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Autore: paige95    23/08/2020    5 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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Tradimento


 



NB Verrà fatto cenno a temi molto delicati che prendono spunti da fatti reali. In fondo al capitolo troverete gli opportuni riferimenti alle fonti e ad eventuali approfondimenti.
 
 
 
 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 10 settembre 2018
 
A seguito di un secondo trauma, il risveglio per Christian non fu affatto semplice. Il corpo del Navy SEAL possedeva già qualche cicatrice di guerra, nulla di rilevante però rispetto all’ultima piuttosto vasta procurata da Rashid; la granata gli aveva provocato piccoli tagli un po’ ovunque, il più profondo si trovava sotto la mandibola accanto al pomo d’Adamo ed era coperto da un cerotto per evitare eventuali infezioni. La testa del tenente, subito dopo il ritorno alla realtà, aveva picchiato intensi rimbombi per svariate ore, come se un martello pneumatico gli stesse trapanando il cervello senza sosta; negò ogni sorta di antidolorifico, non era necessario consumare le scorte già abbastanza ridotte, anzi non era conveniente abusare di medicinali se non vi era lo stretto bisogno, lui non assumeva volentieri nemmeno gli ansiolitici prescritti dal medico di fiducia. Era vivo ed era ciò che contava, ogni effetto collaterale dell’esplosione era poco importante.
Il capitano aveva già avuto modo in passato di conoscere i terribili retroscena tra le schiere militari americane, fatti di dipendenze e abusi; per riuscire a tornare in Patria con la stessa sanità mentale e la medesima salute fisica serviva un’incorruttibile forza di volontà. Christian possedeva una morale che non aveva alcuna intenzione di macchiare nell’arco di nove mesi. Il seal sperava che tra i soldati dell’unità militare presso cui soggiornava non circolassero droghe sintetiche; era noto l’uso di anfetamine in campo bellico, l’Afghanistan non faceva alcuna eccezione, come anche gli schieramenti alleati che avrebbero dovuto portare man forte all’esercito locale e alla popolazione indifesa. Le difficili condizioni di vita al fronte spingevano i militari a sfruttare gli effetti benefici delle droghe in modo da resistere alla fatica fisica; insieme allo sforzo i militari perdevano anche ogni inibizione, ogni scampolo di giudizio, erano euforici quanto bastava per sopravvivere. L’assuefazione giungeva presto, trasformandoli in tossici; una volta in licenza, non erano più le persone che erano partite, erano sopravvissuti, ma gli strascichi fisici e morali li avevano seguiti fino negli Stati Uniti e si declinavano in dipendenza. Christian confidava nel generale di ferro - come era solito definirlo lui -, il suo superiore non era così insensibile da consentire un simile abominio all'interno dei confini, tracciati dal filo spinato, della sua base operativa. D’altra parte, era la medesima strategia a cui ricorrevano i terroristi; veniva definita droga della Jihad ed era la stessa che privava i kamikaze dell’umanità necessaria che avrebbe impedito innumerevoli stragi[1].
Il ronzio dell’esplosione faticava a dissolversi nei timpani del seal. Dopo giorni dal risveglio, aveva riportato un abbassamento dell’udito ed era molto fastidioso non riuscire a comprendere completamente le parole di coloro che lo circondavano; gli avevano assicurato che sarebbe stato un handicap temporaneo e che anche l’equilibrio, che aveva subìto un leggero trauma, avrebbe riacquistato la sua piena funzionalità. Christian non poteva attendere che le sue facoltà sensoriali venissero riabilitate, doveva liberare un ospedale nel più breve tempo possibile; il piccolo talebano che avevano salvato rappresentava per lui e la sua unità una fonte inesauribile di informazioni, una sorta di eldorado che sarebbe potuto tornare molto utile. Rashid si era trasformato in un infiltrato senza la reale intenzione di esserlo; Christian conosceva bene i rischi che il ragazzino avrebbe corso se lo avessero scoperto, ma il tenente lo avrebbe protetto da qualunque pericolo.
