Anime & Manga > The promised neverland
Ricorda la storia  |      
Autore: New Moon Black    06/09/2020    1 recensioni
[Tratto dal testo]
-“M-Mi avevi promesso che, saremmo fuggiti tutti… Non lasciarmi, t-ti prego…”
Sperava di poter sentire nuovamente la sua voce, di rivedere il suo dolce sorriso e di percepire il suo tepore riscaldargli l’anima.
Ma non accadde niente di tutto ciò.
Il silenzio regnava sovrano in quel luogo così angusto e tetro.
Gli unici rumori che sentì furono il scrosciare dell’acqua torrente, i suoi stessi singhiozzi, il respiro che si faceva sempre più irregolare e il fruscio dei capelli rossi che si mescolavano con quelli bianchi di lui.
Non badò nemmeno più alla presenza del mostro che, quatto quatto, si stava avvicinando alle sue spalle pronto a divorarla in un solo boccone.
Non aveva più importanza.
L’aveva perso.
Lei aveva perso.
Fu allora che urlò.
-------
Storia basata principalmente sulla serie animata, con piccolissimi riferimenti a novel e canzoni.
N.B: presenza di angst e scene cruente, so, leggete a vostro rischio e pericolo.
Buona lettura!
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma, Norman
Note: Missing Moments, Raccolta, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie '~Letters smell like Sunflower and Freesia~'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
   



*Numero Parole: 6.441

*Pairing: Noremma / NormanxEmma

*Rating: giallo/arancione

*Questa storia è stata betata da illogical_spock(watt pad)/ Alwayspotterhead(EFP)

*N.B: presenza di scene un po’ cruente ed angst allo stato puro, sconsigliabile per chi è debole di cuore (ma scommetto che ci sarà qualcuno che infrangerà questa regola, so, fatevi forza)

 

 

 

Brave Enough…

 

                                                         

 

                                                                                      “L’amore è un bellissimo fiore,

 ma bisogna avere il

 coraggio di coglierlo

 sull’orlo di un precipizio.”

-Stendhal

                                                                              

                                                                              

 

Grossi nuvoloni grigi arrivarono nella Grace Field House, coprendo ogni piccolo centimetro di cielo come fumo, seguito da un forte odore di umidità.

Una scrosciante pioggia si abbatté sui tetti della grande villa di mattoni, bagnando poco a poco le finestre, le pareti bianche ormai sbiadite dal tempo e le scale di legno scuro.

Alcune gocce di rugiada cadevano sulle tegole scure e spioventi, per poi atterrare sulla terra umida in un sonoro “plop”, costantemente ad ogni minuto.

La tempesta divenne sempre più forte quando un enorme fulmine bianco squarciò il cielo, seguito da un rimbombo di schianto; le nuvole ne risaltarono tutto il contorno, facendolo sembrare vivo, come gli artigli di una bestia feroce.

Faceva talmente paura da far spaventare i bambini più piccoli, terrorizzati che quello stesso fulmine si scagliasse sulle loro teste.

Le loro menti viaggiavano come un treno in corsa, immaginando e temendo nello stesso momentol’immagine del famigerato “mostro” che dimorava nei cieli in tempesta.

Un predatore inarrestabile che solcava tra le nuvole, pronto per cacciare e bramare la disperazione e la vita della sua amata se non sventurata preda.

Una prospettiva davvero macabra e raccapricciante.

Alcuni bambini più grandi cercarono di rincuorare e far calmare gli animi irrequieti degli infanti, in balìa nella più totale paura, sebbene quel brutto temporale non rendeva la loro impresa molto facile.

Il tuono ritornò, ancora, sempre più minaccioso.

Rimbombò.

Rimbalzò.

Rotolò cupo.

Poi tutto tacque.

Quel suono così sconcertante si perse man mano con il vento impetuoso e la pioggia battente, ma la potenza di quel tuono fu talmente devastante da avvertirne, ancora, la presenza.

Mentre la terra era ansante, livida, come in sussulto, e il cielo ingrigito e con i segni dei squarci tra le nuvole, una luce bianca più suffusa e silenziosa apparì.

E sparì, d’un tratto.

Come in un battito di ciglia.

Un lampo illuminò nuovamente i nuvoloni e, per una frazione di secondo, anche la pioggia.

Non ci furono altri tuoni, nemmeno i rimbombi tra le nuvole ma il temporale non cessò.

Sembrava che il cielo stesse piangendo.

Fuori c’era aria di tristezza, di malinconia e di frustrazione allo stato puro.

Tuttavia, c’era una gran tempesta anche nel cuore di una piccola fanciulla dai corti ed indomabili capelli rossi, un tempo energica e solare, ora ridotta a soffrire una tragica perdita.

 

Povera anima in pena.

 

Era circondata dal buio, come se si fosse ritrovata nelle viscere dell’abisso, con i brividi del freddo a farle compagnia nella sua solitudine.

Poteva sentire tutto quel dolore, quella tristezza e disperazione penetrarle prepotente nella pelle.

Rabbrividiva ogni volta che quelle sensazioni spiacevoli scavavano sempre più affondo, portando gelo nei suoi muscoli, nel suo sangue e nelle sue ossa.

 

Odiava con tutta se stessa quel malessere che, pian piano, la stava uccidendo dentro e non poteva fare a meno di provare paura.

Sebbene avesse tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo, sapeva bene che se li avesse riaperti, il buio l’avrebbe riaccolta tra le sue braccia.

Nessuno l’avrebbe salvata dalle tenebre.

 

Don.

Gilda.

La mamma.

Ray.

 

Nessuno di loro.

 

Nemmeno lui.

 

Era sola.

 

Tuttavia, una voce nella sua testa le aveva intimato di sbattere le palpebre, di combattere contro il mostro che dimorava nell’oscurità a testa alta e di farsi coraggio nelle situazioni disperate.

 

Una voce calma, gentile e cristallina.

 

“Va tutto bene, non arrenderti Emma… mai.”

 

Un sorriso di rammarico delineò la piccola bocca rosea.

