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Autore: The Custodian ofthe Doors    26/08/2020    7 recensioni
[ AU!Police| Seguito di Una pista che scotta| II| Detective!Alec| PoliceOfficer!Simon| SemiCriminal!Magnus| AlecSimonMagnus!squad]
Alexander Lightwood è un Tenente della Omicidi di New York City a capo di una squadra a dir poco particolare e se un tempo era famoso per la sua pazienza e la sua calma imperturbabile, oltre che per la sua sfortuna, ora lo è anche per aver risolto il grande Caso Circle a trent'anni dalla sua archiviazione.
Ma i problemi non sono finiti e non arrivano mai da soli.
Dopo il ritrovamento del quaderno del Circolo di Asmodeus vecchi mostri sacri della criminalità risorgono dalle loro ceneri, attirati dalla consapevolezza che il proprio nome risulti su quelle pagine assieme a tutti i loro segreti più grandi.
New York apre il sipario e mette in scena, per l'ultima volta, l'ennesimo atto di uno spettacolo che in troppi temevano di rivedere, in cui troppi saranno costretti a recitare di nuovo o per la prima volta.
I demoni stanno tornando, crimine e giustizia saranno ancora costretti a combattere assieme questa battaglia che nasconde più di quanto non possano credere.
La chiamata è stata fatta e nessuno potrà ignorarla.
Che gli piaccia o meno.
Genere: Azione, Commedia, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Simon Lewis, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo XIV
Lealtà.
 
 
Il traffico gli era parso particolarmente denso quella mattina, la marea di taxi gialli aveva bloccato le strade larghe della Grande Mela, una schiera di luci rosse di stop incolonnate le une dietro le altre. Alec era riuscito ad arrivare in ufficio in tempo solo perché usciva sempre presto di casa, l’ansia costante del ritardo codificata nel suo DNA e nei ricordi d’infanzia in cui sua madre gli urlava contro che tardare anche solo di un minuto poteva permettere alla difesa o all’accusa di arrangiare una nuova prova, una nuova teoria.
Mai dare un attimo di vantaggio ai tuoi avversari, di qualunque tipo essi siano.
Forse era proprio in virtù di tutti questi insegnamenti che Alec aveva imparato ad amare sport solitari e calmi come il tiro con l’arco. In quello non c’era l’ansia del tempo, non c’era l’ansia della velocità. Certo, non potevi rimanere le ore su di una sola freccia, ma questo non significava ci fosse una pressante e costante corsa come nel nuoto.
Alexander ricordava con affetto ma anche con un po’ di fastidio quegli anni passati a macinare chilometri su chilometri in una piscina azzurra di mattonelle quasi fluorescenti, con il tanfo del cloro che gli bruciava le narici e lo assuefaceva ad ogni altro odore. Ricordava il suo allenatore sulla sponda, che camminava ad agio mentre lui invece doveva correre, doveva nuotare più veloce. Maggiore estensione delle braccia, colpi più potenti dei piedi. Si respira poche volte, bisogna farsi bastare quella boccata piena d’acqua che si prendeva ogni due andate. Forse era per quello che il suo stile preferito era sempre stato il dorso, un’andatura che gli permetteva di rimanere fuori dall’acqua, lo sguardo puntato verso il soffitto e le luci accecanti che si riflettevano malamente sulle lenti leggermente oscurate dei suoi occhialetti. Non c’era fine con il dorso, non lo vedevi mai il muro finché non lo toccavi, finché non lo intuivi.
Peccato che a lui toccasse sempre lo stile a farfalla quando facevano le dannate staffette…
Stiracchiò il collo entrando nell’ascensore, doveva decisamente tornare a fare un po’ di ginnastica seria, qualcosa che andasse oltre gli esercizi di riabilitazione. Magari sarebbe potuto proprio tornare in piscina, per nuotare finalmente al suo ritmo e non a quello di un cronometro.
O magari, giusto per aver un po’ di compagnia, sarebbe tornato sul ring assieme a Jace. O, se proprio voleva far un colpo di matto, avrebbe chiamato Howard e chiesto a lui quando sarebbe venuto a far una visita alla casa base per riaffacciarsi alla vecchia pista.
In ogni caso, qualunque sogno di gloria avrebbe dovuto attendere la fine del caso Cobe e di tutto quello che ne sarebbe derivato. Ancora prima però, c’era qualcos’altro che doveva trovar risoluzione al più presto.
Uscito dall’ascensore s’incamminò per il lungo corridoio senza neanche fermarsi un attimo alla sua postazione. Sapeva per certo che l’uomo che stava cercando era già nel suo ufficio e prima che potessero arrivare le nuove pratiche della giornata avrebbe potuto rubargli un attimo del suo prezioso e sempre scarso tempo.
Con un cenno del capo salutò la segretaria del Capo Blackthorn e bussò educatamente alla porta, attendendo il permesso per entrare.
Quando la voce dell’uomo lo esortò ad entrare Alexander prese un respiro profondo e mise su la sua espressione più professionale: la giornata era appena iniziata.
 
 
Blackthorn era seduto dietro la sua scrivania, sempre ingombra di carte e fascicoli, alcuni abbandonati sopra la tastiera del computer, altri addirittura sul telefono.
Alexander rimase impassibile, in attesa di un altro ordine per poter spostare le pile di fogli sulle poltrone e poggiarle in un qualunque altro posto.

«È una cosa così lunga da richiedere un posto in cui sedersi o possiamo risolverla velocemente, Lightwood?» domandò l’uomo senza alzare la testa dai documenti.
Alec si mise quasi sull’attenti. «Potrebbe essere una questione lunga ma non ho bisogno di sedermi, Signore.» rispose prontamente. «Ma necessiterei della sua attenzione, questo sì.» aggiunse con un leggero cenno del capo.
Blackthorn annuì. «Inizia allora.»
Alec annuì. «Durante le indagini sul caso Potter sono venuti alla luce collegamenti con vecchi casi, sia della Omicidi che della Narcotici. Esaminando vecchie prove l’agente Morgenstern è entrato in possesso di un oggetto, un biglietto da visita simile a quello dei club, dimensioni quadrangolari, viola, carta spessa con su impressa una rosa stilizzata in nero, che gli ha ricordato un vecchio caso a cui partecipò. In cui rimase coinvolto ad esser precisi.»
«Il caso degli assassini su commissione? La strage del Queens?» domandò alzando la testa dai fogli, senza però posare la penna.
Un altro cenno del capo e Blackthorn lo esortò a continuare.
«Presumo ricorderà che Morgenstern rimase coinvolto in una delle sparatorie finali del caso.»
«Fu praticamente l’unico a salvarsi in quella casa.»
«Così come asserì a suo tempo, mi ha raccontato di esser stato mandato sul retro dell’abitazione, qui è stato colpito alla testa da uno degli aggressori, ma invece d’esser ucciso è stato “graziato”.»
Blackthorn alzò una mano interrompendolo. Gettò la penna sul tavolo e si massaggiò gli occhi già stanchi ad inizio giornata.
«Per favore Lightwood, non dirmi che avete scoperto che il criminale che lo graziò aveva affari con suo padre e solo ed unicamente per questo motivo lo ha risparmiato e non dirmi che avete scoperto che tipo di affari erano. Sono solo le sette e quaranta di mattina.»
Alec drizzò la schiena ancor di più, stirando le labbra in un’espressione che d’espressivo non aveva assolutamente nulla. Andrew si ritrovò a fissare il volto di cera di una maschera funebre e seppe per certo che quello che Alexander stava per dirgli si sarebbe piaciuto ancor meno di quello che lui stesso aveva pronosticato.
«No Signore. Nulla di tutto questo. Morgenstern ha accennato alla questione, si è posto parecchie domande a proposito ma non abbiamo nessuna prova che l’aggressore fosse in qualche modo in affare con Valentine Morgenstern.
Il punto focale di questa faccenda riguarda il biglietto trovato tra le prove provenienti dalla casa di Potter, quelle che la Narcotici ha ispezionato quando hanno fatto irruzione dell’appartamento della vittima e del suo coinquilino mesi dopo la scomparsa di Potter.
Morgenstern giura che il disegno sul talloncino viola sia lo stesso che la ragazza che lo risparmiò aveva tatuato sulla schiena. Gli dissero di non inserire questo particolare nella sua deposizione, e malgrado Morgenstern lo fece ugualmente, nessuno gli diede mai peso perché, viste le circostanza, tutti i detective e gli esperti erano concordi nel dire che con la luce presente sulla scena e la confusione data da un colpo alla nuca non c’era nessuna certezza che avesse effettivamente visto quel tatuaggio o che se lo fosse immaginato.» 
Blackthorn lo guardò con attenzione: gli piaceva decisamente meno. Se quanto affermato da Morgenstern fosse risultato vero significava che quella banda, in affari almeno sei anni prima, era ancora attiva e forse era cresciuta a tal livello da potersi permettere un club o un night con il suo logo.
«È legato al caso Potter in modo diretto?» domandò quindi.
Il detective non mosse neanche un muscolo, parve non respirare neanche. «Potrebbe essere legato ad un giro ancora più grande. Una rete criminale collegata a molte altre.»
«L’Operazione Congiunta con la Narcotici.» sospirò.
«Bane ci ha dato un nome. Se stiamo parlando della stessa banda, e ci sono buone possibilità che sia così Capo, siamo davanti ad un gruppo noto come Night’s Children, lo stesso del caso di Morgenstern.»
Andrew annuì. «Sì, ricordo quel nome. Ricordo anche quello stupido sito web, a suo tempo cercammo anche noi della Omicidi di trovare qualche collegamento con alcune morti apparentemente insensate.» sospirò. «Chiudete al più presto il caso Cobe e poi dedicatevi a questa pista, farò in modo che non vi vengano assegnati altri lavori nel mentre. Ma se dovesse andare troppo per le lunghe e non dovreste riuscire a trovare collegamenti verrete riassegnati al lavoro sul campo. L’Operazione Congiunta è importante ma purtroppo la gente non smette di uccidersi a vicenda solo perché siamo impegnati in altri casi.»
Anche Alec annuì, perfettamente concorde con le parole del suo Capo, ed attese che l’uomo dicesse altro prima d’esser lui stesso a continuare quella conversazione, seppur con un nuovo argomento.
Blackthorn lo conosceva orami da una vita: aveva visto Alec bambino, l’aveva visto liceale e poi matricola. Era nel suo dipartimento che aveva mosso i primi passi da agente semplice, guadagnandosi tutti i suoi gradi, seppur così velocemente. Non gli sfuggì quindi la sua postura rigida, dritta e solenne. Se avevano appena parlato di qualcosa di così spiacevole quanto un collegamento con un caso irrisolto ormai chiuso da anni – qualcosa che a quanto pareva riusciva benissimo ad Alexander – sicuramente ciò che avrebbe voluto dirgli poi non gli sarebbe ugualmente piaciuto.
 
Ed è già la seconda volta nel giro di pochi minuti che succede. Si preannuncia una giornata magnifica.
 
«Cos’altro c’è che ti turba?» domandò quindi con fare quasi rassegnato.
«So che non ho il diritto di chiederle una cosa del genere, ma gli sarei davvero grato se, per il momento, potesse evitare di mettere il Commissario Herondale a parte di quanto le ho appena detto.»
L’uomo rimase per un attimo immobile, alzando lentamente lo sguardo, sorpreso da quella domanda assolutamente insensata e strana, se non sospettosa, postagli da quello che, a conti fatti, reputava uno degli agenti più integerrimi dell’intera stazione. Se non il più integerrimo.
Ma, ancora una volta, Andrew conosceva il “suo Lightwood” e sapeva perfettamente che il giovane gli avrebbe chiesto una cosa del genere solo in due casi: o sospettava che la Herondale c’entrasse qualcosa con quel caso o voleva proteggere qualcuno, forse persino dalla donna stessa. E visto che Andrew sapeva per certo che il suo superiore non aveva nulla a che fare con quel caso, la risposta logica era solo una.
«Perché?» domandò serio, aspettandosi già il tipo di risposta che avrebbe ricevuto.
Alec strinse le labbra, le contrasse in un modo che sapeva quasi di rabbia, quasi di risentimento.
 
Tradimento.
 
Ma non del tipo di cui si era macchiato Valentine, in questo caso era un tipo ben diverso ed il Capo Blackthorn, ex detective, lo poteva vedere chiaramente.
C’erano solo due persone contro cui la Herondale sarebbe potuta andare in modo crudele e diretto, solo due persone che rientravano al contempo nella cerchia dei “protetti” di Alexander Lightwood.
Qualcosa gli diceva che non si trattava di Bane.
 
«L’agente Morgenstern è andato ad informare la Signora degli sviluppi del caso e delle possibili implicazioni. Non ha ricevuto una risposta professionale e non voglio che i miei colleghi, i miei agenti, si ritrovino nella spiacevole situazione d’esser trattati in modo non professionale in una situazione del genere.» rispose secco il detective.
Andrew lo studiò in silenzio, poi annuì. «Te lo ha detto Morgenstern?»
«Nossignore. L’ho dedotto da me. L’agente Morgenstern non ha detto nulla di specifico. Ha detto che è stata solo una perdita di tempo.»
 «Cosa credi possa avergli detto la Signora?»
Alexander lo fissò senza battere le ciglia, alle volte era davvero inquietante, come lo era suo padre quand’erano sotto copertura, come lo era un volto fumoso del suo passato che Andrew non riusciva a mettere a fuoco.
«Nulla.»
La risposta del giovane fu lapidaria e senza possibilità di replica ed il Capo della Omicidi capì perfettamente cosa volesse dire.
 
Morgenstern è andato dalla Herondale per fare la cosa giusta, per dimostrarsi l’agente onesto e attento che troppi lo accusano ancora di non essere, ma anche per aver un consiglio, un’indicazione da qualcuno di decisamente più saggio ed esperto di lui.
Ed Imogen deve avergli detto esattamente ciò che crede Alexander: nulla.
Non si è sbilanciata, non gli ha dato consigli, non gli ha detto cosa fosse giusto fare o meno. Gli avrà detto di parlarne con i suoi diretti superiori e basta.

 
Andrew rifletté su quanto questo evento, quanto l’aver fatto la cosa giusta anche senza ricevere come minimo un segno d’apprezzamento, doveva aver infastidito Morgenstern. L’agente non era suo padre, questo no, ma era palese che alcune caratteristiche della sua personalità erano pressocché identiche a quelle del loro vecchio amico. Andrew ricordava perfettamente come Valentine avesse sempre avuto bisogno di un ideale, di un obbiettivo prefissato da raggiungere per poter andare avanti. Non era tanto difficile ripescare vecchie immagini dal loro passato, il modo in cui Val si impegnasse anche nelle cose che non amava, che non gli piacevano, che reputava inutili ma che altri, invece, credevano essenziali: in quei momento non aveva bisogno di grandi apprezzamenti, di grande ammirazione, necessitava solo di qualcuno di fidato o di più grande che lo guardasse negli occhi che gli facesse un cenno con la testa, che accennasse un sorriso. Che gli facesse capire che sì, aveva effettivamente fatto bene.
Con il tempo la cosa era diventata sempre più palese, sempre più necessaria. Dopo l’Operazione Circle, dopo le morti dei loro amici e la fuga di Asmodeus, per ogni caso, per ogni impiego, Valentine aveva bisogno che qualcuno gli assicurasse d’aver fatto bene. Ad oggi Andrew non sapeva se fossero stati sensi di colpa, se dopo quello sporco tradimento Valentine si fosse pentito e sentisse il costante bisogno d’esser approvato da tutti.
Era ovvio che Jonathan avesse ereditato quel tratto, forse abituato sin dall’infanzia a sentirsi chiedere se le azioni di suo padre fossero perfette e giuste come quelle di madre e patrigno, o forse ricevendo cenni di benevolenza per ogni sua scelta fatta.
Era altrettanto ovvio che Imogen Herondale non gli avesse dato questa soddisfazione, non gli avesse detto che aveva fatto la cosa giusta ad andare a parlare con lei. Era ovvio che non avesse fatto alcun ché.
Guardando Alexander si rese però conto che, a differenza della donna, a differenza di quanto non avessero fatto loro a suo tempo, lui non avrebbe alimentato quel bisogno costante d’approvazione ma non l’avrebbe neanche ignorato.
 
