Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: paige95    01/09/2020    5 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il soffio della vita
 



 
 
Los Angeles – Palazzo di Giustizia, 11 settembre 2018 (ora locale)[1]
 
Per Delilah la vita era diventata un mestiere dal suo primo turno al St. Vincent Medical Center; il fatto che spesso strappasse vite umane alla falce della morte la rendeva speranzosa davanti ad ogni alito di vita, diventava più difficile però riporre fiducia nel suo animo ottimista se sotto i suoi ferri si fosse presto trovato un parente stretto. La vita del padre era nelle sue mani, era una responsabilità professionale, morale e personale; non era certa di essere pronta ad assumersela, ogni forma di orgoglio, incomprensione, discussione nei confronti del direttore stava svanendo a vantaggio di un atteggiamento più diplomatico, comprensivo, affettivo. Si era riscoperta essere una figlia premurosa, attenta, legata ad un genitore che l'aveva cresciuta come un dovere e non come il diritto insostituibile di essere suo padre.
Per un medico che esercitava la propria professione con zelo e passione, non vi era nulla di più terribile che assistere ai tg in quella giornata di lutto nazionale; rivivere l’impotenza di quegli attimi terribili le fece dimenticare per un istante il motivo della sua presenza davanti al maestoso e antico edificio del Tribunale. Le commemorazioni a New York in memoria dell’attentato alle Twin Towers erano così lontane in linea d'aria, eppure vicine al cuore, un muscolo che fremeva al solo ricordo. Il televisore al plasma riproponeva le immagini in alta definizione, all’epoca le dirette non erano così nitide e la polvere delle macerie aveva creato confusione negli spettatori. Nei tempi odierni il rumore aveva lasciato posto al silenzio, al pianto delle famiglie che avevano perso i propri cari; era un dolore composto, dignitoso, un modo come un altro per dimostrare che le vittime vivevano ancora nei loro cuori, che la violenza non aveva vinto, non aveva preso possesso delle loro vite, non aveva infuso abbastanza paura da dominare il loro futuro dopo essersi appropriata illegalmente del loro passato.
Il peso del ricordo oscurava anche il cielo sopra Los Angeles. Samuel si trovava nelle terre da cui era giunta quella violenza efferata, ingiustificata e mai giustificabile, in ogni caso, per quanto l'odio tra popoli potesse essere radicato. Le mancava suo fratello, le mancava condividere con lui i tormenti, eppure trovava sbagliato confidargli la malattia del padre; angustiarlo e trasgredire la promessa fatta al direttore era una prospettiva che Delilah non riusciva a contemplare. Era fedele al segreto professionale, era dedita alle promesse, era anche legata a doppio filo a suo fratello - era un sincero amico prima ancora di essere sangue del suo sangue -, ma non avrebbe aggiunto altri funesti pensieri alle sue giornate.
Indugiò sul maniglione d’ingresso; proprio nel medesimo istante alcune persone stavano uscendo facendola arretrare di qualche passo, le avevano dato un segno, stava sbagliando, non doveva trovarsi lì, piuttosto in solitudine a casa o nel suo ufficio in ospedale a rimuginare sull'intervento che avrebbe dovuto effettuare; ciò che avrebbe dovuto affrontare l’indomani non era una giustificazione valida per la sua presenza. Solo che i passi, accentuati dal mezzo tacco che era solita portare con innata eleganza, la condussero nei pressi della portineria senza che lei se ne accorgesse. Dietro la vetrata un giovane sorvegliante a lei sconosciuto era impegnato a riordinare il suo ripiano di lavoro; sembrava teso, era forse alla ricerca di qualcosa che aveva perso o forse erano solo i suoi primi giorni di lavoro e non aveva compreso ancora ogni sua mansione. A Delilah rincresceva disturbarlo nella sua attività così impegnata, schiarì appena la voce e le iridi chiare del ragazzo si puntarono stranite su di lei; gli era scesa la montatura degli occhiali sul naso a causa dello scatto, ma lei ignorò la reazione spaurita dell’altro e si rivolse a lui con urgenza, prima che avesse cambiato idea.
«Salve. Sono la signora … cercavo l’avvocato Rogers. Mi sa dire se è in Tribunale?»