 

Solo lui poteva dirle una cosa del genere.

 

Strinse le palpebre con tutte le sue forze e, lentamente, riaprì gli occhi.

Sul comodino, la luce fioca della candela ardeva silente sciogliendo poco a poco la cera bianco latte.

Non le trasmise molto calore, ma illuminò in parte sia la sua stanza e il suo viso bianco e provato, qualche ciocca dei suoi capelli e le maniche del suo maglioncino bianco panna.

Le iridi verdi, prima vispe e curiose, erano circondate da un velo di occhiaie e i suoi occhi guardavano assenti e privi di calore la candela.

Ingoiando lentamente e con profonda tristezza quel groppo in gola, le venne un grande senso di nostalgia.

Una lacrima solitaria bagnò una sua guancia, arricciando di tanto in tanto il naso piccolo e fine.

 

-“Non… non è la stessa cosa se non ci sei tu…”

 

All’inizio adorava vedere quella flebile luce rosso-arancio che la proteggesse dal buio della notte, mentre leggeva con lui alcuni libri sul mondo esterno, avvolti nelle coperte come una culla materna.

Ricordava che quando era solo un soldo di cacio, faceva fatica a prendere sonno e andava sempre dal suo caro migliore amico.

Con gli occhi azzurri che brillavano come gemme preziose, il rossore che andava in forte contrasto con la pelle nivea e i capelli chiari, quasi bianchi,  e il sorriso sulle labbra, l’aiutava a sognare ad occhi aperti e a sentirsi meno sola.

Ogni volta che Emma rimuginava su qualcosa o era in sovrappensiero, lui era sempre lì, al suo fianco.

 

Non c’era mai stato un momento in cui loro due non fossero insieme e il solo pensarci la faceva rabbrividire terribilmente.

 

Sentiva la mancanza della sua mano che stringeva dolcemente la sua, per tranquillizzarla da ogni pensiero negativo.

Sentiva la mancanza del suo sorriso morbido e caldo che le infondeva coraggio e sicurezza.

Sentiva la mancanza della sua risata cristallina e composta ogni volta che la rossa combinava qualche marachella con gli altri bambini della Grace Field House.

 

Trattenne a stento un singhiozzo.

 

“Perché… perché non hai ascoltato me e Ray quel giorno?”

 

Seduta appena con il cuscino a farle da supporto e facendo attenzione a non fare movimenti bruschi con la sua gamba ingessata, stringeva a sé una lettera bianca con fare protettivo.

Aveva alcuni segni dai quali si poteva dedurre che, in precedenza era stata piegata accuratamente.

Temeva di rovinare ogni volta il suo contenuto e dovette trattenersi, anche se invano, per non piangere altre lacrime.

Odorava di carta ed inchiostro, eppure, seppur in maniera lieve sentiva il suo profumo.

 

Non poteva permettersi di perdere un tesoro così prezioso ed importante in quella stanza, così spoglia e priva di colore che era stata, ormai, la sua prigione nelle ultime tre o quattro settimane.

 

Stava perdendo la cognizione del tempo, pensò Emma.

Non era per niente un buon segno.

 

Senza che se ne rendesse conto, diede voce ai suoi pensieri più intimi in un sussurro, come se qualcuno potesse ascoltarla in quel silenzio tombale.

 

-“Cosa devo fare, secondo te? Ho così paura di questa situazione… Ray non è molto d’aiuto.

Da quando… la Mamma ti ha spedito, lui non è più lo stesso...”

 

E nemmeno io, pensò lei.

 

Sospirò stanca.

Lacrime amare bagnarono lentamente le sue guance morbide, ormai diventate rosse e gonfie, per via delle sue lunghe notti a sfogarsi con pianti muti e soffocanti.

Don e Gilda avevano provato di tutto per far alleviare, anche se di poco, quel grosso macigno che la stava lentamente logorando dall’interno; ma ahimè, tutto era stato vano.

La ferita al cuore continuava a sanguinare ininterrottamente ed era troppo profonda per essere curata a dovere.

 

Faceva male.

Molto.

In confronto alla gamba fratturata, non era niente.

 

La situazione peggiorò drasticamente quando la sera precedente, nel cuore della notte, Emma ebbe un incubo.

Era talmente spaventoso e raccapricciante che rimase sveglia fino al mattino; sconvolta com’era, non ebbe il coraggio di riaddormentarsi.

La lanterna fu, forse, l’unica presenza positiva in quella situazione terribile, aiutandola a rimanere lucida e vigile per qualsiasi mossa avventata.

Mai aveva avuto degli incubi così tetri e sconvolgenti come quello.

Prima di scoprire la “vera” natura dell’orfanotrofio, della sua amata “casa”, dormiva sempre sogni tranquilli e capitava che di tanto in tanto sognasse cose innocue e di poco conto.

Non ricordava nitidamente ogni suo sogno, anche perché non dava loro molta importanza, ma la maggior parte avevano, come filo conduttore, quella di seguire una rotta.

Il luogo dove avveniva il tutto era uno spazio bianco, spoglio e privo di ogni colore e calore esistente.

 

Se non per un sottile e lunghissimo filo rosso.

 

Man mano che seguiva quel percorso, assisteva come una persona esterna i momenti più felici e spensierati della sua infanzia: esprimere ingenuamente il desiderio di cavalcare una giraffa, giocare ad “acchiapparello” con i suoi numerosi “fratelli”, aiutare la Mamma ad accudire i bambini più piccoli di sei anni o addirittura giocare a scacchi con i suoi due migliori amici.

Tuttavia, quando il filo la condusse nei meandri più profondi e bui della sua mente, capì subito una cosa.

 

Da lì in poi, niente sarebbe stato più lo stesso.

 

Poteva provare a cambiare la direzione, spezzare il lungo filo e girare a vuoto nello spazio bianco o tracciare una rotta quante volte voleva, ma non sarebbe cambiato niente.

Lei sarebbe ritornata sui suoi passi.

Sempre.

Non poteva sfuggirne.

