*Numero
Parole: 6.441
*Pairing:
Noremma / NormanxEmma
*Rating:
giallo/arancione
*Questa
storia è stata betata da illogical_spock(watt pad)/
Alwayspotterhead(EFP)
*N.B:
presenza di scene un po’ cruente ed angst allo stato puro,
sconsigliabile per
chi è debole di cuore (ma scommetto che ci sarà
qualcuno che infrangerà questa
regola, so, fatevi forza)
Brave
Enough…
“L’amore
è un bellissimo fiore,
ma bisogna avere il
coraggio di coglierlo
sull’orlo di un
precipizio.”
-Stendhal
Grossi
nuvoloni grigi arrivarono nella Grace Field House, coprendo ogni
piccolo
centimetro di cielo come fumo, seguito da un forte odore di
umidità.
Una
scrosciante pioggia si abbatté sui tetti della grande villa
di mattoni,
bagnando poco a poco le finestre, le pareti bianche ormai sbiadite dal
tempo e
le scale di legno scuro.
Alcune
gocce di rugiada cadevano sulle tegole scure e spioventi, per poi
atterrare sulla
terra umida in un sonoro “plop”, costantemente ad
ogni minuto.
La
tempesta divenne sempre più forte quando un enorme fulmine
bianco squarciò il
cielo, seguito da un rimbombo di schianto; le nuvole ne risaltarono
tutto il
contorno, facendolo sembrare vivo, come gli artigli di una bestia
feroce.
Faceva
talmente paura da far spaventare i bambini più piccoli,
terrorizzati che quello
stesso fulmine si scagliasse sulle loro teste.
Le
loro menti viaggiavano come un treno in corsa, immaginando e temendo
nello
stesso momentol’immagine del famigerato
“mostro” che dimorava nei cieli in
tempesta.
Un
predatore inarrestabile che solcava tra le nuvole, pronto per cacciare
e
bramare la disperazione e la vita della sua amata se non sventurata
preda.
Una
prospettiva davvero macabra e raccapricciante.
Alcuni
bambini più grandi cercarono di rincuorare e far calmare gli
animi irrequieti
degli infanti, in balìa nella più totale paura,
sebbene quel brutto temporale
non rendeva la loro impresa molto facile.
Il
tuono ritornò, ancora, sempre più minaccioso.
Rimbombò.
Rimbalzò.
Rotolò
cupo.
Poi
tutto tacque.
Quel
suono così sconcertante si perse man mano con il vento
impetuoso e la pioggia
battente, ma la potenza di quel tuono fu talmente devastante da
avvertirne,
ancora, la presenza.
Mentre
la terra era ansante, livida, come in sussulto, e il cielo ingrigito e
con i
segni dei squarci tra le nuvole, una luce bianca più suffusa
e silenziosa
apparì.
E
sparì, d’un tratto.
Come
in un battito di ciglia.
Un
lampo illuminò nuovamente i nuvoloni e, per una frazione di
secondo, anche la
pioggia.
Non
ci furono altri tuoni, nemmeno i rimbombi tra le nuvole ma il temporale
non cessò.
Sembrava
che il cielo stesse piangendo.
Fuori
c’era aria di tristezza, di malinconia e di frustrazione allo
stato puro.
Tuttavia,
c’era una gran tempesta anche nel
cuore di una piccola fanciulla dai corti ed indomabili capelli rossi,
un tempo
energica e solare, ora ridotta a soffrire una tragica perdita.
Povera
anima in pena.
Era
circondata dal buio, come se si fosse
ritrovata nelle viscere dell’abisso, con i brividi del freddo
a farle compagnia
nella sua solitudine.
Poteva
sentire tutto quel dolore, quella
tristezza e disperazione penetrarle prepotente nella pelle.
Rabbrividiva
ogni volta che quelle sensazioni
spiacevoli scavavano sempre più affondo, portando gelo nei
suoi muscoli, nel
suo sangue e nelle sue ossa.
Odiava
con tutta se stessa quel malessere
che, pian piano, la stava uccidendo dentro e non poteva fare a meno di
provare
paura.
Sebbene
avesse tenuto gli occhi chiusi per
tutto il tempo, sapeva bene che se li avesse riaperti, il buio
l’avrebbe
riaccolta tra le sue braccia.
Nessuno
l’avrebbe salvata dalle tenebre.
Don.
Gilda.
La
mamma.
Ray.
Nessuno
di loro.
Nemmeno
lui.
Era
sola.
Tuttavia,
una voce nella sua testa le aveva
intimato di sbattere le palpebre, di combattere contro il mostro che
dimorava
nell’oscurità a testa alta e di farsi coraggio
nelle situazioni disperate.
Una
voce calma, gentile e cristallina.
“Va
tutto bene, non arrenderti Emma… mai.”
Un
sorriso di rammarico delineò la piccola
bocca rosea.
Solo
lui
poteva dirle una cosa del genere.
Strinse
le palpebre con tutte le sue forze e,
lentamente, riaprì gli occhi.
Sul
comodino, la luce fioca della candela
ardeva silente sciogliendo poco a poco la cera bianco latte.
Non
le trasmise molto calore, ma illuminò in
parte sia la sua stanza e il suo viso bianco e provato, qualche ciocca
dei suoi
capelli e le maniche del suo maglioncino bianco panna.
Le
iridi verdi, prima vispe e curiose, erano
circondate da un velo di occhiaie e i suoi occhi guardavano assenti e
privi di
calore la candela.
Ingoiando
lentamente e con profonda tristezza
quel groppo in gola, le venne un grande senso di nostalgia.
Una
lacrima solitaria bagnò una sua guancia,
arricciando di tanto in tanto il naso piccolo e fine.
-“Non…
non è la stessa cosa se non ci sei
tu…”
All’inizio
adorava vedere quella flebile luce
rosso-arancio che la proteggesse dal buio della notte, mentre leggeva
con lui alcuni libri sul mondo
esterno,
avvolti nelle coperte come una culla materna.
Ricordava
che quando era solo un soldo di
cacio, faceva fatica a prendere sonno e andava sempre dal suo caro migliore amico.
