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Autore: KUBA    30/08/2020    5 recensioni
"Merda, è successo di nuovo. Di questo passo non distinguerò più il reale dall’illusione [...]"
Salve a tutti, questa è la prima volta che pubblico un testo in prosa. Questo progetto fa parte della serie "Hornets", che narra le vicende di James, un avvocato italo-americano molto ambizioso, ma che si è scontrato con la realtà dei fatti. Nella serie troverete anche delle poesie che serviranno per l'evoluzione del protagonista. Anche "Storie di vecchie poesie bruciate" è in fase di elaborazione, quindi sarà un lavoro lungo. Spero che vi possa piacere :)
Genere: Angst, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hornets'
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6.00 Non ho quasi dormito stanotte.
Finalmente mi sono ricordato chi cazzo sono gli Hornets, ma, forse, era meglio continuare a vivere nell’ignoranza. Spesso è meglio non sapere niente, piuttosto che sapere tutto.
Non so come non mi sia venuto in mente prima, alla fine, è dai tempi della facoltà di giurisprudenza che si parla, o meglio, si fanno teorie su di loro. Gli Hornets. Un’organizzazione criminale di cui si parla poco, perché nessuno conosce con esattezza chi siano. Sappiamo che tutto il mondo occidentale, Italia compresa, è sotto il loro controllo. Tutto ciò in modo velato, oscuro e non facilmente comprensibile. Girano voci che l’omicidio del presidente degli Stati Uniti sia il risultato di un loro piano. Anche le recenti guerre civili in Africa, in realtà, derivano da un loro desiderio di espansione nell’area subsahariana.
Gli Hornets, il loro nome dice tutto. I calabroni attaccano spesso gli alveari e le arnie, trucidando le api e nutrendosi di loro, privandoci di una fonte essenziale per la nostra vita; allo stesso modo, questi criminali attaccano le basi della nostra società, succhiandone via la linfa vitale, per distruggere il mondo e assoggettarlo alla loro volontà.
Pezzi di merda. Sto pure difendendo uno di loro. Mi faccio schifo.
Mi alzo dal letto, è inutile restare qui sdraiati a fare nulla, meglio andare a lavarsi.
Oggi non sono di buon umore, quindi eviterò di raccontarvi nei dettagli cosa mangerò e come mi vestirò. Non ne vale la pena. Mi limito a dire che il completo sarà nero e la cravatta grigia.
Sono le dieci del mattino, tra poco inizia la discussione in tribunale. Dovremmo sbrigarcela in poco tempo, per fortuna. Ecco, ci stanno chiamando.
Come avevamo previsto, il giudice accoglie la richiesta senza troppi fronzoli. Fabrizio dovrà pagare una pena pari a 5000 euro, ma non dovrà scontare neanche un giorno in carcere. Sono in conflitto con me stesso: da un lato, sono contento che un ragazzo, probabilmente vittima di qualcosa più grande di lui, non debba scontare una pena detentiva; dall’altro, odio vedere un criminale in libertà.
Esco dall’aula. Mi levo la toga, oggi non ho meritato di indossarla.
Fumo una sigaretta, oggi ho portato all’esasperazione il mio tabagismo, ma dovete capire quando una persona è di pessimo umore ed evitare di rompere i coglioni.
Ad un tratto, due uomini mi si avvicinano. Cristo, chi sono questi? Come fanno sempre a sapere dove mi trovo? In che cazzo di situazione son finito?
“Buongiorno avvocato…”
Riconosco la voce, è quella dell’uomo misterioso. Merda, non riesco a vederlo. Questi due armadi lo coprono.
“… ha svolto egregiamente il suo lavoro oggi. Ci riteniamo molto soddisfatti.”
“Mi fa piacere.” – cerco di tagliare corto.
“Anche noi, mi creda. Per questo mi trovo qui. Noi crediamo fortemente nel suo talento e siamo molto dispiaciuti nel vedere una persona del suo livello ansimare per arrivare a fine mese. Non è questo il mondo che vogliamo creare! Che ne direbbe di lavorare per noi? La pagheremmo bene!”
Ma che cazzo sta dicendo questo? Io lavorare per questi folli? Non scherziamo.
“Non ci penso nemmeno. Io sono un avvocato che ha un’etica ben precisa. Non potrei mai lavorare per voi, per nessuna cifra al mondo!”
“Io credo che lei presto accetterà la nostra offerta, signor avvocato.”
“Ne dubito fortemente.”
“Le lascio il mio contatto, questa sera mi richiami se cambia idea.” – una delle guardie mi porge un biglietto con il numero di telefono. Meglio tenerlo, per evitare guai.
Alzo lo sguardo. I tre sono già scomparsi. Non riesco a capire in che direzione sono andati. Merda.
No! No! No! NO!
Che cazzo. Mi gira la testa. Vomito per l’ansia. Tutto ciò non ha senso: ho sempre vissuto nella mediocrità, perché cazzo dovrei essere contattato da chi ha in mano le redini del mondo? Io non valgo niente. Niente. Niente.
Spengo il telefono. Non voglio avere contatti con nessuno.
Salgo in auto, voglio allontanarmi per un po’ e cercare di smaltire quello che sta accadendo. Mi dirigo in un luogo a me caro, certo è un po’ lontano, ma ne vale sempre la pena.
Eccolo. Il mare. Sempre così calmo, sempre così loquace.
Parcheggio davanti alla spiaggia. Mi sfilo le stringate e le calze, amo sentire la sabbia sotto i piedi ed essere accarezzato da quella brezza salmastra che ti scompiglia i capelli. Poso il telo e mi siedo davanti a quell’immensa distesa azzurra. Mi stanno tornando alla mente molti ricordi.
Bei tempi quelli. Ero un ancora giovane studente di giurisprudenza la prima volta che ho visto questo posto. Volevo diventare un grande avvocato per cambiare il mondo, farlo diventare migliore e per dare alle future generazioni una vita più tranquilla – sappiamo tutti poi com’è finita, ma questo è un altro discorso. All’epoca, nessuno pensava che gli Hornets avrebbero raggiunto una simile espansione, anzi, ricordo che spesso scherzavo con i miei compagni di corso e ironizzavo sulla loro sorte. Mannaggia a me, dovevo starmene zitto!
Era stata Lucrezia, la mia ragazza dell’epoca, a portarmi qui dopo una bocciatura all’esame di procedura civile. Ero disperato, non riuscivo proprio a riprendermi e poi lei, di punto in bianco, mi aveva preso la mano e mi aveva costretto a salire in macchina – non vi dico quanto fossi contrariato dalla sua decisione. Mi parlava, sorridendo, di quanto io fossi una brava persona e che dovevo smettere di non aver fiducia in me stesso, ma, anzi, continuare a credere nel mio talento.
Dio quanto sapeva tirarmi su il morale. Ero giovane, ma ambizioso e lei sapeva come spronarmi a dare sempre il meglio. Era una ragazza meravigliosa, forse, se lei fosse rimasta con me, la mia vita ora sarebbe diversa.
Purtroppo, però, lei non tornerà. Non tornerà mai più. E no, non parlo di un litigio o di una rottura dolorosa. Lei non tornerà perché è partita pochi mesi dopo la nostra chiacchierata in spiaggia e non si è mai più fatta sentire. Non so più nulla di lei.
Non voglio turbarvi raccontandovi di lei, se avrò modo, ve ne parlerò in un’altra occasione.
Ora mi ritrovo qui, davanti al mare e gli racconto della mia situazione. Sono felice, insomma, voglio dire… lui non giudica, non giudica mai nessuno, ti ascolta per ore, senza farti mai sentire a disagio; e poi ha davvero tante cose da dire, e quando parla rimani ammaliato, perché lo fa in un modo così soave e così delicato che spesso può risultare complesso recepire la sua spiegazione, ma quando comprendi il senso delle sue parole il cuore si illumina e l’anima trova un conforto. Sembra banale, forse lo è, non mi interessa. Io mi sento esattamente così.
La pace dei sensi, la ritrovo esattamente qui. Amo guardare l’eternità davanti a me, il silenzio è scalfito solo dal dondolare delle sue onde che si infrangono contro gli scogli e si disperdono in mille frammenti di schiuma.