Ogni qualvolta faceva di testa sua, la voce della Mamma la perseguitava senza sosta.

Non poteva vederla o percepire la sua presenza, ma sentiva il suo sguardo malvagio costantemente addosso, facendole provare nausea ed oppressione.

Si sentiva in trappola.

Alcune volte ripeteva  varie  frasi di ammonimento, come “arrenditi” o “ non puoi sfuggirmi”; in altre occasioni si limitava soltanto a dire il suo nome.

Ogni volta che sentiva le sue parole suadenti quanto terrificanti invaderle le orecchie, pregava di non trovarsela mai faccia a faccia.

Ringraziava ogni figura esistente che conosceva per non trovarsi lo sguardo glaciale e violetto di Madre Isabella, ma al suo posto le aspettava di peggio.

 

Molto di più.

 

Ricordava che i primi incubi le avevano lasciato un grosso senso di paura ed ansia.

Vedeva la se stessa di appena cinque anni e, attorno alla rossa, c’erano le ombre dei bambini spediti tempo addietro, che le sussurravano come in preghiera una canzone triste e malinconica.

Si ricordò i nomi dei bambini che aveva conosciuto qui ed erano usciti dal grande cancello, senza fare mai più ritorno.

 

Olivia.

Robert.

Susan.

Gary.

James.

Cedy.

Hao.

 

Tanti nomi.

Tanti visi innocenti.

Tanti sogni infranti.

Poi c’era il cadavere della piccola e tenera Conny che, con la pelle grigiastra, gli occhi vuoti e spenti e l’espressione di puro terrore prima della grande tragedia, cresceva un intera colonia di fiori rossi scarlatti da sembrare sporchi di sangue.

Le radici di quella dannata pianta avevano scavato talmente a fondo in quel corpicino esile da diventare un tutt’uno con esso.

Braccia.

Gambe.

Persino alla testa e ai bulbi oculari.

Era ovunque.

L’era parso di sentire la sua voce per un momento, non era molto sicura, ma giurava di aver udito una parola fuoriuscire dalle sue labbra.

 

Aiuto.

 

La prima volta che sognò la figura inanime della bambina, Emma capì sulla propria pelle cos’era la paura.

Ricordò che aveva avuto il spasmodico bisogno di correre in bagno e rimettere tutto quello che aveva mangiato fino a quel momento, tremava così tanto che aveva difficoltà a reggersi sulle sue gambe.

Aveva ancora quell’immagine inquietante nella propria mente, come il flash di una macchina fotografica.

Nonostante avesse accettato la sua morte e fatto l’impossibile per non farsi travolgere dalla disperazione, Emma ci mise dei giorni a realizzare che le mura della Grace Field House non la proteggevano più da ogni pericolo, ma che erano in realtà la sua “prigione”; vivendo nell’attesa di essere la prossima come tributo a quei mostri famelici.

 

Ma, questa volta, la situazione era ben diversa.

 

Non era solo una visione dentro il sogno, era molto di più.

Era la personificazione del Male in persona.

Più malvagia della Mamma.

Più ostile dei Demoni.

Era lui.

Il Buio.

 

Il peggiore di tutti.

 

Un ombra oscura  dagli occhi iniettati di sangue mangiava le persone che amava senza un briciolo di pietà o misericordia, con i suoi lunghi artigli e la bocca circondata da denti aguzzi ed affilati lo rendevano una creatura terrificante.

Sinistra.

Macabra.

Non risparmiava nessuno.

Nella sua scia nera e, a tratti, viscosa, c’era odore di morte e disperazione.

Il mostro non rivolse mai parola alla ragazzina, nemmeno quando strappò via la vita ad un altro essere umano, se non una sola volta; la sua voce era profonda e rauca, sibilava con la lingua biforcuta ma riuscì comunque a distinguere una frase.

Non era per niente rassicurante.

 

“Arrenditi Emma, non puoi salvare tutti quanti…”

 

Intorno a lei c’erano i corpi esamini di tutti i bambini che conosceva,  grondanti di un liquido scuro ed appiccicoso all’altezza del petto e la loro pelle era pallida come un lenzuolo.

Soffocò a stento un singhiozzo ed era quasi sicura di essere prossima a vomitare tutto quanto, compreso l’anima.

Voleva piangere.

Disperarsi.

Correre.

Urlare.

Lei voleva fare qualunque cosa gli passasse nella testa, eppure era rimasta immobile.

Guardava, impotente e sconcertata, quello che stavano vedendo i suoi occhi, emettendo vari suoni gutturali dalla gola secca.

Era uno spettacolo raccapricciante.

Scosse energicamente la testa schiaffeggiandosi con i palmi aperti il viso bianco.

Riprenditi, pensò lei.

 

Era solo un incubo.

 

Tutto questo non era reale e di questo Emma era perfettamente consapevole.

 

 “Mantieni la calma e il sangue freddo.

Proprio… come faceva lui.”

 

Ebbe un flashback di quando era bambina.

Ricordava che dopo aver avuto un brutto sogno e non voleva saperne niente di dormire nella camera da sola, Norman era restato accanto al proprio letto.

All’inizio gli stringeva il braccio, spaventata, implorandolo di non lasciarla andare, tentando miseramente di non piangere.

Tuttavia, lui trovava sempre il modo di calmarla e rassicurarla facendole anche credere di essersi crucciata per un nonnulla.

Ricordò come le aveva stretto la mano, delicatamente, con le sue carezze gentili e rassicuranti, percependo un tepore piacevole alle dita.

Ricordò come  la guardava intensamente con i suoi grandi occhi azzurri, così colmi di affetto e sicurezza che sembrava un anima pura e purpurea.

Ricordò come le sorrideva dolcemente, con profonda premura e calore, a quella bambina così impaurita ed innocente.

 

“Stai tranquilla, è solo un brutto sogno.

La paura può farti suggestionare… ma ricordati che non può controllarti, Emma.

Perché  hai il pieno controllo di te stessa, decidi tu quando è il momento di dire la parola “fine”.