Con
gli occhi azzurri che brillavano come
gemme preziose, il rossore che andava in forte contrasto con la pelle
nivea e i
capelli chiari, quasi bianchi, e
il
sorriso sulle labbra, l’aiutava a sognare ad occhi aperti e a
sentirsi meno
sola.
Ogni
volta che Emma rimuginava su qualcosa o
era in sovrappensiero, lui era sempre lì, al suo fianco.
Non
c’era mai stato un momento in cui loro
due non fossero insieme e il solo pensarci la faceva rabbrividire
terribilmente.
Sentiva
la mancanza della sua mano che
stringeva dolcemente la sua, per tranquillizzarla da ogni pensiero
negativo.
Sentiva
la mancanza del suo sorriso morbido e
caldo che le infondeva coraggio e sicurezza.
Sentiva
la mancanza della sua risata
cristallina e composta ogni volta che la rossa combinava qualche
marachella con
gli altri bambini della Grace Field House.
Trattenne
a stento un singhiozzo.
“Perché…
perché non hai ascoltato me e Ray
quel giorno?”
Seduta
appena con il cuscino a farle da
supporto e facendo attenzione a non fare movimenti bruschi con la sua
gamba
ingessata, stringeva a sé una lettera bianca con fare
protettivo.
Aveva
alcuni segni dai quali si poteva
dedurre che, in precedenza era stata piegata accuratamente.
Temeva
di rovinare ogni volta il suo
contenuto e dovette trattenersi, anche se invano, per non piangere
altre
lacrime.
Odorava
di carta ed inchiostro, eppure,
seppur in maniera lieve sentiva il suo profumo.
Non
poteva permettersi di perdere un tesoro
così prezioso ed importante in quella stanza,
così spoglia e priva di colore
che era stata, ormai, la sua prigione nelle ultime tre o quattro
settimane.
Stava
perdendo la cognizione del tempo, pensò
Emma.
Non
era per niente un buon segno.
Senza
che se ne rendesse conto, diede voce ai
suoi pensieri più intimi in un sussurro, come se qualcuno
potesse ascoltarla in
quel silenzio tombale.
-“Cosa
devo fare, secondo te? Ho così paura
di questa situazione… Ray non è molto
d’aiuto.
Da
quando… la Mamma ti ha spedito, lui non è
più lo stesso...”
E
nemmeno io, pensò lei.
Sospirò
stanca.
Lacrime
amare bagnarono lentamente le sue
guance morbide, ormai diventate rosse e gonfie, per via delle sue
lunghe notti
a sfogarsi con pianti muti e soffocanti.
Don
e Gilda avevano provato di tutto per far
alleviare, anche se di poco, quel grosso macigno che la stava
lentamente
logorando dall’interno; ma ahimè, tutto era stato
vano.
La
ferita al cuore continuava a sanguinare
ininterrottamente ed era troppo profonda per essere curata a dovere.
Faceva
male.
Molto.
In
confronto alla gamba fratturata, non era
niente.
La
situazione peggiorò drasticamente quando
la sera precedente, nel cuore della notte, Emma ebbe un incubo.
Era
talmente spaventoso e raccapricciante che
rimase sveglia fino al mattino; sconvolta com’era, non ebbe
il coraggio di
riaddormentarsi.
La
lanterna fu, forse, l’unica presenza
positiva in quella situazione terribile, aiutandola a rimanere lucida e
vigile
per qualsiasi mossa avventata.
Mai
aveva avuto degli incubi così tetri e
sconvolgenti come quello.
Prima
di scoprire la “vera” natura
dell’orfanotrofio, della sua amata
“casa”, dormiva sempre sogni tranquilli e
capitava che di tanto in tanto sognasse cose innocue e di poco conto.
Non
ricordava nitidamente ogni suo sogno,
anche perché non dava loro molta importanza, ma la maggior
parte avevano, come
filo conduttore, quella di seguire una rotta.
Il
luogo dove avveniva il tutto era uno
spazio bianco, spoglio e privo di ogni colore e calore esistente.
Se
non per un sottile e lunghissimo filo
rosso.
Man
mano che seguiva quel percorso, assisteva
come una persona esterna i momenti più felici e spensierati
della sua infanzia:
esprimere ingenuamente il desiderio di cavalcare una giraffa, giocare
ad
“acchiapparello” con i suoi numerosi
“fratelli”, aiutare la Mamma ad accudire i
bambini più piccoli di sei anni o addirittura giocare a
scacchi con i suoi due migliori
amici.
Tuttavia,
quando il filo la condusse nei
meandri più profondi e bui della sua mente, capì
subito una cosa.
Da
lì in poi, niente sarebbe stato più lo
stesso.
Poteva
provare a cambiare la direzione,
spezzare il lungo filo e girare a vuoto nello spazio bianco o tracciare
una
rotta quante volte voleva, ma non sarebbe cambiato niente.
Lei
sarebbe ritornata sui suoi passi.
Sempre.
Non
poteva sfuggirne.
Ogni
qualvolta faceva di testa sua, la voce
della Mamma la perseguitava senza sosta.
Non
poteva vederla o percepire la sua
presenza, ma sentiva il suo sguardo malvagio costantemente addosso,
facendole
provare nausea ed oppressione.
Si
sentiva in trappola.
Alcune
volte ripeteva varie
frasi di
ammonimento, come “arrenditi” o “ non
puoi sfuggirmi”; in altre occasioni si limitava soltanto a
dire il suo nome.
Ogni
volta che sentiva le sue parole suadenti
quanto terrificanti invaderle le orecchie, pregava di non trovarsela
mai faccia
a faccia.
Ringraziava
ogni figura esistente che
conosceva per non trovarsi lo sguardo glaciale e violetto di Madre
Isabella, ma
al suo posto le aspettava di peggio.
Molto
di più.
Ricordava
che i primi incubi le avevano lasciato
un grosso senso di paura ed ansia.
Vedeva
la se stessa di appena cinque anni e,
attorno alla rossa, c’erano le ombre dei bambini spediti
tempo addietro, che le
sussurravano come in preghiera una canzone triste e malinconica.
