conoscenza.

 

 

Laufey assottigliò gli occhi vedendo i due uomini. Intuì che uno dei suoi famigli era stato ucciso davanti l’altare e che il duca Thor avrebbe ingaggiato uno scontro col servitore che era rimasto con lui. Loki, il suo feroce e brillante allievo e confidente, aveva appena sparato all’altro e, nel giro di un respiro, sarebbe stato libero di sfidarlo e combatterlo, di impedirgli di portare a termine il piano di una vita. Aveva pochi istanti per agire. Il pallore sul viso dell’alchimista contrastava con gli occhi lucenti e fieri; ragionò che la ferita dovesse essere abbastanza grave e, forse, ciò avrebbe bilanciato le loro forze. Strinse più forte Sigyn e alle narici salì il profumo di lei – fiori e miele, che inalò mentre Loki annullava la distanza tra loro e Thor parava un pugno lanciato dal suo sgherro.

“Era d’accordo con me. È curioso quanto me,” sussurrò all’orecchio di Sigyn. La sentì irrigidirsi, ripugnata da tale vicinanza, offesa dalla mano che ancora le ghermiva la vita. L’altra no, era andata in cerca della siringa dove aveva versato una pozione che l’avrebbe quasi certamente uccisa, ma gli avrebbe restituito l’altra, quella che amava e, anni prima, lo aveva schernito, bella e crudele.

“Lo so. Mi ha detto tutto.” La voce di Sigyn era un sussurro quasi inudibile – assomigliava a sua madre nella decisione, nella schiettezza.

“E lo ami ancora, nonostante questo?” disse, esitando, per un momento, nell’infilarle l’ago nella carne, ma mostrandole lo strumento fatto di vetro e di metallo, riempito con un liquido venefico.

Sigyn fissò con orrore l’oggetto. Loki era a pochi passi da lei, con una pistola in pugno, ma non poteva sparare di nuovo: rischiava di colpirla. “Lo amo e tu fallirai,” predisse.

Il vecchio scienziato la strinse più forte e le iniettò il veleno sul seno, sopra il cuore, vicino a dove aveva posato le dita nodose e adunche.

E Loki sparò, ma nel tentativo di salvare sua moglie, mancò il bersaglio. Comprese che lei era la sua debolezza, e rivisse per qualche ignota ragione lo spaventoso incubo di quella sepoltura da vivo che il vecchio alleato gli aveva promesso e lui immaginava come se l’avesse già vissuta non una, ma mille volte.

 

 

La differenza, tra lui e il suo carismatico allievo dall’intelligenza penetrante e il sorriso furbo, pensò Laufey, stava nella capacità di affascinare il prossimo, nella fortuna di essere amato nonostante l’oscurità. Loki aveva mostrato a quella ragazza la parte peggiore di sé. Il vecchio recitò poche parole di una lingua morta mentre Sigyn gridava, si contorceva, si accasciava. Il suo viso assunse un colorito terreo, il corpo fiorente e sano tremò, scosso dal dolore.

E l’alchimista, che non aveva fatto in tempo a salvarla, era lì, davanti a lui, con la mascella serrata e lo sguardo carico di un rancore antico e senza nome, la rivoltella stretta tra le dita, Laufey finalmente sotto tiro e senza scudi. Eppure, la priorità non fu di piantargli una pallottola in mezzo agli occhi, ma di picchiarlo, avendo cura di farlo con la pistola in mano, per infliggergli un danno ancora maggiore e spaccargli il naso, rovinargli lo zigomo. Il colpo fece barcollare violentemente il maestro e Loki ne approfittò per prendere il corpo esamine di Sigyn tra le braccia, posarla delicatamente a terra.

