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Autore: Shireith    10/09/2020    3 recensioni
Li sentiva chiacchierare, era lì quando paroloni che lui a stento comprendeva sfuggivano alle labbra dei due ragazzi perché quelli disquisivano di omicidi, di casi complessi che l’acume di Shinichi sviscerava con estrema facilità, di formule matematiche che Shiho masticava come fossero argomenti per bambini di prima elementare.
Sorrideva di nascosto, Agasa, quando Shiho canzonava Shinichi e si domandava come fosse
sempre lui ad attirare sventure e criminali ovunque andasse. Allora Shinichi rispondeva, rimbeccandola come si confaceva alla loro intesa, e ridevano. La risata di Shinichi la conosceva bene, Agasa, non gli era nuova – la risata di Shiho sì: fresca, piacevole, cristallina; un suono beato che avrebbe voluto ascoltare in eterno, che avrebbe voluto non si spegnesse mai.
{Shinichi/Shiho ~ NON!canon-compliant}
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Equazioni sbagliate



 Le voci allegre e gli occhi brillanti d’entusiasmo di Ayumi, Genta e Mitsuhiko gli graffiavano il cuore: ogni parola era uno schiaffo, ogni sorriso un pugno allo stomaco.
 Conan era abituato a vestire le scarpe del bambino spensierato che non era, eppure non si unì a loro – era abituato a vestire le scarpe del bambino spensierato che non era, e forse proprio per questo non si unì a loro. Perché non poteva fingere. Perché non poteva ignorare il senso di vuoto che gli s’apriva in petto. Perché non poteva continuare a prenderli in giro.
 Rimase, in disparte, ad ascoltare le speculazioni dei tre su quello che era il futuro – un futuro che per lui non esisteva perché Conan non esisteva.
 Fu Ai a strapparlo ai suoi lugubri pensieri, estraniandosi con lui dal resto del mondo come solo loro due sapevano fare. Nella loro piccola bolla, le voci dei bambini erano un sussurro lontano, parole sconnesse che non assumevano forma né colore. Nella loro piccola bolla, Ai gli rivolse i suoi occhi adulti e parlò piano.
 «È normale che facciano progetti per il futuro, Kudo: sono bambini veri, a differenza nostra, e hanno tutta la vita davanti.»
 Quella menzogna li accomunava da mesi: loro, bambini falsi, non erano come i bambini veri che ancora si perdevano, con gli occhi della fantasia, a percorrere i giorni lontani che li attendevano – Conan non li sentiva più, non voleva, ma sapeva che era così, che loro ancora parlavano. Non se ne accorgevano mai, i bambini veri, quando i bambini falsi si rifugiavano nella loro piccola bolla e insieme condividevano i dolori del loro intimo segreto.
 Un segreto cattivo, doloroso, che quando svelato – perché l’avrebbe svelato, Shinichi, ad ogni costo – avrebbe ottenuto come conseguenza unica e primaria lacrime e singhiozzi.
 Avrebbero pianto, i tre bambini, quand’avessero dovuto dire addio al loro piccolo amico detective che sembrava essere spuntato da un libro d’avventure e misteri? Conan disse sì.