Si
ricordò i nomi dei bambini che aveva
conosciuto qui ed erano usciti dal grande cancello, senza fare mai
più ritorno.
Olivia.
Robert.
Susan.
Gary.
James.
Cedy.
Hao.
Tanti
nomi.
Tanti
visi innocenti.
Tanti
sogni infranti.
Poi
c’era il cadavere della piccola e tenera
Conny che, con la pelle grigiastra, gli occhi vuoti e spenti e
l’espressione di
puro terrore prima della grande tragedia, cresceva un intera colonia di
fiori
rossi scarlatti da sembrare sporchi di sangue.
Le
radici di quella dannata pianta avevano
scavato talmente a fondo in quel corpicino esile da diventare un
tutt’uno con
esso.
Braccia.
Gambe.
Persino
alla testa e ai bulbi oculari.
Era
ovunque.
L’era
parso di sentire la sua voce per un
momento, non era molto sicura, ma giurava di aver udito una parola
fuoriuscire
dalle sue labbra.
Aiuto.
La
prima volta che sognò la figura inanime
della bambina, Emma capì sulla propria pelle
cos’era la paura.
Ricordò
che aveva avuto il spasmodico bisogno
di correre in bagno e rimettere tutto quello che aveva mangiato fino a
quel
momento, tremava così tanto che aveva difficoltà
a reggersi sulle sue gambe.
Aveva
ancora quell’immagine inquietante nella
propria mente, come il flash di una macchina fotografica.
Nonostante
avesse accettato la sua morte e
fatto l’impossibile per non farsi travolgere dalla
disperazione, Emma ci mise
dei giorni a realizzare che le mura della Grace Field House non la
proteggevano
più da ogni pericolo, ma che erano in realtà la
sua “prigione”; vivendo
nell’attesa di essere la prossima come tributo a quei mostri
famelici.
Ma,
questa volta, la situazione era ben
diversa.
Non
era solo una visione dentro il sogno, era
molto di più.
Era
la personificazione del Male in persona.
Più
malvagia della Mamma.
Più
ostile dei Demoni.
Era
lui.
Il
Buio.
Il
peggiore di tutti.
Un
ombra oscura dagli
occhi iniettati di sangue mangiava le
persone che amava senza un briciolo di pietà o misericordia,
con i suoi lunghi
artigli e la bocca circondata da denti aguzzi ed affilati lo rendevano
una
creatura terrificante.
Sinistra.
Macabra.
Non
risparmiava nessuno.
Nella
sua scia nera e, a tratti, viscosa,
c’era odore di morte e disperazione.
Il
mostro non rivolse mai parola alla
ragazzina, nemmeno quando strappò via la vita ad un altro
essere umano, se non
una sola volta; la sua voce era profonda e rauca, sibilava con la
lingua biforcuta
ma riuscì comunque a distinguere una frase.
Non
era per niente rassicurante.
“Arrenditi
Emma, non puoi salvare tutti
quanti…”
Intorno
a lei c’erano i corpi esamini di
tutti i bambini che conosceva, grondanti
di un liquido scuro ed appiccicoso all’altezza del petto e la
loro pelle era
pallida come un lenzuolo.
Soffocò
a stento un singhiozzo ed era quasi
sicura di essere prossima a vomitare tutto quanto, compreso
l’anima.
Voleva
piangere.
Disperarsi.
Correre.
Urlare.
Lei
voleva fare qualunque cosa gli passasse
nella testa, eppure era rimasta immobile.
Guardava,
impotente e sconcertata, quello che
stavano vedendo i suoi occhi, emettendo vari suoni gutturali dalla gola
secca.
Era
uno spettacolo raccapricciante.
Scosse
energicamente la testa
schiaffeggiandosi con i palmi aperti il viso bianco.
Riprenditi,
pensò lei.
Era
solo un incubo.
Tutto
questo non era reale e di questo Emma
era perfettamente consapevole.
“Mantieni
la calma e il sangue freddo.
Proprio…
come faceva lui.”
Ebbe
un flashback di quando era bambina.
Ricordava
che dopo aver avuto un brutto sogno
e non voleva saperne niente di dormire nella camera da sola, Norman era
restato
accanto al proprio letto.
All’inizio
gli stringeva il braccio,
spaventata, implorandolo di non lasciarla andare, tentando miseramente
di non
piangere.
Tuttavia,
lui trovava sempre il modo di
calmarla e rassicurarla facendole anche credere di essersi crucciata
per un
nonnulla.
Ricordò
come le aveva stretto la mano,
delicatamente, con le sue carezze gentili e rassicuranti, percependo un
tepore
piacevole alle dita.
Ricordò
come
la guardava intensamente con i suoi grandi occhi azzurri,
così colmi di
affetto e sicurezza che sembrava un anima pura e purpurea.
Ricordò
come le sorrideva dolcemente, con
profonda premura e calore, a quella bambina così impaurita
ed innocente.
“Stai
tranquilla, è solo un brutto sogno.
La
paura può farti suggestionare… ma
ricordati che non può controllarti, Emma.
Perché
hai il pieno
controllo di te stessa, decidi tu
quando è il momento di dire la parola
“fine”.
Qualsiasi
pericolo ti si presenterà davanti,
verosimile o no, ti sveglierai.”
Quella
volta, Norman l’aveva fatta sentire al
sicuro, le sue parole andarono dritte al suo cuore e Dio solo sa quanto
Emma fu
grata e riconoscente nei suoi confronti.
Mai
si sentì così leggera e libera da ogni
preoccupazione.
Conservava
quel ricordo come se fosse un
tesoro prezioso, ripetendo quelle parole come se fossero il suo stesso
mantra.
Non
aveva nulla da temere.
Niente
poteva farle del male.
Non
poteva avere paura o farsi suggestionare dai
brutti sogni, no?
Era
lei che aveva il controllo del suo
subconscio, bastava solo svegliarsi, giusto?
Si
morse un labbro.
E
allora perché non riusciva a svegliarsi?
Le
sue gambe non smisero neanche per un
attimo di tremare per la troppa paura e shock.