È stato fatto “un torto” ad un suo collega, ad un suo sottoposto, qualcosa che lo ha messo a disagio, che lo ha sconfortato forse, e lui non l’ha accettato. Non lo accetta. Non lo accetterà in futuro.
 
Benedetto Lightwood, giusto e leale fino alla fine. Fino alla morte.
 
«Se l’agente Morgenstern è già andato a parlare con la Signora non vedo per quale motivo dovremmo metterla a parte di qualcosa di cui è già a conoscenza.» gli disse accennando un piccolo sorriso, qualcosa di impercettibile che il ragazzo scorse ugualmente e lo fece rilassare un poco nella sua rigida postura. Era rimasto in piedi, immobile, per tutto il tempo.
 
Ha fatto la sentinella in Afganistan, vestito di tutto punto e sotto il sole cocente, questo dev’esser nulla per lui.
 
Alle volte era incredibilmente facile dimenticarsi che quel giovane dagli occhi cangianti e la palle pallida aveva servito la bandiera anche con un’altra divisa indosso. Alexander aveva visto l’orrore della guerra tra popoli e quello della guerra privata, della morte di massa e di quella mirata, per interesse, per rancore, per soldi. Forse quello era uno dei motivi per cui era sempre così protettivo verso tutti i suoi colleghi, verso tutti coloro con cui aveva collaborato.
Il sorriso sul volto dell’uomo si fece più morbido ed aperto.

«Tienilo d’occhio, però. Ho la sensazione che questa storia lo tocchi più di quanto non voglia dare a vedere.»
«Si sente responsabile in un qualche modo. È il suo conto in sospeso, più di quanto non lo sia suo padre.»
Blackthorn annuì, non si aspettava una citazione così esplicita a Valentine ma era del tutto lecito che Alexander pensasse una cosa del genere e che la confidasse a lui.
Con un altro sorriso appena accennato, Andrew si rese conto d’esser una persona affidabile, qualcuno di cui anche il sospettoso e sempre attento Alexander Lightwood si fidava. Oh, se solo quel ragazzo avesse potuto anche solo intuire tutte le ombre che si nascondevano dietro di lui, dietro quella scrivania e quelle lunghe ore di lavoro. Stava ancora scontando la sua pena, le sue colpe, alternandosi tra i massacranti turni in Dipartimento e quella casa costantemente in disordine in cui ancora risuonavano i passi incostanti di tanti bambini.
Era anche per loro che lo stava facendo, per i suoi figli. Perché un giorno qualcuno avrebbe potuto rinfacciargli tutti i suoi errori e loro avrebbero potuto replicare, dimostrare quanto avesse lavorato sodo per ricucire tutti gli strappi, per lavarsi via il sangue dalle mani.
Andrew Blackthorn era una persona affidabile ed era orgoglioso di esserlo, d’esserlo diventato nonostante tutto.
 
«Tutti noi abbiamo un caso del genere. Conto sul fatto che la tua squadra l’aiuti a mettere un punto alla faccenda. Quanto avrà superato anche questo potrà dedicarsi al suo lavoro e alla sua carriera come meglio crede.» annuì alle sue stesse parole. «Mi aspetto anche aggiornamenti sul caso Cobe, al più presto. Se ricevo un’altra telefonata da qualche personaggio illustre che vuole sapere chi è il mostro che ha ucciso il suo cuoco di fiducia la passerò a te, sappilo.» terminò riprendendo in mano la penna e abbassando lo sguardo sui suoi fogli.
A quel palese congedo Alec rispose con un cenno rigido della testa, nascondendo alla perfezione quanto quella minaccia l’avesse toccato più qualunque altra cosa avrebbe potuto dirgli: Alexander odiava il contatto con pubblico, media e personaggi pubblici forse solo come lui e suo padre facevano.
«Sarà fatto Capo, buona giornata.»
 
  

 
Passato.
 
Il rumore dei singhiozzi era straziante, le faceva venire la pelle d’oca e al contempo una voglia irrefrenabile di tapparsi le orecchie per non sentire più niente. Avrebbe voluto mettere la testa sotto la sabbia, come facevano gli struzzi. Che poi, non riusciva proprio a capire come potessero riuscirci: cosa facevano? Semplicemente caricavano il lungo collo come fa un boxer con un pugno e colpivano il terreno entrandoci dentro con un unico colpo?
Quel pensiero la fece rabbrividire ancora.
Un pugno.
Con mani tremanti, cercando di essere più delicata possibile, la bambina premette la carta imbevuta d’acqua sulla guancia della sua amica. Il piccolo volto pallido di Céline era macchiato da un enorme ematoma rossastro e pulsante, che già iniziava a volgere verso le prime sfumature violacee. Era un rosso intenso e ben diverso da quello che le colorava il naso e gli occhi a forza di piangere. Diverso dal colore che avevano assunto le sue labbra, lucide e spellate, bagnate di lacrime, di moccio e della saliva che le sfuggiva tra un singhiozzo e l’altro.
Non le faceva schifo, si rese conto la bambina, quello che animava il suo corpo era dolore riflesso, dispiacere, pietà e rabbia, tanta, tantissima rabbia.
Come aveva potuto farle una cosa del genere? Come aveva potuto colpirla così forte?
Se fosse stato un loro compagno di classe a farlo, o comunque uno dei bambini della loro scuola, un loro coetaneo, era sicura che il livido non sarebbe stato così grosso. Che la pelle delicata non si sarebbe riempita di venature, spaccandosi lì dove le nocche dovevano aver impattato con più violenza.
Céline era caduta. Aveva sbattuto la testa, sulla tempia sfoggiava un rossore inquietante come quello del suo livido. Aveva delle sbucciature sulle mani perché aveva cercato di difendersi, di coprirsi. Aveva i vestiti sgualciti e le ginocchia rigate di sangue per tutte le volte che era caduta sull’asfalto durante la sua folle e forse sciocca corsa verso casa sua.
In quei giorni precedenti Rose era stata felice, soddisfatta, contenta. Era stata orgogliosa di sé perché i turni di lavoro dei suoi genitori non combaciavano bene con la sua uscita da scuola ma sua madre aveva detto che si fidava a lasciarla un paio d’ore da sola, senza doverla così costringere a restare al doposcuola o a casa di uno dei vicini.
Era sola anche quel giorno, come ogni giovedì, e per la prima volta dall’inizio di quella sua nuova routine, di quelle sue otto ore solitarie settimanali, desiderava con tutta sé stessa che uno dei suoi genitori tornasse prima dal lavoro, che non la lasciasse sola, che non pensasse che stava crescendo e poteva cavarsela. Desiderava che suo padre e sua madre sentissero quella strana sensazione che sentono tutti i personaggi dei libri, dei film e dei cartoni quando qualcosa va storto e che la chiamassero, che corressero da lei per puro sesto senso.
Ma non poteva succedere, loro non sarebbero tornati se non tra più di un’ora e Céline l’aveva implorata di non chiamarli, le aveva stretto le mani attorno al polso e le aveva gridato di non farlo, di non dirlo a nessuno, di non abbandonarla. E lei l’aveva accontentata, terrorizzata all’idea di far solo peggio in quella situazione troppo delicata per delle bambine di undici anni.
Rose buttò la carta nel water e ne prese un altro pezzo per imbeverlo di disinfettante.
«Questo brucia un po’ però se lo fa vuol dire che sta pulendo la ferita.» ripeté a bassa voce il mantra che le riproponeva sempre sua madre.
Céline annuì, tirando rumorosamente su con il naso. Batté le palpebre un paio di volte cercando di contrastare la visuale sfocata dalle lacrime e allungò la mano verso il rotolo abbandonato per terra, srotolando un bel po’ di carta per soffiarcisi il naso.
«Vuoi bere un po’ d’acqua? Così magari non ti fa più male la gola?» propose l’altra ancora.
Ma la bambina scosse la testa, muovendo a mala pena la bocca per dire che voleva starsene lì, starci per sempre.
Fecero proprio così, rimanendo ferme in silenzio, senza sapere cosa fare.
Era ovvio che Céline avesse paura di tornare a casa. Se suo padre le aveva rifilato quel colpo solo per aver dimenticato di chiudere una finestra non voleva neanche immaginare cosa sarebbe successo al ritorno dopo una fuga di quasi sei isolati. Ma dovevano solo tener duro per un altro po’, poi sarebbero arrivati i suoi e avrebbero aiutato Céline come meglio potevano. Ne era sicura.
 
La sua sicurezza vacillò prepotentemente quado la porta di casa si aprì e sulla soglia apparve sua nonna.
Rose la fissò con astio, domandosi come fosse riuscita ad entrare sé il figlio le aveva ripreso la copia delle chiavi che possedeva. Conoscendo sua nonna e quanto fosse infida, la bambina non ci misi molto a capire che doveva essersene fatto un secondo paio. Avrebbe detto subito tutto a suo padre, chiedendogli di cambiare tutte le serrature di casa. Avrebbe rinunciato anche ai suoi regali di compleanno per tutta la vita se la spesa fosse stata troppo costosa. Tutto pur di tenere quel mostro di donna fuori dal suo posto sicuro.
Quella la fissò senza dire una parola, una smorfia infastidita sul volto rugoso e arcigno, così differente da quello della sua vicina di casa che di rughe ne aveva anche il doppio ma malgrado sembrasse un chicco d’uva passa secco era decisamente più gentile e buono del suo.

«Papà non vuole che entri qui.» le disse allungando istintivamente il braccio per tirarsi Céline dietro la schiena.
La donna sbuffò. «Mi darà ragione quando saprà che sono entrata per restituire una figlia a suo padre.»
A quelle parole Rose poté sentire perfettamente le mani della sua amica stringersi sulla sua maglia.
Deglutì: il padre di Céline era lì? Era fuori? Era vicino? Cosa doveva fare? Era un adulto, anzi, erano in due e sua nonna, per quanto vecchia, aveva sempre avuto una presa d’acciaio.
Doveva fare qualcosa, pensò velocemente, doveva proteggere Céline in tutti i modi.
Prese coraggio e alzò la testa. «Céline non può andare a casa con lui. Sta male, non può viaggiare. Può rimanere a dormire qui questa notte e domani la riportiamo noi a casa.» ribatté decisa.
«A me pare che la bambina stia benissimo.» le fece notare la donna avanzando.
Rose fece un passo indietro e spinse l’amica verso le scale.
«No, non sta per niente bene. Non lo vedi che è ferita? Ha mal di testa e tantissima nausea, se va in macchina vomita.» disse salendo un paio di gradini.
«Questo sarà un problema di suo padre e non tuo.»
«Ma non la vedi?» sbottò arrabbiata. «Ha un livido enorme in faccia! Ha battuto la testa! È piena di graffi e di ferite!»
«Un motivo in più per consegnarla a suo pad-»
«Ma è stato lui a ridurla così! È stato lui a picchiarla e farle quel livido!» gridò con quanto fiato aveva in gola, ferma sulla scala, le braccia spalancate per impedire alla donna di allungare anche solo una mano verso la sua amica.
Non voleva dirglielo e non l’avrebbe mai fatto se non fosse stato necessario, ma alla fine non aveva avuto altra scelta se non dire la verità. Chi mai avrebbe mandato un bambino assieme ad un genitore violento?
 
«Significa che se lo meritava.»
 
Quella parole la lasciarono di stucco. Gli occhi sgranati puntati verso il volto impassibile quasi accusatorio di quell’orribile donna.
«Se un padre picchia suo figlio vuol dire che se l’è meritato. I genitori, quelli veri, sanno come farsi rispettare. Bisogna stare al proprio posto, fare quello che ti dicono. La tua amichetta deve aver disobbedito a suo padre, deve aver fatto qualcosa di sbagliato e ora, dopo un bel ceffone, non lo farà più. Ha imparato la lezione. Se anche tuo padre avesse dato a te e a tua madre qualche bel ceffone ogni tanto, ora avrebbe una famiglia decente e non questa cosa
La spintonò di lato e afferrò malamente il polso fino e delicato di Céline, lasciandole subito segni rossi sulla pelle pallida.
Rose provò ad allungarsi, a prendere la sua amica ma uno di quei fantomatici “ceffoni” arrivò anche a lei, facendola cadere da quei tre gradini che ormai la dividevano dal pavimento.
Il sorriso soddisfatto e compiaciuto di quel mostro, il rumore delle scarpe di Céline che stridevano contro le mattonelle, le grida ed i singhiozzi della sua amichetta, furono quello che sognò per i mesi successivi.
Quella fu la prima volta che desiderò fare del male a qualcuno, fargliene sino a sentirlo urlare e pregare come aveva fatto Céline.
Quello fu l’esatto momento in cui decise che un giorno avrebbe ucciso sua nonna e che l’avrebbe fatto lentamente e fra atroci sofferenze come i criminali nei film.
Si sarebbe vendicata per tutto il male che aveva fatto a lei, a sua madre, a suo padre e ora anche alla sua amica.
 
Non aveva idea che sarebbe successo così presto.
 

 
Presente.
 
Alec batté le palpebre una sola volta. Un unico battito e poi aggrottò le sopracciglia. Malgrado ciò il messaggio che brillava sullo schermo del suo telefono non accennava a cambiare o a ricevere rettifiche.
Sulla chat faceva bella mostra di sé l’immagine di profilo di Magnus, correlata al nome decisamente più sobrio con cui Alec l’aveva registrato sul suo telefono. Sotto la barra superiore un paio di messaggi più vecchi, risalenti al giorno prima, e poi quell’ultimo:
 
-Magnus:
“Fiorellino mio bello adorato sorgi e splendi in questo nuovo magnifico giorno [sole][cuore luccicante][faccina sorridente]”
“So che questa notizia ti spezzerà il cuore e che ti struggerai di dolore per tutto il giorno ma mi duole informarti che non potrò rallegrare la tua giornata e dare un senso alla tua vita oggi. [faccina triste] Eventi più grandi di me mi tengono lontano da te, mio bel cavaliere dall’armatura splendente che galoppi incontro la sole sul tuo cavallo bianco.”
“E sappiamo bene quanto tu sia bravo [faccina che ammicca] a cavalcare [cavallo]”


“In pratica quei deficienti dei miei dipendenti hanno fatto casino e ora me ne devo occupare io.”
“Che la pago a fare la gente se poi mi fa danni, Alexander? Perché tutte a me? Sono un brava persona io.”