«Signora, non posso lasciarla passare senza un valido motivo. Mi è stato chiesto di prendere ogni nominativo in entrata e in uscita»
Il giovane uomo dall’altra parte del vetro nella confusione della scrivania si premurò di recuperare un foglio, ove vi era già stilato un elenco di nomi; fece passare il foglio e una penna attraverso la bassa fessura sotto la vetrata e posizionò il tutto davanti alla donna. Per lui era semplice svolgere il suo lavoro, vedeva facce nuove nell’arco di pochi minuti, presentava loro davanti un foglio firme e aveva concluso il suo compito, invece lei era in difficoltà persino a dichiarare il proprio nome; l’inchiostro non voleva scorrere lungo la linea apposita riservata ad un nuovo visitatore, non sapeva se fosse ancora opportuno sfruttare il suo cognome da sposata, non aveva idea se quell’incontro avrebbe portato frutti positivi, ma lei ne sentiva un disperato bisogno. Afferrò la penna con la mano mancina e con un leggero tremore iniziò a scrivere il suo nome. Non vi era alcun fastidio all’anulare ormai nudo; vi era rimasto solo un segno, il bruciante sole estivo aveva contornato l’anello di una lieve abbronzatura, rimarcando la sua carnagione ambrata, così, quando un mese prima con dolore lo aveva riposto nel portagioie, vi era rimasto ben visibile il solco del suo passaggio. Era giunta al suo cognome, ma non ebbe il tempo di riflettere e decidere quale sarebbe stato opportuno dichiarare ora che il loro rapporto si trovava in una sorta di limbo. I passi felpati di un paio di mocassini in pelle si stavano avvicinando alle sue spalle; il passo leggero e deciso era familiare alla dottoressa, si voltò con l’unico pensiero nella mente di incrociare gli occhi dell’uomo che stava cercando tra le antiche mura del palazzo di giustizia di una delle città più famose dello Stato della California. Era proprio Nathan, intento ad aggiustarsi il colletto della giacca e a gettare qualche occhiata all’orologio da polso in evidente ritardo per un appuntamento importante; appoggiò con grazia una mano al cornicione in legno della portineria in modo da poter rivolgersi ad entrambi, era leggermente affannato e accaldato.
«Delilah, cosa fai qui? Thomas, avrei bisogno delle chiavi della sala riunioni. Ho un’udienza a breve e devo recuperare alcuni documenti che ho dimenticato ieri. Lei è mia moglie, vi siete già presentati?»
Più da vicino Delilah notò che la cravatta dell’uomo era storta in prossimità del nodo e qualche bottone della camicia alla base del collo era slacciato. Era tentata di sistemarlo, era solita farlo quando correva in ufficio o in tribunale trafelato, ma i tempi erano cambiati, non condividevano neppure più le stesse abitudini; sapeva però quanto lui odiasse portare accessori eleganti, ogni occasione era buona per toglierli o allentarli, come in quel caso specifico. Le sfuggì un piccolo sbuffo divertito che attirò l’attenzione dell’uomo; riuscì a contagiare anche lui, senza avere la reale percezione di ciò che avesse provocato quel sorriso da cui era ancora terribilmente attratto. Thomas non aveva colto la complicità che si era creata in pochi secondi tra i due, non aveva notato gli sguardi che si erano agganciati; preso dall’euforia della notizia, si era sporto dalla guardiola, aveva raggiunto la mano di Delilah e l’aveva stretta con calore e genuinità.
«Signora Rogers! Mi deve scusare, non l’ho riconosciuta o forse non ho nemmeno mai avuto il piacere di incontrarla. Avvocato, sua moglie è davvero graziosa»
«Lo penso anch’io, Thomas»
Nessuno dei due si premurò dell’imbarazzo che si era dipinto sul volto del medico. Nathan non aveva perso orgoglio nei confronti della donna che aveva sposato; pensare che un giorno non avrebbero più avuto alcun legame davanti alla Legge lo spaesava, rendeva le sue iridi nocciola velate da un’ombra oscura, la malinconia si era impossessata di lui da diverso tempo ed emergeva ogniqualvolta la speranza lasciava il posto ad una dura certezza. L’avvocato Rogers era un uomo di Legge, non aveva contemplato alcun divorzio nella sua vita, men che meno con la donna che ancora amava e con la quale non poteva esprimere quanto fosse contrario alla loro separazione; avevano preso una decisione, erano giunti alla conclusione che le loro vite non fossero una combinazione perfetta. Si erano allontanati ed ora si mancavano in silenzio, perché veder soffrire l’altro in una vita stretta, non soddisfacente e fargli patire l’assenza delle attenzioni che meritava feriva ancora di più. Il sorvegliante era troppo giovane e inesperto per comprendere i loro sguardi, li interruppe con ingenuità allungando le chiavi della sala riunioni a Nathan.