Era
troppo spaventata per muoversi.
Troppo
lenta ad agire.
Troppo
codarda.
C’erano
tutti quanti.
Tutti.
Compreso
lui.
Il
suo amato
e più caro migliore
amico.
-“No…
Nor… man.”
Aveva
giurato di aver sentito il suo cuore
fermarsi di colpo e rompersi in mille pezzi, come cenere al vento.
Soffocò
un urlo disperato alla vista dei suoi
occhi azzurri, così vitrei e brillanti, divenire man mano
sempre più opachi e
spenti.
La
ferita che aveva al petto era bella
profonda e, al centro di esso, era presente quella pianta con i suoi
inconfondibili petali rossi scarlatti, la stessa che aveva preso la
vita della
piccola Conny.
La
stessa, dannata, pianta che la
perseguitava nei suoi incubi da troppo tempo.
“Perché
lui…”
Quando
gli fu vicino, strinse l’albino tra le
sue braccia tremanti temendo di fargli male, fregandosene di avere i
vestiti
zuppi d’acqua, e man mano che affondava il capo sulla sua
spalla, la vista le
si offuscava sempre di più, così tanto da non
riuscire a distinguere bene se
avesse sempre avuto la pelle così nivea e profumata o fosse
sempre stato freddo
come la morte.
Se
solo avesse ritardato un momento di più la
sua spedizione, Norman non sarebbe morto.
Se
solo avesse avuto più tempo per trovare
una strategia migliore in quell’occasione, Norman non si
sarebbe spinto così
lontano.
Se
solo lei non si fosse fatta male alla
gamba, tutto questo non sarebbe mai accaduto.
Era
tutta colpa sua.
Ci
mise del tempo per formulare una frase di
senso compiuto, complice lo shock, la consapevolezza di non averlo
protetto
fino alla fine e il peso che le attanagliava il cuore ormai frantumato
e
sanguinante.
Tremava
così tanto che non riuscì nemmeno a
sentire la sua stessa voce.
-“M-Mi
avevi promesso che, saremmo fuggiti
tutti…
Non
lasciarmi, t-ti prego…”
Sperava
di poter sentire nuovamente la sua
voce, di rivedere il suo dolce sorriso e di percepire il suo tepore
riscaldargli l’anima.
Ma
non accadde niente di tutto ciò.
Il
silenzio regnava sovrano in quel luogo
così angusto e tetro.
Gli
unici rumori che sentì furono il
scrosciare dell’acqua torrente, i suoi stessi singhiozzi, il
respiro che si
faceva sempre più irregolare e il fruscio dei capelli rossi
che si mescolavano
con quelli bianchi di lui.
Non
badò nemmeno più alla presenza del mostro
che, quatto quatto, si stava avvicinando alle sue spalle pronto a
divorarla in
un solo boccone.
Non
aveva più importanza.
L’aveva
perso.
Lei
aveva perso.
Fu
allora che urlò.
L’incubo
che aveva fatto quella notte l’aveva
scossa così profondamente da lasciarle una grossa cicatrice
al cuore.
Quando
il sole calava giù e la luce
scompariva come un fuoco flebile, lasciando al suo posto la luna e il
cielo
buio, aveva il costante terrore di chiudere gli occhi e di rivedere,
ancora una
volta quella scena.
Le
era capitato un paio di volte di fare quel
sogno, ma, in cuor suo, si augurava che il maledetto mostro situato
nell’oscurità non bussasse mai più alla
sua porta; sperava che non le
rinfacciasse più quanto fosse stata impotente e debole per
non essere riuscita
a salvare la persona che teneva di più al mondo.
-“…perché
mi hai lasciata indietro?”
Strinse
più forte la lettera a sé.
Ogni
sera, prima di andare a dormire, Emma
leggeva la sua lettera, il suo
ultimo dono prima di sparire definitamente da Grace Field House.
Era
il suo più grande tesoro, l’unica cosa
che gli ricordasse del loro legame e l’unico appiglio per non
cedere del tutto
alla disperazione.
Si
era promessa più volte che sarebbe stata più
forte e coraggiosa per lui, che
avrebbe seguito alla lettera il piano di evasione e che, cosa
più importante,
avrebbe fatto l’impossibile per salvare tutti i bambini della
Fattoria.
Aveva
giurato a se stessa che non avrebbe reso vano il suo
sacrificio.
Se
avesse anche solo pensato di rinunciare a
tutto, avrebbe rivisto ancora una volta il momento in cui Norman era sparito oltre quella porta, con un
sorriso buono e luminoso come una splendida giornata di sole, ma che
nel profondo
del suo cuore sapeva di star andando incontro al braccio della morte.
Molte
domande le sorsero spontanee nella sua
mente e alcune di queste portarono una grande angoscia nel suo animo.
Cosa
cercava di ottenere fermandola nel suo
inutile tentativo di fuga?
A
cosa stava pensando quando aveva cercato di
sfiorarle il viso?
Perché
la guardava come se non avrebbe mai
più visto la luce del sole?
Perché
le aveva riservato quel sorriso
amorevole nonostante gli tremasse così tanto la voce?
Aveva
pensato e ripensato più volte sul
perché avesse agito in quel modo, ma per quanto si
sforzasse, Emma non trovò
mai la risposta che cercava.
Eppure
sentiva che c’era sotto qualcos’altro.
Qualcosa
di più grande di lei.
Qualcosa
di più profondo.
Ma
non aveva la vaga idea di cosa potesse
essere.
Era
di nuovo in un vicolo cieco.
Frustrata
e disperata, non sapeva più dove
sbattere la testa, e tutto quello che poteva fare era, quindi, restare
ferma
sopportando in silenzio il dolore della gamba che, fortunatamente, era
in via
di guarigione.
A
volte, c’erano certe notti che non riusciva
a dormire e, ogni volta che ripensava a lui,
singhiozzava per soffocare il dolore nel suo cuore che, lentamente, si
frantumava nuovamente in mille pezzi.
Non
poteva andare avanti così.