“All’incirca.”
“Più o meno.”
“…”
 
“Okay, quello era il momento giusto per dirmi che non è così e che sono una persona magnifica sotto ogni aspetto e punto di vista.”
 
 
-Tu:
“Non mentirò così spudoratamente.”
 
 
Si sbrigò a digitare per prima cosa.
 
-Tu:
“Problemi gravi? Hai bisogno di una mano?
Se pensi di sì, chiama Cristiano. Non fare nulla che né io né lui faremo.”

“Non fare nulla e basta.”
 
Lasciò il telefono sulla scrivania e sistemò la pistola nel cassetto. Poi riafferrò lo smartphone e andò a prepararsi un caffè.
 
 
-Magnus:
“AH! Così mi ferisci Fiorellino! [cuore spezzato]”
“In pratica non posso fare niente.”
“Tu e quel rompipalle di un Santiago mi rovinate sempre tutto il divertimento.”
“Tutti i Santiago mi rovinano sempre il divertimento, ad essere onesti. E anche i Lightwood non scherzano.”
“Povera Guadalupe, non se ne salva uno dei suoi figli. Che vita infame che ha avuto quella donna.”

 
“Non è comunque un problema che non abbia già affrontato in passato.”
“Sono un bambino grande io, che ti credi? [cuore][cuore][cuore]”

 
“Di a Sidmund che papà non lo ha abbandonato e allo stronzo platinato di non cantar vittoria e godersi la giornata perché domani tornerò più carico che mai.”
 
-Tu:
“Cristiano è il tuo avvocato, non ti rompe le scatole per nulla.
Sappiamo tutti quanto la tua idea “divertimento” possa esser pericolosa.”
“In ogni caso, se ti serve una mano, chiama.”

 
“E Simon non può sentire la mancanza di papà. Sono qui.”
 
 
Non aspettò una risposta, chiuse la chat, bloccò lo schermo ed infilò il telefono nella tasca dei pantaloni, ignorando le vibrazioni dei nuovi messaggi e preparandosi il suo meritato caffè prima di mettersi a lavoro.
Quella giornata sarebbe stata davvero pesante, dovevano visitare un bel po’ di posti e parlare con fin troppe persone.
Quando tornò alla scrivania e depositò per la seconda volta il telefono sul piano non poté evitare di gettarci un’occhiata. Un sorriso storto ed appena accennato gli tirò le labbra: sotto una valanga di messaggi che non avrebbe letto spiccava un cuore gigante.
Era certo che Magnus se la stesse ridendo alla grande, ovunque si fosse cacciato.
 
 
 
Andrew Forscue era arrivato in perfetto orario, probabilmente anche in anticipo visto il leggero nervosismo che cercava malamente di nascondere.
Alexander lo guardò con tranquillità, cercando di capire cosa potesse renderlo tanto agitato quando, al loro primo incontro, gli era sembrato uno che non mandava le cose a dire, che non aveva problemi a parlare ma solo tanto interesse a farsi capire.
Seduto al tavolo degli interrogatori, con le spalle allo specchio, il detective inclinò leggermente la testa.
 
«C’è forse qualcosa che le preme dirmi, signor Forscue?» domandò con gentilezza, il tono volutamente basso e pacato.
Dietro di lui, poggiato all’angolo della stanza, Jonathan alzò un sopracciglio, fissando il giovane interrogato come un gatto fissa il topo ormai in trappola.
Forscue ricambiò lo sguardo del biondo, un’improvvisa scintilla di sfida a brillargli negli occhi freddi, poi scosse la testa e si concentrò sul detective.
«No, niente di importante, o meglio, niente di pressante.» disse con una smorfia. «So che dovrebbe farmele lei le domande, detective, ma posso fargliene una io prima?» chiese subito dopo.
Alec poggiò le mani sul piano, la posa rilassata e accomodante, del tutto in contrasto con quella che aveva tenuto con la signora Cobe e Kevin J. Al contrario di loro sembrava quasi che Alexander volesse mostrarsi amichevole, coinvolto. Jonathan si domandò se fosse perché davanti a lui c’era qualcuno all’incirca della loro età o se fosse per come l’aveva trattato la prima volta.
In ogni caso, non gli restava che aspettare e vedere.
«Prego, chieda pure.» rispose con garbo.
Forscue si sistemò meglio sulla sedia, sfregando le mani con ansia.
«Avete parlato con sua moglie?» iniziò titubante.
Alec annuì. «Sì, sia con lei che con il signor J.»
«E…avete capito che…?»
«Hanno una relazione?» domandò Jonathan da dietro.
Forscue si girò di scatto verso di lui, gli occhi sgranati e l’espressione tradita. «Cosa?»
L’agente sorrise maligno. «Ops.» ghignò puntando lo sguardo in quello di Alec. L’occhiataccia che ricevette lo fece ridacchiare malgrado la consapevolezza della lavata di capo che si sarebbe preso non appena il testimone fosse uscito dalla sala interrogatori.
«Dalla nostra prima conversazione mi aveva lasciato intuire che ci fosse qualcosa che non andava tra il signor Cobe e sua moglie. Non era questo quello che voleva dirmi?» lo richiamò all’attenzione Alexander.
Forscue si rigirò verso di lui e fece una smorfia tirata. «Non proprio, no. Avevo capito che tra di loro le cose andassero male, ma credevo che fosse solo per i soldi. Cobe non parlava certo delle sue vicende famigliari in cucina e per quanto riguarda J… beh, quell’uomo ha sempre avuto un costante bisogno di denaro per rimediare ai suoi cattivi investimenti, io…credevo che fosse per quello che spalleggiava Felicia, non perché- ve lo hanno detto loro?» domandò poi incredulo.
Lightwood scosse la testa. «Sono stati messi davanti all’evidenza dei fatti e non hanno potuto negare. Perché la preoccupava sapere se avevamo o meno parlato con la signora Cobe?»
Il giovane prese un respiro profondo e si frugò poi nelle tasche del giaccone, tirandone fuori una lettera ripiegata malamente più volte. Non ci pensò due volte a passarla direttamente al detective.
«L’ho trovata sotto la porta di casa mia questa mattina. Non nella cassetta delle lettere, non davanti alla porta o sotto lo zerbino, proprio dentro casa, come se qualcuno ce l’avesse infilata per non farla vedere ad altri. Lo so che le sembrerò paranoico ma ho avuto proprio questa impressione: chi me l’ha portata voleva assicurarsi che arrivasse direttamente a me.» guardò Alec con attenzione, l’ansia che gli si leggeva in faccia finalmente giustificata. «Dopo di me dovrete parlare anche con Martin, Stevenson, no? Quando ho visto chi me la mandava ho fatto uno squillo a lui e mi ha detto che ha ricevuto la stessa lettera.»
Alexander annuì brevemente, le orecchie tese verso il giovane e gli occhi incollati alla missiva.
Non era nulla di strano o di preoccupante, una semplice busta da lettera di buona fattura al cui interno vi era un foglio singolo, di carta spessa e di qualità, su cui era riportato un breve messaggio.
Data la morte del signor Cobe, Bernanrd Mendez, dello studio legale “Mendez St.”, convocava Andrew Forscue nel suo ufficio per faccende legali legate al ristorante.
Con un gesto fluido rinfilò il foglio nella sua busta ed allungò il braccio verso Jonathan. L’altro si frugò nelle tasche alla ricerca di un fazzoletto o di qualcosa con cui prendere la busta e, trovato un guanto accartocciato, se lo infilò alla bene e meglio per afferrare l’oggetto e portarlo in laboratorio. Quando la porta si chiuse alle sue spalle Alexander tornò a guardare Forscue.


«Glielo restituiremo alla fine delle indagini, se non le dispiace. Non credo sia una prova importante o cruciale, né tanto meno che vi troveremo qualcosa di particolare sopra se non le sue impronte, le mie, quelle del mittente e del postino, è pura routine.» spiegò in breve. «Ora mi dica perché questa lettera le ha fatto pensare alla vedova. Posso presupporre che si tratti della lettura delle ultime volontà del signor Cobe?»
Forscue annuì. «Ascolti, so- lo so che ogni cosa che dico mi fa sembrare più…contrario, a Felicia Cobe, ma cerchi di capire anche il mio punto di vista…»
«Me lo spieghi con calma e non si preoccupi di come apparirà. È il mio lavoro leggere tra le righe.» lo incoraggio con tono gentile.
Il giovane annuì. «Come le ho detto prima e anche l’altro ieri, sapevo che c’era qualcosa che non andava, che era lei a voler spingere per quel pranzo, che Cobe non era d’accordo, ma non immaginavo che lei lo tradisse.» sbuffò, «Certo, questo spiega perché negli ultimi… cazzo! Due anni? È da due anni che quei due se la fanno alle spalle del capo? Davvero?»
«Non è una cosa recente, no.» annuì Alec.
Forscue digrignò i denti. «Le ho detto che è stato Cobe a sceglierci, vero? Uno per uno. Beh, tutti quanti abbiamo paura che adesso che lui è morto e tutto il locale diventerà di proprietà di sua- moglie, chiunque non le stia simpatico o era troppo fedele a lui verrà licenziato.»
«E lei è pur sempre il suo apprendista. Capisco, certo. Pensa che la convocazione da parte dell’avvocato sia per licenziarvi?»
L’altro scrollò le spalle. «Non mi vorrà certo ancora lì, specie quando scoprirà quello che ho detto su di lei, durante gli interrogatori e nel corso degli anni. Ma sa cosa? Non me ne frega niente. Quella donna lo ha tradito per anni, lei e quell’altro se ne stavano sempre nel locale a dettar legge come se fossero i padroni… e io da bravo deficiente non mi sono mai accorto di niente.»
«Non è certo colpa sua se la moglie del suo capo lo tradiva, e mi risulta che invece avesse intuito qualcosa.» gli fece notare.
«Sì, ma non ho capito. Cobe- lui era un mastino, davvero, era burbero e tutto quello che vuole ma- forse il mio è solo attaccamento, non lo so, non glielo so spiegare, ma avrei dovuto far di più. Lui mi ha accolto all’One quando ero a mala pena uscito dall’accademia. Mi servivano soldi, dovevo ripagare il prestito statale, dovevo trovarmi casa, avevo davvero bisogno di un lavoro e mi sono presentato lì per consegnare il mio curriculum anche se non avevo mai lavorato in un ristorante stellato. E le assicuro che nessuno sano di mente avrebbe mai accettato qualcuno come me, al massimo avrei potuto fare il lavapiatti ed ero disposto a fare anche quello. Ma Cobe mi disse che non c’erano “lavapiatti” nel suo locale perché in cucina tutti fanno tutto e che se volevo entrare a far parte della sua squadra avrei dovuto farlo anche io. Capisce cosa intendo? Ho passato mesi a lavare e tagliare verdure, anche a pulire le padelle, ma lo facevo assieme agli altri. All’inizio neanche mi faceva affilare i coltello, beh… ad essere onesti non me lo fa fare ancora, non lo fa fare a nessuno.» disse sorridendo mesto a quel ricordo.
Alec lo guardò per un lungo momento e provò a sorridergli in quel modo impacciato e storto che solo lui sapeva fare.
«I coltelli erano solo di sua competenza?» domandò anche se non gli sarebbe servito a nulla scoprirlo.
Forscue scosse la testa. «Dio santissimo, no, no. Sapeva come fare ma se lo trovavi ad affilare coltelli era solo dopo l’orario di chiusura. È Martin quello addetto alle lame. Lo vedi e sembra un tipo alla mano, uno gentile che non farebbe male ad una mosca. Poi scorpi che sa affilare un coltello da macellaio in neanche un minuto e che una volta se l’è costruito da solo un dannato coltello da sfilettatura perché non ne trovava uno come diceva lui.» poi si bloccò, adombrandosi d’improvviso. «Sono sicuro che cercherà di mandar via anche lui.» borbottò.
«Felicia Cobe? Crede si voglia liberare del signor Stevenson?»
«Credo? Ne sono più che certo, detective. Non l’ha mai sopportato. Dicono che sia perché prima del matrimonio le chiese se avesse davvero capito chi stava per sposare e se c’avesse pensato bene.»
Alec annuì. «Me ne ha parlato, l’ha presa come una minaccia.» disse studiando con attenzione la reazione del giovane.
Quello rise senza divertimento. «Chi è in torto sente tutto come una minaccia.» rispose lanciandogli uno sguardo più che esplicativo.
Alexander non poté che dargli ragione.
«So che ne abbiamo già parlato precedentemente ma mi servirebbe di nuovo la sua deposizione circa gli eventi di ieri. Se le viene in mente qualcosa di nuovo, o delle rettifiche da fare a ciò che ha detto in precedenza, lo faccia senza paura, può succedere di non accorgersi subito di qualcosa o di ricordarlo più tardi, a mente fredda.»
La versione di Forscue però non cambiò di molto. Precisò alcuni orari, alcune persone che avevano fatto qualcosa, commentò alcune voci o suoni che aveva sentito provenire dalla sala e nulla di più.
«Mi conferma quindi che tutti i conti erano in positivo.»
«Sì, so che avete preso la documentazione che era al ristorante ma se vuole le porto anche quella che ho a casa io, forse qualche fattura me la sono portata via e non me ne sono accorto.»
«La ringrazio.» annuì. «Saprebbe dirmi verso che ora è arrivato al ristorante il signor Cobe?» domandò controllando i suoi appunti, tutti i dipendenti asserivano d’averlo già trovato in cucina.
Forscue storse il naso in un’espressione che parlava già di per sé.
«Cobe era sempre il primo ad arrivare, era lui che apriva il locale, lui e nessun altro. Le uniche volte che quelle porte non sono state aperte dalle sue mani era quando si assentava per qualche visita. Ma anche lì, spesso arrivava presto al lavoro, apriva, iniziava a preparare le cose, supervisionava tutti, poi ad una certa ora usciva, andava dal medico e ritornava.»
«Parla del periodo in cui gli fu diagnosticata la polmonite?»
«Quello è stato davvero un brutto periodo. Sembravamo una classe di scolaretti che avevano perso di vista la maestra.» disse ridendo. «Se non fosse stato per Martin saremmo tutti impazziti, penso. C’era sua moglie ovviamente, ma lei non sa come si gestisce un ristornate, non sapeva rispondere alle nostre domande, se un cliente faceva un appunto gli dava subito ragione e dava alla cucina tutta la colpa, ci faceva rifare i piatti e li scalava dal conto. Credo che abbia “offerto” più calici di vino lei in quel periodo che Hamilton in tutta la sua permanenza all’One. E lui è il nostro maître dall’inizio.»
Alexander notò come, dalla rivelazione del tradimento di Felicia Cobe, Forscue non riuscisse neanche più a pronunciare il suo nome. Non voleva chiamarla “Signora Cobe” perché l’avrebbe legata indissolubilmente al suo defunto capo, ma al contempo non aveva la famigliarità giusta per chiamarla con il nome di battesimo. La fedeltà di quell’uomo era quasi esagerata.
«È stata lei ad aprire il locale, in quel periodo?»
La risata che Forscue non riuscì a trattenere gli esplose quasi in faccia. Doveva aver detto qualcosa di davvero divertente.
«Dio ce ne scampi! No, no! Non credo che quella donna abbia mai avuto le chiavi del locale in mano. Cobe poteva sembrare uno che non s’accorgeva di nulla, che non si interessava a nulla che non fosse la cucina, ma la verità è che era un osservatore nato. L’One era il suo bambino, lo trattava meglio delle persone, quasi meglio di come trattasse il cibo. Era un uomo lungimirante ed evidentemente deve averci davvero visto lungo, non si è mai fidato abbastanza di sua moglie da dargli le chiavi in mano.»
«Lei poteva averne una copia.» gli fece notare.
Forscue scosse la testa. «Avrebbe dovuto aver anche il codice per l’antifurto, quello per aprire la cantina, quello dell’ufficio e quello della cucina. Da lì, per farci cucinare, avrebbe dovuto aver la chiave della dispensa e non era nel mazzo delle altre.» gli disse sorridendo quasi orgoglioso di quel fatto.
Alexander alzò un sopracciglio. «Mi spieghi.»
«Abbiamo milioni, davvero detective, milioni di dollari di vini nella cantina. La gente facoltosa vuole la bottiglia più costosa, non gliene frega niente del gusto, sono pochi quelli che distinguono un vino pregiato da uno buono. Però per accontentare la clientela toccava averli, anche se il capo preferiva cucinarci col vino, piuttosto che berlo. E poi in tanti gli regalavano bottiglie costose. Ma la cucina… quella era davvero importante per lui. Quindi chiave e codice per entrare lì e chiave per entrare nella dispensa. Abbiamo tagli di carne e di pesce davvero prelibati. E se il pesce va via in fretta, ce lo portano fresco ogni giorno, la carne può rimanere anche per più tempo.»
«Ma la chiave non è nel mazzo delle altre.» ripeté Alec. «Dove quindi?»
«Neanche io dovrei saperlo, ma una volta eravamo solo io e Cobe e lui mi ha mandato a prenderla. È nell’armadietto di Martin, che ha un lucchetto a combinazione come tutti gli altri.» spiegò con semplicità e soddisfazione. Doveva essere un segreto bello grosso quello, qualcosa che aveva riempito d’orgoglio il cuoco quando il suo capo l’aveva informato.
«Stevenson godeva di grande fiducia da parte del signor Cobe.» notò con voce monocorde.
Forscue annuì con vigore. «Assolutamente. Facevano una strana accoppiata, sa? Uno pareva sempre arrabbiato e l’altro costantemente annoiato. Sembra che Martin non abbia mai voglia di fare nulla, che per lui tutto sia semplice, che non bisogna agitarsi o simili. Ha presente il classico stereotipo del fattone? Quello che ti dice che nulla è tanto importante da farti scoppiare una vena?»
«Ho presente il tipo, sì. Ma per quello che ho potuto constatare, il signor Stevenson non è così.»
«No, non è per niente. È solo un tipo tranquillo che ha imparato che “farsi scoppiare una vena” non aiuta a risolvere i problemi.»
«Lui e Cobe erano molto uniti?»
«Non proprio. Gliel’ho detto, fiducia assoluta, il solo ad avere le chiavi della dispensa, ma non li definirei uniti. Erano buoni amici ma non avevano un rapporto troppo intimo. Non erano amici della domenica, non facevano vacanze assieme. Per lo meno non se c’era la moglie del capo, visto che quei due non potevano vedersi. E poi Hugh non si è mai preso un giorno di ferie se non per la polmonite.»
«Sa se assumeva farmaci, se aveva qualche vizio? Fumava? Un bicchiere dopo il lavoro, dopo i pasti, cose del genere che si ripetevano giornalmente?»
«Non ricordo se me lo ha già chiesto lei o l’altro agente, ma no. Il fumo rovina gusto e olfatto, se si prendeva una birra, un bicchiere di vino o simili era con noi dopo aver messo in ordine la cucina ma non era una cosa abituale. Per i medicinali… so che ne ha presi ma non saprei dirle se lo faceva ora. Il capo è sempre stato molto riservato, ti dava tutto della sua vita tra i fornelli ma non di quella privata.»
Alexander annuì. «Un’ultima domanda: mi assicura che tutti i presenti, i fornitori e le merci sono le stesse di sempre? C’era un nuovo corriere, un fattorino mai visto, una scatola diversa dal solito anche solo per un’etichetta, qualche sigillo rovinato…»
Con un sospiro pesante Andrew Forscue scosse la testa. «Mi spiace, vorrei dirle di sì ed indicarle il bastardo che ha fatto questo a Hugh…ma non c’era nulla di diverso dal solito, tutto perfetto come sempre. L’altro ieri era- era un giorno come un altro di lavoro, solo poco gradito.» terminò abbassando il capo. Lo sentì tirare su con il naso e poi guardarlo dritto negli occhi.
Aveva uno sguardo fermo, triste ma deciso, lo sguardo di qualcuno che spera in qualcosa pur avendo la completa certezza che ciò non sia possibile.
«L’hanno proprio ammazzato, quindi? Non è stato un incidente, cause naturali?»
Alexander aveva dato quella notizia centinaia di volte, il tempo non lo rendeva più semplice.
«Mi spiace, signor Forscue, Hugh Cobe è stato ucciso, ma le assicuro che sono più che intenzionato a scoprire chi è stato.»
 