«Lilah, mi accompagni?»
Fece segno alla moglie di seguirlo, era un cenno che non ammetteva alcuna replica, lui aveva iniziato ad avviarsi nella speranza che lei fosse alle sue spalle a pochi passi di distanza. Insieme attraversarono un lungo corridoio, le cui pareti erano tappezzate dalla riproduzione di portoni in serie, molto simili agli accessi degli immensi auditoria di Harvard a Delilah molto familiari. Il soffitto toccava il cielo, era un vastissimo spazio che a chiunque che non fosse del mestiere metteva addosso una certa soggezione. Un avvocato penalista non sentiva il peso del rimbombo solenne dei suoi passi, avanzata con un’andatura sicura, come se tra quelle mura vi fosse casa propria. Delilah lo invidiava, avrebbe desiderato un terzo della sua sfrontatezza; lei sapeva che il suo atteggiamento non era frutto di sicurezza, lui vinceva cause sfruttando la sua spontaneità, la sua scioltezza; la sua mente brillante era un connubio di preparazione e predisposizione. La affascinava ancora il suo portamento da ragazzo di periferia trapiantato in una delle città più grandi degli Stati Uniti d’America; il tribunale era l’unico luogo dove aveva il piacere di ammirare la sua eleganza formale, che agli occhi della donna forzava per non risultare inadeguato al suo ruolo. Nathan era ormai abituato a quel luogo, era normale per lui conservare in sé le due personalità che lo rendevano ciò che era, unico per Delilah, un uomo duttile in ogni circostanza e trionfante in qualunque sfida che la vita gli ponesse davanti. Aveva una grinta e una concentrazione invidiabili, non si lasciava scalfire da niente durante le udienze; se lei avesse avuto la stessa predisposizione emotiva durante l’operazione non avrebbe avuto alcun problema ad affrontare il cuore di pietra di suo padre. Non aveva affatto smesso di trovarlo affascinante; Nathan si sforzava di essere più professionale possibile, ma era un confusionario. Sul lavoro era in gamba, era la sua vocazione, era ciò che amava fare. Si erano conosciuti così, era l’avvocato di una collega accusata di negligenza, era riuscito a toglierla dai guai ed infine aveva conquistato lei tra le corsie dell’ospedale. Lui era un avvocato alle prime armi, ma che non aveva nulla da invidiare ai veterani, lei era una giovane tirocinante vogliosa di mettere in atto i suoi studi. Si erano trovati all’incrocio tra due mondi, si erano amati certi che il sentimento nato tra loro potesse colmare le differenze nelle rispettive vite professionali, ma avevano puntato troppo in alto, non erano riusciti a giungere ad alcun compromesso utile per tenere fede alle loro promesse matrimoniali; i turni di lavoro non consentivano a lei di tenere in piedi quella famiglia e nel caso allargarla. Delilah si rincuorava con il pensiero che avrebbe riscoperto presto l'amore in una donna migliore di lei, più sicura nelle relazioni e in grado di realizzare con lui il sogno di una famiglia. Non lo aveva mai visto cedere come in occasione del loro divorzio, ricordava il suo polso tremare, si mordeva le labbra e sospirava nell’apporre a piè pagina la firma che avrebbe posto fine alla loro vita coniugale; l’aveva vissuta come una sconfitta, aveva perso, l’aveva persa e non era stato in grado di impedirlo, di portare le argomentazioni utili, era stata la prima causa che lo aveva visto dalla parte dei perdenti.
Nathan salutava con un sorriso la maggior parte dei colleghi e delle colleghe che incrociavano sulla loro via, non si intratteneva con alcuno, tirava dritto a passo celere lanciando qualche occhiata sbieca al suo orologio; nel giro di pochi minuti si sarebbe dovuto trovare in aula, non era professionale tardare davanti al giudice e al proprio cliente. Raggiunsero l’ascensore senza proferire parola; l’avvocato lo aveva chiamato con impazienza premendo più volte il pulsante luminoso alla sua destra e quando le porte si erano finalmente aperta aveva invitato Delilah a precederlo con un lieve cenno della mano. Erano soli nella cabina, Nathan prenotò il quinto piano e si concentrò sulla donna al suo fianco; le scostò con due dita i capelli dietro l'orecchio e schioccò un bacio sulla guancia; la solita disinvoltura di lui la prese alla sprovvista, avrebbe forse dovuto rimproverarlo per il gesto ambiguo, invece arrossì in silenzio per le attenzioni che le erano state riservate.