“Questo era quello che volevamo. Si risveglierà e la riavrò indietro,” si compiacque il vecchio scienziato, eppure la sua soddisfazione sapeva di fiele. Aveva portato a termine l’esperimento, ma Thor, ormai libero, gli puntava una pistola alla testa e Loki non lo avrebbe mai lasciato uscire vivo dalla cripta. Così avveniva nella natura che l’umanità tentava inutilmente di plagiare: chi è più forte, coraggioso e fortunato sfida il capo ormai debole, sulla cui testa pesano solo rimpianti. Non ultimo, quello che il giovane alchimista l’avesse avuta per primo, godendone, forse generando con lei persino una scintilla di vita. Nell’ipotesi in cui Sigyn si fosse risvegliata, accogliendo lo spirito che lui aveva evocato, non avrebbe potuto averla. “Tu mi hai tradito, tu l’hai…” iniziò, ma il sangue sgorgava a fiotti dal naso e le forze gli venivano meno. Era ancora in piedi perché il pensiero che Loki e Sigyn fossero stati amanti accendeva in lui una gelosia cieca e disperata.

 

La ragazza sussultava sul pavimento della cripta, con gli occhi rivolti verso il cielo e le labbra schiuse. Il rito si era compiuto. Loki si era chinato su di lei, tastandole il polso e il collo. Il battito era flebile, quasi impercettibile, le dita gelate. La stava perdendo. Infilò le dita tra sue le ciocche bionde, in una carezza lenta che sapeva di stupito addio. La furia sarebbe venuta, dopo. Montava già nel sangue, caricandosi di se stessa e delle frasi sconnesse che l’alleato tradito gli rivolgeva mentre si asciugava il sangue. Covavano la medesima ira mortale, fatta di desiderio e rancore.

“Taci, maledetto!” Era stato Thor a parlare. Inorridito, fissava ora la cognata in fin di vita, ora il profilo terreo e affilato di suo fratello. Aveva assistito al tentativo immondo di forzare il muro che separa le anime dei vivi da quelle dei morti e le sue mani erano macchiate di sangue. Disgustato, diede un calcio alla siringa usata su Sigyn, caduta a terra e ormai infranta, che giudicò troppo vicina al vecchio scienziato[4]. Il rumore del vetro e del metallo che rotolava sulla pietra umida sembrò riscuoterla.

Loki s’irrigidì.

 

Forse il rito aveva funzionato. Lei aprì gli occhi, li sbatté più volte, osservò la cripta, non la riconobbe. Si sollevò appena, guardandosi attorno. Non era la ragazza che era stata trascinata nel sotterraneo. C’era qualcosa, nel suo sguardo, di antico e sconosciuto, inconsueto. L’acconciatura aveva ceduto e i suoi capelli le ricadevano sciolti sulle spalle esili. Il suo sguardo grigio si posò su Loki, pallido quasi quanto lei, che la fissava a labbra strette, per poi spostarsi sul vecchio scienziato. Vide un uomo ossessionato da un sogno che non gli era mai appartenuto e un altro corroso dalla brama di avere tutto, dall’incapacità di accontentarsi che, come una maledizione, lo inseguiva ogni volta, da sempre, spingendolo a distruggere tutto ciò che toccava. Piegò la testa di lato. Laufey la chiamò con molti nomi e disse di amarla, nonostante Thor lo invitasse a non osare pronunciare una simile sconcezza e continuasse a tenere la rivoltella puntata su di lui.

Loki, invece, rifletteva in silenzio, notando le differenze, roso dal dubbio. Cominciava a sentirsi debole: forse, aveva perso troppo sangue. I begli occhi di Sigyn tornarono a puntarsi su di lui, lucenti e fermi, ma carichi di una dolcezza infinita. “Cosa mi hai fatto?” gli sussurrò. “Cosa ti sei fatto?”

“Ti ho avvelenata e poi ho provato a salvarti. A proteggere la tua vita e il tuo onore,” riconobbe lui con un sorriso mesto. “Ma sono arrivato troppo tardi.”