 
 
Quella mattina Martin Stevenson sembrava più stanco rispetto alla volta precedente.
Non si era perso in chiacchiere, anche se il suo viso era rimasto sempre bonario e rilassato si era dimostrato attento e accurato nel riportare per la seconda volta gli eventi e a precisare particolari dimenticati.
Aveva subito consegnato la sua lettera a Jonathan, per nulla spiegazzata e inserita addirittura in una cartellina per tenerla al sicuro.
Non aveva nulla di differente rispetto a quella di Forscue, se non fosse per le terribili condizioni in cui si trovava quella del giovane, e chiedeva a Stevenson di presentarsi nello studio legale per discutere di questioni inerenti al ristorante. L’unica nota nuova era un appunto in cui l’avvocato ricordava al cuoco di dover esser presente anche per le future questioni legali inerenti il ristorante, in quanto proprietario di una percentuale sul locale.

«Lei è già stato dall’avvocato Mendez?» domandò Alexander scrutando con attenzione l’uomo.
Quello annuì. «Sì, firmai il contratto da lui e ci tornai per altre vicende legate al ristorante.»
«Vicende di che genere?»
«Oh, quando Cobe rifece l’assicurazione, dovevo firmare anche io. Credo una volta anche per delle fatture particolari per la nuova cella frigorifera? Ci sono ganci in grado di reggere il peso di uno squalo lì dentro, posso capire che lo Stato voglia qualche assicurazione legale su chi le compra.»
«Foscue mi ha detto che lei è l’addetto ai coltelli, ha un regolare porto d’armi bianche?»
Stevenson rise divertito. «So che le potrà sembrare assurdo, tenente, ma ai cuochi non è richiesto il porto d’armi se si dimostra che i coltelli li si usa in cucina. Non abbiamo bisogno di permessi speciali come gli atleti. Ci vengono richiesti solo per viaggi in aereo o su nave, o se bisogna spedirli.»
Fu il turno di Alec di annuire. «Malgrado ciò sono innumerevoli i casi d’omicidio avvenuti con utensili da cucina. Fortunatamente non è questo il nostro caso o lei sarebbe in cima alla lista degli indiziati.» lo informò senza mezzi termini.
Stevenson lo guardò improvvisamente cupo. «È sicuro allora, lo hanno ucciso? Assassinato?» gli chiese serio.
«Purtroppo sì.»
«Se le chiedessi com’è morto me lo direbbe? Se ha sofferto?» continuò l’altro.
Alec fece un lieve cenno con la testa. «Avvelenamento. Non nel senso stretto del termine, gli è stato somministrato un forte anticoagulante.»
«E ha sofferto molto?»
Il detective lo fissò in silenzio, senza batter ciglio. «Aveva perso conoscenza, ma è morto soffocato.»
Non c’era bisogno di dire altro, di specificare quando fosse terribile una morte del genere.
«Capisco, grazie.» mormorò appena.
«Mi ha detto che lei e Cobe eravate amici di vecchia data, si confidava con lei?»
Stevenson sospirò. «Se ha già parlato sia con Felicia che con Kevin e mi sta chiedendo questa cosa significa che quei due hanno avuto almeno la decenza di non nasconderle la loro relazione?»
«Se lo sapeva perché non me l’ha detto?» chiese pacato.
L’uomo accennò un sorriso. «Rispetto?»
«Non voleva che il giorno della sua morte la gente sapesse che il signor Cobe era stato tradito?»
«Le posso far notare che ha subito pensato che il mio rispetto fosse per Hugh e non per Felicia?»
«Non vi piacete, me lo ha ripetuto più di una volta.» gli rispose a tono, facendolo sorridere con un po’ più di convinzione. «In ogni caso, la signora Cobe e il signor J sono alquanto palesi.»
«Glielo ha tirato fuori con le pinze, tipico di quei due. So cosa sta per chiedermi e sì, Hugh sapeva che Felicia e Kevin lo cornificavano allegramente. Solo uno stupido avrebbe potuto pensare di scappare dall’occhio di falco di Hugh Cobe.» poi, notando il volto inespressivo di Alexander ridacchiò. «Due stupidi, a quanto pare.»
«Da quanto era a conoscenza della loro relazione?»
«Io o Hugh?»
«Entrambi.»
Stevenson sembrò pensarci su. «Dopo il famoso litigio ho sospettato qualcosa, non so se Hugh avesse già capito ma volesse ignorare la cosa o meno. Di certo lo sa da dopo la malattia.»
«La signora Cobe ha affermato che, per un periodo, le cose sembravano tornate come prima.»
L’uomo annuì leggermente. «E per un po’ è stato così. Penso abbiate parlato con il suo medico o che comunque foste a conoscenza delle sue condizioni.» chiese discreto.
«Le cartelle mediche dovrebbero arrivare in giornata, ma il medico legale ha già effettuato l’autopsia, riscontrando gravi danni ai polmoni.»
«Sono come delle masse tumorali, ma non proprio dei tumori, noduli o cisti enormi che si avviluppavano ai polmoni. Me lo ha detto, il temine medico, ma non riesco proprio a ricordarlo.» sorrise amaramente. «La polmonite fu provocata da quelle, è stata una conseguenza indesiderata. Quando riuscì ad uscirne per un po’ tutto tornò alla normalità, ma poi, durante una visita di controllo, trovarono di nuovo queste masse. Il medico gli disse che si sarebbe dovuto far operare, che si sarebbe potuto salvare solo così.» mormorò in fine.
Il detective captò un “ma” non detto in quella frase, come se Stevenson non avesse voglia di raccontare il resto della storia. Così lo incoraggiò.
«Ma?»
Lo sguardo che l’altro gli lanciò era quello tipico di chi sa di non esser riuscito a fregare il proprio interlocutore.
«Ma l’operazione era rischiosa, la posizione delle cisti era particolarmente ostica e c’era la seria possibilità che non funzionasse, che non bastasse o che, addirittura, avrebbe dovuto ricevere un trapianto di polmoni. Hugh era uno di poche parole, pratico, questo lo descrive meglio di molti altri aggettivi. Hugh era pratico e quando il dottore gli disse che l’operazione era rischiosa, che avrebbe potuto esser vana e che a quel punto solo un trapianto sarebbe servito, beh, lui semplicemente chiese quanto gli rimanesse e decise che quel tempo gli sarebbe bastato.»
«Non voleva farsi operare?»
Stevenson scosse la testa. «La preospedalizzazione, il ricovero, la degenza e poi la riabilitazione, l’avrebbero tenuto lontano dalla cucina per troppo tempo. Mettersi in lista per un trapianto avrebbe ne avrebbe richiesto ancora di più e a quel punto sarebbe stato probabilmente troppo debole per cucinare. No, tenente, assolutamente no. Mi disse che la sua vita se l’era fatta e che si sarebbe goduto quello che gli rimaneva come avrebbe voluto: cucinando.»
Alexander annuì piano, pensieroso.
Cobe era malato, aveva una scadenza già annunciata e aveva deciso di finire i suoi giorni facendo ciò che più amava. Ma se la sua situazione era così critica, perché sua moglie non gli aveva detto nulla? O meglio: perché Cobe stesso non aveva detto nulla alla moglie?
«Sa perché la vittima non abbia comunicato la notizia a sua moglie?» chiese anche se una vaga idea poteva già essersela fatta.
Stevenson confermò solo i suoi sospetti. «Sapeva che Felicia e Kevin lo tradivano, sapeva che se fosse diventato troppo debole per poter dirigere il ristorante questo sarebbe definitivamente caduto nelle mani di quei due e, anche se non me lo ha mai detto esplicitamente, credo temesse che lo facessero dichiarare incapace di intendere e volere, magari con la scusa dei medicinali, e preso anche la sua parte del ristorante.»
«Temeva che potessero sottrargli la proprietà del ristorante?» domandò accigliato.
L’altro si stinse nelle spalle. «Sono solo mie supposizioni, detective, non mi ha mai detto nulla esplicitamente.» poi parve tornargli in mente qualcosa. «Però… prima della storia del pranzo, Hugh mi pareva molto concentrato su qualcosa. Aveva la stessa faccia di quando venne a dirmi che voleva aprire un ristorante in America. Era determinato. Aveva qualcosa per la testa. Poi Felicia gli ha parlato del pranzo e tutto è andato… com’è andato.»
«Il signor Cobe aveva fatto testamento, presumo?»
«Sì, ma da quel che so io voleva rifarlo. Andava spesso dall’avvocato, credo stesse preparando i documenti del divorzio. Voleva fare in modo e maniera che, alla sua morte, Felicia non avesse il potere di richiedere anche il suo 75% di proprietà sul locale. Per quel poco che mi ha detto, se le cose fossero andate per il verso giusto, Felicia avrebbe rischiato anche di perdere quel 20% che le era tanto caro.» concluse l’uomo fissandolo dritto negli occhi, senza remore, senza pentimenti.
Alexander resse il suo sguardo con serietà, con quel volto così inespressivo ma solenne che tanto sarebbe stato bene su di una statua.
«Spero lei si renda conto che mi ha appena fornito un movente più che valido per arrestare Felicia Cobe.»
Martin Stevenson annuì, un singolo cenno secco con il capo.
«Non c’è pietà per chi tradisce.»

Quelle parole rimbombarono nella testa di Alec per tutta la giornata, probabilmente le avrebbe ricordate per tutta la vita.
 



 
Simon alzò lo sguardo dal computer, tirandosi su gli occhiali con un gesto distratto ed automatico.