«Non ti avevo salutata»
«H-hai un’udienza?»
«Sì, tra pochi minuti. E tu perché sei qui? A cosa devo la sorpresa?»
Non vi era nulla di lieto nella visita di Delilah, ma vi era solo il tempo di un breve tragitto in ascensore per parlare. Il medico allungò una mano verso il petto dell’uomo e ruotò il nodo della cravatta di qualche grado verso destra; azzardò il gesto con distacco, dopo il bacio di lui non desiderava alimentare in entrambi false speranza in un finale felice per loro.
«Domani devo operare mio padre e ho paura. Non ho mai avuto così tanta paura davanti a lui. Mi sento così fragile, Nat. Voglio salvarlo più di ogni altra cosa, ma so anche che lui non merita tutta questa dedizione. Ho paura di sbagliare, ho paura di perderlo, ho paura di mostrarmi troppo accondiscendente davanti a lui»
Nella penombra della cabina, Nathan vide gli occhi della donna inumidirsi e rivolgersi al pavimento in acciaio; teneva le braccia intrecciate contro il petto in evidente stato di chiusura verso il mondo e verso di lui. Non vi era la necessità che lei esprimesse l’origine del suo sconforto, conosceva il rapporto tra il suocero e la moglie, non c’era nulla di roseo e da quando non convivevano più era molto più difficile supportarla. La invitò a sfogarsi in un abbraccio; Delilah rifiutò, gli posò un palmo sul petto, gli impedì di avvicinarsi a lei.
«Devi lavorare. Rischi di arrivare tardi. Come sta andando il processo?»
«Siamo alla fase istruttoria. È un’udienza pubblica, se hai voglia puoi assistere»
«Lo stai vincendo?»
«Più o meno»
«Come mai più o meno? Per te è sempre bianco o nero»
«No, non sempre»
Tra loro ultimamente esistevano diverse gradazioni di colore, sfumature a loro incomprensibili, veli di grigio opaco attraverso cui la luce non filtrava da tempo. La donna che era stata sua moglie per anni non gradiva più il contatto fisico con lui; poco importava che fosse ciò che realmente voleva o solo ciò che si stava imponendo di accettare per il bene di entrambi.
«Dopo l'udienza posso offrirti un caffè?»
Nathan azzardò un blando invito. Delilah gli avrebbe voluto dire che gli mancava, che l’invito che le aveva mosso era troppo poco per ciò che avevano vissuto e esagerato per due che dovevano sopportare una distanza forzata per riuscire a voltare pagina. Gli avrebbe voluto dire Nathan, non ti affannare a cercare la nostra certificazione di matrimonio, io non voglio più divorziare. Più di una voce suggeriva alla dottoressa di tornare sui suoi passi, la loro separazione era stata una prova sufficiente: era molto più semplice soffrire insieme, piuttosto che separati. Sperò che lui cogliesse i suoi pensieri, decifrasse la tristezza che l’aveva inondata. Le porte si spalancarono un piano sotto la loro destinazione, un paio di persone li affiancarono, una delle quali conosceva Nathan.
«Avvocato Rogers. Non hai udienze oggi?»
«Sì, ora vado»
Non aveva posato gli occhi nemmeno un istante sulla collega, era più interessato ai passi di sua moglie che si stavano avviando verso l’uscita dell’ascensore e al suo sorriso malinconico appena accennato con cui si congedava da lui. Avrebbe voluto urlare il suo nome, ricordarle e convincerla che l’indomani forse non sarebbe cambiato nulla tra lei e suo padre, ma l’operazione nelle sue mani sarebbe stata una garanzia di successo. Avrebbe voluto innanzitutto esserle accanto, non aveva neppure avuto modo di chiederle l’orario dell’intervento prima che le porte si richiudessero e l'ascensore ricominciasse a salire.