Le strinse le mani, fredde e incolori, e lei lo baciò sulla bocca, piano, delicatamente, come se volesse consolarlo o ringraziarlo, ma anche scoprirlo, ritrovarlo e perdersi. Uno sfioramento leggero che faceva calare, su di loro, un drappo d’incertezza. Era un bacio come non se lo erano mai dato, eppure avevano scambiato quella stessa effusione decine, centinaia di volte.

“Chi sei?” le domandò l’alchimista, ma una parte di lui, la più razionale, non riusciva a credere che l’esperimento di Laufey fosse riuscito. Pensò al discorso che aveva fatto a Sigyn nella carrozza, prima di sposarla: agli dèi di Asgard che conoscevano in anticipo la loro sorte bagnata di sangue e che, nonostante ciò, avevano scelto di affrontare a viso aperto la Voluspa, troppo arroganti o saggi per cambiare il loro destino. Pensò anche alla strega danese, che si era messa a supplicare i suoi dèi ormai morti di salvare la vita del conte trafitto dalla freccia e di come loro l’avessero ascoltata. Lui e Laufey avevano aperto la porta proibita della conoscenza: si erano convinti che era possibile entrare nel regno dei morti e strapparne via le anime, ma avrebbero dovuto ricordare che le intrusioni di questo genere lasciavano sempre una macchia indelebile, da qualche parte. Chiamò sua moglie e lei abbassò le ciglia scure sulla sua ferita.

Lo guardò e le sue labbra tremarono. “Tu stai morendo,” sospirò. “Ci ritroviamo sempre, a questo punto,” aggiunse con tristezza, carezzandogli delicatamente il viso affilato.

Loki si tastò la ferita, ritraendo le dita sporche di sangue. “No che non morirò, sono stato ferito più gravemente, in passato,” la corresse, ma c’era, nello sguardo della ragazza, un’ombra antica e straniera, carica di un rimpianto sordo e straziato.

Sigyn, o chiunque fosse, si alzò in piedi, lieve e decisa, mostrando l’abito bianco macchiato di sangue. La sua schiena era diritta come una freccia e sul viso, pallidissimo, spiccavano gli occhi grigi che Loki ricordava scintillare divertiti a ogni battuta o facezia.

“Tu non hai risvegliato la donna che amavi,” disse, rivolgendosi al vecchio scienziato e muovendo un passo verso di lui. “Ma hai commesso un errore e stanotte morirai anche tu,” annunciò severa.

Loki si sollevò vincendo il dolore, frapponendosi tra moglie e il mentore tradito, fissando con sospetto sia uno che l’altra.

“Chi sei?” ripeté. Lo trafisse l’idea che la ragazza che aveva tenuto tra le braccia, con un vestito di raso verde addosso, non ci fosse più e, al suo posto, fosse stata evocata una creatura diversa, più saggia e antica.

Sigyn sorrise mestamente e con le dita sfiorò la bella gemma che teneva al collo. Le era appartenuta molte volte, perché gli oggetti in cui vengono infusi sentimenti, desideri e speranze diventano amuleti, talismani che ci inseguono in questa vita e nelle altre. “Se te lo dicessi, amore mio, tu non ricorderesti,” confessò.

 

 

Ciò che avvenne dopo non fu che un ricordo confuso e troppo rapido. Uno degli uomini che accompagnava Laufey, rimasto stordito nella navata, si era ripreso ed era sceso nella cripta. Non trovò, a bloccarlo, né il prete né il cocchiere. Erano corsi in cerca di un medico per il fratello del duca e di rinforzi. L’uomo raggiunse il sotterraneo in tempo per vedere Sigyn al centro della stanza, eterea e delicata come un fantasma, e a sorprendere Thor, che minacciava il suo capo. I brevi momenti di colluttazione che lo videro, comunque, perdente, permisero a Laufey di lanciarsi verso la donna per abbracciarla o stringerla o chiederle chi fosse e dove avesse nascosto lo spirito esangue che amava. E Loki ne approfittò per completare il suo tradimento e infilare il pugnale, fino all’elsa, nella schiena del maestro che aveva intravisto per la prima volta in mezzo ai fumi dell’oppio. Il vecchio fu scosso da un ultimo fremito e crollò su se stesso, senza illudersi di aver trionfato, con in bocca una frase che rimase lì, congelata tra i denti e la gola. Il furbo Loki Odinson, per parte sua, pagò caro il suo gesto. Lo sforzo di quell’estremo affondo, inflitto per vendetta e precauzione, annebbiò la sua vista, ottenebrò i suoi sensi.

