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Autore: BlueButterfly93    31/08/2020    0 recensioni
(REVISIONE STORIA COMPLETATA)
MIKI: ragazza che, come il passato le ha insegnato, indossa ogni giorno la maschera della perfezione; minigonna e tacchi a spillo. È irraggiungibile, contro gli uomini e l'amore. Pensa di non essere in grado di provare sentimenti, perché infondo non sa neanche cosa siano. Ma sarà il trasferimento in un altro Stato a mettere tutta la sua vita in discussione. Già da quando salirà sull'aereo per Parigi, l'incontro con il ragazzo dai capelli rossi le stravolgerà l'esistenza e non le farà più dormire sogni tranquilli.
CASTIEL: ragazzo apatico, arrogante, sfacciato, menefreghista ma infondo solamente deluso e ferito da un'infanzia trascorsa in solitudine, e da una storia che ha segnato profondamente gli anni della sua adolescenza. Sarà l'incontro con la ragazza dai capelli ramati a far sorgere in lui il dubbio di possedere ancora un cuore capace di battere per qualcuno, e non solo..
-
Lo scontro di due mondi apparentemente opposti, ma in fondo incredibilmente simili. Le facce di una medaglia, l'odio e l'amore, che sotto sotto finiranno per completarsi a vicenda.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ubriaca d'amore, ti odio!'
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Capitolo 61


A qualunque costo




🎶Little Mix ft. Jason Derulo - Secret Love Song (prima parte capitolo)🎶 

   🎶Dean Lewis - Waves🎶

   🎶Zoe Wees - Control🎶

   

 

***

La stilista dai capelli argentei era una forza della natura: vulcanica come poche, iperattiva sin dalla nascita, irrequieta anche da grande; nessuno era in grado di starle dietro neanche in amore. La sua personalità prorompente li aveva fatti scappare tutti, persino quelli simili a lei. Per via del suo carattere, da molti definito pazzoide, aveva dovuto rinunciare a creare la sua cerchia di amici, perché fuggivano prima che potesse affezionarsi realmente a loro. Non aveva mai considerato l'opzione di moderare un po' i suoi modi; lei non sarebbe cambiata per nessuno, anche a costo di rimanere sola. Dopo una delle tante sue azioni apparentemente inspiegabili, neppure il suo conoscente d'infanzia, Lysandre, le era rimasto a fianco. Lo aveva baciato durante una notte di pioggia, fuori da un locale, ma nessuno ne sarebbe mai venuto a conoscenza e nessuno, neanche il poeta, sapeva il reale motivo di quel gesto avventato. Soltanto lei. 

Lysandre era la sua prima cotta.

Sin da quando lo conobbe per la prima volta, vide qualcosa di speciale in lui, qualcosa che potesse combaciare perfettamente con lei. Perché anche Lysandre era bizzarro: si tingeva i capelli d'argento, vestiva abiti di altri tempi, utilizzava un linguaggio ricercato nel parlare e tentava in tutti i modi di adeguarsi al mondo presente. Così aveva iniziato ad osservarlo di nascosto e ad ideare abiti nel suo stile, per lui. A casa, dentro il cassetto segreto della scrivania, conservava gelosamente centinaia di schizzetti raffiguranti il poeta nei vestiti più improbabili, ma che su di lui sarebbero stati una meraviglia. 

Più anni passavano, più Rose s'invaghiva di lui, più loro si allontanavano. Lysandre innalzò un muro tra di loro, non lasciandola avvicinare, e completò quella costruzione quando le presentò suo fratello Leigh. Iniziò a frequentare Leigh per scatenare in Lysandre un sentimento di gelosia che, se fosse stata fortunata, lo avrebbe spinto a rivelare l'infatuazione nutrita per lei, ma ciò non accadde. Trascorsero giorni, mesi e poi anni, Rosalya si affezionò a Leigh per davvero, Leigh s'invaghì di Rose e divennero inseparabili. Lysandre capì di esser sempre stato innamorato di Rosalya, ma era troppo tardi e troppo rischioso confessare i suoi sentimenti. Quindi tentò a tutti i costi di trasformare il suo amore in qualcosa di platonico, utile per i suoi scritti e, per i primi anni, il suo piano funzionò alla perfezione, poi però qualcosa andò storto. 

Lysandre e Rosalya iniziarono a trascorrere del tempo insieme, facendo risalire a galla quei sentimenti per troppo tempo sepolti. Si amarono di nascosto, toccandosi con gli sguardi, baciandosi con gli occhi, ma entrambi sapevano che quello, prima o poi, si sarebbe trasformato in qualcosa di molto pericoloso per il futuro, perché non sarebbe più bastato. 

Rosalya tentò il tutto e per tutto chiedendo a Leigh di sposarla, sperando che l'infatuazione provata per il poeta svanisse una volta per tutte. In fondo quello che era accaduto tra loro poteva benissimo essere frutto della sua immaginazione stravagante e non essere reale, visto che Lysandre non le aveva mai confessato di piacergli. Perché era sicura che sarebbe bastata una semplice parola del poeta per incitarla a lasciare il mondo di finta felicità che si era auto-creata e fuggire con lui. Se fosse stato necessario, pur di stare con Lysandre avrebbe vissuto anche sotto i ponti. 

Se solo lui l'avesse amata allo stesso modo... 

Ma alla fine bastò una notte come tante altre, un drink di troppo e un passo in più per portare alla luce la verità. 

«Pensi che dovrei sposare tuo fratello?» gli chiese di proposito, tentando di scatenare qualcosa in lui.

Si trovavano su due poltrone nel salotto di casa Martins, l'uno difronte all'altra. 

«Probabilmente...» replicò senza rivelare emozioni. «Lo ami?»

«Gli sono grata e lo adoro perché è l'unico ad essermi stato vicino in ogni occasione, anche durante i miei attimi di pazzia, non ha mai pensato fossi stramba. Eppure... sembra mancare qualcosa». 

Nonostante l'alcol che le circolava in corpo, non aveva ancora il coraggio di ammettere cosa effettivamente mancasse. 

«Cosa?» la scrutò incuriosito coi suoi occhi eterocromatici ed il volto di lei divenne paonazzo. 