«Abbiamo nuove piste?» domandò sporgendosi verso il tenente.
Alexander annuì. «Forscue non ci ha detto nulla di troppo rilevante, in realtà. Fortunatamente Stevenson è stato più attento ed era anche più vicino alla vittima.»
Jonathan si lasciò cadere sulla sua sedia, posta davanti alla scrivania che avevano trascinato davanti a quella di Alec, ed incrociò le braccia al petto.
«Decisamente. Quel Forscue, era sicuramente molto attaccato al suo capo, ma non è mai stato in grado di capire quando quello fosse vicino a Stevenson.» asserì con una smorfia di disapprovazione.
«Dovevano essere entrambe persone molto discrete.» convenne Alec.
«Cosa sappiamo quindi?» chiese ancora Simon.
«Che a differenza di quello che credevano la mogliettina ed il migliore amico, il nostro caro cuoco sapeva eccome che i due gli mettevano le corna.» iniziò divertito il biondo. «Lo sapeva talmente bene che stava preparando i documenti per il divorzio.»
Simon alzò le sopracciglia, lasciandosi scappare un fischio di sorpresa. «Diamine, è peggio di una telenovelas!
Lei lo tradisce con il suo migliore amico, crede che il marito non sappia nulla ma in realtà lui sa tutto e vuole chiedere il divorzio-»
«Va addirittura dall’avvocato cercando un modo per estrometterla del tutto dal ristorante e toglierli anche quel 20% che si è presa con il matrimonio.» precisò Jonathan.
«-vuole anche togliergli le sue quote sul ristorante! E mentre il marito tradito prepara la sua rivincita, muore.» Lewis rimase per un attimo in silenzio, aspettando che i suoi colleghi lo correggessero su qualche punto. Quando non lo fecero prese un respiro profondo.
«È una mia impressione o la cosa sembra troppo “conveniente” per essere un incidente? Per esser una concomitanza d’eventi?»
«Che sia omicidio non c’è alcun dubbio.» disse Alec esaminando le cartelle che aveva trovato sul tavolo. «Che sia troppo perfetto per non dubitare della signora Cobe anche.»
Jonathan emise un grugnito infastidito. «Perché la gente deve essere così palese? Andiamo, almeno provaci a mascherare la cosa! Assolda qualcuno per ammazzarlo invece di farlo morire davanti a tutti quei testimoni che potevano giurare che stesse benissimo solo un attimo prima! Una rapina finita male avrebbe portato meno sospetti su di lei e sul suo amichetto.»
«Per nostra fortuna, purtroppo, le persone tendono ad essere banali o troppo macchinose. Entrambe le situazioni vanno a loro svantaggio.»
«In ogni caso abbiamo avuto la dimostrazione che anche commissionare un omicidio non ti assicura né la riuscita del piano né la salvezza.» disse Simon stringendosi nelle spalle. Poi s’illuminò. «A proposito di omicidi su commissione andati male-»
«No, non abbiamo grandi novità sul Caso Congiunto.» borbottò Morgenstern.
L’altro fece un smorfia ma scosse subito la testa. «No, comunque non volevo chiedere questo.» si voltò verso Alec. «Mags?» domandò solo.
A quella domanda il moro alzò gli occhi dai fascicoli, la mano che correva inconsciamente alla tasca della giacca in cui teneva il telefono. «Mi ha mandato un messaggio questa mattina, ha avuto dei problemi con il locale, oggi non sarà dei nostri.»
«Che problemi?»
«Non ha specificato, ha solo detto che non è nulla di cui preoccuparsi e che se n’è già occupato in passato. Qualcosa contro la gente che lavora per lui e non fa le cose come dovrebbe.»
«In pratica, qualcosa di illegale.» sintetizzò Jon, «Posso dirlo a Lucian e spedire ad arrestarlo?» chiese battendo le ciglia in modo infantile.
Alec lo guardò quasi schifato. «Sei inquietante, smettila. E comunque, ti ricordo che ha un accordo con il Dipartimento, non andrebbe in prigione in ogni caso.»
«Ma potrebbe farlo alla fine del suo accordo. O pagare una bella multa.» continuò quello sognante sfregandosi le mani. Fece anche per prendere il proprio cellulare ma l’occhiataccia di Alexander lo fece desistere.
Sbuffando infastidito, come un bambino a cui era stato appena negato un gioco, incrociò di nuovo le braccia al petto e guardò il suo capo.
«Cosa vogliamo fare, allora?» domandò scocciato.
«Essere professionali e risolvere il caso sarebbe un buon inizio.» lo redarguì.
Jonathan alzò gli occhi al cielo ma non protestò, mettendosi seduto ben eretto e poggiando le mani sul piano.
Se Alec approvò quell’azione non lo diede a vedere.
«Andiamo a parlare con l’avvocato Mendez, chiederemo a lui dei documenti del divorzio e delle pratiche legali che Cobe stava portando avanti per riprendere la quota di sua moglie.» Si alzò dalla poltrona, ripescando la pistola dal cassetto e sistemando per bene il distintivo. «Simon, i controlli incrociati sui dipendenti e sui fornitori?»
Il giovane batté veloce sulla tastiera del suo portatile. «Nulla di strano o di sospetto. Non sono tutti degli angioletti immacolati, questo no, ma non ho trovato niente di serio o interessante.»
«Esplica.» disse l’altro secco.
«Multe, ritardi nel pagare le bollette, parlo di piccole more per aver superato la scadenza, non rifiuto di pagamento. Pare che Forscue da giovane si sia passato qualche nottata in cella per insulto a pubblico ufficiale, ma da quando ha iniziato l’accademia di cucina sino a quando ne è uscito ha imparato a non rispondere male alla gente.»
«Se ci fosse Bane qui ci direbbe che quegli agenti se lo dovevano esser sicuramente meritato.» ghignò Jonathan. «Spesso è vero.» concluse quasi gongolando.
Alec neanche lo guardò. «Fingerò di non averti sentito nominare Magnus l’unico giorno in cui è assente, come se ti mancasse.» frecciò freddo.
Il biondo lo guardò scandalizzato ma non osò rispondere.
«Per i fornitori: abbiamo qualche fattorino arrestato in gioventù, e non solo fattorini eh. Poi c’è un tipo che si è fatto una paio d’anni per una rissa-»
«Wow e a chi l’ha dato il pugno?»
«Nipote di un avvocato. Ma si tratta comunque delle solite cose. Risse da bar, tamponamenti, incidenti perché il guidatore era al telefono o distratto, ha ignorato le segnaletiche, è passato con il rosso. Sono centinaia le persone che lavorano in ogni filiera e non possiamo sapere con certezza chi sia entrato o meno in contatto con la vittima, ma, di fatto, non abbiamo nulla che non rientri “nella norma” per così dire.»
«Legami con bande?» domandò Jonathan.
«Non è quella la direzione giusta.» affermò sicuro Alec. «La vittima era una persona onesta, o quanto meno con sani principi, non avrebbe mai preso accordi con una gang, non era nel suo carattere.»
«Magari è stato minacciato.» propose ancora il biondo.
Alec scosse la testa. «So che questo è il tuo campo e ti viene naturale pensare in quella direzione, ma non è il nostro caso. Cobe era stato gravemente malato, ha scoperto di aver poco tempo ancora da vivere, che fossero stati anni o mesi non lo possiamo dire. Sua moglie lo tradiva con l’uomo a cui aveva prestato sempre grandi somme di denaro. Prepara il divorzio e gli viene somministrato un forte anticoagulante che provoca emorragie interne. Non è lo stile di una gang.»
Jon dovette dargli ragione, ma ugualmente non parve convinto e per Alec non fu difficile notalo.
«Cosa c’è?» gli chiese infilandosi il cappotto.
Il biondo abbassò un attimo il capo, pensoso. «Il veleno di solito è un metodo femminile.»
«È più usato dalle donne, sì. Per quanto una donna possa esser forte non sempre può aver la meglio in un combattimento corpo a corpo. Ma non si tratta di veleno.»
«Non lo è, no, ma è una forma di avvelenamento. Chiunque deve averlo ucciso doveva sapere l’effetto che avrebbe avuto.»
«O magari non pensava che sarebbe successo, o che sarebbe stato così violento.» propose Simon.
«Fare supposizioni, ora come ora, non ci aiuta. Se vagliamo troppe ipotesi senza delle basi su cui poggiarle non faremo altro che confonderci da soli. Morgenstern, io e te andremo da Mendez, ci saprà sicuramente dire di più. Lewis, ricerca a tappeto, chiunque abbia studi o formazioni mediche, abbia famigliarità con medicinali, possa accedere a farmacie e depositi. Controlla anche chi assume anticoagulanti, ricette mediche e medici firmatari. Cerca anche se, di recente, sui giornali si è parlato di questi medicinali o di qualche morte sospetta avvenuta per colpa di questi.»
«Credi che ci sia qualcuno che ammazza la gente così? Tipo un serial killer?» domandò Simon sorpreso.
Alexander abbozzò a mala pena un sorriso. «No, nessun serial killer. Ma come ho già detto, la gente non ha molta fantasia. Se è la prima volta che si uccide si tende a farlo nei modi più diretti o semplici. Arma da fuoco, accoltellamento, armi contundenti, veleno vero e proprio. Se fosse stato un cocktail di farmaci già sarebbe stato più normale, ma l’anticoagulante è troppo specifico.»
«Pensi che qualcuno possa aver letto un articolo e preso ispirazione?» chiese Jonathan.
Il moro annuì. «È un omicidio premeditato.»
Morgenstern ghignò. «E gli unici che, attualmente, ricaverebbero qualcosa da una disgrazia del genere sono la moglie fedifraga e l’amico traditore. Beh, non ci rimane che scoprire come hanno fatto, allora.»
 

 
 
L’ufficio in cui furono fatti accomodare era sobrio e funzionale.
Alec aveva passato tutta la sua infanzia nello studio di un avvocato, di un procuratore, per poi farvi più di una semplice incursione anche durante l’adolescenza e gli anni dell’accademia. Ma l’ufficio personale di Maryse Trueblood in Lightwood era decisamente più formale e quasi minaccioso rispetto a quello dell’avvocato Mendez.
Lo studio di sua madre era stato arredato per mostrare a chiunque vi entrasse che, lì dentro, non si scherzava, che la serietà camminava di pari passo alla legge, all’integrità, alla spietatezza. Non c’era posto per sentimenti impietosi, per il dispiacere per l’avversario: il Procuratore Generale di New York City non perdonava, applicava la legge così com’era, senza sconti.
Per Alec era sempre risultato piuttosto ironico questo punto: sua madre non risparmiava nessuno, così come ogni buon avvocato che aveva conosciuto, ma la verità era che la loro professione si basava su accordi e cessioni, su attacchi violenti e quasi crudeli e accorate arringhe in cui anche il peggiore dei criminali poteva passare per innocente vittima del fato. Se c’era un motivo specifico per cui non avrebbe mai accettato di fare questo lavoro era proprio quello: Alexander non sarebbe stato in grado di fingere, non qualora fosse stato consapevole della colpevolezza del suo assistito.
L’aria che si respirava nello studio di Bernard Mendez era del tutto diversa però. Non si sarebbe minimamente stupito se, a stringergli la mano di lì a poco, fosse stato un vecchietto curvo e rugoso che, con tutta probabilità, era vecchio già all’epoca di Kennedy.
L’avvocato Mendez, in effetti, non si discostava troppo da quell’immagine. Era un uomo sull’ottantina andante, qualcuno che, palesemente, non si occupava più delle cause in prima persona ma trattava contratti, testamenti e accordi. Non era un uomo da pulpito, o per lo meno non lo era più.
Proprio come il suo ufficio Mendez era sobrio e pratico, doveva esser stato molto distinto da giovane ma il peso degli anni si poteva leggere nelle rughe profonde e nelle spalle leggermente ricurve. Gli occhi scuri erano scoloriti dall’età, un po’ come la poltrona di pelle, perfettamente tenuta, su cui si accomodò facendo loro cenno di fare lo stesso.
Le mani dalle unghie curate erano piene di rughe, centinaia di grinze che s’intrecciavano le une alle altre e che somigliavano in modo quasi ironico alle screpolature sulle cerniere dei libri esposti nelle grandi librerie. Alexander si ritrovò ad apprezzare quel piccolo dettaglio: significava che tutti quei tomi costosi non erano lì solo per far bella figura ma che erano stati utilizzati, consultati sino a rovinarne la rilegatura in pelle.