 

Si ritrovò steso per terra, con la testa poggiata sulle gambe di Sigyn: aveva ragione lei, stava morendo. Aveva perso troppo sangue. Se ne rese conto con orrore, mentre la vita gli scivolava via dalle dita e lui non poteva far nulla per impedirlo. Le notti insonni che aveva trascorso studiando formule e testi antichi, pozioni ed esperimenti, gli sfilarono davanti come i grani di una collana, vacui e inutili.

“Tu sei la strega che incantò il conte,” mormorò, mentre il dolore pulsante svaniva sotto il tocco delle mani di lei, pietose e gentili. Gli carezzava la fronte e mormorava una nenia sconosciuta a fior di labbra, di cui non riusciva a distinguere le parole.

“Io sono stata molte cose,” ammise lei, “anche una strega, una volta, e tu mi hai amata,” soffiò con orgoglio. I suoi occhi, ora, erano pieni di lacrime trattenute. “Ma non puoi ricordarlo, né ora né mai,” proseguì con voce bassa, appena spezzata, “e questo non doveva accadere – la porta della conoscenza non va varcata, mai. Morirò anche io, adesso. Mi tiene in vita solo il seiðr, il veleno che scorre nel mio corpo è troppo potente. Mi vedi? Sto già tremando. Siamo mortali, Loki, ma il nostro spirito no. Ti raggiungerò presto – e ti ritroverò, amore mio.”

Lord Odinson le rispose che non doveva morire, che non desiderava essere seguito nel regno delle ombre. Con l’ultimo barlume di lucidità rimasta, ritenne che quelle erano le fole di uno spettro maligno o i deliri di una donna che la paura improvvisa aveva reso pazza. Non era la ragazza del vestito verde. Non più. L’intuizione che gli era servita per collegare l’antica leggenda che circolava nella sua famiglia con quelle spiegazioni sconnesse gli apparve debole e inconsistente, eppure scoprì con orrore di avere gli occhi lucidi, mentre lei, sempre più vicina, parlava e gli sfiorava i capelli scuri e umidi con le ultime forze rimaste.

“Perché la tua maledizione è questa, Loki,” proseguì Sigyn. “Non saprai mai chi sei, né chi sei stato: e non conoscere, per te, è il peggiore dei tormenti. Io lo so. Hai vissuto centinaia di vite, ma la tua natura, a volte, ti tradisce e replichi gli stessi sbagli fatti in passato. E come potresti correggerli, del resto? La memoria di ogni esistenza viene spazzata via, cancellata. Resta solo la mia, che, ogni tanto, riaffiora, ma quando lo fa, è solo dolore. Come allora, quando indossavo questa pietra e tu eri un conte, come adesso, che so di averti avuto e ti sto perdendo. Passeranno anni prima che potremo incontrarci ancora. Io sono lei. Lei era me,” confessò chinandosi verso di lui, e pronunciò il nome più antico che avesse mai avuto, il primo che lui, in un altro tempo, assottigliando appena le palpebre, aveva ascoltato e rigirato in bocca, assaporandone il suono dolce come l’idromele.