Temeva quella domanda da parte sua, ma aveva sperato fino all'ultimo che non la facesse. 

Sospirò prima di rispondere, tentando di racimolare un po' di coraggio: «Temo di non esser mai stata innamorata per davvero, non di lui»

Le sembrò di essersi liberata di un peso superiore ad una tonnellata. Avrebbe voluto aggiungere ben altro, urlare i suoi sentimenti per Lysandre, ma temeva d'incorrere in un suo rifiuto o di aver frainteso le cose. Non aveva mai avuto altri ragazzi al di fuori di Leigh, era cresciuta e si era crogiolata nell'affetto che soltanto lui era stato così premuroso da darle, era diventata ragazza e poi donna insieme a lui e non conosceva nient'altro su quel sentimento tanto bello quanto spinoso. Non sapeva riconoscerlo né capirlo. 

«In amore, chi non dubita e non teme, non ama», Lysandre se ne uscì con uno dei tanti aforismi che tanto gli piaceva adattare ad ogni discorso. 

«Al momento, delle tue citazioni non me ne faccio un bel niente», Rosalya si alzò di scatto dalla poltrona e, impaziente, iniziò a girovagare per il salotto. 

«Non sono uno stolto, so bene cosa stai cercando di dirmi, ma non posso fare un tale screzio a mio fratello...» 

Rosalya bloccò improvvisamente la sua falcata; non si aspettava quelle parole da parte del misterioso e distaccato poeta. 

«Cosa provi?» la domanda schietta e bisbigliata giunse assordante alle orecchie del poeta. 

«Non ha importanza». 

Non poteva di certo rivelarle che era diventata tutto il suo mondo, che non passava notte senza che rinvangasse quel bacio bagnato ricevuto da lei molti anni prima, che non rimpiangesse di averle presentato suo fratello. In quella storia... c'era tanto da rischiare, troppo da perdere e non era pronto a farlo. Probabilmente non lo sarebbe mai stato. 

«Importa a me...» cocciuta come poche, insisté. 

Lysandre si alzò pacatamente dalla poltrona e raggiunse Rosalya, le si parò davanti e le tolse il fiato con le mille peculiarità del suo volto. 

«Ti amo come si amano certe cose oscure, in segreto, tra le ombre e l'anima», pronunciò inaspettatamente, con una tale intensità capace di perforare il petto.

Si dichiarò a lei citando il diciottesimo sonetto di Pablo Neruda, come solo un amante della letteratura sapeva fare. Le si avvicinò maggiormente per ammirare al meglio la bellezza del suo giovane volto e l'accarezzò con premura, come se tra le mani stesse reggendo un diamante prezioso. E Rosalya, in realtà, era questo: una bellissima creatura fragile e speciale. 

«Sono anni che ti ammiro da lontano, ti venero e dedico ogni testo, ma ciò non cambierà le cose tra noi. Il mio amore per te è destinato ad essere platonico. Non ho intenzione di essere l'amante disgraziato che dividerà te e mio fratello. Non ho intenzione di scappare con te. Io resto e mi metterò da parte, è meglio così per tutti».

Finì per spezzarle il cuore con una delicatezza che poteva appartenere soltanto a lui, andando alla ricerca delle giuste parole da pronunciare per ridurre l'impatto violento dell'atterraggio, ma persino Lysandre - che di amore narrava ogni giorno - non aveva idea di quali frasi potessero arrecare meno danni. 

«E non importa cosa provo io, invece?» gli occhioni dorati di Rose divennero opachi, spenti. 

«Hai già deciso tutto quando gli hai chiesto di sposarti... Ormai è troppo tardi per tornare indietro», Lysandre pronunciò rassegnato. 

«Non è mai troppo tardi». 

«Per noi, invece, sì» bisbigliò quelle ultime parole a pochi millimetri dalla bocca carnosa di Rosalya. 

«Lys...» sussurrò, fissando le labbra del poeta. 

Non aveva mai desiderato baciare qualcuno come in quell'istante. 

«Rose...» sibilò lui, cercando di fermare in tempo l'imminente catastrofe. 

Ma non ci riuscì. Per la prima volta nella sua vita, invece che la ragione, mise davanti il cuore; per la prima volta nella sua vita, invece che gli altri, mise davanti se stesso. 

E l'imprescindibile avvenne. 

Le loro labbra si unirono in un bacio disperato, ricco di parole mai dette e promesse infrante. Erano anni che tentavano di evitare l'inevitabile, ma alla fine nessuno dei due riuscì a contenersi. Ad entrambi parve di tornare indietro di decenni, al loro primo ed unico bacio, a quei sentimenti acerbi: lui provò ad immaginare di non averle mai presentato suo fratello; lei tentò d'illudersi che Lysandre non l'avrebbe mai rifiutata. Ma durante quella notte, a distanza di anni, entrambi portavano sulle spalle una consapevolezza in più: l'amore muto, l'amore segreto, l'amore impossibile nutrito l'uno per l'altra e viceversa. Nessuno sapeva e nessuno avrebbe mai dovuto sapere. Tanto... non sarebbe accaduto nuovamente. Si concessero quella leggerezza, dopo una lotta contro loro stessi e i sentimenti, contro il tempo e gli errori e dopo esser precipitati al suolo, stremati. 

La salutò per l'ultima volta, promettendole che non avrebbero mai più ripreso quell'argomento spinoso, che non l'avrebbe ferita o illusa, che non si sarebbe mai più avvicinato pericolosamente a lei come in quel momento. 

«Addio Rose...»

Con la grazia di un angelo, così come l'aveva elevata fin sopra il cielo, la fece precipitare sottoterra alla velocità di un battito d'ali. 

E se ne andò, svanendo dietro la porta di legno color ciliegio, portando via con sé due cuori spezzati ed un unico amore. 