Si trovavano nel familiare quartier generale della loro base, l’unico rifugio a cui potessero aspirare. Gwen si era accomodata accanto a Rashid, stringeva la mano del talebano nei suoi palmi; il giovanissimo soldato stava crollando sotto le pressioni del capitano. Christian non comprendeva l’enorme sacrificio che stava chiedendo a quel giovane; per quanto la sua famiglia fosse discutibile, non era facile tradirla all’età di soli dodici anni, nonostante gli americani gli avessero mostrato fiducia reciproca. Il ragazzino stringeva tra le sue dita quelle della recluta; erano soffici le mani di Gwendoline, gli ricordavano quelle della madre, gli offrivano l’illusione di essere ancora a Takharand, da dove lo avevano rapito e reclutato contro il suo volere. Lo sguardo di Rashid era rivolto al pavimento grezzo che si trovava ai piedi del tavolo. Il seal sovrastava il ripiano in legno, poco curante delle schegge di legno marcio che avrebbero potuto infilarsi nella carne dei palmi, metteva pressione al giovane fisicamente e moralmente, motivo per il quale il loro ospite non osava avvicinarsi, la sua sedia era scostata di qualche metro dal bordo; se avesse potuto avrebbe indietreggiato fino al muro, la ragazza al suo fianco lo tranquillizzava con dolcezza, gli impediva di spaventarsi davanti alle insistenze del tenente, la giovane tentava di contenere il suo evidente tremore. A nulla valsero gli sguardi del soldato Ward indirizzati al suo superiore, l’ufficiale opprimeva il talebano in cerca di un aiuto, il tempo scarseggiava, Gwendoline avrebbe dovuto saperlo più di tutti.
«Sono stato io!»
Il tono immaturo – leggermente roco e ibrido - era rimbombato tra le pareti dell’enorme stanzone, fatto di pietra, ferraglia e umidità. La fronte del ragazzino era imperlata di sudore e il caldo c’entrava solo in parte; aveva appena confessato un magone che portava nel cuore da svariati giorni. Christian e Gwendoline si scambiarono uno sguardo d’intesa vano, non riuscivano a capire a cosa si stesse riferendo.
«Sono l’artefice degli ultimi attentati a Kabul. Ho posizionato io le bombe. Avrebbero così tutti pensato ad un kamikaze, invece nessuno di noi è morto, solo civili e vostri soldati. Sono davvero un assassino, capitano, ti sei sbagliato sul mio conto»
La voce di Rashid era incrinata, provava vergogna, tanta, troppa per essere egli stesso una vittima in vita. Per i due militari la notizia equivalse ad un colpo al cuore: un futuro uomo con un’intera vita davanti a sé era stato macchiato di omicidio. Le iridi azzurre del Navy SEAL avevano assunto tonalità fiammeggianti e gridavano tutto il suo sconcerto; lo stava redarguendo attraverso il silenzio, ancor più stava rimproverando lo squallore che dilagava in Oriente, un mondo distante anni luce rispetto all'Occidente, dove, nella maggior parte dei casi, vi era la finezza mentale per distinguere quantomeno un bambino da un adulto. Per Rashid era falso affermare che non volesse arrecare male ad alcuno, era ciò che gli era stato insegnato da quando – all’età di sei anni – era giunto a Kabul ed era stato allevato come un guerriero dagli abitanti di un villaggio che distava solo un paio di chilometri da Kabul.
«Mi dispiace, capitano»
Era sincero, dopo aver conosciuto i due militari sentiva i morsi della colpa, una colpa gravissima che un bambino non avrebbe mai dovuto nemmeno concepire, sia per sé che per altri.
«Cos’altro hanno in programma per la città e l’ospedale? Rashid, la verità!»
Christian aveva gridato, incurante di essere stato aggressivo, l’udito leso non gli riproponeva la reale intensità della sua voce.
«Capitano, è solo un bambino! La prego, non esageri»
Gwendoline lo aveva supplicato, avvertiva il tremore del ragazzino diventare sempre più intenso, era spaventato; le parole della giovane non suonavano come un rimprovero verso il superiore, desiderava placare gli animi, il nervosismo non avrebbe aiutato nessuno di loro, ciononostante risultò perentoria e infastidita dal poco tatto del seal nei confronti di un bambino che aveva già vissuto i peggiori orrori.