 
 
 
Kabul – rovine settentrionali, 11 settembre 2018 (ora locale)
 
Christian si trovava in un tugurio, in un rifugio di talebani pronti a scaricare l’artiglieria su poveri innocenti, non avrebbe potuto sperare di trovare un luogo più confortevole. Non si respirava ossigeno in quelle abitazioni diroccate e pericolanti; vi era un’atmosfera tetra, le vite spezzate che vi avevano abitato incombevano su chiunque fosse entrato negli anfratti squarciati dagli attentati. Sul petto del capitano pesava un senso di ansia, lui non riusciva a restare indifferente davanti a tanta crudeltà, il suo cuore non era in grado di contemplarla. Sostituire gli abiti militari con quelli civili - tipici afghani - gli aveva garantito di giungere fin lì passando inosservato, ma non gli aveva impedito di rabbrividire al pensiero che quello stesso abbigliamento fosse il medesimo dei nemici che stavano strenuamente combattendo, Christian non voleva possedere nulla che riconducesse a quegli assassini. L'aiuto di Rashid era stato fondamentale, in caso contrario non avrebbe riconosciuto le scorciatoie più convenienti per entrare in zona rossa. Il ragazzino era in gamba e la sua scaltrezza era sprecata tra le fila di gente senza scrupoli; in quel momento il piccolo soldato non smetteva di controllare che qualcuno facesse di ritorno, era teso, stavano sfidando gente spietata che non avrebbe risparmiato loro la vita.
Il seal aveva fretta, non aveva idea del tempo che avesse a disposizione prima che gli occupanti abusivi ritornassero alla loro base, eppure non riuscì a restare insensibile davanti a quello strazio. Era rimasto solo lo scheletro di ciò che quella casa era stata in origine, come era stata progettata; si intravedeva dietro le rovine un’abitazione modesta ma non povera, la famiglia che vi abitava doveva appartenere alla classe sociale media. Il capitano si inoltrò con rispetto, quasi sicuramente la famiglia aveva perso la vita nell’ennesimo tragico attentato; se per qualche fortunata congiunzione di astri così non fosse stato, quel luogo era comunque diventato un altare di ricordi che era buona creanza non violare. Il silenzio era assoluto, inquietante, segno della pace che era avanzata dopo una tempesta; quando Christian mosse un ulteriore passo leggero, uno scricchiolio sotto la suola dei suoi calzari lo bloccò. Non erano macerie fatte di sassi, intonaco o calcinacci; era vetro delicato, il tenente aveva pestato una cornice di foto che di norma adornava la mobilia. L’uomo si abbassò sulle ginocchia per raccoglierla. Era dispiaciuto per aver distrutto il vetro; oltre le crepe si intravedevano visi giovani e più maturi. Cercò di salvare la foto, evitando che si strappasse; tolse delicatamente i frammenti rotti, ma era troppo preso dai pensieri e sconfortato, si era deconcentrato causandosi un taglio sul palmo con il materiale tagliente e scalfito. Uscì sangue dalla ferita, ma non bruciava o almeno lui non percepiva nulla di simile, era niente in confronto a ciò che erano state costrette a subìre le anime raffigurate nell’istantanea di una comune giornata di sole. Lasciò la cornice nell’esatto punto in cui l’aveva raccolta e contemplò la fotografia, stando attento a non macchiarla con il suo stesso sangue; rappresentava una celebrazione, forse un matrimonio, Christian non era esperto di usanze locali, ma davanti ai suoi occhi era stato immortalato un momento lieto, qualunque fosse l’oggetto dei loro festeggiamenti. Nella grigia nebbia che era scesa sopra Kabul non vi era più niente dei visi sorridenti dei piccoli uomini e delle piccole donne che forse non sarebbero mai cresciuti, il sorriso gioioso della sposa scoperto dal chador[2], così raro quanto unico in quei territori, e lo sguardo innamorato del marito. Era stato tutto sperduto nel vento, insieme alle polveri sollevate dalle esplosioni. I defunti che una volta erano appartenuti a quella famiglia invocavano un altro Dio, ma Christian, ancora in ginocchio, li omaggiò con un accorato segno di croce, in qualunque luogo fossero sepolti i loro corpi, dovunque fossero volate le loro anime o, nel caso la morte non li avesse presi, ovunque si fossero rifugiati; rivolse una preghiera silenziosa ad una divinità che in fondo era la medesima. Con dolcezza posò la foto su un tavolo in ferro arrugginito che si trovava lì accanto ed era resistito