***

La rockstar dagli indimenticabili capelli color cremisi, ormai neri, non aveva mai neanche lontanamente sognato di poter aprire il suo cuore ad una donna diversa da Debrah, né aveva mai immaginato di farlo in una maniera totalmente fuori dai soliti schemi. Pensava di essere contrario alle smancerie, alle sorprese, ai regali, alle frasi da diabete e invece... Per la sua Miki avrebbe fatto di tutto, anche cambiare, andando contro gli ideali di una vita intera. Per lei aveva già fatto di tutto e, se avesse potuto, avrebbe fatto molto di più. Come si soleva dire, le avrebbe volentieri portato il mondo ai suoi piedi, ma aveva preferito portare lei sopra il mondo: nel cielo, tra le stelle. Sebbene non avrebbe mai rivelato quel particolare a nessuno, quel gesto così disgustosamente romantico quanto bello, non era stato fatto solo con l'intenzione di stupire Miki, ma anche e soprattutto per lui. La stella Ariel lo avrebbe seguito ovunque, quando sarebbe stato lontano da casa, quando si sarebbe sentito perso o smarrito, ricordandogli perennemente da dove proveniva, ritrovando per lui la dritta via.

Lei c'era stata quando nessun altro aveva osato esserci. Ed era stata proprio la sua perseveranza a spingerlo a volere qualcosa in più da lei. Non era stato il suo corpo mozzafiato o i colori particolari del suo viso e dei suoi capelli, no, perché quelli erano tratti che tutti potevano vedere, apprezzare e avere. La sua Ariel aveva visto qualcosa in lui che nessuna prima di allora era stata capace di ravvisare: era stata paziente, amorevole, dolce e con la sua purezza lo aveva conquistato. 

Miki si era da sempre presentata al mondo indossando una maschera di superficialità, finta perfezione e distacco, ma con Castiel non ci era mai riuscita totalmente ed era proprio quello l'aspetto che aveva incuriosito il ragazzo, spingendolo a sbirciare sotto quella corazza ramata e finendo per restarci intrappolato. 

Lui era testardo, arrogante, menefreghista, affascinante, ammaliante e la infastidiva a tal punto da spingerlo ad odiarlo e amarlo allo stesso tempo. Erano una continua contraddizione, quei due, e lo erano stati fino alla fine. 

Si giurarono amore eterno da un letto d'ospedale: quel luogo anonimo, che per molti rappresentava infelicità, a loro aveva sempre portato fortuna e sperarono accadesse ancora una volta. Per l'ultima volta. Occhi negli occhi, entrambi lessero nello specchio dell'anima dell'altro e, nello stesso istante, rivissero la loro travagliata, intensa, lunga storia d'amore. Sempre insieme. Per l'eternità. A qualunque costo. Fin quando gli occhi di uno non videro il buio e il filo invisibile, che li aveva tenuti legati inesorabilmente per anni, si spezzò. 

___________

Miki

La vita, per qualche strana ragione, è imprevedibile. Ciò ci affascina e a volte ci porta dei bellissimi giorni di sole, ma non è sempre così. Dovremmo esser capaci di prevedere gli eventi e distinguerli sin da subito per non cadere in trappole per topi che mai avremmo potuto immaginare di calpestare. Dovremmo sempre trovare un attimo di tempo per sussurrare alle persone a cui teniamo: "ti voglio bene", perché ciò che può accadere nella vita è inaspettato, oggi puoi dirlo, domani chissà... 

Negli ultimi anni, mi era capitato di dire a mia madre che le volessi bene ma, probabilmente, quelle volte non erano state abbastanza. Avevo sprecato l'intera mia breve esistenza nutrendo rancore verso le persone sbagliate e Teresa era stata una di quelle. Il tempo trascorso insieme non era stato abbastanza, non ancora, e mai avrei accettato di perderla così presto. Quant'era bastarda la vita e soprattutto quanto lo era chi ci governava da lassù... mi aveva permesso di assaggiare dei brevi attimi di felicità familiare, per poi riprendersi tutto indietro con gli interessi. Cos'erano due brevi miseri anni dinanzi a mezzo secolo? Un chicco di riso, forse, e così pochi erano stati gli attimi trascorsi con mia madre. Meritavamo di meglio, dopo sedici anni di sofferenze; meritavamo di più, dopo esserci ritrovate. E poi, lei era così giovane... meritava di donare amore e riceverne ancora tanto, perché ne aveva già subite molte di ingiustizie, ne aveva affrontate tante di disgrazie. 

Mi trovavo nella sala d'attesa di un ospedale come tanti quando, fissando i muri bianchi difronte a me, riflettei sul senso della mia vita. Mia madre si trovava in una delle stanze anonime a fianco, a lottare tra la vita e la morte: una macchina l'aveva investita, provocandole delle gravi lesioni che avrebbero potuto ucciderla, ma che sperai non l'avesse fatto. 

Mi sentii in procinto di affondare verso una via di non ritorno. Non avrei sopportato l'ennesimo colpo basso, l'ennesimo schiaffo della vita.

Flora singhiozzava disperatamente, sdraiata su due sedie e con il volto nascosto nell'orlo del mio vestito che ormai indossavo da ventiquattro ore. Quella nottata sembrò interminabile. Era iniziato tutto da una semplice rimpatriata di classe, proseguita con delle foto scattate dai paparazzi e pubblicate ovunque, che ritraevano me in compagnia della rockstar del momento, viste anche dalla sua ex ragazza pazza che successivamente aveva ben pensato d'infamare mia sorella su Facebook, prevedendo la sua fuga da casa e la ricerca disperata di una madre che non l'aveva trovata nel suo letto, con conseguenza l'incarico a qualcuno d'investire Teresa e magari ucciderla. Ogni fatto era concatenato ad un altro e creava quella fitta rete di distruzione architettata da Debrah. L'ultima da attaccare sarei stata io, ma poco m'importava al momento.

Castiel era poggiato al muro, poco distante dalle sedie su cui ci trovavamo io e Flora. Non mi aveva lasciata un attimo e apprezzai infinitamente la sua vicinanza. Era l'unico spiraglio di luce che intravedevo tra gli abissi in cui stavo sprofondando. 

«è tutta colpa mia...» dalla voce di Flora trasparve tutto il suo dolore ed il senso di colpa che sentiva. 

«Non è così», le ripetei per la milionesima volta. 