Son seduto
a guardare il mare.
Il mare.
Com’è calmo il mare.
Ha un vezzo:
ondeggiando
sembra volersi avvicinare,
ma poi,
se guardato troppo a lungo,
si ritira cautamente.
Com’è timido il mare.
La schiuma si infrange
contro i miei pantaloni.
In questa quiete,
il fumo,
danzando con la brezza,
segue il ritmo
dei flutti,
creando una coreografia
per questa sinfonia salmastra.
Il sole è alto nel cielo.
Sarà mezzogiorno,
lo capisco dall’ombra dei miei compagni.
Mi lascio cullare,
placidamente,
dalla ninna nanna marina.
Che pace!
Ho sempre ammirato il mare,
così vasto, così imponente,
ma così umile,
se fosse una persona,
sarebbe davvero perfetta.
Chiudo gli occhi.
Sento le ali dei miei compagni sbattere.
Torneranno, forse.
Resto a guardare.
Quanto durerà questa deriva?

Mi sdraio, voglio godermi questa pace ancora un po’.
18.00. Risalgo in macchina, è giunta l’ora di tornare a casa.  
20.00. Devo passare per lo studio, devo recuperare il dossier del caso di Fabrizio per studiarlo a fondo e cercare di carpire qualche informazione in più su di lui e sui suoi superiori.
Parcheggio l’auto proprio davanti all’ingresso. La luce è accesa. Molto strano, Davide non si è mai dimenticato di spegnerla. Apro la porta – merda, spero con tutto me stesso che non ci sia niente di stra…NO! NO! NON POSSO CREDERCI. NON PUÒ ESSERE VERO.
Davanti a me c’è l’inferno. Sangue ovunque. Davide è steso per terra, esanime. Gli hanno sparato in pieno petto, ma l’orrore non è finito: gli hanno cavato gli occhi, disegnando delle lacrime con il suo sangue e hanno conficcato due spille a forma di calabrone nelle cavità oculari. Le sue mani sono intrecciate e stringono un biglietto. Lo apro, il messaggio dice:
“Azrael non si fermerà mai, vorrà sempre più sangue. Il tempo stringe, Avvocato.”
Dentro di me qualcosa sta cambiando. Scoppio a piangere, poi, d’un tratto comincio a ridere. Rido, di gusto. Prendo il cellulare e lo accendo. Ignoro i messaggi e le chiamate, compongo il numero e chiamo.





 
   
 
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