«Prego detective, chiedetemi tutto ciò che volete sapere, cercherò di essere il più esaustivo possibile.» disse con tono calmo.
Alec lo ringraziò con un cenno del capo. «Il signor Cobe era suo cliente da molto?»
«Era mio cliente da quando aprì il ristorante, sì.»
«Quindi ha sempre curato lei tutti i suoi interessi legali?»
«Assolutamente. Dalla licenza per la ristorazione a quella per la compravendita all’ingrosso. Tutti i contratti con i fornitori e con i dipendenti.» annuì indicando una pila ordinata di cartelle beige.
«Anche la cessione del 20% a Felicia Cobe dopo il matrimonio?» domandò senza nascondere minimamente la direzione in cui stava portando quella conversazione.
Mendez lo fissò attento da sotto le ciglia ormai biondicce. «Quello e anche i documenti per il divorzio. Presumo che per voi non sia una sorpresa, dico bene?»
Alec asserì con il capo. «Ne siamo a conoscenza. Il signor Stevenson ci ha informati della decisione del suo datore di lavoro. Da quanto la pratica è avviata?»
L’uomo pescò a colpo sicuro una delle cartelle e la porse ad Alexander, che la esaminò con attenzione pur continuando a prestar orecchio alle parole dell’avvocato.
«Il signor Cobe è sempre venuto da me ogni qual volta trovasse necessario spostare grandi somme di denaro. Non era un esperto di borsa, quindi era più che comprensibile la sua perplessità nel volersi assicurare che i suoi prestiti fossero, per così dire, “legali” e soprattutto non danneggiassero il ristorante Non era una persona molto attaccata al denaro, ma era attento ad aver sempre una certa somma per poter supportare qualunque imprevisto. Questo è un piccolo studio, non abbiamo grandi affiliati ma siamo in grado di offrire sostegno ai nostri clienti sotto ogni punto di vista. Il secondo plico di fogli è relativo alle ricerche di mercato e ai traffici bancari. È stato redatto dal nostro contabile, il signor Davis. Se può esservi utile si trova nell’ufficio in fondo al corridoio.» spiegò indicando vagamente i fogli interessati.
«Sa dei prestiti che il signor Cobe faceva a favore di Kevin J?» chiese Jonathan sporgendosi per leggere i dati più interessanti. Alec gli passò la cartella, sicuro che l’altro ne avrebbe capito più di quanto non avrebbe mai fatto lui: finché si trattava di leggi e cavilli legali Alexander era abituato a seguire anche le più contorte trovate, ma i numeri e i problemi bancari non erano propriamente il suo pane quotidiano. Morgenstern, a differenza sua, era sempre stato estremamente portato per la matematica, ricordava ancora le gare di simulazione di gioco in borsa che facevano alla Idris, sarebbe stato davvero un ottimo agente.
Il giovane si mise a controllare con attenzione tutti i dati ed Alec riportò la sua, invece, su Mendez.
«Certamente. Come so che dopo la malattia che l’ha colpito due anni fa, e che lo portò a fare testamento, smise di prestare denaro al suo amico. Questo non impedì alla signora Cobe di continuare a farlo, secondo lei, alle spalle del marito.»
«Cobe sapeva che la moglie prestava denaro al Kevin J?»
Mendez annuì. «Quando si sono sposati hanno deciso di creare un conto congiunto, ma ciò che la gente non comprende è che, anche se si chiede discrezione alla banca, se l’altro cointestatario si presenta in sede e domanda un resoconto degli spostamenti finanziari, questo gli venga dato senza problemi. Non mi è stato detto direttamente dal signor Cobe, ma mi è stato dato ad intendere che sospettava che sua moglie aiutasse il loro comune amico a restituire i suoi affari fallimentari senza dirgli nulla. Ha chiesto più di un controllo dei fondi, ne abbiamo noi la documentazione ufficiale, il signor Cobe ha preferito lasciarli qui.»
«Faranno parte delle prove che avreste portato per il divorzio?»
«Che “porteremo”, tenente.» specificò l’avvocato.
Alec lo guardò sinceramente sorpreso. «Come?»
Mendez intrecciò le mani annuendo con serietà. «Era desiderio espresso del mio cliente che tutta la proprietà per cui aveva lavorato duramente nel corso della sua vita fosse sottratto alle mani di sua moglie. Nelle richieste del divorzio, quelle che la parte lesa di solito è portata a chiedere per diritto di risarcimento dei danni morali, fisici ed emotivi, il signor Cobe non chiedeva la proprietà della casa coniugale, o delle macchine, dell’appartamento a Los Angeles, di quello in Canada. Non chiedeva la proprietà di nessuno dei bene che vengono solitamente richiesti. Il signor Cobe richiedeva solo la cessione delle quote del suo ristorante. Era intenzionato in tutto e per tutto a riprendersi ciò che era suo, soprattutto visti i modi in cui la signora Cobe si era sempre relazionata all’One.»
«Non voleva che la sua creazione fosse anche solo in minima parte appartenete alla moglie, è logico, ma non vedo come questo possa esser possibile.» disse sinceramente.
L’avvocato gli sorrise. «Vede, quando avviene un divorzio solitamente chi “prende” gli alimenti è chi ha la disponibilità economica minore e la necessità maggiore. Le faccio un esempio: nel caso ci siano bambini, gli alimenti e la spartizione dei beni avviene, in un mondo ideale, in modo che i figli della coppia possano continuare a godere del medesimo stile di vita seguito sino a quel momento. Devono essergli assicurati un domicilio, una casa, alimentazione, vestiario, cure mediche ed educazione. Gli alimenti non vanno necessariamente alla madre ma al genitore che ne ottiene la patria potestà o che ne ha l’affido maggiore. Quando si tratta di personaggi il cui conto è sostanzioso, il discorso non è molto diverso: chi percepisce un minor stipendio o ha un reddito personale minore riceve gli alimenti e questi devono essere proporzionati allo stile di vita, al tenore di vita, che il coniuge sosteneva durante il matrimonio. La signora Cobe, allo stato attuale delle cose, non ha reddito. Tutti i suoi proventi derivano dal ristorante, di cui possiede il 20% della proprietà, ma avendo un conto cointestato con suo marito le somme provenienti da entrambi i possedimenti si fondono in uno.
Se Hugh Cobe avesse divorziato semplicemente da Felicia Cobe avrebbe perso quel famoso 20% e sarebbe anche stato costretto a sostenere spese tali per assicurarle di continuare a vivere come aveva sempre vissuto.»
«Avrebbe anche rischiato di dover cedere una percentuale alla signora.» mormorò pensieroso.
Mendez annuì. «Questo, in caso di divorzio consensuale o nel caso fosse stata la signora Cobe a richiederlo e quindi ha dettar le prime regole. Sarebbe potuta scoppiare una vera e propria faida in cui entrambi avrebbero potuto impugnare ottime prove a loro valore.»
«Ma in questo caso il divorzio non sarebbe avvenuto per disaccordi o simili, c’è di mezzo tradimento e anche, probabilmente, appropriazione indebita di denaro.» concluse Alexander. «Ottime prove a suo favore per spingere la moglie ad accettare l’accordo senza andare in aula.»
«Se fossimo stati costretti a rivolgerci ad un giudice e ad una giuria, senza ombra di dubbio, avremmo vinto la causa. Un uomo con un carattere chiuso non è una scusa abbastanza valida da contrapporre al tradimento di un marito malato con il suo migliore amico che necessitava denaro.»
«Non proprio l’immagine di dama di classe che la signora Cobe vuole dar di sé.» sbuffò Jonathan riconsegnando le cartelle con i conti. «Avevate trovato il modo per riottenere il sua parte?»
«Più di uno. La prima opzione era quella che vi ho illustrato prima: il signor Cobe avrebbe lasciato casa e beni alla moglie in cambio della sua quota. Nel caso in cui la signora Cobe avesse rifiutato saremmo andati in tribunale. Nel caso estremo in cui neanche un giudice ci avrebbe dato ragione, avremmo ricorso ad un approccio un po’ più, come dire…finanziario?» sorrise guardandoli con furbizia. «Avremmo riunito i titolari delle quote del ristorante e votato per l’uscita della signora Cobe dall’accordo.»
«E sarebbe stato riconosciuto da un giudice? Non si tratta di compagnie azionarie, sarebbe stato legale o avrebbero potuto farvi causa?» domandò Alec.
«Avrebbe potuto, il processo sarebbe stato molto più lento e macchinoso ma, nel peggiore dei casi, l’avremmo costretta a vendere a ribasso la sua quota.»
Alexander osservò l’uomo con attenzione, lo sguardo affilato di chi sta soppesando tutte le possibilità e le ragioni.
«In caso di morte prematura del signor Cobe, come vengono gestite le proprietà?»
Mendez sospirò. «Allo stato attuale delle cose, con un’indagine in corso, come lei ben sa, i beni sono congelati e alla signora Cobe viene concessa solo una minima erogazione di denaro necessaria per le spese di tutti i giorni.»
«Che per una donna sposata con l’uomo che possedeva uno dei ristoranti più rinomati e costosi della città ammonta a…?» domandò Jonathan ironico.
«Diecimila dollari alla settimana.»
Alexander non fece una piega, ma la minuscola contrazione delle sue sopracciglia fu più che esplicativa. Morgenstern, più diretto, non si limitò a così poco e alzò direttamente le sue.
«Cos’è, il tuo e il mio stipendio messi assieme di cinque mesi?» chiese al collega.
Alec fece a mala pena una smorfia con le labbra, «Facciamo quattro, a ribasso.» borbottò. «Sa se può prelevarli in qualunque momento?»
«Ogni settimana che passerà, sino alla fine dell’inchiesta, la lettura del testamento e poi la causa per il divorzio, la sua carta sarà sottoposta a limite d’erogazione.»
Il moro annuì. «Cosa può dirci del testamento invece?» cambiò discorso.
L’uomo davanti a loro intrecciò le mani e prese un respiro profondo.
«Allo stato attuale delle cose verrà aperto e letto domani mattina, alle undici e mezzo, in questo studio. È richiesta la presenza della signora Cobe, dell signor Stevenson, il signor Forscue e il signor Hamilton.»
«Il maître?» domandò stupito Jonathan.
«Lui ed il signor Davis di cui vi parlavo prima sono stati testimoni della firma.»
«Perché è più conveniente che non siano persone interessate o citate nel testamento a fare da testimoni, certo.» annuì poi.
«Ovviamente domani siete attesi anche voi, la polizia è autorizzata a presenziare alla lettura del testamento in caso di morte sospetta.»
«Ci saremo. Può dirci altro, per ora?» chiese Alexander fissando l’uomo negli occhi.
Conosceva bene gli avvocati ed era palese che Mendez non stesse mentendo, ma stesse omettendo qualcosa.
L’avvocato dovette capirlo perché annuì con fare pensoso.
«In serata dovrebbero arrivare altri documenti inerenti al caso del signor Cobe. Non sono stato informato della loro provenienza, è stata solo fatta una telefonata da un ufficio di Londra in cui ci veniva comunicato che, come da accordi con il defunto, alcuni documenti sarebbero pervenuti per la lettura del testamento. Purtroppo, ignoro la natura di questi.» disse con sincero rammarico.


 
 
Jonathan chiuse la portiera della vecchia Mustang di Alexander con un ché di frustrato.
Il detective della Omicidi lo guardò con un silenzioso rimprovero nel volto inespressivo e l’altro alzò gli occhi al cielo allacciandosi la cintura.
«Per quale cazzo di motivo la gente deve sempre complicarsi la vita? Scommetto che quei documenti parleranno di altre proprietà e stronzate simili.»
«Se così fosse avremmo ancora più prove contro la signora Cobe, più beni possedeva il marito più ne eredita lei.» fece notare mettendo in moto e discostandosi dal marciapiede dove avevano parcheggiato.
«Quindi siamo tutti d’accordo che è stata lei? O quel J.» disse con gesto vago della mano. Si voltò di scatto verso il finestrino ringhiando ad un’utilitaria che si era avvicinata troppo al semaforo e poi riportò la sua attenzione su Alec. «O che, in ogni caso, è colpa loro. Magari l’hanno fatto assieme.»
«Se è stato uno dei due sono sicuro che l’altro lo sappia.» affermò secco. «Ma dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi che abbiano chiesto a terzi di farlo.»
Jonathan l’asciò andare indietro la testa. «Chi è ora che pensa troppo ai complotti? Omicidio su commissione? Proprio come quello del Caso Congiunto?»
Alec scosse il capo. «Pensavo a qualcosa di più banale come pagare il medico di Cobe affinché, all’ultima visita, gli somministrasse qualcosa di troppo.» disse con semplicità.
«Mh, ci sta. La possibilità che sia stato qualcuno del ristorante?»
«Scarsa se non nulla. Tutti erano più che fedeli a Cobe, o in ogni caso non apprezzavano troppo la moglie.»
«Dir loro di dover portare qualcosa, una medicina magari, a Cobe mente invece era l’anticoagulante? Magari chi l’ha fatto non parla per paura d’esser accusato di concorso in omicidio.»
Ancora una volta, Alec scosse la testa. «E perché non ne avremmo trovo traccia nello stomaco?»
«Va bene, ma ascolta: se l’anticoagulante è stato somministrato endovena, per prima cosa, dovremmo trovare tracce di fori, seconda cosa, vuol dire che lui ne era consapevole. Se così non fosse avrebbero dovuto sedarlo e poi fargli un’iniezione, perché scommetto che se fosse stato semplicemente addormentato si sarebbe svegliato non appena l’ago gli avrebbe penetrato la pelle.»
«Se l’ago fosse stato abbastanza fino e la puntura fosse stata fatta in un punto nascosto potremmo averla persa.»
«Ma resta il fatto che se ne sarebbe accorto. Non siamo in un romanzetto spionistico da quattro soldi, non ci sono spie russe che sparano aghi avvelenat-» si bloccò osservando il modo in cui Alexander aveva drizzato la schiena. «Oh no, no. No, no, no, no. Non accetto che uno come te possa pensare ad una cazzata simile, Lightwood, mi rifiuto!» quasi urlò indignato.
Alec gli lanciò un’occhiataccia. «Non penso ad una spia russa, deficiente.» lo freddò subito, «Ma la tua idea non è così impossibile, né così assurda. Se vista nell’ottica giusta.» specificò.
Jonathan lo guardò scettico. «Mostramela.»
Il detective sbuffò infastidito: con Morgenstern era sempre così, sempre scetticismo e corse folli per chi arrivava prima alla soluzione giusta. Ma erano adulti ormai e Alec doveva comportarsi come tale, non avrebbe potuto attaccarlo al muro del corridoio degli armadietti per poi scaraventarlo in palestra per aver detto una parola di troppo con quella sua faccia da cazzo e l’espressione strafottente. Anche perché, per una volta, il suo scetticismo era quasi giustificato. Quasi.
 
«Sappiamo che l’anticoagulante gli è stato somministrato per via venosa, non è passato per la bocca, o comunque non è arrivato nello stomaco. Non è stato ingerito in nessun modo, il coroner ce ne ha dato la conferma. Se escludiamo la possibilità, esistente ma pur sempre difficile, di un assunzione per assorbimento cutaneo, che non credo sia possibile in questo caso, rimane l’iniezione.
Non ci sono segni evidenti sul corpo, ma potrebbe trattarsi di un ago microscopico, magari proprio di un ago.»
«Se t’azzardi a dirmi qualcosa tipo “fuso avvelenato” alla bella addormentata mi butto dalla macchina in corsa.» l’avvertì Jonathan.
Alec gli lanciò un’occhiata penetrante. «Vuoi che acceleri così da assicurarti come minimo qualche osso rotto o preferisci che mi avvicini ad un tir, così siamo sicuri che ti metterebbe sotto?»
Il biondo ghignò. «Alle volte mi manca tanto il vecchio Lightwood stronzo, sono quasi commosso dal rivederlo spuntare così, quando meno me l’aspetto.» disse fingendo d’asciugarsi una lacrima.
L’altro alzò gli occhi al cielo, ma proseguì con il suo ragionamento. «Guardiamola da quest’ottica: se Cobe si fosse accidentalmente punto con qualcosa non l’avrebbe certo detto a qualcuno. Capita di continuo che si abbia l’impressione d’esser punti, di aver una spina sotto pelle. Potrebbe addirittura aver lasciato una bolla o un’irritazione passata sott’occhio perché simile al morso di un insetto.»
Jonathan lo ascoltò con attenzione e poi annuì. «E stando noi cercando una puntura di siringa potremmo anche averla notata ma ignorata. Una bolla di zanzara… certo, fa ancora freddo, quindi la vedo davvero difficile come cosa, ma se si avverte una puntura e non si vede nulla che possa averci ferito…»
«La soluzione logica che dà il nostro cervello è quella. O ancora meglio, non si pone problemi, si massaggi la parte lesa e riporta la sua attenzione su qualcosa di più importante.»
«Come la poca voglia che hai di vestirti a festa per andare a cucinare per un branco di possibili imprenditori per tua moglie e il suo amante.» concluse lui. «Che vita di merda quella di coppia, l’ho sempre detto che il matrimonio non dovrebbe esistere. A cosa serve? Non siamo più nel medioevo, io ho i miei beni e tu hai tuoi, viviamo assieme senza vincoli legali e quando la chimica svanisce ognuno per conto suo.» sbuffò infastidito.
Alexander lo guardò di sfuggita con la coda dell’occhio, domandandosi se stesse parlando così in virtù del tradimento di Felicia Cobe o se si riferisse ai suoi genitori.
Da quello che gli era stato dato ad intendere, ciò che aveva sentito nel corso degli anni e ciò che Clary e Simon avevano raccontato, Jonathan aveva sofferto molto la separazione dei genitori. Aveva vissuto con sua madre per tutta l’infanzia e parte dell’adolescenza, la custodia affidata facilmente a Jocelyn per via delle conseguenze, ancora evidenti, dell’Operazione Circle, su Valentine. Ma per quanto ne sapeva, Jonathan non aveva mai davvero smesso di vivere con suo padre. Passava i pomeriggi o i weekend con lui, le feste, le vacanze. Valentine l’andava a prendere a scuola, gli mostrava il suo studio, il suo mondo. E quando era stato abbastanza grande per decidere per sé, aveva fatto le valigie da Brooklyn per trasferirsi a Manhattan.
Non sapeva che rapporto avesse veramente con suo padre e non era suo interesse saperlo perché, cose del genere, erano già delicate normalmente, nel suo cosa lo erano ancora di più, ma gli augurava sinceramente di riuscir a superarle in qualche modo la cosa. Se Jonathan avesse portato ancora rancore verso sua madre per aver divorziato avrebbe solo continuato a vivere una vita piena di rabbia e solitudine.
Con sua grande sorpresa, Alec si ritrovò a sperare anche che, nel momento in cui Jonathan avesse trovato qualcuno abbastanza pazzo da volergli rimanere vicino, il passato dei suoi genitori non avrebbe prevaricato la sua possibilità di legarsi a quel qualcuno, di avere una famiglia nel senso più classico del termine o meno. Perché Morgenstern aveva appena detto, implicitamente, d’esser sicuro che prima o poi l’amore tra due persone sarebbe terminato.
Un sorriso amaro premette per tirargli le labbra, ma Alec lo ignorò: se solo l’altro avesse saputo che spesso, invece, anche se scompare “la chimica”, anche se l’amore più comunemente inteso scompare, l’affetto ed in sentimenti che ti hanno legato profondamente a qualcuno non svaniscono mai, mai per davvero.
Sospirando controllò velocemente l’ora, costatando che fosse più che appropriato andare in pausa pranzo prima di rientrare in ufficio.
Senza dir nulla imboccò la svolta per il ponte di Brooklyn, diretto a colpo sicuro verso il Nascosto. Gli ci voleva decisamente qualcosa di buono, ad entrambi.
 