«Sì, invece...» sollevò il capo e mi guardò dritta negli occhi «se non fossi scappata, lei non sarebbe uscita per cercarmi in piena notte e non sarebbe morta... Come farò senza di lei, Miki? Dimmelo!» alzò lievemente la voce. 

Lo sguardo di Flora era smarrito, impaurito, avvilito. Avrei tanto voluto donarle conforto, ma non ne fui capace. Le sue paure erano anche le mie. Come sarei sopravvissuta alla perdita di mia madre per la seconda volta?

«Teresa è forte, non morirà», una mano familiare si poggiò sulla mia spalla e un'altra su quella di Flora. 

Castiel, senza troppe cerimonie, arrivò dritto a ciò che ci serviva sentir dire. Era sempre stato di poche parole, ma bastavano quelle per infondere sollievo e coraggio. Lo guardai e, con un sorriso sincero, espressi tutta la mia gratitudine nei suoi confronti. Senza di lui non ce l'avrei fatta. Non quella volta.

Presi a carezzare i capelli morbidi e lisci della mia sorellina con l'intento di calmarla e, dopo un po', ci riuscii. Poggiò il capo sulle mie gambe e finalmente si addormentò; aveva trascorso una notte insonne, immersa in mille emozioni devastanti, doveva essere sicuramente esausta. 

«Marcel dovrebbe essere qui tra massimo un'ora», mi comunicò Castiel, dopo aver posato il telefono nella tasca posteriore dei suoi jeans. 

Il compagno di mia madre si trovava ad Amsterdam, quando aveva ricevuto la terribile notizia dell'incidente di Teresa. Prese il primo aereo disponibile per rientrare a Parigi e starle vicino. Non conoscevo bene Marcel ma, viste le varie vicende dei loro dodici anni di relazione, supposi l'amasse tanto. Doveva sentirsi distrutto. Il nostro era un dolore simile, ma allo stesso tempo diverso, come l'amore provato da entrambi per lei. 

«Vuoi un caffè?» il volto perfetto di Castiel entrò nella mia visuale. 

Feci un segno di assenso con il capo «Grazie».

«Vieni con me», mi porse la mano. 

«Non posso», mostrai Flora. «Potresti portarmelo tu qui, se non è un problema...»

«Se ti spostassi piano, dovresti riuscire a rialzarti senza svegliarla», insisté.

«Lascia stare, non voglio nessun caffè», m'indispettii. 

Non avevo alcuna intenzione di lasciare da sola Flora. 

«Lo dicevo per te... Ti farebbe bene prendere un po' d'aria», si avvicinò e sfiorò i miei capelli. 

Non aveva mai insistito così tanto una persona per qualcosa né aveva mai avuto così tanta pazienza. Stava facendo uno sforzo enorme per me. Soltanto per me. 

«Forse...»

Non avevo idea di come reagire a quella sua bontà, a quella preoccupazione e protezione nei miei confronti. Non l'aveva mai fatto così apertamente. 

«Hai bisogno di sfogarti, di farlo con qualcuno che possa capirti. Ed io sono qui». 

Allargò le braccia, in attesa dell'altra metà per completarsi. E la sua... ero io.

«Finora hai finto di stare bene, ma so che non è così», continuò. «Flora sta riposando e qui nessuno le farà del male, stai tranquilla», allungò le labbra in quel mezzo sorriso tipico di lui.

Non potevo mostrarmi debole davanti a Flora, perciò fino a quel momento ero stata costretta a mantenere una tranquillità apparente che in realtà dentro di me non avevo, e Castiel lo capì perfettamente. 

Alternai lo sguardo da Flora a Castiel, indecisa sul da farsi. 

«C'è l'infermiera della reception proprio qui difronte, le ho già chiesto di vegliare su Flora per qualche minuto». 

E quella specificazione bastò per convincermi definitivamente. 

Senza proferire parola, mi alzai lentamente dalla sedia, ressi la testa di Flora, posizionai la mia pochette vuota sulla sedia e sotto il capo di mia sorella a mo' di cuscino.  

«Andiamo», sospirai, guardando Castiel. 

Al di fuori della struttura ospedaliera, dentro ad un giardino, si trovava un piccolo chiosco in legno, aperto ventiquattro ore al giorno. Ci recammo lì. Castiel mi offrì il famigerato caffè e, una volta bevuto, ci poggiammo ad un albero. 

Chiusi gli occhi, respirai l'aria fresca delle prime ore del mattino e mi calmai, ma subito dopo riaprii le palpebre ed annaspai. 

La rockstar da strapazzo si trovava difronte a me, a qualche millimetro dal mio volto, mi accerchiò, poggiando le mani al tronco dell'albero.  

«Non ti lascerò mai più sola», bisbigliò quella dolce promessa, soffiando sul mio collo. 

«Dici sul serio?»  

Visti i precedenti, stentai a credergli. In fondo non sapevo neanche per quanto tempo sarebbe rimasto a Parigi, quindi non poteva permettersi il lusso di fare promesse come quelle.

«Sul serio!» fissò il grigio delle sue iridi nelle mie. 

«Sarei un gran peso per una rockstar come te», mi mostrai ancora scettica.

«Ho qualche mese di pausa a disposizione e se me lo consentirai, vorrei trascorrere ogni istante con te». 

La voce roca e quella novità mi fecero aumentare i battiti del cuore. Quindi non sarebbe ripartito nell'imminente...

«Lo dici per farmi cedere ai fini della scommessa o sul serio?»

«Entrambi!»

«Stronzo».

«Bellissima».

«Fai con tutte questo giochino per farle cascare ai tuo piedi?»

«In realtà, cascano ai miei piedi solo con il sentir pronunciare il mio nome», sorrise sensualmente e scherzoso. 

«Ah giusto, avevo dimenticato che sei diventato un sex-symbol», lo schernii. 

«Per te, però, non lo sono...» constatò, curioso della mia risposta. 

«Un simbolo sessuale? Beh, probabilmente dopo Harry Styles, Jamie Dornan, Chris Hemsworth, Can Yaman», numerai con le dita. 

«Can Yaman?» aggrottò la fronte.

«Sì, è un attore turco laureato in legge e con un fisico da far...» Castiel mi tappò la bocca senza permettermi di concludere il mio discorso. 