alla violenza dell'esplosione, sperando che ciò potesse scuotere le coscienze inesistenti dei terroristi. Quella rappresentata non era la sua famiglia, ma ne possedeva una, provava empatia verso quel padre che con molte probabilità non era riuscito a proteggere il bene più prezioso che avesse in vita. Christian non poteva fallire la sua missione, doveva vincere in nome di più persone, conosciute o sconosciute; la guerra trasformava chiunque la combattesse e la subisse in un unico fronte comune. Si appoggiò al bordo del ripiano, prese un respiro, allontanò i pensieri che gli impedivano di mostrarsi totalmente lucido ed iniziò a passare al vaglio gli oggetti sotto i suoi occhi: vi era conservato qualsiasi tipo di strumento offensivo - armi, materiale per esplosivi e bombe già fabbricate e pronte all'uso -, qualche effetto personale dei terroristi - che li rendeva più umani di quanto si potesse credere - e droghe, un mondo che Rashid aveva imparato a conoscere troppo presto. Gli effetti dell’ultimo incidente erano tornati a bussare allo stomaco e alla testa di Christian, forse stimolati dall’ambiente malsano e fatiscente. Il tavolo in ferro ospitava qualsiasi tipo di oggetto, tra cui molta carta grezza e vecchia; intravide anche i progetti riguardanti l’ospedale, li riconobbe dagli schizzi realizzati a mano, ma era solo una mera progettazione dell'edificio, non venivano menzionati gli ostaggi. Il tenente rimase deluso, avrebbe sperato di carpire qualche informazione utile. Si stava arrendendo al fatto che avesse rischiato in quell'edificio di cadere in un'imboscata per nulla, quando la sagoma di una moschea spiccò su un foglio; il seal lo afferrò e lo scrutò attentamente rivolgendolo verso la luce che filtrava attraverso l'ampia fessura presso cui un tempo vi era collocata la porta d'ingresso dell'abitazione: le scritte intorno alla figura disegnata erano in arabo e lui conosceva solo poche parole che non riusciva ad individuare però in quelle specifiche righe. 
«Capitano, non vorrei metterti fretta, ma dovremmo sbrigarci»
Rashid si era allontanato dalla sua postazione, si era rivolto con premura al tenente, ma quest'ultimo non gli aveva prestato attenzione. Fu il ragazzino ad essere distratto dal foglio che l'ufficiale teneva tra le mani; lo capovolse spontaneamente facendolo ruotare tra i palmi di Christian e lo lesse prima ancora che l'uomo gli chiedesse di tradurre quelle parole incomprensibili.
«Oh no. È in programma un attentato alla moschea di Sher Shah Suri, si trova nella zona Ovest di Kabul. Ci sarà una strage, a quest'ora i fedeli si avviano in processione verso il luogo di preghiera»
Il seal non era affatto sorpreso della notizia, ciò che lo allarmò fu l'idea di non riuscire a tornare in tempo verso la città per evacuare il luogo il più velocemente possibile. Stava abbandonando il foglio sul ripiano, nell'esatto punto in cui lo aveva trovato, ma nel voltarsi un'ombra inondata di luce aveva attirato per un istante la sua attenzione. Nonostante non avesse nemmeno un istante da perdere, non ignorò il segnale di vita che aveva intravisto, era sicuro non fosse un'allucinazione, la sua mente debilitata non lo stava ingannando; si avvicinò e vide chiaramente l'esatto punto in cui boccoli biondi si confondevano contro i raggi del sole. Era un bambino molto piccolo; restava per metà nascosto contro un cornicione di legno, marcio e pieno di schegge pericolose per la pelle delicata del bimbo che vi si stava reggendo.
«Ehi. Non avere paura, non voglio farti male»
Christian avrebbe lasciato qualunque cosa in quell'abitazione, armi comprese, anche se avessero potuto rivoltarsi presto contro di loro, ma non si sognava di lasciare quella creatura in balìa e indifesa di fronte alle peggiori violenze. Il tono calmo, flebile e dolce dell'ufficiale rese meno diffidente il piccolo e colmò le pesanti difficoltà comunicative tra i due. Il bambino aveva perso il dono del sorriso, il suo viso era coperto dal gesso bianco della polvere, non riportava ferite evidenti, ma la sua anima doveva essere a brandelli. Il seal non attese oltre, si avvicinò a lui e lo sollevò per accoccolarlo contro il suo petto; il piccolo afghano non oppose alcuna resistenza, era abituato all'impotenza, ma ancora non sapeva che l'uomo che lo stringeva era il suo salvatore e non l'ennesimo suo carnefice.