Doveva
reagire, altrimenti quelle sensazioni
cupe e tristi non solo l’avrebbero fatta soffrire il triplo
del normale, ma
l’avrebbero anche portata a compiere azioni gravi, fino a
farsi del male.
Doveva
capire cos’era quel sentimento che le
toglieva il respiro, il sonno e la ragione.
Doveva
fare qualcosa che l’aiutasse a pensare
razionalmente e trovare una via d’uscita.
Costi
quel che costi.
Il
suo subconscio le intimava di voltare
pagina, accettare che ormai Norman l’aveva lasciata andare e
di continuare con
Don e Gilda i preparativi della fuga.
Inoltre,
doveva ancora risolvere una faccenda
in sospeso e il solo pensarci le saliva il magone in gola.
Emma
doveva tenere d’occhio Ray nel caso
commettesse una stupidaggine prima del giorno del suo compleanno, il 15
Gennaio.
Lo
aveva visto raramente
fuori dalla struttura insieme agli
altri bambini, se non in biblioteca o in camera sua, e le poche volte
in cui
s’incrociavano tra le mura di quella prigione a stento le
rivolgeva la parola;
ma poteva percepire chiaramente la sua sofferenza sulla propria pelle.
Erano
state molte le occasioni in cui voleva
parlargli, eppure non poteva assolutamente destare sospetti, sia a lui
che alla
Mamma, del suo “vero” obbiettivo.
Dovevano
credere che non voleva più fuggire e
che ormai aveva accettato la cruda ed amara verità che,
presto, sarebbe
arrivato il suo turno al braccio della morte.
Non
si faceva notare molto, ma sapeva che lei
la stava osservando.
Qualsiasi
sua mossa, anche la più banale.
Avere
gli occhi della Mamma costantemente
addosso non era di certo un toccasana per la sua salute mentale,
eppure, il “non
far niente” era l’unica soluzione accettabile in
quella situazione ostica.
Quando
sapeva di essere sola in infermeria e che
nessuno la stava osservando nell’ombra, si concedeva un lungo
e sonoro sospiro
stanco stendendosi sul gran lettone.
Si
sentiva così stanca emotivamente e
psicologicamente che aveva il forte impulso di urlare contro il cuscino.
Ma
in qualche modo, riusciva a tenerle testa.
-“Lui
sapeva sempre come comportarsi nelle situazioni
complicat-”
Scosse
il capo.
Si
diede mentalmente della stupida quando
ebbe un flash del suo viso candido, i suoi occhi lucenti e del suo
dolce
sorriso.
Una
lacrima.
Poi
un’altra.
Un’altra
ancora.
E
ancora e ancora, fino a piangere del tutto
con il viso paonazzo e gonfio.
Bel
colpo, pensò lei.
Ma
chi voleva prendere in giro?
Nel
profondo del suo cuore, non voleva
assolutamente smettere di pensarlo.
Da
quando posò i suoi occhi sui suoi e gli
aveva parlato per la prima volta in quel lontano inverno in cui si
ammalò, aveva
capito fin da subito che quel bambino era
“diverso” dagli altri.
Era
sempre nei suoi pensieri, tristi o belli
qual’erano.
Lui
è sempre stato diverso.
Unico.
Speciale.
-“Quello
che… quello che avevamo era bellissimo, Norman.
Tu
mi avevi detto che dovevo sorridere… m-ma non ci riesco, se
non ci sei tu.
Perdonami se non ho fatto abbastanza…”
Un
piccolo sorriso delineò le sue labbra
sottili, tremando di tanto in tanto, nel mentre accarezzava dolcemente
la
lettera.
Le
capitava di tanto in tanto di vedere un apparizione del ragazzino e che
riuscisse anche a sfiorargli il volto, seppur di pochissimi secondi.
Nonostante
lui non le rivolgeva spesso la parola, si limitava ad ascoltarla e
quest’ultima
gli parlava piano, quasi in sussurro, di come provasse fatica a vivere
una
giornata comune senza di lui, di come i bambini giocavano e ridevano
come solo
loro potevano fare, di come la Mamma la stesse tenendo
d’occhio e di come Gilda
e Don stavano gestendo l’addestramento senza intoppi.
Rise
con rammarico.
Forse
stava impazzendo, dato che vedeva il suo fantasma; forse non si sarebbe
mai più
ripresa da quell’episodio, ma ormai non aveva più
importanza.
Sebbene
Emma fosse ancora nell’idea di portare tutti i bambini fuori
dalle mura della
Fattoria e fuggire dalle grinfie di quei mostri quali i demoni e la
Mamma
stessa, temeva di crollare nuovamente giù, pur sapendo che
non c’era più
l’albino a supportarla.
La
sua sola presenza l’aiutava a vedere le cose sotto
un’altra prospettiva, ad
andare avanti per la sua strada e, in alcuni casi, persino ad
oltrepassare i
suoi limiti; certo,
l’aveva avvertita a
non fare azioni sconsiderate, o addirittura pericolose, se
c’era di mezzo la
sua incolumità, eppure con lui sentiva che era in grado di
affrontare qualsiasi
ostacolo le si presentasse davanti, anche il più intricato e
misterioso.
Ora
più che mai, aveva bisogno di lui.
Le
sue dita scivolarono sulle prime tre parole della lettera notando
quella
virgola nel mezzo della frase e ogni qualvolta i suoi occhi verdi si
posavano
su quel piccolo particolare, le partivano mille brividi dietro la
schiena con
un incontrollabile tremore alle mani e al cuore che minacciava di
uscirle dal
petto.
In
una situazione normale non ci avrebbe dato troppo peso; eppure sentiva
che
dietro a quel messaggio, Norman le stava comunicando qualche
significato
nascosto.
Un
qualcosa di profondo ed intimo.
L’aveva,
forse, fatto apposta?
Non
poteva saperlo con certezza.
Quel
piccolo segno nero sulla superficie bianca aveva consumato le sue
lunghe notti tenendola
occupata con i suoi pensieri; con una virgola, aveva scritto questo.