 

Poi, asciugandosi le lacrime, la dea della Fedeltà gli raccontò del dio degli Inganni che tradì gli Æsir per soddisfare la sua sete di vendetta e di come evocò il Ragnarok che bruciò ogni cosa, riducendo la bella Asgard dalle torri d’oro a un cumulo di macerie e cenere, perché così era scritto; che tutti gli dèi morissero uccidendosi l’un l’altro. Ma la morte non bastò a fermare i loro fantasmi inquieti, aggiunse. Le loro essenze continuarono a vagare e a esistere, cercandosi e combattendosi, amandosi e lasciandosi. Alcuni di loro avevano finito per esaurirsi, raggiungendo il Valhalla e ritrovando il proprio antico posto e la pace, ma loro no, erano incapaci di fermare la ruota che girava eternamente, trascinandoli in ogni parte del tempo e dello spazio. Il dio degli inganni non voleva morire, del resto. Pur di non farlo, aveva spinto Hela, la terribile signora del regno dei morti, a cancellare il proprio nome dal libro dei defunti.

Ma con questo inganno il dio del Caos aveva finito per intrappolare se stesso, concluse la dea della Fedeltà con un sorriso breve. Inconsapevole della propria vera natura, s’incaponiva in ogni vita cercando di aprire le porte dell’inconoscibile e sfidando l’ordine costituito.

Era una fiaba bellissima, decise l’alchimista. La voce della ragazza arrivava da sempre più lontano, o forse era lui che si stava allontanando, perdendo le forze come perdeva il sangue. La ascoltava, ma non sapeva, non riusciva a ricordare le storie cui si riferisse, né aveva idea che la terra calpestata, Midgard, fosse il nascondiglio e la prigione che lui stesso aveva scelto per non desiderare, per sempre e ormai invano, Asgard ormai fatta di cenere e rovina, canto perduto di un popolo che l’aveva dimenticata, la cui memoria distrutta non era che una fiaba da sussurrare nelle sere d’inverno. Lei gli raccontò, in quei brevi momenti in cui la coscienza gli scivolava via a ogni respiro, di un fiordo incantato illuminato da una tenue luce dorata. E lui credette di vederla, la luce che colorava ogni cosa con sfumature rossastre e miele, come i capelli d’oro di lei. Illusione, sogno e ricordo si mescolarono come le acque di tanti fiumi che, alla fine, si ritrovano nel mare.

Lord Odinson non vedeva più. Non sapeva che Sigyn, boccheggiando, era quasi stesa su di lui, non sentiva Thor che, stremato dall’ultima lotta, gli gridava invano di resistere. Non era più nella cripta e il dolore scemava, come i sensi del gusto e del tatto.

“Fidati di me, Loki. Lasciati andare. In questo mondo ci incontreremo per soffrire, ci ritroveremo senza sapere il perché per ancora troppe volte. Raggiungimi nel Valhalla. Torna a essere ciò che sei, dio degli inganni, anima mia.”

Furono le ultime parole che sentì. Dopo, il dolore svanì e l’alchimista scivolò nell’oblio senza luce né colore della morte, nel sonno senza sogni in cui l’ultima sensazione che lo raggiunse fu il sapore salato delle labbra di lei, fu il singhiozzare disperato di un corpo scosso dai tremiti del veleno e della perdita, fu la propria mano che cancellava, con la penna nera di un corvo, un patto antico, fu la promessa di ritrovarsi in un luogo che non c’era più.

 

Dopo il buio, fu la luce del sole che illuminava il fiordo, fu l’oro che barbagliava sull’acqua e il cielo rosso e viola.

 

 

 

What makes you think I'm enjoying being led to the flood?

We've got another thing coming undone

And it's taking us over

We don't bleed when we don't fight

Go ahead, go ahead, throw your arms in the air tonight

We don't bleed when we don't fight

Go ahead, go ahead, lose our shirts in the fire tonight.

The National, Runaways

 

Fine

 

L’angolo di Shilyss

Care Lettrici e cari Lettori,

 

è particolarmente difficile accomiatarmi da questa storia e scrivere le note. Mi mancherà, sniff ♥.

Non è stato un periodo semplice. Ho avuto tante cose da fare e da pensare nella real life un paio di momenti di scoramento che mi hanno fatto sentire il bisogno di allontanarmi un po’ da Efp, ma Loki e Sigyn fanno parte di me in una maniera che non vi so spiegare se non scrivendone e se li ignoro per troppi giorni bussano con altre storie o con quelle che ho già iniziato.