«Mi dispiace. Loro hanno prelevato me da casa e Nazaha dalla madrasa[2] di Takharand. Ci hanno allontanato dalla nostra famiglia con la forza. Non siamo più tornati nel nostro villaggio, siamo lontani dai nostri genitori da sei anni. Capitano, io eseguo solo gli ordini, mi hanno addestrato per obbedire in cambio della mia vita e di quella di mia sorella. Dopo il tradimento di Nazaha non so cosa accadrà, non so se si arrenderanno, ma per favore non fateci tornare in mezzo a loro. Ci uccideranno. Mia sorella voleva solo essere libera e amare un uomo che la ricambiava, nulla di più, Dio non può essere contro questo»
La storia dei due ragazzi fu toccante per i soldati. Era crudele il destino per coloro che nascevano in quei territori. Gwendoline non aveva idea dell’opinione che potessero aver maturato verso i militari i giovani reclutati dai talebani, ma loro non avevano alcuna intenzione di abbandonarli nelle mani di gente spietata, era certa di poter parlare anche per conto del superiore. La ragazza attirò a sé Rashid avvolgendogli le spalle, gli consentì di sfogare sul suo petto il dolore dei soprusi subiti nel corso degli ultimi anni; offrì la possibilità ad un bambino cresciuto troppo in fretta di tornare a sentire calore umano dopo troppo tempo in cui davanti ai suoi occhi vi erano state solo morte e distruzione. Il cuore di entrambi batteva a ritmo irregolare; la recluta lo accarezzava in volto, raccoglieva le scie tiepide di sale che scorrevano sulle sue guance, posava la sua stessa guancia sul capo di Rashid tra i morbidi boccoli mori rivolgendo lo sguardo all’ufficiale. Christian sciolse il nervosismo davanti alla sofferenza di entrambi; circumnavigò il tavolo e si chinò piegando le ginocchia proprio davanti al ragazzino; modulò intenzionalmente il tono di voce, anche se il ronzio – a cui aveva fatto l’abitudine – copriva le sue stesse parole, fino ai pensieri più profondi.
«Siete al sicuro, calmati. Qui nessuno ha intenzione di riportarvi da loro. Nazaha e la sua bambina saranno aiutate, tu non sarai più costretto a toccare un'arma in vita tua. Ma prima, Rashid, ho davvero bisogno del tuo aiuto, ti chiedo di rivivere un'ultima volta quell'orrore. Svesto gli abiti militari, indosso quelli civili e mi scorti tra i talebani. Dobbiamo scoprire cos’hanno in mente e solo tu puoi aiutarmi. Ti prometto che nessuno oserà farti del male, finché sarai accanto a me»
Per il piccolo soldato era stata una proposta dolce, nessuno da quando si trovava a Kabul gli aveva mostrato attenzione, nessuno lo aveva considerato una persona; lui era al pari dei kalashnikov che impugnavano i jihadisti e sua sorella, dopo essere stata una schiava, era stata sposata dal suo aguzzino. Era difficile credere che una speranza per loro si stesse aprendo all’orizzonte. Rashid stava accettando il piccolo compromesso che Christian gli aveva domandato in cambio della libertà, ma per il giovane era solo il degno contraccambio di un favore che valeva la vita. Il fiato spezzato di Gwendoline fu molto più rapido di quello del suo protetto.
«C-capitano, lei non può farlo. Il generale Flores …»
«Mi assumo ogni responsabilità davanti al generale. Dirò che hai tentato di fermarmi»
«Signore, ha ripetuto decine di volte a me di essere prudente, non impulsiva ed ora …»
Le iridi del soldato Ward si inumidirono e si velarono, vi era la nebbia davanti a lei, era sfocato il mezzo sorriso del suo superiore. Si era affezionata a lui, non sarebbe stata in grado di pronunciare un ennesimo addio, il suo cuore non avrebbe retto.
«Vengo con voi, voglio accompagnarvi»
«Non pensarci nemmeno, Gwen. Stai tranquilla, ho intenzione di parlare con Flores. Non temere, avrò la sua benedizione»
Christian era stato costretto a leggere il labiale del sottoposto, le mancava il respiro e il poco fiato che la notizia aveva lasciato nei suoi polmoni era fermo tra la laringe e la faringe; non smetteva di sorriderle per rincuorarla, almeno fino a che non udì la voce flebile di Rashid.
«Capitano, non tutti i soldati che ci aiutano sono buoni. Alcuni miei amici sono spariti, li ha portati via l’esercito afghano. Puoi aiutare anche loro?»
«I nostri colleghi li avranno portati al sicuro»
Il ragazzino scosse la testa con convinzione; le usanze culturali in Medio Oriente erano note anche tra i più piccoli, i quali rappresentavano tutti i bambini che non avevano avuto il privilegio di trascorrere la propria infanzia godendo dell’innocenza di quegli anni. Rashid sapeva, sua sorella aveva subìto lo stesso trattamento, la stessa barbarie giunta a Kabul, non potevano stare bene, lui era stato forse il più fortunato.