-“Mia
carissima, Emma…”
Le
poche volte in cui aveva pronunciato a
voce quelle tre parole, aveva sentito il suo stesso cuore fare un salto
mortale,
il suo viso colorarsi di rosso di tanto in tanto, le labbra tremolare e
quella
sensazione costante che da lì a poco avrebbe perso i sensi.
Era
tutto così… surreale.
Estraneo.
Perché
le faceva questo strano effetto?
Mentre
rileggeva la lettera, notò qualcosa di
nuovo nella carta, più precisamente sul fondo del paragrafo
dove l’albino le
raccomandava di seguire il piano di evasione con la giusta tempistica,
ovvero
tra due mesi, e di non avere fretta fino a quando non sarebbe arrivato
il
giorno designato.
Aguzzò
meglio la vista.
Sebbene
la luce della candela stava
diventando sempre più flebile e le ciglia che le pizzicavano
fastidiosamente le
palpebre, riuscì a notare delle linee tratteggiate
percorrere paragrafo dopo
paragrafo.
Trattene
il respiro, presa alla sprovvista.
Poteva
riconoscere un Codice Morse anche ad
occhi chiusi.
Dopo
aver decifrato non so quante volte gli
Ex Libris di William Minerva, aveva imparato a distinguere varie parole
e frasi
ma questa era in assoluto la prima volta che vedeva dei tratteggi
così lunghi e
frammentati.
La
ragazzina aveva individuato alcune parole
a lei familiari quali “volontà”,
“aspettare”,
“amore” e
“proteggere”;
il che la portò a rizzarsi con la schiena, emettendo un
gemito di dolore visto
che aveva mosso in maniera brusca ed improvvisa la sua gamba ingessata.
-“Ma
questo…”
Sgranò
le iridi verdi sorpresa.
Era
forse questo il messaggio di cui Norman
voleva che lei cercasse?
Cosa
poteva mai esserci scritto?
Erano
altre istruzioni della grande fuga?
O
erano informazioni top secret che era
venuto a conoscenza dalla Sorella Krone, prima di sparire?
Aveva
mille domande che le frullavano nella
sua testolina rossa, ma di certo osservando solo quel pezzo di carta
per un
infinità di tempo non avrebbe di certo compreso il messaggio.
Si
allungò verso il comodino posto al suo
fianco, aprì un cassetto trovando sia alcuni fogli di carta
e una penna a sfera
dall’inchiostro nero.
Senza
ulteriore indugio, arraffò il bottino e
quando controllò la gamba fasciata che fosse perfettamente
al suo posto, vi posizionò
sopra un foglio di carta e la penna.
Ringraziò
mentalmente la piccola Yvette, una
delle bambine più piccole dell’istituto, per
averle lasciato quei doni utili
quanto essenziali.
Osservò
intensamente il Codice Morse e
impugnando con decisione la penna, si mise subito all’opera.
“Va
bene, Norman. Cosa vuoi dirmi?”
Finalmente,
il temporale era andato via,
lasciando al suo posto un cielo scuro con un mare di stelle
così luminose e
purpuree da far sparire anche la paura dei tuoni e della pioggia
battente che,
finora, si era abbattuta su di loro.
C’era
un odore pungente di umidità e
dell’erba bagnata e seppur
in
lontananza, si sentì il canto di un grillo echeggiare nella
notte.
Trascorsero
varie ore in cui Emma cercò di
decifrare il Codice Morse parola dopo parola e nel mentre la stanza
diventava
sempre più buia e la candela, ormai prossima a spegnersi
definitamente, il
ticchettio dell’orologio segnavano le due di notte passate.
Con
il cuore che gli martellava
incessantemente al petto e le guance che andavano man mano a colorarsi
di
rosso, diventando un tutt’uno con i suoi capelli,
finì l’ultimo paragrafo.
Quello
che scoprì in
quella lettera, la lasciò letteralmente
senza parole.
“Ascoltami,
Emma, c’è una cosa che avrei
dovuto dirti da tanto tempo…
In
circostanze normali, sarei stato disposto
ad aspettare fino ad arrivare a quel giorno tanto atteso; quello in cui
ci
saremmo rivisti fuori dall’orfanotrofio, più
adulti, rivelandoti quel segreto
che per anni ho custodito con tanta premura.
Adesso…
la situazione è diversa.
Ieri
notte, ho dovuto mentirti per far sì
che, né tu né Ray, foste i prossimi per la
spedizione.
So
a cosa stai pensando, non avrei dovuto
farlo, questo è vero, e so che questa mia decisione ti abbia
turbata
ulteriormente;
come
per Ray, anche tu sarai libera di
odiarmi e urlare quanto io sia stato sciocco… ma ti prego,
credimi se ti dico
che ho agito così per una ragione.
L’ho
fatto per proteggere le due persone più
importanti della mia vita: il mio migliore amico e… la
ragazza di cui provo un
affetto “particolare”.
Non
avrei lasciato assolutamente che la Mamma
vi facesse del male, ancora una volta.
Se
solo quel giorno fossi stato abbastanza
coraggioso, avrei potuto affrontarla a testa alta, magari ferendola per
guadagnare tempo.
Se
solo quel giorno fossi stato abbastanza
forte, avrei potuto farti da scudo, evitando quella ferita alla gamba.
Ho
fatto un errore, ho esitato e il prezzo da
pagare è stato vederti urlare di dolore mentre la
Mamma… il solo pensarci mi si
spezza il cuore.
Perdonami
Emma.
Nonostante
stessi cercando una soluzione per
tenerti al sicuro, hai sempre cercato di proteggermi e di batterti con
tutte le
tue forze affinché non fossi spedito in missione.
Non
te l’ho mai detto, ma tu mi sorprendi
ogni volta.
Mi
hai sempre infuso coraggio e forza di
volontà nei momenti più bui e tristi, anche
quando ho avuto il timore di non
farcela.
Nonostante
fossi cagionevole di salute, mi
sei sempre stata accanto, stringendo la tua mano nella mia e dedicarmi
tutti
quei sorrisi radiosi.
Ti
ricordi quando, in pieno inverno, mi presi
un bel raffreddore e rimasi in quarantena affinché guarissi
completamente?