«Io sono meglio di tutti e quattro messi insieme», disse serio ed io risi con ancora la sua mano sulla mia bocca, poi gliela morsi e la tolse, scuotendola per il dolore. «Ahi!» proseguì, fingendosi morente; concluso il teatrino si schiarì la voce «Dicevo: io sono meglio di tutti, perché sono l'unico capace a sopportarti», concluse con un sorriso derisorio. 

Lo picchiettai sul petto e lo spinsi per farlo allontanare, ma ciò che ottenni fu l'effetto contrario: si avvicinò maggiormente a me, tornando serio. 

Piegò di lato lievemente il capo e mi sussurrò nuovamente nell'orecchio: «Volevo solamente farti distrarre per qualche minuto, sono stato bravo?» portò la mano destra sulla mia guancia e cominciò a carezzarmi. 

«Grazie», feci cenno di assenso con la testa. 

«è bello quello che stai facendo...» aggiunse dopo qualche minuto di silenzio «cerchi di mostrarti forte e serena davanti a Flora per non farle pesare la situazione e per non farla sentire in colpa più di quanto lei si senta già; le stai facendo da genitore e sorella, senza esserne tenuta, senza mostrare un minimo di rancore o gelosia per un'infanzia vissuta nell'agio da lei e nella solitudine da te. Sei una persona pura e speciale come nessuna, Miki», terminò quei complimenti con un bacio sulla stessa guancia che fino ad un'istante prima aveva carezzato. 

Fu dolce come mai gli era appartenuto esserlo. Fu sincero ed espansivo come poche volte era stato. 

Nemmeno uno prima di lui aveva notato quei dettagli di me, mai nessuno mi aveva detto quelle parole. Castiel era il primo. Era l'unico e lo sarebbe sempre stato. 

«Pensi che io sia una brava sorella?» gli chiesi, non avendo alcun metro di paragone. 

«E me lo chiedi? Prima ti ho quasi dovuto costringere ad allontanarti da lei, in più sei scappata dal tuo ipotetico nuovo e quasi ex ragazzo soltanto per cercarla», fece una smorfia disgustata, quando si riferì a Javier «Devo continuare?»

«Non voglio che lei cresca nella solitudine e nella sofferenza come...» l'espressione del volto mi si adombrò, i cattivi pensieri presero di nuovo il sopravvento e non riuscii a concludere il discorso. 

«Ehi», Castiel pose entrambe le mani sulle mie guance «comunque vadano le cose, sono sicuro che farai un ottimo lavoro». 

Mentre bisbigliava quelle rassicurazioni, i suoi occhi erano limpidi, chiari e quella luce riuscì ad entrarmi fin dentro l'anima, rasserenandomi. 

«Mia madre morirà?» l'ansia mi assalì lo stomaco. 

Era quella la tortura principale del momento e finalmente riuscii ad esternare la mia paura più grande, sperando di ricevere una risposta confortante. 

Mi sentii fragile e piccola, alla continua ricerca di sicurezze. 

«No, ne sono sicuro. Teresa è una donna forte, ne ha affrontate tante e supererà anche questa», la sicurezza nella sua voce e nel suo sguardo riuscì quasi a convincere anche me.

«Grazie di tutto», gli ripetei di nuovo. 

Non ero abituata a ricevere del bene, tantomeno da lui. 

«Non ringraziarmi, non devi», con entrambi i pollici mi carezzo le gote.

«Sì, invece. Hai fatto tanto per me e non ti ho mai visto fare niente del genere per nessuno...» ragionai tra me e me, esternando i miei pensieri. 

«Giusto», fece un cenno di assenso con il capo «e perché sto facendo questo secondo te?» 

«Perché vuoi farti perdonare?» supposi. 

«Se non m'importasse di te, vorrei farmi perdonare?»

«Non credo», corrugai la fronte. 

«E quindi?»

Mi sembrò di essere ritornata a scuola, ad un'interrogazione di matematica, quando il professore mi dava degli indizi per poter ragionare e giungere alla soluzione, ma io - da gran scienziata del secolo - non ci arrivavo quasi mai. E Castiel, invece, cosa stava cercando di dirmi?

«T'importa di me?» dissi poco convinta. 

Ma quello in fondo non era risaputo? Altrimenti non sarebbe ritornato da me.

«Non solo...» 

Alzai gli occhi al cielo «Non puoi semplicemente dirmi direttamente cosa intendi, senza farmi ammattire?» sbuffai ed incrociai le braccia al petto. 

«Questa volta non è così semplice...»

«Con te non lo è mai!» specificai.

Rise dinanzi alla verità, mostrandomi la sua dentatura perfetta e permettendomi di udire il suono melodioso della sua voce, poi abbassò spontaneamente il capo per qualche istante, alcune ciocche di capelli neri gli finirono sugli occhi e, quando tornò alla posizione precedente, gliele scostai. 

«Ariel...» si avvicinò pericolosamente al mio volto. 

Il mio tocco gli infuse coraggio. 

«Cass...» poggiai entrambe le mani sul suo petto. 

Sui miei palmi riecheggiò il battito del suo cuore, che aumentò improvvisamente. Sollevai la nuca e lo guardai dritto negli occhi, dove trovai un mare calmo. 

Fu un attimo e le nostre bocche si ritrovarono come avevano fatto mille altre volte in passato e come non avrebbero mai dimenticato. Perché anche quelle si appartenevano. Fu un bacio riconciliante, rassicurante, dolce e allo stesso tempo abbastanza potente da sciogliere il ghiaccio che fino a quel momento avevo avuto nel cuore. 

Dentro di me, quella notte, era in corso una tempesta ma, proprio quando stavo per perdere il controllo, intravidi una luce nell'oscurità; ne sentii il calore nelle mani, nel cuore, nell'anima. Era lui. Fu lui a salvarmi, ad afferrarmi prima di cadere nell'oblio, tra le onde della mia vita in tempesta. S'invertirono i ruoli che erano stati scritti per noi sin dal principio. 

«Hai deciso con chi andare a quel concerto?» se ne uscì con quella domanda, mentre i nostri nasi ancora si sfioravano. 