Qualsiasi pericolo ti si presenterà davanti, verosimile o no, ti sveglierai.”

 

Quella volta, Norman l’aveva fatta sentire al sicuro, le sue parole andarono dritte al suo cuore e Dio solo sa quanto Emma fu grata e riconoscente nei suoi confronti.

Mai si sentì così leggera e libera da ogni preoccupazione.

Conservava quel ricordo come se fosse un tesoro prezioso, ripetendo quelle parole come se fossero il suo stesso mantra.

 

Non aveva nulla da temere.

Niente poteva farle del male.

 

Non poteva avere paura o farsi suggestionare dai brutti sogni, no?

Era lei che aveva il controllo del suo subconscio, bastava solo svegliarsi, giusto?

Si morse un labbro.

 

E allora perché non riusciva a svegliarsi?

 

Le sue gambe non smisero neanche per un attimo di tremare per la troppa paura e shock.

Era troppo spaventata per muoversi.

Troppo lenta ad agire.

Troppo codarda.

C’erano tutti quanti.

Tutti.

Compreso lui.

Il suo amato e più caro migliore amico.

 

-“No… Nor… man.”

 

Aveva giurato di aver sentito il suo cuore fermarsi di colpo e rompersi in mille pezzi, come cenere al vento.

Soffocò un urlo disperato alla vista dei suoi occhi azzurri, così vitrei e brillanti, divenire man mano sempre più opachi e spenti.

La ferita che aveva al petto era bella profonda e, al centro di esso, era presente quella pianta con i suoi inconfondibili petali rossi scarlatti, la stessa che aveva preso la vita della piccola Conny.

La stessa, dannata, pianta che la perseguitava nei suoi incubi da troppo tempo.

 

“Perché lui…”

 

Quando gli fu vicino, strinse l’albino tra le sue braccia tremanti temendo di fargli male, fregandosene di avere i vestiti zuppi d’acqua, e man mano che affondava il capo sulla sua spalla, la vista le si offuscava sempre di più, così tanto da non riuscire a distinguere bene se avesse sempre avuto la pelle così nivea e profumata o fosse sempre stato freddo come la morte.

Se solo avesse ritardato un momento di più la sua spedizione, Norman non sarebbe morto.

Se solo avesse avuto più tempo per trovare una strategia migliore in quell’occasione, Norman non si sarebbe spinto così lontano.

Se solo lei non si fosse fatta male alla gamba, tutto questo non sarebbe mai accaduto.

Era tutta colpa sua.

Ci mise del tempo per formulare una frase di senso compiuto, complice lo shock, la consapevolezza di non averlo protetto fino alla fine e il peso che le attanagliava il cuore ormai frantumato e sanguinante.

Tremava così tanto che non riuscì nemmeno a sentire la sua stessa voce.

 

-“M-Mi avevi promesso che, saremmo fuggiti tutti…

Non lasciarmi, t-ti prego…”

 

Sperava di poter sentire nuovamente la sua voce, di rivedere il suo dolce sorriso e di percepire il suo tepore riscaldargli l’anima.

Ma non accadde niente di tutto ciò.

Il silenzio regnava sovrano in quel luogo così angusto e tetro.

Gli unici rumori che sentì furono il scrosciare dell’acqua torrente, i suoi stessi singhiozzi, il respiro che si faceva sempre più irregolare e il fruscio dei capelli rossi che si mescolavano con quelli bianchi di lui.

Non badò nemmeno più alla presenza del mostro che, quatto quatto, si stava avvicinando alle sue spalle pronto a divorarla in un solo boccone.

Non aveva più importanza.

L’aveva perso.

Lei aveva perso.

 

Fu allora che urlò.

 

L’incubo che aveva fatto quella notte l’aveva scossa così profondamente da lasciarle una grossa cicatrice al cuore.

Quando il sole calava giù e la luce scompariva come un fuoco flebile, lasciando al suo posto la luna e il cielo buio, aveva il costante terrore di chiudere gli occhi e di rivedere, ancora una volta quella scena.

Le era capitato un paio di volte di fare quel sogno, ma, in cuor suo, si augurava che il maledetto mostro situato nell’oscurità non bussasse mai più alla sua porta; sperava che non le rinfacciasse più quanto fosse stata impotente e debole per non essere riuscita a salvare la persona che teneva di più al mondo.

  

-“…perché mi hai lasciata indietro?”

 

Strinse più forte la lettera a sé.

Ogni sera, prima di andare a dormire, Emma leggeva la sua lettera, il suo ultimo dono prima di sparire definitamente da Grace Field House.

Era il suo più grande tesoro, l’unica cosa che gli ricordasse del loro legame e l’unico appiglio per non cedere del tutto alla disperazione.

Si era promessa più volte che sarebbe stata più forte e coraggiosa per lui, che avrebbe seguito alla lettera il piano di evasione e che, cosa più importante, avrebbe fatto l’impossibile per salvare tutti i bambini della Fattoria.

Aveva giurato a se stessa che non avrebbe reso vano il suo sacrificio.

 

Se avesse anche solo pensato di rinunciare a tutto, avrebbe rivisto ancora una volta il momento in cui Norman era sparito oltre quella porta, con un sorriso buono e luminoso come una splendida giornata di sole, ma che nel profondo del suo cuore sapeva di star andando incontro al braccio della morte.

Molte domande le sorsero spontanee nella sua mente e alcune di queste portarono una grande angoscia nel suo animo.

 

Cosa cercava di ottenere fermandola nel suo inutile tentativo di fuga?

A cosa stava pensando quando aveva cercato di sfiorarle il viso?

Perché la guardava come se non avrebbe mai più visto la luce del sole?

Perché le aveva riservato quel sorriso amorevole nonostante gli tremasse così tanto la voce?

 

Aveva pensato e ripensato più volte sul perché avesse agito in quel modo, ma per quanto si sforzasse, Emma non trovò mai la risposta che cercava.

Eppure sentiva che c’era sotto qualcos’altro.

Qualcosa di più grande di lei.

Qualcosa di più profondo.