 
Moschea di Sher Shah Suri - quartiere occidentale di Kabul, 11 settembre 2018 


L'unità militare guidata dal generale Flores era stata allertata, in città era stato posizionato un ordigno, ma nessuno aveva idea del luogo in cui si trovasse; non erano nemmeno certi che si trattasse di una bomba o di un'autobomba, brancolavano nel buio. Ogni militare, di qualsiasi grado e nazionalità era stato impiegato per evacuare i luoghi più affollati con maggiore concentrazione di civili. Gwen si stava occupando della zona occidentale, in particolare della moschea che sovrastava con la sua maestosità il quartiere circostante. Il soldato aveva valicato le soglie del suolo di preghiera senza alcun accorgimento religioso ed era certa che presto l'imam l'avrebbe accusata di blasfemia; onestamente le importava di più portare in salvo vite umane, piuttosto che onorare un mero simbolo di rispetto verso il loro Dio, per quell'accorgimento ci sarebbe stato tempo quando tutti sarebbero stati al sicuro.  
Non appena la recluta si affacciò all'interno della moschea dall'ingresso principale, una moltitudine di colori, caldi e freddi mescolati in un'unica tavolozza, colpì la sua retina; sarebbe stato uno spettacolo ancor più affascinante, se in lei non dilagasse la paura per la vita dei civili che vi erano radunati. Era da escludere l'impresa di allontanarli singolarmente, necessitava di un aiuto, una guida di cui loro si fidassero e che avrebbero ascoltato senza resistenze, benché a quell'ora ci fosse spazio per la preghiera e nient'altro. L'imam si trovava a pochi metri da lei, non temeva un loro confronto, era un uomo colto e l'avrebbe compresa sia a livello di linguaggio che di morale. L'anziano stringeva al petto una copia del Corano e rivolgeva di tanto in tanto gli occhi al cielo in segno di preghiera. Gwendoline lo interruppe con arroganza, ma, nonostante la frenesia, riuscì a modulare il tono di voce in riferimento al luogo in cui si trovavano.

«Deve evacuare subito la moschea. C'è l'alto rischio di un attentato e siete tutti in pericolo»
L'uomo la fissò attentamente catturando i suoi occhi; non si preoccupò del suo vestiario, aveva riconosciuto l'uniforme e la lingua americana.
«Siamo nelle mani di Dio, qualsiasi cosa accada lui sa cosa sia giusto. I fedeli non si allontaneranno da questo luogo durante le preghiere. La minaccia di un attentato non basterà a spaventarci»
«Signore, lei non comprende la gravità della situazione, deve assolut ... »
Si era interrotto tutto all'improvviso, come se avessero staccato la luce, tolto l'ossigeno e inferto un colpo netto dietro la nuca. Era stato un istante, Gwen non si era accorta di nulla, solo i suoi sensi avevano subìto gli effetti dell'esplosione. La bomba fu il primo pensiero della ragazza, l'aveva trovata, ma non era riuscita a prevenire alcuna strage, anzi temeva di aprire gli occhi e di essere circondata da cadaveri. L'unica certezza era la vita che scorreva ancora nelle sue vene, non sapeva ancora nulla, ma era certa di respirare, i suoi polmoni non erano lesionati. Sentiva un intenso dolore all'altezza del ginocchio sinistro e per scoprirne la causa non le restava che sollevare le palpebre. Era sdraiata sul pavimento caldo, ricoperto da tappeti; la prima immagine che gli occhi le restituirono fu quella di un uomo riverso prono accanto a lei, era rimasto schiacciato da un pezzo di parete e per lui non c'era stato alcuno scampo. Se un attimo prima l'intorpidimento le aveva concesso uno stato di quiete, la lucidità si era con prepotenza insinuata nella sua mente mostrandole la cruda realtà: l’imam era morto
[3]. Le iridi dell'uomo brillavano ancora di una luce intensa, benché la vita lo avesse ormai abbandonato; i colori accesi non provenivano da un gioco di colore tra il sole e le tempere, le vetrate erano esplose frantumandosi al suolo e sopra le loro teste. Gwen seguì la traiettoria dell'espressione assente dell'imam e lo vide: un incendio stava divampando all'interno della moschea a pochi metri da lei. Non poteva più aiutare l'uomo che si trovava al suo fianco, ormai era un corpo senza vita, rivolse solo un pensiero alla sua anima, credeva ed era certa si fosse salvata dall'inferno in cui si trovavano; tentò di alzarsi, ma il dolore al ginocchio si trasformò in una lama che minacciò di amputarle la parte inferiore della gamba. Si accorse con disperazione di essere bloccata e di non poter fuggire, una parte della parete che aveva ucciso l'imam teneva in scacco anche lei. Si ritenne spacciata, era certa che quella moschea, una delle poche che era riuscita a visitare, si sarebbe trasformata nella sua tomba, ma non aveva fatto i conti con il destino e soprattutto con la tenacia del suo superiore.