Si riferì ai biglietti per il concerto di Ed Sheeran che si sarebbe tenuto a breve. 

«Non credo ci andrò, viste le circostanze. Penso sia il caso di restituirteli, potresti venderli e-» mi tappò la bocca per farmi smettere di farneticare. 

«Non pensarci nemmeno. Sono tuoi e puoi farne ciò che vuoi», tolse la mano dalla mia bocca. «Ero solo curioso di sapere con chi avessi deciso di andarci... Tutto qui!» abbassò lo sguardo per un breve istante. 

«Castiel curioso?» sollevai le sopracciglia, incredula. 

Poco tempo dopo avrei scoperto che non si trattava di semplice curiosità, ma che si nascondeva ben altro dietro la sua domanda. 

«Che c'è, non posso essere curioso?» s'imbronciò come un bimbo.

«Non lo sei mai stato...» alzai ed abbassai le spalle. 

«C'è sempre una prima volta», gli si formò un sorriso furbo sulle labbra. 

«E c'è sempre anche una seconda volta?»

La stanchezza mi stava facendo delirare, ma lui sembrò capirmi. 

«Ciò che potrebbe sembrare una seconda volta, in realtà è la prima...»

«Per tutto?»

«Per tutto!» mi assicurò, forse immaginando a cosa mi riferissi o forse no. 

Parlammo in codice, come se qualcuno potesse sentirci, come se ciò che intendevamo fosse qualcosa di estremamente pericoloso da confessare ad alta voce, e probabilmente lo era. 

L'intero discorso portava ad un'unica conclusione, ma fui talmente intimorita dalla possibile verità da non riuscire ad ammetterlo neanche tra me e me. 

«Rientriamo?» gli chiesi, non sapendo più cosa aggiungere, sentendomi in totale disagio e con un'imminente crisi di nervi in arrivo. 

Avevo tentato a tutti i costi di essere spensierata per un paio di minuti, ma il mio chiodo fisso, i miei pensieri, le mie paure e preoccupazioni erano ancorate ad una sala operatoria a qualche metro da me. 

«Facciamo una scommessa?» non calcolò minimamente la mia richiesta. 

«Un'altra?»

«Questa sarà diversa».

«In che senso?» mi accigliai. 

Castiel era un continuo mistero. 

«Per infonderti speranza e perché sono convinto che andrà tutto bene. Diciamo che è più una sorta di promessa... Quindi: se tua mamma si salvasse, usciresti con me?»

«Ti sembra il caso di scommettere su queste cose?» mi alterai.

«Più che altro è una "promessa di buon auspicio"» accennò un sorriso sincero. 

Stava solamente cercando di trasmettermi positività. Non aveva cattive intenzioni. Lo capii dal suo sguardo, dai suoi gesti e dal suo sorriso. Dovevo smetterla di essere sempre sulla difensiva con lui. 

«Accetto, grazie», gli sorrisi di rimando, poggiando una mano sulla sua spalla, poi lo sorpassai per rientrare nella struttura ospedaliera e lui mi seguì. 

Appena dentro, corsi a chiedere aggiornamenti sulle condizioni di mia madre e le infermiere mi comunicarono che a breve avrei potuto parlare con la dottoressa primaria del reparto. Sperai in buone notizie. 

Raggiunsi Flora nella sala d'attesa, che si era svegliata dal sonnellino ed apparve leggermente intontita. Mi sedetti alla sua sinistra. 

«Vuoi qualcosa da bere o mangiare?» le chiese Castiel, accomodandosi alla sua destra. 

Flora scosse il capo energicamente in segno di diniego. Aveva lo stomaco chiuso, la capivo. 

«La mamma come sta?» chiese con voce tremante, dopo un paio di minuti di silenzio. 

«A breve dovr-»

«Papà...» fui interrotta dall'urlo di Flora che si alzò velocemente dalla sedia e corse in direzione di qualcuno, saltandogli letteralmente addosso e arrampicandosi a mo' di koala, per poi scoppiare a piangere tra le braccia forti dell'uomo. 

Marcel Duval, il creatore di un angelo come Flora e di un diavolo come Debrah, era proprio davanti a me. Gli occhi chiari stanchi, la barba incolta, i capelli castani scompigliati e l'espressione del viso stravolta testimoniavano un viaggio appena compiuto in agonia. Senza mostrare alcun senso di fastidio, strinse la sua piccola figlia tra le braccia e le sussurrò parole di conforto. 

Quando Flora si calmò, Marcel venne verso me e Castiel. 

«Lei...» l'uomo si bloccò, non riuscendo neanche a pronunciare il nome di mia madre «I medici mi hanno detto di attendere per gli aggiornamenti sul suo stato di salute», la voce oscillante. «Perché c'impiegano così tanto?» 

Stava cercando di contenersi per amore di sua figlia, ma lo capii dai suoi occhi che necessitava di sfogarsi. Pensai di chiedere a Flora di andare a fare una passeggiata, così da consentire a Marcel di metabolizzare ogni cosa e riprendersi, ma Castiel anticipò le mie mosse, portando lui stesso fuori mia sorella. 

Io e Marcel restammo soli. 

Si sedette ad una sedia di distanza dalla mia, poggiò i gomiti sulle gambe, si coprì il volto con le mani e sospirò. Non sapevo come consolarlo, lo avevo incontrato al massimo cinque volte negli ultimi anni e quindi lo conoscevo davvero poco. Spettava più a Castiel stargli vicino, visto che era il suo manager, ma aveva preferito lasciare a me il duro lavoro. 

«L'ho lasciata sola per troppi mesi...» la voce mi giunse ovattata per via della posizione in cui Marcel si trovava. «Ma io l'ho fatto per lei, per noi. Volevo fosse fiera di me, di avere un marito che non le facesse mancare niente, ma ho dimenticato le due cose fondamentali: il tempo e la vicinanza. A volte è breve il tempo che ci è concesso e dovremmo passarlo con le persone che amiamo, senza trascurarle o abbandonarle», non si preoccupò di spostare le mani per farsi sentire meglio. 

Probabilmente quello era un dialogo che avrebbe intrapreso con la sua coscienza. 

«Non ha alcuna colpa», ripetei anche a lui. 