Ma non aveva la vaga idea di cosa potesse essere.

Era di nuovo in un vicolo cieco.

Frustrata e disperata, non sapeva più dove sbattere la testa, e tutto quello che poteva fare era, quindi, restare ferma sopportando in silenzio il dolore della gamba che, fortunatamente, era in via di guarigione.

A volte, c’erano certe notti che non riusciva a dormire e, ogni volta che ripensava a lui, singhiozzava per soffocare il dolore nel suo cuore che, lentamente, si frantumava nuovamente in mille pezzi.

 

Non poteva andare avanti così.

 

Doveva reagire, altrimenti quelle sensazioni cupe e tristi non solo l’avrebbero fatta soffrire il triplo del normale, ma l’avrebbero anche portata a compiere azioni gravi, fino a farsi del male.

Doveva capire cos’era quel sentimento che le toglieva il respiro, il sonno e la ragione.

Doveva fare qualcosa che l’aiutasse a pensare razionalmente e trovare una via d’uscita.

Costi quel che costi.

Il suo subconscio le intimava di voltare pagina, accettare che ormai Norman l’aveva lasciata andare e di continuare con Don e Gilda i preparativi della fuga.

Inoltre, doveva ancora risolvere una faccenda in sospeso e il solo pensarci le saliva il magone in gola.

 

Emma doveva tenere d’occhio Ray nel caso commettesse una stupidaggine prima del giorno del suo compleanno, il 15 Gennaio.

Lo aveva visto  raramente fuori dalla struttura insieme agli altri bambini, se non in biblioteca o in camera sua, e le poche volte in cui s’incrociavano tra le mura di quella prigione a stento le rivolgeva la parola; ma poteva percepire chiaramente la sua sofferenza sulla propria pelle.

Erano state molte le occasioni in cui voleva parlargli, eppure non poteva assolutamente destare sospetti, sia a lui che alla Mamma, del suo “vero” obbiettivo.

Dovevano credere che non voleva più fuggire e che ormai aveva accettato la cruda ed amara verità che, presto, sarebbe arrivato il suo turno al braccio della morte.

Non si faceva notare molto, ma sapeva che lei la stava osservando.

Qualsiasi sua mossa, anche la più banale.

Avere gli occhi della Mamma costantemente addosso non era di certo un toccasana per la sua salute mentale, eppure, il “non far niente” era l’unica soluzione accettabile in quella situazione ostica.

Quando sapeva di essere sola in infermeria e che nessuno la stava osservando nell’ombra, si concedeva un lungo e sonoro sospiro stanco stendendosi sul gran lettone.

Si sentiva così stanca emotivamente e psicologicamente che aveva il forte impulso di urlare contro il cuscino.

Ma in qualche modo, riusciva a tenerle testa.

 

-“Lui sapeva sempre come comportarsi nelle situazioni complicat-”

 

Scosse il capo.

 

Si diede mentalmente della stupida quando ebbe un flash del suo viso candido, i suoi occhi lucenti e del suo dolce sorriso.

Una lacrima.

Poi un’altra.

Un’altra ancora.

E ancora e ancora, fino a piangere del tutto con il viso paonazzo e gonfio.

 

Bel colpo, pensò lei.

 

Ma chi voleva prendere in giro?

Nel profondo del suo cuore, non voleva assolutamente smettere di pensarlo.

Da quando posò i suoi occhi sui suoi e gli aveva parlato per la prima volta in quel lontano inverno in cui si ammalò,  aveva capito fin da subito che quel bambino era “diverso” dagli altri.

Era sempre nei suoi pensieri, tristi o belli qual’erano.

Lui è sempre stato diverso.

Unico.

Speciale.

 

-“Quello che… quello che avevamo era bellissimo, Norman.

Tu mi avevi detto che dovevo sorridere… m-ma non ci riesco, se non ci sei tu. Perdonami se non ho fatto abbastanza…”

Un piccolo sorriso delineò le sue labbra sottili, tremando di tanto in tanto, nel mentre accarezzava dolcemente la lettera.

Le capitava di tanto in tanto di vedere un apparizione del ragazzino e che riuscisse anche a sfiorargli il volto, seppur di pochissimi secondi.

Nonostante lui non le rivolgeva spesso la parola, si limitava ad ascoltarla e quest’ultima gli parlava piano, quasi in sussurro, di come provasse fatica a vivere una giornata comune senza di lui, di come i bambini giocavano e ridevano come solo loro potevano fare, di come la Mamma la stesse tenendo d’occhio e di come Gilda e Don stavano gestendo l’addestramento senza intoppi.

Rise con rammarico.

Forse stava impazzendo, dato che vedeva il suo fantasma; forse non si sarebbe mai più ripresa da quell’episodio, ma ormai non aveva più importanza.

Sebbene Emma fosse ancora nell’idea di portare tutti i bambini fuori dalle mura della Fattoria e fuggire dalle grinfie di quei mostri quali i demoni e la Mamma stessa, temeva di crollare nuovamente giù, pur sapendo che non c’era più l’albino a supportarla.

La sua sola presenza l’aiutava a vedere le cose sotto un’altra prospettiva, ad andare avanti per la sua strada e, in alcuni casi, persino ad oltrepassare i suoi limiti;  certo, l’aveva avvertita a non fare azioni sconsiderate, o addirittura pericolose, se c’era di mezzo la sua incolumità, eppure con lui sentiva che era in grado di affrontare qualsiasi ostacolo le si presentasse davanti, anche il più intricato e misterioso.

Ora più che mai, aveva bisogno di lui.

Le sue dita scivolarono sulle prime tre parole della lettera notando quella virgola nel mezzo della frase e ogni qualvolta i suoi occhi verdi si posavano su quel piccolo particolare, le partivano mille brividi dietro la schiena con un incontrollabile tremore alle mani e al cuore che minacciava di uscirle dal petto.

In una situazione normale non ci avrebbe dato troppo peso; eppure sentiva che dietro a quel messaggio, Norman le stava comunicando qualche significato nascosto.