Potevi
scegliere di stare con gli altri
bambini dell’orfanotrofio, giocare alla battaglia con le
palle di neve e
divertirti, non avrei potuto biasimarti, eppure… tu hai
scelto di rimanere con
me.
Più
volte hai cercato ad intrufolarti di
nascosto in infermeria, beccandoti molti rimproveri da colei che era la
nostra
“Madre”, solo
per parlarmi e non
lasciarmi da solo.
Conservo
ancora il telefono a spago che mi
desti quella volta, mi ci sono affezionato talmente tanto che temevo di
romperlo… l’ho porterò con me, per
sempre, perché mi hai fatto un dono prezioso.
Da
quel giorno, mi hai cambiato la vita.
Hai
illuminato le mie giornate con il tuo
sorriso radioso, i tuoi capelli rossi sempre arruffati, i tuoi occhi
verdi
espressivi e la tua risata energica.
Ho
perso il conto di quante volte tu mi abbia
aiutato e protetto nel corso degli anni e non ti ho mai ringraziato
abbastanza
per questo.
Stando
al tuo fianco, mi sentivo forte e
sicuro di me, come se potessi risolvere il più intricato dei
misteri, come se
mi sentissi il re del mondo.
Ora
è arrivato il mio turno.
Emma,
è solo grazie a te se ho potuto
continuare a sorridere, nonostante la paura e il dolore.
Tu…
sei l’unica ragione per cui riesco a
sorridere anche adesso.
Per
anni, ho continuato a provare queste
emozioni estranee ma che mi facevano stare bene nel profondo, ogni
volta che ti
guardavo negli occhi, sentivo la tua voce e ti sfioravo la
mano… fino a quando
non ho compreso una verità importante; sul perché
mi facevi battere così forte
il cuore fino a scoppiare, sul perché
m’imbarazzavo quando ti stavo troppo
vicino o sul perché ci tenevo tanto a non mostrarti goffo ed
impacciato ai tuoi
occhi.
Quello
che provavo fin da piccolo, e che tuttora
provo, è amore.
Proprio
così, mi sono innamorato.
E
dietro a tutto questo, c’eri tu.
Ci
sei sempre stata tu.
Quel
sentimento ha continuato a crescere e a
crescere, senza che me ne rendessi conto e quando sono arrivato a
quella
conclusione, ti ho guardato sotto un’altra prospettiva.
Tu
sei come un girasole: sei fedele a te
stessa, segui con perseveranza i tuoi obiettivi, sprigioni
positività da tutti
i pori e non ti dai mai per vinta.
Ho
sempre provato ammirazione e rispetto sia
per il tuo carattere che per la tua forza interiore… adesso
ho finito
nell’innamorarmene quasi perdutamente e, a essere onesti, non
posso far altro
che dirti… grazie.
Grazie
per essere te stessa, Emma.
Sono
stati tanti i momenti in cui pensavo di
confessarti tutto… tuttavia la mia parte più
razionale mi ha impedito di fare
ciò; pensando che fosse ancora troppo presto per
parlartene… o che nei peggiori
dei casi, non avresti compreso appieno questi miei sentimenti.
Quando
mi sentivo pronto per affrontare
quel passo importante, come un codardo mi tiravo, sempre, indietro.
Ogni
giorno pensavo alla verità,
sospirando amaramente, a quello che sarebbe potuto succedere se tu
avresti
saputo quello che provavo davvero, nel profondo del mio cuore.
Alla
fine… ho deciso di non dirti
niente.
Ho
tenuto questi sentimenti chiusi in un
cassetto, pensando che avrei aspettato tempi migliori per farli uscire.
Ero
convinto che prima o poi mi sarei
fatto avanti, che mi sarei dichiarato come si deve, sorprendendoti.
Ahimè,
il destino mi ha giocato un
brutto scherzo.
Quando
abbiamo scoperto la verità di
questa “fattoria”, superando quel cancello, ho
provato sulla mia pelle cosa
fosse davvero la paura.
Per
la prima volta, in tutta la mia
vita, mi si era crollato il mondo addosso.
Tuttavia,
realizzando questa verità, il
mio pensiero era rivolto subito a te.
Avevo
sì paura di morire, ma ho avuto più
paura all’idea di perderti… per sempre.
Ed
è stato allora che ho fatto un
giuramento a me stesso: avrei fatto di tutto per proteggere sia te che
quel
sorriso luminoso e bello che tanto ho amato disperatamente.
Non
ti biasimo se mi odi per averti mentito…
ma tu sei sempre stata la mia priorità.
Ero
pronto a tutto, anche vendere la mia
stessa anima o magari sporcarmi le mani, pur di non vederti morire
davanti ai
miei occhi.
L’amore
non fa distinzioni tra i santi e i
peccatori.
Lui
prende, prende e prende.
In
ogni legame c’è sempre un difetto: abbiamo
litigato, ci siamo fatti male a vicenda, abbiamo pianto e fatto i
nostri
errori.
Ed
è per questa ragione che ho voluto starti
accanto…
Il
mio unico rimpianto è che avrei solo
voluto essere abbastanza coraggioso da amarti.
Forse
non troverai mai questo messaggio
nascosto nella lettera, o magari non comprenderai alcuni passaggi del
Codice
Morse… ma voglio credere che, in un modo o
nell’altro, riuscirai nel tuo
intento.
Sii
forte, Emma.
Per
sempre tuo,
Norman.”
Non
riusciva a crederci a quello che aveva
letto.
Aveva
trattenuto così a lungo il respiro che
non appena finì di leggere l’ultimo paragrafo, ha
avuto un attacco di tosse
forte, e ci mise del tempo per riprendere a respirare correttamente.
Non
sapeva se si sentisse turbata o
sconvolta, tuttavia, se fosse rimasta ancora un’altra mezzora
in apnea, sarebbe
morta per mancanza di ossigeno.
Cercò
di metabolizzare ogni singola parola
che le aveva lasciato l’albino in quella lettera, ma il cuore
le martellava
così velocemente da farle male il petto, impedendola di
pensare lucidamente.
“Tu…
tu mi amavi?”