 Avrebbe pianto, Ran, quand’avesse scoperto che il suo Shinichi non se n’era mai andato e anzi era rimasto sempre al suo fianco, nel bene e nel male, nelle bugie (costanti) e nelle verità (assenti)? Shinichi disse sì.
 E – Conan, Shinichi, lui – non pensava ad altro. Alle sue bugie, ai suoi tanti aspettami  enunciati a voce ma mai vissuti a gesti, ai suoi scusa vani e ipocriti, ai suoi tornerò che gl’insaporivano la bocca d’un retrogusto amaro.
 Ran se ne stava zitta. Accettava quelle menzogne fatte di aspettami e scusa e ingoiava i suoi tornerò come un boccone sgradito, reso forse dolce dalla speranza – pallida, remota, eppur speranza – che un giorno quegli stessi tornerò sarebbero divenuti una tangibile realtà. Sperava ancora, Ran, che un giorno Shinichi sarebbe tornato.
 E Conan (bambino falso) non pensava ad altro (Ran).
 «Fanno bene a pensare al futuro.»
 Un sorriso appena definibile tale fu tutto quello che ottenne da Ai; e poi: «Loro che possono, sì.»
 E Conan (bambino falso) pensò ad altro (Ai).
 «Anche noi possiamo.»
 Ai scosse il capo: la faceva sorridere, a volte, la sua ingenuità; un’ingenuità che forse definire speranza era più esatto, perché una mente articolata come quella di Shinichi Kudo non era tanto sciocca da cedere all’ingenuità.
 I bambini veri, figli della loro infanzia vissuta a pieno (perché loro avevano potuto), erano ingenui: credevano al bianco, non vedevano dolore – solo il futuro.
 Il bambino falso, figlio dei suoi diciassette anni, era speranzoso: credeva al bianco, e vedeva sì il dolore, ma anche il futuro.
 E lei, bambina falsa – bambina che non era mai stata – e figlia di niente, non credeva che a quel niente: vedeva il nero, anche se non voleva; il futuro no, né lo vedeva né lo cercava più. Non era né ingenua né speranzosa.
 «Sì, tu sì: nel tuo futuro c’è Mouri-san, d’altronde.»
 E – Shinichi non sapeva – le parole di Ai erano cariche di rimorsi e rimpianti: il suo futuro (di Conan) sarebbe stato del diciassettenne vero, non del bambino falso – perché mai Ai gli avrebbe permesso di arrendersi di fronte a una vita che non gl’apparteneva, a una vita che sapeva di morte.
 Il bambino falso, di cui lei era colpevole, l’avrebbe fatto sparire.
 «E tu?»
 «Io cosa?»
 «Tu non ce l’hai, un futuro?»
No.
 «Non lo so.»
Ti sembra abbia futuro?
 «Non ci ho mai pensato.»
 Il futuro per lei non esisteva; né per la bambina falsa, né per la diciottenne vera.
 Il futuro non esisteva ed era colpa del passato che gliel’aveva strappato – i suoi genitori, Akemi, qualsiasi cosa possa esser definita vita. Eccolo, il suo futuro: vuoto come il cuore, nero come i ricordi.
 Il futuro, eppure, la tormentava ogni notte.
 Il futuro, tuttavia, non erano i bambini veri: potevano essere parte del suo futuro, ma non il suo futuro.
 Il futuro non era nemmeno il bambino falso – eppure avrebbe voluto.
 «Un giorno ci penserai, Haibara, vedrai.»
 «Forse» – disse forse, pensò no.
 