«Loro li imprigionano, li picchiano e abusano di loro. È un loro diritto farci del male. È stata Nazaha a dirmelo, mia sorella sa che è sbagliato ed io mi fido di lei»
I militari impiegarono solo una manciata di secondi per realizzare la situazione, poi tutto fu drammaticamente chiaro. Gwendoline si limitò a stringere più forte Rashid al suo petto; era magrolino, dimostrava meno della sua reale età, il pensiero che creature come lui stessero subendo un destino simile le dilaniò l’anima. Lungo la gola di Christian un reflusso gli impedì di commentare, conseguenza anche dei numerosi giorni trascorsi in convalescenza; fu costretto ad inalare più ossigeno per impedire al conato di vincere sulla sua volontà. Il tenente gettò un’occhiata sfuggente al terreno sotto i suoi piedi, si alzò, recuperò il suo cappello posato sul tavolo e si diresse verso l’uscita, senza offrire ai presenti alcuna spiegazione. Provava solo odio, tantissimo odio viscerale. L'udito era ancora lesionato, eppure aveva sentito molto bene quella terribile confessione, purtroppo per il suo cuore messo già così duramente alla prova. Il suo unico desiderio era portare soccorso a quei bambini il prima possibile, erano vittime indifese sia dei talebani che li facevano combattere sia dei soldati che avrebbero dovuto aiutarli anche a costo della loro stessa vita.
«Capitano»
Gwendoline lo aveva raggiunto dopo pochi minuti, si stava dirigendo verso la torre che ospitava l’ufficio del comandante dell’unità militare. L’ufficiale l’aveva attesa, non aveva ignorato il suo richiamo, aveva indossato con orgoglio il berretto da Navy SEAL e si era voltato verso di lei.
«Ha capito anche lei che ... »
«Purtroppo sì. Occupati di lui, è traumatizzato. Non sono certo di poter cambiare le schifose usanze di questo posto, ma vale la pena fare un tentativo»


 
Periferia Ovest di Kabul, 10 settembre 2018
 
In pochi giorni Maryam aveva trasgredito a più di una regola, a cui era costretta a sottostare fin dalla nascita. Samuel era diventato una presenza costante nella sua vita; il mullà lo aveva ospitato nella loro umile abitazione, ma solo all’esterno di quelle mura era concesso alla ragazza entrare in confidenza con lui, lontano dagli occhi indiscreti di suo padre. Era sorpresa, non riusciva a capire come le voci dei connazionali che la conoscevano non fossero ancora giunte alle orecchie del capo del villaggio; forse la guerra toglieva la forza e la voglia per i pettegolezzi.
Era una di quelle rare albe in cui suo padre e suo fratello erano partiti per raggiungere il grande mercato di Kabul, i cui banchi erano collocati ad un chilometro dalla moschea di Sher Shah Suri che si trovava in un quartiere nella parte occidentale della capitale. L’imam[3] della moschea era un caro amico di famiglia, non lo vedevano da tempo ed era l'ora della preghiera, perciò era quasi certa che suo padre facesse tappa lì prorogando il rientro nel villaggio. Forse verso il primo pomeriggio avrebbe respirato di nuovo, Maryam stava male ogni volta che si allontanavano da lei per le cause più svariate; temeva che qualche attentato potesse interrompere la quiete tra i banchi del mercato o all’interno della moschea, durante una delle ore più sacre per la religione islamica. Non era così inusuale, il timore della giovane aveva ragioni fondate; nella provincia di Helmand vi erano attacchi giornalieri, avevano distrutto più volte il mercato a Sangin e a Kandahar; moriva chiunque in quei casi: donne, bambini, anziani, uomini, senza alcuna distinzione di sesso o strato sociale. Lei non voleva e non poteva perdere il resto della famiglia che Dio aveva avuto la clemenza di lasciarle accanto.
Si era totalmente dimenticata che Samuel si trovava in casa con lei. Le drammatiche prospettive che la sua mente aveva delineato le avevano consentito di perdere concentrazione, la mano del giovane le aveva impedito di rovesciare il liquido giallognolo quasi trasparente che stava versando in un bicchiere intagliato nel legno di platano, confezionato da suo padre con le piante cresciute sulle colline intorno a Kabul.