Un qualcosa di profondo ed intimo.

L’aveva, forse, fatto apposta?

Non poteva saperlo con certezza.

Quel piccolo segno nero sulla superficie bianca aveva consumato le sue lunghe notti tenendola occupata con i suoi pensieri; con una virgola, aveva scritto questo.

-“Mia carissima, Emma…”

Le poche volte in cui aveva pronunciato a voce quelle tre parole, aveva sentito il suo stesso cuore fare un salto mortale, il suo viso colorarsi di rosso di tanto in tanto, le labbra tremolare e quella sensazione costante che da lì a poco avrebbe perso i sensi.

Era tutto così… surreale.

Estraneo.

Perché le faceva questo strano effetto?

Mentre rileggeva la lettera, notò qualcosa di nuovo nella carta, più precisamente sul fondo del paragrafo dove l’albino le raccomandava di seguire il piano di evasione con la giusta tempistica, ovvero tra due mesi, e di non avere fretta fino a quando non sarebbe arrivato il giorno designato.

Aguzzò meglio la vista.

Sebbene la luce della candela stava diventando sempre più flebile e le ciglia che le pizzicavano fastidiosamente le palpebre, riuscì a notare delle linee tratteggiate percorrere paragrafo dopo paragrafo.

Trattene il respiro, presa alla sprovvista.

Poteva riconoscere un Codice Morse anche ad occhi chiusi.

Dopo aver decifrato non so quante volte gli Ex Libris di William Minerva, aveva imparato a distinguere varie parole e frasi ma questa era in assoluto la prima volta che vedeva dei tratteggi così lunghi e frammentati.

La ragazzina aveva individuato alcune parole a lei familiari quali “volontà”, “aspettare”, “amore” e “proteggere”; il che la portò a rizzarsi con la schiena, emettendo un gemito di dolore visto che aveva mosso in maniera brusca ed improvvisa la sua gamba ingessata.

 

-“Ma questo…”

 

Sgranò le iridi verdi sorpresa.

Era forse questo il messaggio di cui Norman voleva che lei cercasse?

Cosa poteva mai esserci scritto?

Erano altre istruzioni della grande fuga?

O erano informazioni top secret che era venuto a conoscenza dalla Sorella Krone, prima di sparire?

Aveva mille domande che le frullavano nella sua testolina rossa, ma di certo osservando solo quel pezzo di carta per un infinità di tempo non avrebbe di certo compreso il messaggio.

Si allungò verso il comodino posto al suo fianco, aprì un cassetto trovando sia alcuni fogli di carta e una penna a sfera dall’inchiostro nero.

Senza ulteriore indugio, arraffò il bottino e quando controllò la gamba fasciata che fosse perfettamente al suo posto, vi posizionò sopra un foglio di carta e la penna.

Ringraziò mentalmente la piccola Yvette, una delle bambine più piccole dell’istituto, per averle lasciato quei doni utili quanto essenziali.

Osservò intensamente il Codice Morse e impugnando con decisione la penna, si mise subito all’opera.

 

“Va bene, Norman. Cosa vuoi dirmi?”

 

Finalmente, il temporale era andato via, lasciando al suo posto un cielo scuro con un mare di stelle così luminose e purpuree da far sparire anche la paura dei tuoni e della pioggia battente che, finora, si era abbattuta su di loro.

C’era un odore pungente di umidità e dell’erba bagnata e  seppur in lontananza, si sentì il canto di un grillo echeggiare nella notte.

Trascorsero varie ore in cui Emma cercò di decifrare il Codice Morse parola dopo parola e nel mentre la stanza diventava sempre più buia e la candela, ormai prossima a spegnersi definitamente, il ticchettio dell’orologio segnavano le due di notte passate.

Con il cuore che gli martellava incessantemente al petto e le guance che andavano man mano a colorarsi di rosso, diventando un tutt’uno con i suoi capelli, finì l’ultimo paragrafo.

Quello che scoprì  in quella lettera, la lasciò letteralmente senza parole.

 

“Ascoltami, Emma, c’è una cosa che avrei dovuto dirti da tanto tempo…

In circostanze normali, sarei stato disposto ad aspettare fino ad arrivare a quel giorno tanto atteso; quello in cui ci saremmo rivisti fuori dall’orfanotrofio, più adulti, rivelandoti quel segreto che per anni ho custodito con tanta premura.

Adesso… la situazione è diversa.

Ieri notte, ho dovuto mentirti per far sì che, né tu né Ray, foste i prossimi per la spedizione.

So a cosa stai pensando, non avrei dovuto farlo, questo è vero, e so che questa mia decisione ti abbia turbata ulteriormente;

come per Ray, anche tu sarai libera di odiarmi e urlare quanto io sia stato sciocco… ma ti prego, credimi se ti dico che ho agito così per una ragione.

L’ho fatto per proteggere le due persone più importanti della mia vita: il mio migliore amico e… la ragazza di cui provo un affetto “particolare”.

Non avrei lasciato assolutamente che la Mamma vi facesse del male, ancora una volta.

Se solo quel giorno fossi stato abbastanza coraggioso, avrei potuto affrontarla a testa alta, magari ferendola per guadagnare tempo.

Se solo quel giorno fossi stato abbastanza forte, avrei potuto farti da scudo, evitando quella ferita alla gamba.

Ho fatto un errore, ho esitato e il prezzo da pagare è stato vederti urlare di dolore mentre la Mamma… il solo pensarci mi si spezza il cuore.

Perdonami Emma.

Nonostante stessi cercando una soluzione per tenerti al sicuro, hai sempre cercato di proteggermi e di batterti con tutte le tue forze affinché non fossi spedito in missione.

Non te l’ho mai detto, ma tu mi sorprendi ogni volta.  

Mi hai sempre infuso coraggio e forza di volontà nei momenti più bui e tristi, anche quando ho avuto il timore di non farcela.

Nonostante fossi cagionevole di salute, mi sei sempre stata accanto, stringendo la tua mano nella mia e dedicarmi tutti quei sorrisi radiosi.