«Ce l’abbiamo fatta, Kudo.»
È finita.
Tu sei vivo, e sei Shinichi.
Puoi tornare da lei.
 
 Nero – l’inchiostro del cielo spoglio di puntini bianchi accolse gli occhi smarriti di Shiho, ma nemmeno allora lei trovò pace. Osservò Shinichi di soppiatto, domandandosi per quale motivo lui, a distanza di un mese, continuasse a tornare da lei. Ignorava le complesse stratificazioni dell’amicizia e si chiedeva se, in fondo, amicizia fosse proprio questo: cercarsi anche quando non si è costretti a farlo da cause di forza maggiore – cercarsi, dunque, perché lo si vuole.
 «Un giorno mi hai chiesto che cos’è per me il futuro.»
 «Me lo ricordo.»
 E se l’era chiesto spesso, in effetti, che cosa fosse per lei il futuro. Che cosa vedevano, quegl’occhi?
 Erano storia, raccontavano del nero; un nero maligno, un nero che per anni aveva inchiostrato pagine malinconiche e sempre uguali. Erano storia, quegl’occhi, e raccontavano di un’esistenza ben più lunga dei suoi diciotto anni, ben più articolata dei primi amori e dei primi sbagli dell’adolescenza.
 Aveva imparato a conoscerli, Shinichi – nel silenzio dei loro sguardi, nell’intimità di quel segreto che li aveva quasi distrutti. Aveva imparato a conoscerli, Shinichi, eppure non era abbastanza.
 Il silenzio non bastava più, l’aveva stancato.
 «E dunque?»
 «Eccolo.»
 Lentamente, Shinichi distolse lo sguardo dal profilo di Shiho – fu difficile, gli piaceva studiarlo come avrebbe fatto con un buon libro – e seguì la linea immaginaria tracciata dai suoi occhi. Osservò il cielo, un mantello scuro e fitto che sembrava minacciare di non cedere mai più alla luce, ma non capì.
 E poi forse sì – no.
 «Akemi?» inquisì piano, un sussurro velato che quasi parve un sogno.
 «È un anniversario importante, oggi.» Il fiato di Shinichi fece appena a tempo a spargersi nell’aria quieta della notte – lei lo interruppe. «Non dire niente, Kudo. Va bene così. Torna da lei, ora: è tardi.»
 E Shinichi obbedì, per qualche ragione. Shiho lo vide rientrare in casa e dal balcone lo osservò allontanarsi finché il sipario buio delle strade non lo inghiottì.
 Eccolo, il suo futuro, quello che avrebbe voluto davvero: si stava allontanando.
 
 Ma quello tornò.
 Un’ora dopo, mentre il quartiere dormiva in silenzio e il russare di Agasa era solo un rumore lontano, appena udibile, eccolo ancora lì. Questa volta, nel laboratorio – dove Shiho si rifugiava, dove tentava di annegare i rimpianti e tutto quello che feriva il cuore.
 «Dimenticato qualcosa, Kudo?»
 «Mi hai mentito.»
 Esitò. «Su cosa?»
Sul futuro.
 «Su Akemi.»
 Un nome.
 Un unico nome che riecheggiò tra le pareti come un ospite sgradito e rimbalzando giunse fino a lei. Shiho allacciò le braccia al seno in un gesto d’evidente disagio – se davvero era paragonabile a un libro, in quel momento Shinichi poté sfogliarne le prime pagine con incredibile facilità.
 «Non ti ho mentito», pronunciò, adagio, Shiho. «È davvero un anniversario importante; non ho specificato di cosa
 «Potevi non lasciarmi tirare conclusioni sbagliate.»
 «L’hai fatto perché non ricordavi il giorno esatto.»
 «Me lo ricordo bene, il giorno», la contraddisse subito Shinichi, parole tanto sofferte che quasi gli s’incastrarono in gola. «Sul momento non ci ho riflettuto, però.»
 La vide scrollare le spalle, poi voltarsi. «E va bene, non devi ricordare nulla. Era mia sorella, non la tua.»
 Shinichi lasciò che le braccia ricadessero inermi lungo il corpo e d’improvviso ebbe l’impressione di essere una statua: immobile, inerme, congelato nel tempo.
 «Io però lo ricordo bene. Rivedo la scena, il sangue – rivedo lei. E non me lo perdono; non ci riesco.»
 «Be’, dovresti. Non è stata colpa tua. Ora che lo sai puoi anche andare.»
 
Vattene.
 
 «Eh?»
Non voglio ricordare.
 
 Rimaneva immobile.
Vattene, ti prego.
 