«Attenta, Maryam»
L’afghana alzò lo sguardo sul forestiero e sfiorò gli occhi nocciola che stavano sorridendo rivolti a lei. Avevano colto l’assenza del padrone di casa per poter conversare in tranquillità, oltre le formalità. Samuel, dopo giorni al capezzale di Karim, si era ritagliato un breve momento di ristoro per rinfrescarsi e radere l’accenno di barba che stava crescendo sulle sue guance; non vi era nulla di comodo nelle umili case dei civili afghani, solo un bacile di acqua fredda e un piccolo specchio poco riflettente, ma era meglio di niente. Il giornalista aveva ancora i capelli bagnati, era più in ordine rispetto ai giorni precedenti, ma era pallido, non ricordava l’ultima volta che aveva dormito almeno sette ore di fila.
«Cosa stai preparando?»
«È il raa[4], una bevanda tipica delle nostre parti. Non penso tu lo abbia ancora assaggiato, ma non puoi soggiornare qui senza averlo provato almeno una volta»
Maryam gli porse il bicchiere. Gli occhi della ragazza brillavano, orgogliosa delle sue usanze, sotto la stoffa del niqāb doveva essersi dipinto un grande sorriso, così sembrò all’americano. Samuel si bagnò appena le labbra, non osò di più, anche se si fidava di lei. Stava riflettendo sul verdetto, era concentrato su un punto qualsiasi davanti a sé; la ragazza lo scrutò e notò evidenti occhiaie sotto le ciglia inferiori, gli strappò il bicchiere dalle mani con fare apprensivo.
«Dovresti riposare, Samuel»
Il giovane annuì quasi divertito per la preoccupazione dell’afghana e recuperò la bevanda che Maryam aveva posato sul tavolo.
«Dovrei tornare da Karim. Prima però vorrei scambiare due parole con te, se tuo padre non torna prima. E, per la cronaca, mi piace, l’hai preparata tu?»
«Diciamo di sì»
Il giornalista si accomodò senza chiedere il permesso e con un’occhiata invitò lei a fare lo stesso, recuperando la sedia accanto a lui.
«Sentiamo, di cosa vuoi parlarmi?»
«Di te. Parlami dei tuoi sogni, delle tue aspirazioni, del futuro che …»
«Non sapevo fossi anche psicologo»
Maryam non ebbe bisogno di sentire altro, lo interruppe con risolutezza, si alzò e tentò di allontanarsi dagli assurdi spropositi di un occidentale dalla mentalità troppo aperta. Samuel non le consentì di compiere altri passi, le afferrò con delicatezza il braccio e la costrinse a voltarsi verso di lui.
«Maryam, non sto scherzando»
Sapeva perfettamente quanto desiderasse correre in suo soccorso, ma lui non era sacrificabile dalla sua cultura; non voleva rischiasse la vita a causa sua. Era commossa, non aveva mai ricevuto tanta dedizione.
«È fortunata la tua fidanzata. Può scegliere chi amare. Ha scelto te, Samuel, non devi deluderla, è categorico che tu debba tornare negli Stati Uniti sano e salvo. Non scontrarti con mio padre, è un uomo ancora più ottuso dalla morte di mia madre, non è cattivo, ma … Samuel»
Aveva lasciato all’improvviso la presa sulla ragazza, la sua mano era scivolata per poter posare il palmo sul tavolo. Si sentiva debole; pensò subito alla malattia che stava rendendo un incubo i suoi giorni e le sue notti, ma si tastò la fronte con il dorso della mano scoprendo con sollievo che era fresca, non aveva i sintomi della tubercolosi.
«Tranquilla. Sono solo stanco, provo a riposare qualche ora. Mi passa prima di quanto immagini»
 
 
 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 10 settembre 2018
 

«Generale, lei si rende conto di ciò che mi sta chiedendo?! Come posso voltarmi dall’altra parte! Mia figlia ha l’età di quei poveri bambini»
«È la cultura locale, capitano. Se la famiglia lo ritiene necessario può dare anche in moglie una bambina, lo sapeva?»
Flores era in piedi dietro la scrivania e lo ascoltava appena, aveva questioni più importanti da affrontare. Christian batté il palmo sul ripiano, con tutta la forza che la rabbia gli stava infondendo per attirare la sua attenzione.