 
 
Jonathan prese un lungo sorso di milk-shake, non più titubante come l’era stato solo pochi minuti prima quando Alec aveva ordinato il pranzo per entrambi senza chiedergli minimamente una preferenza.
 
«Non posso credere di star mangiando hamburger e milk-shake come nei più banali film adolescenziali.» mormorò posando il bicchiere alto ed asciugandosi le mani dall’umidità del vetro.
Alec alzò un sopracciglio. «Ti ricorda i tempi andati? Non sei poi così vecchio, sono i capelli bianchi che ingannano.» gli disse con una punta di sadica ironia nella voce.
Jonathan lo fulminò. «Sono albino, non vecchio. Un giorno tutti i tuoi bei capelli neri diventeranno sbiaditi e smorti e tu dovrai convivere inevitabilmente con questo cambiamento, mentre io non batterò ciglio.» gli rispose a tono.
«Io almeno li avrò ancora, i capelli.»
«Anche io.»
«I capelli albini sono più delicati e fragili di quelli normali, come la vostra pelle, vi manca la melanina.»
«Non ti facevo così esperto di capelli, hai una passione segreta, Lightwood?» lo provocò addentando il suo panino.
Alec si strinse nelle spalle. «Piper, una mia compagna di classe.» disse solo.
L’altro alzò un sopracciglio. «Jasper? La nipote del parrucchiere delle star?»
Con un cenno poco convinto mandò giù un paio di patatine. «Cormac Jasper è un barbiere, non ti conviene chiamarlo “parrucchiere delle star” in sua presenza, se la prende molto.»
«Era comunque un parrucchiere, sbaglio o ha lavorato anche per la Casa Bianca?» domandò ripescando vecchi ricordi tra tutte le voci che giravano all’Idris al tempo del loro liceo.
Quel dannato edificio che pareva al contempo un castello ed una caserma era sempre stato popolato dalla crème della crème dei figli di papà della Grande Mela e non solo. Era sicuramene il liceo più facoltoso dello Stato di New York, ma ospitava anche ragazzini figli di politici e star del cinema.
Il requisito più importante per entrare, però, rimaneva lo stesso da secoli: soldi e fama.
Non era strano quindi che i figli di chi, normalmente, sta dietro le quinte, frequentassero i figli di chi invece era sempre sotto i riflettori. Piper Jasper ne era un esempio lampante: il suo bisnonno aveva un barbiere d’alta classe alla fine dell’ottocento; il figlio, il nonno di Piper, aveva continuato il lavoro del padre sino ad arrivare a prestar servizio nella casa più famosa di Washington, occupandosi persino di Kennedy stesso e, qualche volta, di sua moglie. Il padre di Piper era poi stato un ottimo affarista, aprendo saloni in tutta America, riuscendo ad ottenere contratti con grandi case produttrici, accumulando ricchezze e notorietà e soprattutto la stima e l’adorazione dell’élite della società.
Un parrucchiere di fiducia è pur sempre un confidente, in qualche modo.
Non c’era da stupirsi quindi che anche una ragazzina “non famosa” come Piper Jasper avesse potuto permettersi la retta da capogiro della Idris, dove le altre ragazze la guardavano con un misto di superiorità ed invidia che era proprio a tutti coloro cresciuti credendo di essere i migliori e di avere tutto per poi rendersi conto che c’era, e ci sarebbe sempre stato, qualcosa che a loro mancava.
Forse la Jasper non aveva un genitore politico, attore, sportivo, ma fin da piccola aveva girato libera per i saloni della sua famiglia, conoscendo e vendo coccolata da star e personaggi di spicco.
 
Alec annuì. «Sì, ma ci tiene molto a farsi chiamare “barbiere”.»
Jonathan alzò le mani. «Come ti pare, dubito che lo vedrò presto.» poi prese un altro sorso di frullato, stupendosi di come latte e fragola non facesse schifo abbinato a carne, formaggio, bacon e insalata. «Parlando di cose più interessanti del tuo vecchio gruppo di sfigati.»
«Hai paura che di questo passo finiremmo per parlare anche del tuo gruppo di bulli?» alzò un sopracciglio l’altro.
Jon scosse il capo. «No, non me ne fotte niente e basta.» disse sincero. «Dicevo. Parlando di cose serie: i responsabili del nostro terribile legame famigliare vogliono dare una festa per la casa nuova.»
Alec annuì sconfortato. «Non hanno neanche finito di firmare le carte, tra un po’. Jace mi ha chiesto di andare a dargli una mano a montare la cucina.»
«Che secondo me è un’enorme puttanata, non possono chiamare qualcuno che lo faccia di mestiere invece che affidarsi ad amici e parenti?» si lamentò riprendendo a mangiare.
«Non vorrei dirlo-» iniziò il moro.
«Ma lo farai lo stesso.» biascicò masticando.
«-ma questa è palesemente colpa di Lucian. Sa com’è fatto Jace, se non si fosse messo a dire che tutti i lavori in casa sua li aveva fatti lui, dando palesemente ad intendere che lui ne sarebbe stato in grado e mio fratello no, ora non saremo in questa situazione.» disse secco, una nota infastidita nella voce calma.
Jonathan non poté far altro che annuire, anche perché era perfettamente d’accordo con lui. «Luke è un rompi coglioni di prima categoria che vuole per forza fare l’uomo alfa della situazione e dimostrare che ce l’ha più lungo e più grosso degli altri.»
«Quanta finezza…» ironizzò Alec.
«Ma è la verità.» si pulì la bocca e accartocciò il tovagliolo. «Se c’è Clary di mezzo devono sempre dimostrare chi dei due sa “proteggerla” meglio. È ridicolo.»
«Ma lo fanno lo stesso. Presumo che sarai d’accordo con me nel dire a quei due che devono chiamare dei professionisti e nel dire a Lucia di farsi gli affari suoi?» domandò per pura educazione.
«Non porterò nulla di più pesante di una scatola di libri o di ciarpame di mia sorella.» asserì con sicurezza lui.
«E io non porterò nulla di più pesante di qualche manubrio di mio fratello.»
«Posso concedergli di aiutarli con la lavatrice se si portano quella della vecchia casa e non se ne comprano una nuova.»
«Per il divano e la rete del letto ci penseranno i traslocatori.»
«Il tavolo anche.»
«Siamo d’accordo, quindi.»
«Siamo d’accordo.»
I due presero i loro frullati e li fecero scontrare gentilmente, prendendo poi una generosa sorsata di quel liquido rosero dolce e cremoso.
Jonathan sorrise beffardo. «Sai, è bello vedere che su una cosa almeno abbiamo le stesse idee.»
Alec accennò un sorrisetto storto. «L’importante è che gli altri non lo vengano a sapere.» gettò poi un’occhiata al vecchio orologio posto sopra il bancone e sospirò. «Finisci quelle patatine, Morgenstern. Già Lewis romperà le palle non appena saprà che siamo venuti qui al Nascosto senza di lui, non voglio sentirlo lagnarsi anche perché siamo arrivati in ritardo lasciandolo solo in ufficio.»
 
 

 
Il nuovo appartamento di Clary e Jace si trovava in una zona estremamente comoda, sia per quanto riguardava il collegamento della metro, sia per quanto riguardava negozi e servizi utili.
In quel momento però si trovavano tutti a casa di Jace, nella zona ovest di Brooklyn, proprio vicino al famoso ponte, a festeggiare l’acquisto fortunato di quello che, si sperava, sarebbe stato il solido punto di partenza della loro vita assieme.
Alexander sorrise mestamente a Maya quando questa, passando dalla cucina al salotto, gli porse una bottiglia di birra fredda.
Doveva essere una cosa tranquilla, fra pochi intimi, ma come sempre quando si parlava di quei due avevano finito per rendersi conto che le persone con cui volevano festeggiare quel traguardo erano un po’ più del previsto.
Sedute sul divano che Alec stesso aveva aiutato ad incastrare nell’ascensore e poi trascinare in casa, c’erano Clary, sua sorella e Valerie Hoogans, che discutevano proprio del trasloco imminente, di cosa avrebbero portato dall’una o dall’alta casa e cosa avrebbero acquistato di nuovo.
Maya, che gli era appena passata davanti, si era fermata tra Simon e Lorenz, l’altro collega della squadra di Jace, offrendo anche a loro un paio di birre fresche. Tra la porta finestra ed il balcone se ne stavano invece Oliver Finness, il capo squadra di Jace, Jordan, Jonathan e Benjamine, un agente della stradale che aveva fatto l’accademia assieme a suo fratello.
C’erano un paio dei colleghi di Clary, Max che chiacchierava con tranquillità con Seth e alcuni ex compagni di classe di Jace.
Sarebbero dovuti essere giusto cinque e invece erano più di una sedicina di persone.
Scuotendo la testa, ormai rassegnato all’incapacità di suo fratello e della sua degna compagna di organizzare una festa senza far troppi danni, prese un sorso della sua birra, assaporando con piacere quel retrogusto di cereale che per tanto tempo aveva dovuto evitare.
Non era un grande bevitore Alec, aveva una bella soglia di resistenza ma non per questo ne abusava come avevano fatto in gioventù – e ogni tanto ancora facevano – i suoi fratelli, e quando il medico gli aveva dato il via libera per poter bere qualcosa di alcolico, con moderazione, non aveva sentito il bisogno impellente di andarsi a fare una pinta da qualche parte. Rimaneva il fatto però, che quel sapore maltato, che era forse stata una delle cose più semplici a cui rinunciare, gli trasmettesse un messaggio chiaro, seppur non fosse quello più eclatante: Stava bene, si era ripreso, poteva ricominciare a permettersi quei piccoli vizi che la gente dava per scontato e che a lui erano stati negati per salvaguardare la sua stessa vita.
Non era nulla, era sciocco, era inutile e la birra, gli alcolici in generale, non erano mai stati una di quelle cose per cui andava matto, ma quello stupido collegamento d’idee aveva il potere di farlo sentire un po’ più libero, un più sano.
Scrollò con un gesto la manica della camicia, non aveva avuto il tempo di passare a casa a cambiarsi, optando così per abbandonare semplicemente la sua cravatta nel cassetto della macchina, e controllò l’ora. Erano quasi le undici e mezza e l’indomani si sarebbe dovuto alzar presto per ricominciare ad indagare sul caso Cobe.
Guardò Simon e Jonathan, sperando, più per il primo che per il secondo, che dopo quella serata sarebbe stato perfettamente operativo come sempre.
Bevve qualche altro sorso e s’avvicinò a suo fratello, scompigliandogli piano i capelli e dandogli un bacio in testa a tradimento.
 
«Che fai? Non dirmi che te ne stai andando!» domandò Max sottraendosi veloce dalla presa del fratello.
Alec annuì, abbracciando Seth e dandogli la sua birra. Il ragazzo gli portò una mano dietro il collo e se lo avvicinò per scoccargli due baci sulle guance. «Vuoi compagnia, uomo?» gli chiese bevendo la sua birra.
Il moro gli sorrise sbilenco. «Voglio andare prima a controllare una cosa, ma se vuoi venire a dormire da me sai che puoi sempre farlo.» gli rispose tranquillo.
Seth abbozzò un sorriso. «Vai a cercare prove per scoprire chi mi ha ammazzato uno dei miei miti culinari?»
«No, il lavoro domani mattina, solito orario d’ufficio. Voglio andare a vedere se c’è qualche cadavere da raccogliere al Pandemonium o se Magnus ha già fatto sparire tutto.»
Max rise. «E se li trovassi davvero?»
«Sarebbe la volta buona che Bane ci mostrasse quanto Cristiano Santiago gli vuole bene e quanto profumatamente lo paga.»
«Okay, ritiro la mia offerta di compagnia e la rimando a quando avrai chiuso il caso e Bane avrà messo a posto i suoi loschi affari. O a quando avrai il pomeriggio anche tu.» ammiccò con la bottiglia.
Alexander annuì. «Concesso.»
Salutò una seconda volta i due e poi tutti coloro che incontrava per la strada verso Jace.

«Oh, andiamo! Già te ne vai?» chiese quello lamentoso.
«A differenza tua io ho un lavoro costante, non aspetto che qualcuno mi chiami per buttare giù una porta e poi tornarmene in caserma tranquillo.» lo prese in giro abbracciandolo.
Oliver lo guardò male. «Spero tu sappia che ogni volta che suona l’allarme prego che tuo fratello non torni indietro.» disse seriamente stringendogli la mano. «O che lo faccia privo di sensi.»
«Credo sia un po’ la speranza di tutti.» sorrise di rimando, ignorando le proteste indignate di Jace.
Salutò anche gli altri e poi guardò con fare eloquente Jonathan. «Se Lewis sarà così distrutto da non lavorare alla solita velocità te ne riterrò colpevole.»
Quello assottigliò lo sguardo. «E perché? Di grazia.»
«Perché finché è al lavoro è un problema mio, finito il turno mi pare che Rachel l’abbia affidato a te e non a me.»
Jonathan ringhiò. «Fanculo Rach. Seh, eviterò di farlo ubriacare e lo spedirò a calci in culo a casa allo scoccare della mezzanotte, va bene fata madrina?»
Lo scappellotto che gli arrivò, veloce e letale, se lo meritava tutto.
«Te ne vai davvero?! Ma Aaaaaaaleeeeeec! Non è giusto! Non ci vediamo mai ultimamente!» piagnucolò Izzy lanciandogli le braccia al collo e alzando i piedi da terra per gravargli addosso con tutto il suo peso.
Alec la strinse con delicatezza e diede anche a lei un bacio in testa. «Perché siamo due persone adulte che lavorano costantemente, Iz, è una buona cosa.»
«Mica tanto.»
«Dai, tanto ci vediamo tutti questo weekend per il trasloco, no?» domandò Clary spuntando da dietro l’amica.
A quelle parole però i due fratelli maggiori della coppia si volsero in contemporanea per guardarsi con fare risoluto. Poi Alec si rigirò verso Clary:
«Nessuno di noi farà nulla finché chi di dovere, ovvero una ditta specializzata, avrà ridipinto le pareti, messo a posto tutte le forniture e portato e montato i mobili. No!» bloccò le proteste della ragazza sul nascere. «Non mi interessa cosa stai, o state per dire. Nessuno di noi rischierà di morire folgorato per mettere a posto la linea elettrica, nessuno allagherà casa per sistemare le tubature e nessuno replicherà la lotta di vernice che c’è stata in questo appartamento. E, cosa più importante, nessuno di noi s’incollerà e monterà nessun mobile o ceramica. Sono stato chiaro?» chiese con fare minaccioso guardando prima Clary e poi Jace, Izzy aggrappata ancora alle sue spalle si lasciò sballottolare da una parte all’altra ridacchiando divertita.
«E non ce ne può fottere un cazzo neanche che Luke dica che ha fatto tutto lui a casa.» precisò Jonathan. «Perché è una puttanata e perché abbiamo dovuto chiamare idraulici e piastrellisti non si sa quante volte nel corso degli anni perché lui aveva fatto le cose alla cazzo di cane.»
Jordan scoppiò a ridere divertito, seguito a ruota dagli altri ragazzi e da Oliver, che batté loro le mani colpito.
«Cazzo Jace, a quanto pare questi due hanno finalmente trovato qualcosa su cui essere d’accordo!»
Le risate degli invitati coprirono i balbettii indignati di Clary e le proteste accorate di Jace, che giurava di essere in grado di fare tutto.
Alec si chiuse la porta di casa di suo fratello alle spalle che ancora li prendevano in giro.
 