 «Non c’è bisogno che tu rimanga qui, non stasera
 Il libro si chiuse, rifiutando d’esser letto.
 «Shiho.»
 Ma Shinichi lo riaprì.
 «Un anniversario di cosa, allora?»
 E il libro stette al gioco.
 Le sue pagine gli raccontarono la storia di due sfortunati innamorati e presto quelle pagine divennero capitoli; Shinichi ne colse ogni paragrafo, registrò ogni parola, si soffermò su ogni virgola.
 Apprese dunque la verità: esattamente diciotto anni prima, Elena e Atsushi Miyano avevano incontrato la morte e non erano riusciti a sfuggirle – esattamente diciotto anni prima, il futuro di Shiho aveva iniziato, lentamente ma inesorabilmente, la sua rovinosa caduta.
 E apprese anche un’altra cosa, Shinichi: il futuro di Shiho – quant’era stato stolto – non era il cielo che tutti sognano, quello dove riposano gli angeli e i parenti cari; il futuro di Shiho era sì il cielo, ma quello notturno, quello che di scuro si veste e non lascia intravedere nulla – nero era il suo cielo perché nera era la sua anima.
 «Mi dispiace.»
 Tutto quello che riuscì a dire.
 «Io… io non lo sapevo.»
 Parole, solo parole – parole vane, parole che odiava perché inutili.
 Perché non gliel’aveva detto prima?
 Domanda che subito trovò risposta – perché lui non aveva chiesto, perché per tanto tempo il bambino falso non aveva voluto sapere. Ora però il diciassettenne vero pensava a tante cose (Shiho) e tante altre voleva saperne (Shiho).
 
«Sbaglio o stai bevendo del vino?»
«Abbiamo diciott’anni, Kudo, e i nostri corpi
non sono più regrediti allo stato infantile.»
«Lo so, lo so; solo… lascia stare.
Dammene un po’.»
 
 Perché i bambini falsi erano ormai scomparsi (quelli veri avevano pianto) ed erano un ricordo ormai lontano – un incubo, quello di Shinichi; un sogno che non poteva durare in eterno, quello di Shiho.
 Aveva imparato di nuovo a sognare e per un po’ s’era illusa che i bambini veri (hanno pianto, Shiho, ed è colpa tua) fossero il suo futuro; ma il futuro non si ha cancellando il passato e Ai Haibara non poteva seppellire Shiho Miyano.
 E in effetti il loro futuro era diverso: Ai Haibara era piccola, voleva quell’infanzia che mai aveva avuto e le sarebbero bastati i bambini veri; Shiho Miyano invece era grande e il suo futuro l’aveva visto nascere nel bambino falso e primo coetaneo che l’aveva fatta sentire simile.
 Così però non poteva essere, perché il suo futuro ne aveva già scelto un altro (Ran); e allora a lei bastava (quanto sei brava a mentire, Shiho) che quel futuro le fosse amico, che ogni tanto le facesse visita a casa del professore – solo e soltanto lì, nella loro piccola bolla che non custodiva più solo segreti ma sguardi fugaci, parole non dette, sentimenti repressi.
 E poi parlavano, parlavano, parlavano – parlavano finché le labbra non erano stanche, finché gli occhi non avevano esaurito le emozioni, finché le orecchie non avevano udito più parole di quante ne potessero tollerare; e parlavano da quando la luna compariva timida all’orizzonte fino a quando il sole non la scacciava via.
 Il sole dava appuntamento alla luna verso sera e così facevano loro; si ritrovavano, felici e stanchi (di fingere), ed ecco che ancora le voci s’aggrovigliavano, che si rincorrevano frenetiche alla ricerca di aneddoti e storie di vita che li avrebbero intrattenuti fino al ritorno del sole.
 E Agasa – una specie di zio per lui, un padre per lei – era un’ombra silenziosa testimone di sguardi, gesti e parole che aveva decifrato molto prima di quanto avessero fatto loro. Li sentiva chiacchierare, era lì quando paroloni che lui a stento comprendeva sfuggivano alle labbra dei due ragazzi perché quelli disquisivano di omicidi, di casi complessi che l’acume di Shinichi sviscerava con estrema facilità, di formule matematiche che Shiho masticava come fossero argomenti per bambini di prima elementare.
 Sorrideva di nascosto, Agasa, quando Shiho canzonava Shinichi e si domandava come fosse sempre lui ad attirare sventure e criminali ovunque andasse. Allora Shinichi rispondeva, rimbeccandola come si confaceva alla loro intesa, e ridevano. La risata di Shinichi la conosceva bene, Agasa, non gli era nuova – la risata di Shiho sì: fresca, piacevole, cristallina; un suono beato che avrebbe voluto ascoltare in eterno, che voleva non si spegnesse mai.
 Eppure quello si spegneva.
 Eccolo scomparire, quando Shinichi non c’era: sorrideva e parlava (non rideva), Shiho, ma non in quel modo.
 