«Questa è omertà, questo è uno squallore! Lei si sta rendendo complice di pedofilia[5]»
«Le consiglio di essere prudente con le accuse, capitano. Non si trova a casa sua e qui non stiamo parlando di sua figlia. Non ha motivo di infervorarsi»
Christian cercò di calmarsi, solo per semplice educazione. Flores fu costretto a concedergli qualche minuto del suo tempo, altrimenti non si sarebbe mai liberato di lui e delle sue chiare insubordinazioni; si tolse scocciato gli occhiali da vista, chiuse alcuni fascicoli e puntò lo sguardo severo sul seal. Non vi era più l'impedimento delle lenti sottili tra le iridi dei due; si scontravano in una sorta di sfida silenziosa che Christian non aveva alcuna intenzione di perdere.
«Capitano Richardson, forse lei non è al corrente del fatto che questi reati siano già stati segnalati al Pentagono[6]. Siamo ospiti in queste terre, non ci è consentita alcuna intromissione, noi portiamo solo aiuto per combattere gli estremisti. Il non intervento non rende noi dei complici. Non mi importa come intende gestire la sua morale, tenente, ha dimostrato più volte di essere un uomo d’onore, ma non avrà la mia protezione se deciderà di dichiarare guerra ai nostri alleati per questioni di ordine culturale. Spero di essere stato chiaro. Gradirei inoltre che per una volta uscisse da questa stanza come si conviene»
Christian non era convinto che le truppe americane stessero facendo il possibile per aiutare quei bambini innocenti, non era neppure certo di poter cambiare qualcosa, anzi da solo, senza alcun supporto, era destinato ad una rovinosa sconfitta. La conversazione con il generale aveva sfiorato solo un argomento su tre; il superiore l’aveva congedato, ma lui in ogni caso non aveva alcuna intenzione di restare un minuto in più in sua compagnia. Sfiorò e abbassò leggermente la visiera del cappello per uscire subito dopo dall’ufficio del generale, ma non vi era segno di rispetto in quel gesto. Si era sbagliato sul conto di Flores, non vi era morale in lui e ciò che stava consentendo era peggio della circolazione di droga tra i suoi soldati.
Appena fuori dalla torre, si concesse qualche istante per riacquistare lucidità. Si accomodò per terra sopra i ciottoli, ma non sentì dolore fisico. Gli sembrò di vivere nella peggiore distopia, non sapeva come modificare la realtà e nemmeno se lui avesse la reale facoltà per poterlo fare. Il conato di vomito tornò a bussare al suo stomaco, ma non mangiava nulla da ore, perciò non riuscì nemmeno a liberarsi del macigno che stava nascendo nel suo petto. Pianse silenziose lacrime amare, era troppo doloroso sapere di essere a pochi passi dal luogo in cui si stava consumando più di un efferato crimine e avere le mani legate.
Recuperò il suo cellulare, aveva una voglia terribile di rivedere la sua famiglia, di sovrapporre l'immagine della moglie e della figlia a quei pensieri. Gli era tremato il cuore quando al risveglio era riuscito a leggere le parole di sua moglie; non gli erano suonate nuove, doveva averle sognate e doveva aver sognato Katherine, non vi era nulla di insolito. Con poche probabilità sua moglie avrebbe accettato una videochiamata, non riusciva a calcolare che ore fossero a San Diego, era troppo scosso. Attese fissando lo schermo, si asciugò il viso bagnato da sale e sudore e attese impaziente che l’immagine della sua compagna apparisse. Fu sufficiente intravederla per strappare un sorriso alla sua sofferenza.
«Christian? Amore, mi senti? Che bella sorpresa mi hai fatto!»
L’immagine era un po’ sgranata, non la sentiva benissimo, sia per la connessione che per l’udito ancora debole a causa della bomba, ma la vedeva ed era raggiante.
«Ti vedo e ti sento, Kathe. Sei sempre bellissima»
Sembravano trascorsi mesi e invece non si vedevano solo da venti giorni. La donna avvicinò lo schermo al viso e scrutò meglio suo marito, non era certa che l’immagine riproponesse la realtà.
«Chris, hai pianto? Sbaglio o hai un cerotto sul collo, vedo bene?»
Era inutile mentirle, decise di non entrare nei dettagli, ma di lasciarsi comunque confortare da lei che era la sua compagna di vita e la sua confidente privilegiata.