 
 
Il viaggio sino al Pandemonium non fu troppo lungo, per quanto New York City fosse la città che non dorme mai, la sera di un giorno infrasettimanale di Marzo assicurava una certa libertà per le strade, seppur una difficoltà maggiore nel trovare parcheggio. Ma come Magnus gli aveva detto per telefono il locale era chiuso, le vie che lo costeggiavano, di solito brulicanti auto di ragazzi impegnati a bere e ballare, occupate da pochi veicoli sparsi.
C’era un ché di strano nel trovarsi in quelle strade vuote, nel sentire il silenzio del quartiere immerso nella quiete della notte e non si bassi potenti che facevano vibrare anche le spesse pareti del locale. Pareva un luogo senz’anima, un animale sopito, una cittadella diroccata.
Alexander scese dalla macchina in religioso silenzio, accostando con delicatezza la portiera e facendo scattare piano la serratura. Non c’era nulla che non andasse in quel posto, ma qualcosa gli suggeriva di non rompere la tranquillità che per una volta aveva graziato quel piccolo angolo di città.
Eppure c’era qualcosa che non andava, lo sentiva nell’aria fredda e ferma, nel ronzio dei lampioni, della linea elettrica. Lo percepiva nei delicati echi di televisori accesi nelle case, dal sibilo continuo dei sistemi di sicurezza, nelle spie rosse che di tanto in tanto lampeggiavano ritmicamente, nel lontano scivolare di gomme sull’asfalto.
I suoi occhi scrutarono con attenzione ogni dettaglio, ogni angolo, ogni finestra, ma nulla sembrava discostarsi dal classico aspetto che avrebbe dovuto avere una via cittadina allo scadere della mezzanotte. Nulla, se non il Pandemonium silente ed immobile. Poteva un semplice locale, che mai aveva visto chiuso da quando conosceva Magnus, falsare in quel modo la sua percezione di un ambiente?
Senza neanche rendersene conto Alec si portò una mano alla tasca dei pantaloni, sollevando di poco la giacca nera ed il cappotto pesante, un gesto che poteva sembra di pura noia ma che in realtà l’avvicinava alla pistola ben conservata nella fondina.
Era un detective della omicidi, era stato un riservista, non poteva certo farsi crescer l’ansia per una strada vuota.
A passo deciso ma non troppo affettato s’avviò verso le grandi porte a molla del locale, lì dove le maniglie dorate luccicavano ai riflessi dell’illuminazione cittadina. Non provò a bussare, o a premere il pulsante del citofono quasi invisibile tra i decori delle pareti, spinse con semplicità l’uscio ed entrò nel locale buio.
La lama di luce dei lampioni illuminò per un attimo la pista desolata ed il bancone vuoto, scomparendo lentamente fino a quando la porta non si fu chiusa del tutto con un tonfo lieve ed il classico clic metallico.
L’intera sala calò nell’oscurità ed Alec ebbe bisogno di un momento per far sì che la sua vista s’adattasse a quel nuovo ambiente. Piano piano iniziò a scorgere le deboli luci dei neon violacei che segnalavano i percorsi da seguire, che delimitavano la pista, i gradini e le rampe per salire nei privé inferiori.
Doveva esserci per forza qualcuno nel locale, o nessuno si sarebbe mai azzardato a lasciarlo aperto in quel modo. Era anche vero che nessuno sano di mente si sarebbe messo a rubare nel locale del figlio del Re dei Demoni, quindi, in un qualche modo assurdo e sciocco, Alec poteva perfettamente immaginare Magnus vantarsi di poter lasciare ogni porta aperte perché, tanto, il suo nome avrebbe protetto lui e tutte le sue proprietà.
Con un sospiro ed un lieve scuotere di testa il detective si augurò che non fosse quello il caso e che avrebbe potuto trovare qualcuno, anche un semplice inserviente, pronto a dirgli quale fosse stato il problema tanto grande da tener le porte del Pandemonium chiuse e se fosse stato risolto o meno. Sperando anche vivamente di non incorrere in una bella sessione di tortura o interrogatorio, sarebbe stata davvero una gran noia dover arrestare tutti, probabilmente avrebbe anche dovuto sparare a qualcuno.
Camminò ad agio, immerso in quel silenzio quasi piacevole ora che si trovava all’interno di quel locale che, volente o dolente, era divenuto per lui abbastanza famigliare. Seguì le linee luminose incastonate nel pavimento di cemento levigato, girando attorno alla pista principale, dietro la postazione del dj, diretto verso le stanze posteriori, dove si trovavano i privé più grandi, le piste secondarie e le scale per gli uffici al piano superiore.
Per un attimo carezzò l’idea di prendere il cellulare ed avvertire Magnus della sua presenza lì, chiedergli se non si fosse dimenticato le chiavi per chiuderlo e fosse stato costretto a tornare a casa per prenderle. Un pensiero sciocco, una domanda retorica e sciocca, qualcosa che avrebbe detto ad un amico per prenderlo in giro.
Sorrise mesto a quel pensiero, forse poteva farcela a vederlo come un amico qualunque, come qualcuno da conoscere meglio, qualcuno che sarebbe potuto diventare qualcosa di più con tempo e pazienza.
Aveva appena estratto il telefono dalla tasca quando un rumore attirò la sua attenzione.
Aggrottando le sopracciglia e tendendo le orecchie Alec poté giurare d’aver sentito qualcuno imprecare a bassa in modo sommesso, tra sé e sé.
Si diresse a colpo sicuro verso le stanze sul retro, quelle in cui si trovavano camerini e spogliatoi, i locali caldaia e quelli con i quadri elettrici. Nel corridoio scuro proprio una delle ultime porte era aperta, Alec poteva sentire il tramestio tipico di chi lavora provenire dall’interno della sala e vi avvicinò con cautela, sperando di non spaventare chiunque vi fosse all’interno.
Arrivato sull’uscio della porta bussò gentilmente allo stipite scuro.
 
«Mi scusi?» domandò con voce bassa.
 
Nella stanza anch’essa buia, illuminata solo dalle dannatissime luci viola che Magnus aveva voluto per forza al posto di quelle rosse d’emergenza, un uomo di non meno di quarant’anni era piegato davanti al quadro elettrico, con un paio di pinze in mano e del nastro isolante tra i denti.
Quando l’uomo si volse, preso comunque di sorpresa, Alec sentì quel minimo di imbarazzo e timidezza che l’aveva assalito prima, pensando di star disturbando un povero tecnico costretto a lavorare in quelle terribili condizioni, scivolare via. Sull’occhio sinistro dell’uomo c’era un piccolo visore monoculare notturno, simile a quelli che lui stesso aveva usato in Medio Oriente durante le missioni notturne.
Da quando gli elettricisti giravano con attrezzature del genere?
 
«Buona sera.» rispose quello una volta ripresosi. Aveva una voce calda e morbida, un po’ roca e bassa, confortevole. Alec batté le palpebre, cercando di metter a fuoco il suo volto con quel minimo di luce assolutamente inutile: forse era un pensiero meschino, ma si ritrovò a domandarsi come qualcuno con una così bella voce fosse finito a far l’elettricista.
«Mi spiace deluderla ma il locale è chiuso, temo d’essere l’unico rimasto.» continuò quello sorridendo, o almeno così gli parve.
Alec annuì. «Sono un amico del proprietario,» si sentì in dovere di specificare subito, «mi aveva detto d’aver avuto problemi al lavoro ma non mi ha specificato di che tipo.»
«Era venuto a controllare che il signor Bane non avesse fatto danni? Scommetto che non si è più fatto sentire per tutta la giornata e che l’ha fatta preoccupare.» asserì con tono scherzoso.
Nonostante la situazione particolare, Alec si ritrovò ad accennare uno dei suoi sorrisi più timidi: detto da uno sconosciuto suonava così stupido ed imbarazzante.
«Già, lo conosce bene.» disse schiarendosi la voce.
L’uomo annuì. «Oh, eccome. Quando ha qualche problema tecnico è me che chiama.»
Anche Alec non riuscì a far altro se non annuire, allungando poi una mano verso li tecnico.
«Alexander Lightwood.» si presentò con educazione.
Con un altro sorriso aperto, quasi accecante nonostante il buio, l’uomo rispose alla stretta.
«Anthony Hatt. Mi spiace abbia fatto tutta questa strada per niente, Alexander.»
Alec deglutì ritraendo con lentezza la mano. Il modo in cui aveva pronunciato il suo nome era sembrato quasi aristocratico, come fosse un titolo nobiliare.
«Ero di strada e almeno ora so che Magnus è a casa. Posso darle una mano in qualche modo?» domandò gentilmente, togliendosi il cappotto e poggiandolo su di una sedia.
«Mi farebbe davvero un grande favore! Venga, le faccio vedere.»
Rimasero per un po’ a discutere di fili e di interruttori, non che Alexander fosse un esperto, ma qualcosa aveva imparato dopo tutte le volte che aveva dovuto rimetter a posto il quadro elettrico della Signora Dott.
Parlarono piano del più e del meno, sussurrando quasi tanto era il silenzio all’interno di quella sala quadri.

«Posso chiederle che lavoro fa?» domandò d’improvviso l’uomo.
«Sono un agente di polizia.» disse semplicemente il giovane.
L’altro si voltò, scrutandolo da dietro la lente notturna che ancora non si era tolto.
«Tipo quelli che stanno sulla volante o quelli d’ufficio?»
Scosse la testa. «Nessuno dei due, a dir il vero. Sono un detective della omicidi.»
Con sua sorpresa l’uomo scoppiò a ridere. «Ed è amico di Magnus Bane? Buon dio ragazzo, lei è davvero sfortunato!»
Alec sorrise sbilenco. «Purtroppo, non sempre gli amici si possono scegliere, spesso ci si deve accontentare di quelli che ti capitano.»
«Ma lei lo sa, sì, chi è Magnus Bane, cosa ha fatto lui, cosa ha fatto e fa tutt’ora suo padre…» fece il signor Hatt con tono vago.
Il detective annuì con un singolo cenno secco. «Il mondo non si divide in bene e male assoluti, in bianco e nero. Ci sono tante sfaccettature, tante sfumature. So quello che ha fatto Magnus in passato e ciò che potrebbe fare in futuro, ma credo anche che non sia mai troppo tardi per tendere la mano a qualcuno e mostrargli una via migliore.» disse con sincerità.
«Quella della legge?» chiese l’uomo.
«Quella della giustizia. La legge non è giusta e spesso, ammetto con rammarico, neanche onesta. A noi non resta che provare a fare del nostro meglio, a migliorare noi stessi e aiutare chi ci sta attorno a far lo stesso.»
Non sapeva perché stesse dicendo quelle cose, a mezzanotte passata, solo con uno sconosciuto nel Pandemoniumo, uno sconosciuto che poteva perfettamente essere un elettricista di giorno ed uno spacciatore di notte, per quanto ne sapeva. Poteva essere uno della cerchia di Magnus e quasi sicuramente era così, o non l’avrebbe certo chiamato per aggiustare le cose nel suo sancta sanctorum del piacere e dello svago.
«Lei è una brava persona, detective Lightwood, glielo hanno mai detto?» domandò con quella sua bella voce il signor Hatt.
Se l’avesse potuto vedere, e probabilmente poteva grazie al visore, l’uomo si sarebbe accorto del lieve rossore che aveva colorato a chiazze le sue guance.
«È capitato.» ammise piano.
Una mano gli si poggiò su di una spalla ed Alec si volse a guardare i contorni, ora più nitidi, del volto davanti al suo. Aveva avuto ragione all’inizio, doveva avere più di quarant’anni, sicuramente era sui cinquanta. Aveva lineamenti marcati ma non rozzi, decisi ma quasi morbidi, sembravano modellati a mano da un artista sapiente. Il naso dritto, la fronte ampia ed i capelli tirati indietro e schiacciati dall’elastico del visore. L’unico occhio scoperto era leggermente socchiuso, forse nel tentativo di metter a fuoco meglio il mondo, forse per mancanza d’occhiali, ma ciò che spiccava di più sul viso ben rasato era il sorriso ampio e affascinante.
«È un bene che una persona così saggia e giudiziosa sia finita al fianco del signor Bane, magari potrà mettergli un po’ di sale in quella zucca paiettata che si ritrova.» gli fece l’occhiolino e le rughe d’espressione quasi si fusero con la linea di congiunzione delle due palpebre. «Vado a riavviare il pannello del bar, quando le dico di tirare su le leve lo faccia.»
Si alzò dandogli un ultima stretta sulla spalla ed uscì dalla stanza.
Non appena la voce calda del signor Hatt gli intimò di alzare le leve dei contatori Alec lo fece all’istante e si ritrovò accecato dall’improvvisa luce bianche che invase tutto il locale.
«Tutto a posto in pista?» domandò il giovane a voce alta, chiudendo gli attrezzi nella sacca lasciata lì per terra, il logo sbiadito di quello che sembrava un orizzonte in tempesta e poche sporadiche lettere ancora leggibili, ed alzandosi da terra. Si spazzolò i pantaloni e raggiunse il tecnico nella sala principale. Probabilmente non aveva gridato abbastanza per farsi sentire, ma non aveva la minima voglia di farlo.
Quando arrivò all’ingresso si dovette schermare gli occhi con una mano, avanzando a piccoli passi, lasciandosi guidare ancora dalle luci di posizione viola, le uniche che non gli ferissero lo sguardo.
In poco tempo si ritrovò al centro della pista, tutte le luci ed i fari puntati su di lui, annullando la sua ombra e creando un leggero contrato di bianchi sovrapposti a terra, lì dove la sua figura tentava di proiettarsi sul pavimento.
«Signor Hatt?» domandò strizzando gli occhi. «Signore?»
Ma nessuno gli rispose, nessuna voce calda e confortevole, nessun sorriso affascinante o risata chiara e rombante. Non c’era nessuno nel Pandemonium, solo lui, tanto che per un attimo, Alexander si domandò se non se lo fosse immaginato quell’elettricista, se non fosse stato un miraggio, un illusione.
 
 
Da solo al centro della pista da ballo, Alexander se ne stava immobile e perplesso, le pupille ridotte al minimo per sopportare il cambio di luminosità.
Nella profondità oscura e silenziosa dei una notte senza musica e corpi caldi ammassati gli uni contro gli altri, investito dalle luci bianche dei potenti fari, Alec si mostrava come tutti l’avevano sempre visto: senza ombre.
 
 
 
 
Ma sciocco è l’uomo che ripudia il buio alla ricerca della luce, perché non sa che senza d’esso il suo candido baleno non avrebbe ragione d’esistere.
 
Mai credere alle apparenze. 



 
 
 
 
   
 
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