Perché in quella storia si sentivano tutti colpevoli? 

«è stata mia figlia Debrah ad investirla, con chi altro dovrei prendermela?» sollevò e roteò il capo per guardarmi ed io mi pietrificai. «L'ha fatto per me, per attirare la mia attenzione, perché io non sono in grado di volerle bene», i suoi occhi celesti erano inumiditi dalle lacrime trattenute. 

Marcel sapeva più di quanto immaginassi, forse anche più di me e Castiel o di chiunque altro. Rimasi sorpresa da quelle parole e dovetti metabolizzare per qualche secondo prima di aprire bocca. 

«C-come può essere sicuro sia stata lei?» gli chiesi balbettando. 

«Mi aveva avvertito che l'avrebbe fatto, ma io non le ho dato ascolto, commettendo l'errore più grande della mia vita», nervoso, si toccò la barba incolta. «Non l'ho mai amata per davvero come dovrebbe fare un padre con sua figlia. Ho sempre preferito prendere le distanze da lei, perché temevo il suo modo sbagliato di mostrarmi affetto. A tre anni spezzava il collo alle bambole, a cinque anni ha tentato di affogare sua madre con la corda per saltare, a nove anni ha ucciso il gatto perché riceveva più attenzioni di lei. Pensavo fossero eventi sporadici, dovuti alla solitudine e poi all'abbandono della madre, ma così non era. Ho scoperto della sua malattia quand'era già troppo grande per convincerla a curarsi e più anni passavano, più l'allontanavo, più lei diventava malvagia.»

«M-malattia?»

Ero incredula. 

«Debrah ha il gene MAO-A, il cosiddetto "gene del serial killer" che, se avesse vissuto in un ambiente confortevole e amorevole, non avrebbe dovuto causare conseguenze, ma così non è stato. Successivamente abbiamo scoperto che soffre anche del disturbo antisociale di personalità e, sommato al primo, diventa una bomba ad orologeria».

«E perché allora l'ha abbandonata, pur sapendo che prima o poi sarebbe scoppiata? Non le è mai passato per la testa che sarebbero potute andare di mezzo persone innocenti?» mi alzai di scatto dalla sedia e gesticolai. 

Grazie a quella spiegazione dettagliata, s'invertirono ancora una volta i ruoli. Debrah divenne un po' meno cattiva, mentre Marcel era colpevole: di non aver accudito una figlia bisognosa d'amore forse più di chiunque altro, di non averla tutelata e non aver mosso un dito per evitare i disastri causati alle persone. 

«Io...» fissò il vuoto alla ricerca delle parole adatte per giustificare l'aver abbandonato una figlia, ma sapevamo entrambi che non ne avrebbe trovate di frasi da copione, perché non ce n'erano. 

«Signor Duval, lei ama mia madre?»

«Più di me stesso».

«E Flora?»

«Anche!»

Dopo aver ottenuto quelle risposte, inspirai, chiusi gli occhi, mi presi un minuto per riordinare i pensieri e dissi ciò che mai mi sarei sognata di dire: 

«Mi fa piacere. Allora faccia qualcosa per fermare sua figlia, prima che faccia del male a qualcun altro...» cercai di ragionare, mettendo da parte la rabbia e il dolore «La prigione o un centro psichiatrico la rovinerebbero del tutto; credo che solo lei, con il suo aiuto e la sua presenza, sia in grado di salvarla».

Nel corso degli anni, avevo valutato mille modi per torturare Debrah o architettare piani per incastrarla e farla arrestare ma, dopo esser venuta a conoscenza di tutta la versione dei fatti, mi resi conto che quella ragazza non era altro che una semplice vittima. Vittima del fato. 

Chiunque si sarebbe potuto trovare al suo posto, anche io stessa. Un gene malvagio, genitori assenti e anaffettivi, un disturbo della personalità ed il gioco era fatto.  

«Ci proverò», Marcel concluse il discorso con una semplice parola che non mi convinse per nulla. 

«Marcel», la voce di Castiel c'interruppe e mi provocò un brivido lungo la schiena. Lo stesso effetto di anni prima. «Flora chiede di te; dice che nel chiosco fuori l'ospedale vendono il tuo cornetto preferito... Ti sta aspettando», alternò lo sguardo da me a Marcel. 

«Okay, vado. Mi farà bene un po' d'aria», si alzò dalla sedia e prima d'incamminarsi, si voltò nella mia direzione «Grazie per la chiacchierata», strizzò un occhio, poi raggiunse Castiel «Chiamami, quando arriverà il medico» e uscì dalla stanza. 

«Tutto okay? Sembri sconvolta», Castiel mi si avvicinò preoccupato. 

«Sapevi qualcosa dei disturbi di personalità di cui è affetta Debrah?» fissai il vuoto. 

«Lo supponevo», mi rivelò. 

«E non hai mai fatto nulla per indagare a riguardo ed evitare di mettere a rischio tutti?» lo sottoposi allo stesso quesito posto a Marcel poco prima. 

«Non spettava a me», quasi s'indispettì della mia domanda. 

«è stata la tua storia più lunga ed importante, certo che spettava anche a te!»

«Ti correggo: tu sei stata la mia storia più importante!» 

E il cuore fece "crack". 

«I familiari della Signora Teresa Duval?» udii la voce della dottoressa chiamarmi. 

L'inquietudine e la preoccupazione si ripresentarono più forti che mai. Era giunto il momento di scoprire le sorti di mia madre. 

Restai impalata senza più capacità di parlare, coi piedi incollati sul linoleum. Castiel, con un solo sguardo, comprese lo stato di trance in cui ero entrata e rispose al posto mio, mi afferrò la mano e mi trascinò verso una Signora di bella presenza e con il camice bianco. 

«Salve, sono la Dottoressa Bernard», mi porse la mano, ma non fui capace di afferrare neanche quella e Castiel mi sostituì persino in quel gesto banale «sto seguendo il caso di sua madre», guardò direttamente me. 

Fino ad allora avevo cercato in tutti i modi di distrarmi, di non riflettere troppo sull'accaduto per evitare di crollare, di non pensare che mia madre fosse rinchiusa in una di quelle stanze, ma ormai era giunto il momento di venire a conoscenza della verità, era troppo tardi per scappare o evadere ancora. 