Ti ricordi quando, in pieno inverno, mi presi un bel raffreddore e rimasi in quarantena affinché guarissi completamente?

Potevi scegliere di stare con gli altri bambini dell’orfanotrofio, giocare alla battaglia con le palle di neve e divertirti, non avrei potuto biasimarti, eppure… tu hai scelto di rimanere con me.

Più volte hai cercato ad intrufolarti di nascosto in infermeria, beccandoti molti rimproveri da colei che era la nostra “Madre”,  solo per parlarmi e non lasciarmi da solo.

Conservo ancora il telefono a spago che mi desti quella volta, mi ci sono affezionato talmente tanto che temevo di romperlo… l’ho porterò con me, per sempre, perché mi hai fatto un dono prezioso.

Da quel giorno, mi hai cambiato la vita.

Hai illuminato le mie giornate con il tuo sorriso radioso, i tuoi capelli rossi sempre arruffati, i tuoi occhi verdi espressivi e la tua risata energica.

Ho perso il conto di quante volte tu mi abbia aiutato e protetto nel corso degli anni e non ti ho mai ringraziato abbastanza per questo.

Stando al tuo fianco, mi sentivo forte e sicuro di me, come se potessi risolvere il più intricato dei misteri, come se mi sentissi il re del mondo.

Ora è arrivato il mio turno.

Emma, è solo grazie a te se ho potuto continuare a sorridere, nonostante la paura e il dolore.

Tu… sei l’unica ragione per cui riesco a sorridere anche adesso.

Per anni, ho continuato a provare queste emozioni estranee ma che mi facevano stare bene nel profondo, ogni volta che ti guardavo negli occhi, sentivo la tua voce e ti sfioravo la mano… fino a quando non ho compreso una verità importante; sul perché mi facevi battere così forte il cuore fino a scoppiare, sul perché m’imbarazzavo quando ti stavo troppo vicino o sul perché ci tenevo tanto a non mostrarti goffo ed impacciato ai tuoi occhi.

Quello che provavo fin da piccolo, e che tuttora provo, è amore.

Proprio così, mi sono innamorato.

E dietro a tutto questo, c’eri tu.

Ci sei sempre stata tu.

Quel sentimento ha continuato a crescere e a crescere, senza che me ne rendessi conto e quando sono arrivato a quella conclusione, ti ho guardato sotto un’altra prospettiva.

Tu sei come un girasole: sei fedele a te stessa, segui con perseveranza i tuoi obiettivi, sprigioni positività da tutti i pori e non ti dai mai per vinta.

Ho sempre provato ammirazione e rispetto sia per il tuo carattere che per la tua forza interiore… adesso ho finito nell’innamorarmene quasi perdutamente e, a essere onesti, non posso far altro che dirti… grazie.

Grazie per essere te stessa, Emma.

Sono stati tanti i momenti in cui pensavo di confessarti tutto… tuttavia la mia parte più razionale mi ha impedito di fare ciò; pensando che fosse ancora troppo presto per parlartene… o che nei peggiori dei casi, non avresti compreso appieno questi miei sentimenti.

Quando mi sentivo pronto per affrontare quel passo importante, come un codardo mi tiravo, sempre, indietro.

Ogni giorno pensavo alla verità, sospirando amaramente, a quello che sarebbe potuto succedere se tu avresti saputo quello che provavo davvero, nel profondo del mio cuore.

Alla fine… ho deciso di non dirti niente.

Ho tenuto questi sentimenti chiusi in un cassetto, pensando che avrei aspettato tempi migliori per farli uscire.

Ero convinto che prima o poi mi sarei fatto avanti, che mi sarei dichiarato come si deve, sorprendendoti.

Ahimè, il destino mi ha giocato un brutto scherzo.

Quando abbiamo scoperto la verità di questa “fattoria”, superando quel cancello, ho provato sulla mia pelle cosa fosse davvero la paura.

Per la prima volta, in tutta la mia vita, mi si era crollato il mondo addosso.

Tuttavia, realizzando questa verità, il mio pensiero era rivolto subito a te.

Avevo sì paura di morire, ma ho avuto più paura all’idea di perderti… per sempre.

Ed è stato allora che ho fatto un giuramento a me stesso: avrei fatto di tutto per proteggere sia te che quel sorriso luminoso e bello che tanto ho amato disperatamente.

Non ti biasimo se mi odi per averti mentito… ma tu sei sempre stata la mia priorità.

Ero pronto a tutto, anche vendere la mia stessa anima o magari sporcarmi le mani, pur di non vederti morire davanti ai miei occhi.

L’amore non fa distinzioni tra i santi e i peccatori.

Lui prende, prende e prende.

In ogni legame c’è sempre un difetto: abbiamo litigato, ci siamo fatti male a vicenda, abbiamo pianto e fatto i nostri errori.

Ed è per questa ragione che ho voluto starti accanto…

Il mio unico rimpianto è che avrei solo voluto essere abbastanza coraggioso da amarti.

Forse non troverai mai questo messaggio nascosto nella lettera, o magari non comprenderai alcuni passaggi del Codice Morse… ma voglio credere che, in un modo o nell’altro, riuscirai nel tuo intento.

Sii forte, Emma.

Per sempre tuo,

Norman.”

 

Non riusciva a crederci a quello che aveva letto.

Aveva trattenuto così a lungo il respiro che non appena finì di leggere l’ultimo paragrafo, ha avuto un attacco di tosse forte, e ci mise del tempo per riprendere a respirare correttamente.

Non sapeva se si sentisse turbata o sconvolta, tuttavia, se fosse rimasta ancora un’altra mezzora in apnea, sarebbe morta per mancanza di ossigeno.

Cercò di metabolizzare ogni singola parola che le aveva lasciato l’albino in quella lettera, ma il cuore le martellava così velocemente da farle male il petto, impedendola di pensare lucidamente.

 

“Tu… tu mi amavi?”