«Come si fa secondo te a sopravvivere agli orrori della guerra? Sto impazzendo, Katherine»
Lei non lo sapeva, era una domanda molto difficile, troppo per colei che ne aveva una misera esperienza soltanto attraverso lo schermo di un televisore; il fatto però che suo marito stesse così male e non potesse ricevere nemmeno un abbraccio la rese impotente.
«Ti aspettiamo, Chris. Non vediamo l’ora che tu sia qui con noi. Passa tutto, poi, ti dimentichi dell’Afghanistan. Abbiamo altro insieme a cui pensare»
Gli sorrise, convinta che lui comprendesse la sua allusione. Christian l’afferrò, ma se solo Katherine avesse saputo le atrocità che si stavano consumando in quelle terre, avrebbe anche lei trascorso notti insonni e non era nemmeno certo che la lontananza dalla guerra avrebbe favorito la sua serenità.
«Siamo sulla spiaggia io e Alisia. Senti il rumore dell’oceano? Oggi è un po’ mosso»
Christian provò subito una forte malinconia per la sua amata California; prima che Katherine glielo facesse notare non aveva percepito il rumore della natura intorno a lei, era troppo preso da altro. Sentì lo scroscio delle onde conto la battigia, la linea ballerina non fu un impedimento e tutto ciò fu un toccasana per la sua anima tormentata; in un istante sentì San Diego e coloro che vi abitavano più vicini di quanto non fossero in realtà.
«Preferisco sentire le vostre voci»
Trascorse qualche attimo di silenzio tra loro, colmato solo dai loro sguardi che si scrutavano attentamente in ogni singolo dettaglio.
«Ti trovo bene, Kathe»
«Io ti trovo sciupato, invece»
L'uomo tentò di ostentare serenità, ma ormai la maschera era caduta all'inizio della loro chiamata ed era stato proprio lui l'artefice; la moglie non riuscì a nascondere la sua preoccupazione. Aveva tentato di ricomporsi nell'eventualità di doversi mostrarsi a lei, eppure non era riuscito nel suo intento, il suo aspetto era costantemente indecente, imbarazzante nella civiltà ma comprensibile al fronte, in quei territori la mente non era mai sgombra per le frivolezze. La famiglia, però, nonostante tutto, per ogni soldato aveva sempre un’influenza positiva, il suo pensiero, il fatto che ci fosse infondeva la forza necessaria per reagire e per non abbandonarsi allo sconforto, per non lasciarsi andare nonostante le mille avversità che la guerra per definizione prevedeva.
«Chris, ti stai riguardando?»
«Certo. Katherine, non è il massimo qui, ma sto bene. Alis?»
«È con William, sta prendendo un gelato al chiosco. Se hai tempo di aspettare, ora tornano»
«Ho tutto il tempo che vuoi»
Christian aveva una pena sul cuore troppo grande che portava il nome della sua famiglia e il segno insostenibile del tradimento, non riusciva a nasconderla a lei, non era solito mentirle. Il suo sorriso si spense, lasciando poca immaginazione sulla gravità della notizia che le stava per comunicare.
«Tesoro. Ho rifiutato un congedo da parte del mio superiore e devo affrontare un'operazione militare piuttosto complicata. Devo guidarla e non so quale esito potrebbe avere. Domani provo ad infiltrarmi tra i talebani, è l’unico modo che ho per cercare di salvare vite umane che contano su di me»
Un fiume in piena la travolse, una lacrima scorse sulla guancia di Katherine. L'immagine era sgranata, c'era la possibilità che lui non se ne accorgesse; cercò di mantenere un'espressione composta, gettò qualche occhiata all'orizzonte per provare a calmarsi e a rivolgersi a lui con tutta la forza morale e con tutto il coraggio di cui era capace. Non voleva che lui soffrisse per la sofferenza di sua moglie, aveva troppo a cui pensare.
«Se ti sei rifiutato di tornare da noi, significa che c'è un motivo più che valido, ne sono sicura. Noi stiamo bene, Chris. Aiuta quella gente. Però torna, non posso pensare che potresti fallire»
«Mi dispiace per averti dato nuove preoccupazioni»
«So bene che sei un Navy SEAL e che nel tuo cuore non ci siamo solo io e nostra figlia»
«Avete la parte più grande del mio cuore»
«Questo mi fa piacere»
Gli sguardi dei due coniugi esprimevano più di quanto riuscissero a dire attraverso le parole. Per quanto l'anima di Katherine tremasse alla sola prospettiva di perderlo, gli rivolse un grande e commosso sorriso per esprimergli tutto l'orgoglio e l'amore che provasse per lui. Christian si sentì meglio, non l'aveva delusa; avrebbe solo voluto sfiorarla, ma ancor più sperava di poterlo fare un giorno.