La ragazza non ebbe il tempo di capire da dove provenisse la voce di Christian, lo scorse al suo fianco come se fosse caduto un miracolo dal cielo.
«Gwen!»
«Capitano. È-è morto, mi dispiace, io …»
«Calmati, Gwen. Sei viva, stai calma»
Aveva trovato la forza di accennarle un flebile sorriso, una luce in mezzo ad una devastazione di cui lei non conosceva ancora la portata a livello di perdite umane. L’ufficiale non aveva considerato il corpo dell’imam, sembrava solo interessato alla gamba della ragazza; era consapevole dell’incendio che stava divampando, il fumo stava già raggiungendo le loro vie aeree provocando regolari colpi di tosse, ma non si arrendeva e continuava a studiare un modo per liberarla dalla trappola mortale in cui era caduta.
«Capitano, deve uscire di qui prima che sia troppo tardi. La sua vita è più preziosa. Ha una famiglia che l’aspetta, io non ho nessuno»
«Non voglio più sentire una sola parola, Ward. Non ti lascio. Io non lascio indietro i miei uomini»
Christian le aveva lanciato uno sguardo intenso che non ammetteva alcuna replica, era un ordine che proveniva dal cuore prima ancora che dai gradi cuciti sulla sua divisa. Il tenente impiegò tutta la forza che gli era rimasta nelle braccia per sollevare la parte di parete crollata sulla recluta; Gwen non rimase a guardare, non vanificò le fatiche del superiore, si spinse all’indietro con le braccia e cercò di far scivolare la gamba ormai insensibile al dolore all’esterno della pietra. Il seal non proferì alcuna parola, grazie alla complicità che era maturata tra loro riuscì a risparmiare il fiato e riuscì infine a liberarla; togliere la parete da sopra la ferita aveva dato libero sfogo al liquido ematico ed ora fluiva senza alcun impedimento, privandola della forza che le era rimasta.
«G-Gwen, resta con me»
Nessuno dei due militari aveva energie da spendere, ma Christian fece un ultimo sforzo; la prese tra le braccia, mentre il sangue e l’impeto della bomba la stavano facendo cadere in un coma profondo.
«Gwen, non ti addormentare, ti porto via di qui. Te la caverai»
 


Ciao ragazzi!
Mi infondo angoscia da sola con questi capitoli e fatico a scriverli, questo è un motivo del mio ritardo, oltre al tempo che mi è mancato, perdonatemi.
Pubblico questo capitolo in prossimità dell'avvio di un contest a cui questa storia sta partecipando e ho un po' di ansia, quindi credo che la stesura di questo capitolo ne sia stata un po' influenzata.
Il capitolo è piuttosto lungo, quindi non vi annoio oltre. Vi ringrazio di cuore per l'importantissimo supporto che mi date a più livelli. <3
Alla prossima!
Un abbraccio grande
-Vale

 

[1] Il fuso orario sta mandando in tilt me, quindi immagino voi. Mi ritaglio questo piccolo spazio solo per ricordarvi che questo capitolo è ambientato tutto l’11 settembre, ma in realtà l’11 settembre di Los Angeles non è lo stesso di Kabul, la capitale dell’Afghanistan è quasi dodici ore avanti [perdonatemi se risulto ripetitiva, ma questo capitolo per come è impostato rischia di creare confusione].
 
[2] Il chador è un indumento tradizionale iraniano simile a una mantella e a un foulard indossato dalle donne quando devono comparire in pubblico.
 
[3] Ho preso spunto da un fatto reale risalente a giugno 2020, in cui nella moschea citata tra le vittime vi era anche l'imam.
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: paige95