 

Come se non bastasse, il viso aveva iniziato a scottarle terribilmente tanto e le ciglia le stavano pizzicando fastidiosamente; segno che, tra non molto, sarebbe scoppiata in un mare di lacrime.

Voleva trattenersi, stringere i denti e farsi forza come sempre aveva fatto, eppure  non ce la faceva.

C’era una forza invisibile che le impediva di compiere qualsiasi azione motoria, sentiva le sue parole entrarle prepotentemente nella testa e fu difficile non rimanerne indifferente.

Per la prima volta, in tutta la sua vita, Emma si sentiva vulnerabile.

Indifesa.

Fragile.

E sapeva bene del perché stesse reagendo in quella maniera: nel profondo del suo cuore, anche lei provava questi sentimenti nei suoi confronti.

Ma ahimè, per lei era troppo tardi.

Perse forza nelle mani e la lettera le scivolò tra le dita, finendo sulle sue gambe; aveva avuto il pensiero di riprenderla, ma come provò ad alzare una mano si rese conto di una cosa.

Tremava.

Tremava così tanto che per un attimo, pensò di aver perso il controllo del suo corpo.

La vista aveva iniziato ad offuscarsi ulteriormente quando, per una miriade di secondo, vide lui.

 

Il fantasma di Norman.

 

Era al suo fianco, vicino al letto, che le sfiorava dolcemente una guancia, cercando di consolarla con fare protettivo.

Aveva sempre avuto un tocco leggero e gentile, pensò lei.

Voleva abbracciarlo, gridare quanto fosse dispiaciuta di non essere riuscita a proteggerlo e confessargli che anche lei aveva provato quegli stessi sentimenti al cuore, ma non riusciva a fare niente.

Niente di niente.

L’unica cosa che le era concesso fare, in quel momento, era pronunciare il suo nome.

 

-“N-Norman… tu…”

 

Le si spezzò il cuore vedere i suoi occhi azzurri che la guardavano con profondo amore, il viso niveo in contrasto con  il rossore che gli arrivava da un orecchio e l’altro, tipico di una persona innamorata, e quel sorriso, quel dannato sorriso che l’aveva fatta sentire la persona più felice e spensierata del mondo, tremare debolmente.

Una lacrima.

Poi un’altra.

E un’altra ancora.

 

-“N-non… non l-lasciarmi.”

 

Affondò il viso sulla sua mano, cercando di assimilare sia il suo calore quasi inesistente e la morbidezza del suo palmo, singhiozzando di tanto in tanto.

Era talmente concentrata ad inspirare il suo profumo che non poté vedere due lacrime solitarie bagnargli il volto angelico e le iridi azzurre diventare uno specchio d’acqua limpido, percependo comunque la sua stessa presenza tremolare.

 

-“Sii forte, mio girasole…”

       

La candela aveva deciso di spegnersi proprio in quel momento e prima che realizzasse il tutto, il buio della notte la circondò completamente, urlando con la voce strozzata il nome del suo amato, se non defunto, angelo bianco.

 

 

 

























Angolo dell'autor*:

Mamma mia, avevo dimenticato com'era la vita di un fanwriter/scrittor* :"D
Questa fanfiction doveva uscire ad Agosto... più precisamente a fine mese... solo che ci sono stati alcuni sviluppi imprevisti lol
Ahem, dicevo, sono comunque grat* di averla conclusa questa one-shot perché ci tenevo davvero a produrla; sapete com'è, sia su efp che su wattpad ci sono pochissime ff scritte bene di questa serie... specialmente di due pimpi che amo moltissimo-
Ringrazio il mio duro impegno e la mia beta di fiducia, perché ammettiamolo, senza di lei sono praticamente una merdina a scrivere-
Tornando a noi, ho conosciuto The Promised Neverland un po' più tardi e avrò visto la serie giusto tre/quattro volte perché: le prime due dovevo capire alcune cose della trama e fare zapping tra quello e il manga, la terza era per soffermarmi sulla personalità di Norman aka il mio favorito e la quarta...
Per piangere virilmente quanto sono carini Emma e Norman e di come quest'ultimo sia un S O T T O N E per lei-

 (Anche Ray ha un posto speciale nel mio cuore... però brutto piromane, smettila di attentare continuamente la mia sanità mentale plis)

 Ci ho messo un paio di mesi a raccogliere le idee per una fanfiction e sperare di non uscire troppo nell'OOC con i personaggi, ma hey, ce l'ho fatta :"D
 Btw, vi presento la mia prima ff che da inizio alla raccolta/serie "Letters smell like Sunflower and Freesia", dedicata esclusivamente sulla ship Noremma: Brave Enough.
 Il titolo è ispirato a due fiori di cui vengono associati i due ragazzi, il girasole e la fresia, che ho scelto appositamente per loro perché li vedevo affini non solo nei colori, ma anche nel loro significato simbolico; un giorno vi spiegherò nel dettaglio il loro significato nel linguaggio dei fiori... ma non oggi.
Mentre, il titolo di questa one-shot è ispirato ad una canzone di Linsdey Stirling, per l'appunto, Brave Enough che dietro nasconde una storia romantica che va a sfociare in un brutto finale...
Vi ho già detto che amo l'angst, no? :"D
Btw, forse l'avrete già notato durante la lettura, o forse no, l'oggetto chiave di questa raccolta sarà la lettera di Norman.
V'invito caldamente a tenerlo bene a mente, non per fare l'interrogatorio per carità, perché ci accompagnerà per tutta la serie-
(Forse prenderò in considerazione di fare anche un'altra serie che segue in parallela questa raccolta... ma boh, è ancora da decidere hahahaha)
 Ci tengo anche a lasciarvi un messaggio: i prossimi aggiornamenti saranno molto lenti ed imprevedibili, abbozzerò le shots appena mi sarà possibile, ma più che altro è anche un modo per vedere quanti lettori sono interessati a leggere la raccolta.
 Per il resto, ci si vede per i prossimi aggiornamenti di one-shots, future longs e quant'altro!
Baci,
 Artemìs
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > The promised neverland / Vai alla pagina dell'autore: New Moon Black