«Abbiamo fatto il possibile...» 

E quando sentii quelle quattro parole per poco non caddi sul pavimento.

«Abbiamo fatto il possibile per limitare i danni e le conseguenze ma, a causa dell'incidente, sua madre ha riportato una lesione spinale con conseguente mutamento delle funzioni motorie degli arti inferiori», ci spiegò scientificamente. «Non posso garantire che tornerà a camminare in futuro, ma non è neanche escluso. La sua vita, da oggi, cambierà radicalmente. Dovrete starle vicino, sarà un periodo delicato per lei. Necessiterà di assistenza fisica e psicologica, il nostro ospedale vi fornirà tutto ciò di cui avrete bisogno», la dottoressa cercò d'infondermi coraggio con parole drammatiche ma anche speranzose. «Potrete vederla domani, quando si risveglierà. Torni a casa a riposare», una lacrima mi solcò il volto per la rassegnazione e nello stesso tempo disperazione. «Forza!» mi sfiorò il braccio e si congedò con un sorriso, lasciandomi sola in tutte le mie paure ed insicurezze.

Teresa era viva, ma parte di lei non lo era più. Non sapevo se esser felice per quella notizia o distrutta per il cambiamento che, da quel momento in poi, mia madre avrebbe dovuto inevitabilmente affrontare. Le sue gambe avevano smesso di funzionare a causa di qualcosa che poteva esser sicuramente evitato. Sperai che Marcel avrebbe tentato di riallacciare i rapporti con sua figlia e che insieme sarebbero usciti dal tunnel infernale delle sindromi mentali, altrimenti avrei dovuto agire io stessa interpellando la legge. 

Ero combattuta, in balia tra l'essere furiosa e comprensiva nei confronti di Debrah; tra la gioia e lo sconforto per le condizioni di mia madre; tra la rabbia e la commiserazione per Marcel. Ero stanca e avrei tanto desiderato risvegliarmi da quell'incubo. Perché ero sicura: il peggio doveva ancora arrivare. 

Delle mani familiari mi cinsero i fianchi, distogliendomi dalla confusione dei miei pensieri sul futuro imminente. 

«Puoi contare su di me», la voce calma e rassicurante di Castiel mi solleticò il collo. «Insieme supereremo ogni cosa», schioccò le labbra sulla mia guancia accaldata «Te lo prometto!» si spostò ai confini della bocca e mi lasciò un bacio anche lì. 

Non era solito indugiare sui baci, ma in quell'occasione decise di farlo per me. Soltanto per me. Avrebbe atteso un mio segnale e nel frattempo mi avrebbe aspettata per giorni, mesi o addirittura anni, mostrandomi tutta la sua vicinanza sia nei momenti belli che in quelli brutti. 

Castiel, con quei semplici gesti quotidiani, mi stava donando il suo cuore ed io sarei stata ben lieta di accettarlo. Avrei dovuto stroncare ogni tipo di relazione iniziata con Javier, me ne convinsi proprio in una sala d'attesa d'ospedale: posto inusuale, ma con una particolare magia per noi due. Da gran capricciosa qual ero, avevo fatto di tutto per negare l'evidenza, per mostrarmi indifferente al suo carisma, ma già dal secondo nostro sguardo avevo smarrito la ragione. Perché la rockstar era talmente luminosa da oscurare l'intera popolazione mondiale. Nessuno poteva osare competere con lui, era una battaglia persa già in partenza. 

Perché con lui a fianco sarei persino stata in grado di scalare il mondo senza alcuna fatica. Con lui a fianco ero sicura che ce l'avrei fatta. Sempre insieme. A qualunque costo. 

 

 





_______________

🌈N.A.🌈

Hello, so di avervi detto che avrei pubblicato senza ritardi, ma purtroppo ho avuto vari pensieri per la testa e, in molti di questi giorni, non sono riuscita a scrivere neanche una parola. Poi - tanto per cambiare - il mio PC ha fatto i capricci, facendomi perdere ancor più tempo. Spero in periodi migliori 💪🏻 ma vi avverto che sono sfigata come Miki e vi ho detto tutto. 

Abbiamo già trovato il nome della ship per Rosalya e Lysandre? Come potremmo chiamarli? RoLys? RosLys? LysRos? LyRos? Suggeritemi voi, perché sono una frana in questo 🙊 

Quello di questo capitolo, sarà stato il loro ultimo bacio? 💏

E i Mikistiel ce la stanno facendo per davvero? Ricordiamoci che c'è una scommessa in corso, i biglietti per un concerto 😏 ancora Javier che ronza intorno a Miki e... DEBRAH :) 

Debrah ha il gene del serial killer xD ci mancava anche questa ahah

Cosa significano le ultime righe della parte narrata in terza persona? Cosa accadrà? 👀

E poi Teresa ❤️❤️❤️... ci è andata di mezzo anche lei, povera. 

Comunque *si schiarisce la gola* vi svelo un segreto: a questo punto della storia, Teresa sarebbe dovuta morire, but durante la scrittura del capitolo ho avuto modo di parlare con una lettrice della storia che sta passando un periodo delicato per via di una brutta malattia che ha colpito sua madre, così ho deciso di rimescolare le carte e cambiare le sorti di questa povera donna, per infondere coraggio a questa mia cara amica e lettrice fedele della storia. Teresa soffrirà, anche sua madre soffrirà, entrambe passeranno dei periodi terribili, ma sono sicura che andrà tutto bene. L'amore può salvare; la vicinanza alle persone care può farlo. In bocca al lupo per tutto, mia cara amica❤️

Colgo l'occasione, visto che nello scorso capitolo non l'ho fatto, per mostrare la mia vicinanza e solidarietà alla popolazione di Beirut💥🙏🏻 Non esistono parole adatte per questo 2020 catastrofico in tutto e per tutto. Speriamo sempre in giorni migliori💪🏻

Adesso vi saluto

A presto (spero prestissimo🤞🏻)

Quando uscite di casa, ricordate d'indossare la mascherina😷

All The Love💖

Blue🦋

  
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