«Stai attento. Ti prego»
«Sarò il più prudente possibile»
Erano stati necessari i passi leggeri e veloci della sua bambina per risollevare l'umore, Christian li riconobbe, si stavano avvicinando al telefono della moglie. Subito dopo la voce di Alisia, resa ancora più sottile dal microfono, riuscì a sfondare le conseguenze dell'ultimo attacco che era stato mosso ai suoi danni. Katherine le intimò di non correre con il gelato in mano.
«Will è dovuto correre in ufficio»
La piccola si avvicinò alla madre quanto bastò per intravedere lo schermo.
«Papà!»
Christian sentì nitida la voce della figlia, ma continuava a non scorgere il suo viso.
«Tesoro, vedo solo la mamma, dove sei?»
La madre la fece accomodare sulle sue gambe, entrò così nell’inquadratura con le labbra carnose e il contorno sporchi di cioccolato; gli provocò un sorriso sincero. L'innocenza della sua bambina era il regalo più grande che un soldato potesse ricevere, lo aveva imparato con l'esperienza.
«Papà, ho preso A+ nel compito di matematica, quando torni te lo faccio vedere, la maestra Margaret mi ha fatto tanti complimenti»
«Brava, amore, ma non avevo alcun dubbio sul fatto che fossi bravissima. Com’è andata a New York? Hai incontrato i nonni?»
«Solo la nonna, poi siamo andate via»
Katherine era in difficoltà, lui la stava fissando interdetto, ma era un argomento troppo delicato da affrontare in poco tempo e in quelle condizioni.
«Quando torni, ti raccontiamo tutto, Chris»

 


Ciao ragazzi!
Mi è servito tempo per mettere insieme tutto ciò, non è stato semplice per me affrontare alcuni temi, ho avuto difficoltà sia a citarli in modo appropriato all'interno del capitolo sia ad affrontarli moralmente.  Mi auguro di non essere stata troppo frettolosa, nonostante il capitolo sia piuttosto lungo. Purtroppo questi sono i fatti ed è inutile nascondersi dietro un dito quando esistono prove ovunque. Visto però l'argomento molto delicato, anche se solo accennato (non credo nemmeno sia possibile su questo sito approfondire ulteriormente, al massimo ci sarà modo più avanti di addestrarsi un pochino di più, ma senza entrare troppo nei dettagli), ho preferito avvertire e riportare tutti i dovuti riferimenti. 
Ho deciso di dare un quadro più realistico possibile della guerra, è stata una decisione molto ponderata. Spero di non aver urtato troppo la vostra sensibilità, ma se siete giunti fin qui sono certa non abbiate il timore di addentrarvi insieme a me in questo mondo così distante da quello occidentale. Vi ringrazio per accompagnarmi ormai da mesi in questo viaggio, spesso doloroso, sto imparando a conoscere quei territori insieme a voi e grazie all'affetto che dimostrate per questa storia. <3 Trovavo doveroso smorzare tutta questa drammaticità con una breve conversazione tra Christian e la sua famiglia. Come sempre, spero di essere riuscita ad equilibrare le parti e a non snaturare il genere.
Vi anticipo che le scoperte che faranno Christian e Rashid non saranno per nulla liete, anzi la quiete apparente di questo capitolo (almeno per quanto riguarda le azioni militari) sarà ripagata nel prossimo, quindi scusate in anticipo per eventuali momenti di intensa adrenalina.
Alla prossima!
Un abbraccio grande 
-Vale
 

[2] Istituto di studi superiori in cui si ultima lʼapprendimento garantito dal maktab (indica la prima precaria e rozza scuola islamica in cui un adulto volenteroso e discreto conoscitore del Corano insegnava a leggere e a scrivere la lingua araba ai ragazzi, in cambio di un magro emolumento da parte dei loro genitori) e dalla moschea.

 
[3] Lettore di sacri testi islamici, il confratello a cui è affidata la direzione della preghiera spirituale.
[4] Bevanda locale, un vino di palma dolce estratto direttamente dal tronco delle piante.
[6] L'edificio sede del quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d'America.
   
 
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