Postare la fine di una fiaba come Ombre è stato complesso perché la stessa Barbablù è una fiaba complessa – si trovano poche altre storie che hanno lo stesso intreccio/senso: basandomi su alcune teorie psicoanalitiche (non fatte dal primo scemo che passa) di studiosi che hanno dedicato la vita all’argomento, ho abbracciato la tesi che Barbablù sia la storia della perdita dell’innocenza e del tradimento, temi affrontati anche qui. Nella fiaba originale, la sposa di Barbablù viene messa in guardia dal marito in procinto d’assentarsi: non entrare nella stanza di cui hai la chiave, le dice. Lei, ovviamente, entra e vede le mogli morte e perde l’innocenza. Sa cos’è successo. Barbablù si accorge che la moglie ha trasgredito, perché la chiave si macchia irrimediabilmente di sangue. Come avviene quando si hanno rapporti per la prima volta e si è donne. Barbablù muore perché non perdona la moglie e si fa ammazzare dai fratelli di lei

 

Sigyn è la moglie di Barbablù per eccellenza: sposa quello che avrebbe dovuto essere il suo assassino, ma che in realtà si è invaghito di lei, ma il tema della porta aperta che doveva rimanere chiusa riguarda anche Loki e Laufey, ansiosi di svelare il segreto della vita. E questa non è una AU, ma una storia che si lega al canone e che parla di un post Ragnarok. Semmai è una soulmate!AU, dato che Sigyn e Loki sono, come sempre e per sempre, anime gemelle destinate a incontrarsi. Vi ho spiegato anche perché Thor e Odino sono presenti (anime non ancora placate) e altri assenti. E niente, spero vi sia piaciuta. Ogni dettaglio storico è assolutamente coevo e coerente, così come la mentalità dei personaggi.

La dedico a chi ha letto le anteprime, a chi mi ha sostenuta fino a questo momento e a chi l’amerà. Grazie di cuore ♥ a chi l’ha inserita nelle liste e a chi lo farà ♥ – ogni volta che listate o vi palesate m’illumino d’immenso, per voi sembrerà una cosa da niente, ma vi assicuro che ricevere sostegno per chi scrive ha la sua importanza e le leggo tutte, anche se non sempre riesco a rispondere.

 

Perdonatemi per la lunghezza infame. Generalmente i miei capitoli sono la metà esatta di questo, ma non volevo spezzarlo. Proprio per la lunghezza, spero non ci siano troppi refusi. Non ho avuto il tempo di rileggerlo più di due volte. Vi confermo fin da ora che la storia della strega danese e del conte verrà scritta, che adesso mi metterà a lavorare sull’aggiornamento di Accordo e quello di Scintille e… chissà. **

 

Ricordo che il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre fiabe/storie da me postate né qui né altrove e lo stesso vale per gli headcanon su Loki o Asgard.

A presto e grazie per tutto l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate me).

 

Shilyss



[1] Il concetto di matrimonio d’amore, di famiglia nucleare (cioè composta da una giovane coppia con i figli) e tante altre amenità che adesso appaiono scontate non lo erano fino a pochi decenni fa.

[2] Erano anni che volevo usare questa scena: che Loki sia cavalleresco, al netto della sua stron***gine, è canone: lo abbiamo proteggere Jane in TDW.

[3] Questo è il miracolo di San Ceppato! Le pistole ottocentesche non erano come quelle attuali e avevano questo difetto: s’inceppavo e spesso ti esplodevano in mano. In tanti mi dicevate che sarebbe stato figo se Sigyn avesse sparato a Loki, nello scorso capitolo. Sarebbe piaciuto anche a me, ma Loki ci tiene a dire che non è una fetta di groviera.

[4] Nella metà dell’Ottocento si usano già le siringhe.

   
 
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