Come
se non bastasse, il viso aveva iniziato
a scottarle terribilmente tanto e le ciglia le stavano pizzicando
fastidiosamente; segno che, tra non molto, sarebbe scoppiata in un mare
di
lacrime.
Voleva
trattenersi, stringere i denti e farsi
forza come sempre aveva fatto, eppure
non ce la faceva.
C’era
una forza invisibile che le impediva di
compiere qualsiasi azione motoria, sentiva le sue parole entrarle
prepotentemente nella testa e fu difficile non rimanerne indifferente.
Per
la prima volta, in tutta la sua vita,
Emma si sentiva vulnerabile.
Indifesa.
Fragile.
E
sapeva bene del perché stesse reagendo in
quella maniera: nel profondo del suo cuore, anche lei provava questi
sentimenti
nei suoi confronti.
Ma
ahimè, per lei era troppo tardi.
Perse
forza nelle mani e la lettera le
scivolò tra le dita, finendo sulle sue gambe; aveva avuto il
pensiero di
riprenderla, ma come provò ad alzare una mano si rese conto
di una cosa.
Tremava.
Tremava
così tanto che per un attimo, pensò
di aver perso il controllo del suo corpo.
La
vista aveva iniziato ad offuscarsi
ulteriormente quando, per una miriade di secondo, vide lui.
Il
fantasma di Norman.
Era
al suo fianco, vicino al letto, che le
sfiorava dolcemente una guancia, cercando di consolarla con fare
protettivo.
Aveva
sempre avuto un tocco leggero e
gentile, pensò lei.
Voleva
abbracciarlo, gridare quanto fosse
dispiaciuta di non essere riuscita a proteggerlo e confessargli che
anche lei
aveva provato quegli stessi sentimenti al cuore, ma non riusciva a fare
niente.
Niente
di niente.
L’unica
cosa che le era concesso fare, in
quel momento, era pronunciare il suo nome.
-“N-Norman…
tu…”
Le
si spezzò il cuore vedere i suoi occhi
azzurri che la guardavano con profondo amore, il viso niveo in
contrasto con il
rossore che gli arrivava da un orecchio e
l’altro, tipico di una persona innamorata, e quel sorriso,
quel dannato sorriso
che l’aveva fatta sentire la persona più felice e
spensierata del mondo,
tremare debolmente.
Una
lacrima.
Poi
un’altra.
E
un’altra ancora.
-“N-non…
non l-lasciarmi.”
Affondò
il viso sulla sua mano, cercando di
assimilare sia il suo calore quasi inesistente e la morbidezza del suo
palmo,
singhiozzando di tanto in tanto.
Era
talmente concentrata ad inspirare il suo profumo
che non poté vedere due lacrime solitarie bagnargli il volto
angelico e le
iridi azzurre diventare uno specchio d’acqua limpido,
percependo comunque la
sua stessa presenza tremolare.
-“Sii
forte, mio girasole…”
La
candela aveva deciso di spegnersi proprio
in quel momento e prima che realizzasse il tutto, il buio della notte
la
circondò completamente, urlando con la voce strozzata il
nome del suo amato, se
non defunto, angelo bianco.
Angolo dell'autor*:
Mamma mia, avevo dimenticato com'era la vita di un fanwriter/scrittor* :"D
Questa fanfiction doveva uscire ad Agosto... più precisamente a fine mese... solo che ci sono stati alcuni sviluppi imprevisti lol
Ahem, dicevo, sono comunque grat* di averla conclusa questa one-shot perché ci tenevo davvero a produrla; sapete com'è, sia su efp che su wattpad ci sono pochissime ff scritte bene di questa serie... specialmente di due pimpi che amo moltissimo-
Ringrazio il mio duro impegno e la mia beta di fiducia, perché ammettiamolo, senza di lei sono praticamente una merdina a scrivere-
Tornando a noi, ho conosciuto The Promised Neverland un po' più tardi e avrò visto la serie giusto tre/quattro volte perché: le prime due dovevo capire alcune cose della trama e fare zapping tra quello e il manga, la terza era per soffermarmi sulla personalità di Norman aka il mio favorito e la quarta...
Per piangere virilmente quanto sono carini Emma e Norman e di come quest'ultimo sia un S O T T O N E per lei-
(Anche Ray ha un posto speciale nel mio cuore... però brutto piromane, smettila di attentare continuamente la mia sanità mentale plis)
Ci ho messo un paio di mesi a raccogliere le idee per una fanfiction e sperare di non uscire troppo nell'OOC con i personaggi, ma hey, ce l'ho fatta :"D
Btw, vi presento la mia prima ff che da inizio alla raccolta/serie "Letters smell like Sunflower and Freesia", dedicata esclusivamente sulla ship Noremma: Brave Enough.
Il titolo è ispirato a due fiori di cui vengono associati i due ragazzi, il girasole e la fresia, che ho scelto appositamente per loro perché li vedevo affini non solo nei colori, ma anche nel loro significato simbolico; un giorno vi spiegherò nel dettaglio il loro significato nel linguaggio dei fiori... ma non oggi.
Mentre, il titolo di questa one-shot è ispirato ad una canzone di Linsdey Stirling, per l'appunto, Brave Enough che dietro nasconde una storia romantica che va a sfociare in un brutto finale...
Vi ho già detto che amo l'angst, no? :"D
Btw, forse l'avrete già notato durante la lettura, o forse no, l'oggetto chiave di questa raccolta sarà la lettera di Norman.
V'invito caldamente a tenerlo bene a mente, non per fare l'interrogatorio per carità, perché ci accompagnerà per tutta la serie-
(Forse prenderò in considerazione di fare anche un'altra serie che segue in parallela questa raccolta... ma boh, è ancora da decidere hahahaha)
Ci tengo anche a lasciarvi un messaggio: i prossimi aggiornamenti saranno molto lenti ed imprevedibili, abbozzerò le shots appena mi sarà possibile, ma più che altro è anche un modo per vedere quanti lettori sono interessati a leggere la raccolta.
Per il resto, ci si vede per i prossimi aggiornamenti di one-shots, future longs e quant'altro!
Baci,
Artemìs