«Sì, professore, è stato Nishimura-san a…»
«Nishimura-san
«Sì, Nishimura-san. Perché, Kudo?»
«Niente. Solo che lo nomini spesso.»
«È un compagno di università.»
«Mh.»
 
 E Agasa era ombra silenziosa anche quando (impotente) assisteva allo sgretolarsi di quel piccolo paradiso che (lo sapeva) non poteva durare in eterno.
 Nishimura-san era un nome neutro per Agasa, un nome di cui non sapeva cosa pensare, se bene (giusto) o male (egoista).
 Nishimura-san era un nome bello per Shiho, il nome di un ragazzo che era gentile e le faceva la corte all’università; non aveva molti anni in più di lei e a unirli c’erano tutte le loro conoscenze in campo scientifico.
 Nishimura-san era un nome sgradito per Shinichi, un nome senza volto che gli stava stretto e che Shiho pronunciava fin troppo spesso. Nishimura-san significava ora quello che Mouri-san (Ran, Ran, Ran) aveva significato e significava ancora per Shiho e Shinichi non lo sapeva.
 Eppure a Shiho un po’ piaceva, Nishimura-san: non era il futuro (Shinichi), ma poteva diventarne una piccola parte. Ma il futuro (Shinichi) non era d’accordo.
 
Il bambino falso aveva smesso da tempo
di pensare a un futuro e uno soltanto (Ran).
 
  «Qual è il tuo problema, piuttosto, Kudo?»
 Agasa era ombra silenziosa anche quando le risate e gli aneddoti non c’erano più e le accuse e gli sguardi torvi li avevano ormai sostituiti. Provava a farli calmare, a far ragionare Shinichi e a far sbollire Shiho – non funzionava. E allora se ne andava, lasciava che fossero loro a gestire la situazione; loro che ormai erano grandi (lo erano sempre stati, anche troppo) e non avevano bisogno di essere tenuti per mano – loro che si erano avvicinati tanto e ora sembravano due isole.
 L’ombra silenziosa li lasciò a loro stessi e nessuno dei due se ne accorse.
 «Non ho nessun problema.»
 «Davvero? Perché a me è sembrato di vederti alzare gli occhi al cielo almeno venti volte.»  S’ammutolì – venti erano anche le volte in cui aveva parlato di lui. «È Nishimura-san, il problema?»
 Quel nome gli graffiò le orecchie, gli chiuse lo stomaco.
 «No.»
 
Sì.
 
 Shiho slargò le narici, inspirò ed espirò a fondo, lentamente, soppesando le parole a cui non poteva credere nemmeno lei – si stava forse illudendo?
 «Non ne hai il diritto.»
 «Di fare cosa?»
 «Di giudicarmi», replicò all’istante, tagliente. «Di comportarti come se tu non avessi fatto lo stesso.»
Non negarlo, Kudo, non puoi. Nemmeno tu puoi essere tanto cieco.
 Le parole di Shiho lo ferirono come lame. Le sue, invece, non riuscirono a uscire: gli scottavano la lingua, tanto erano fuoco. Non poteva credere di averle pensate – non poteva credere, Shinichi, che un perché mi piaci gli solleticasse la lingua ma che fosse indirizzato a un’altra.
 «È complicato.»
 Difficile da accettare, difficile da mandare giù; perché aveva sempre creduto che il suo futuro fosse uno soltanto e che ottenerlo sarebbe stato facile – perché aveva (ingenuo, almeno per una volta) creduto che il vissero tutti felici e contenti per lui potesse davvero esistere. Solo non s’aspettava di vederlo specchiato in due occhi azzurri.
 Shinichi li conosceva bene, quegl’occhi, e gli piacevano – gli piacevano nonostante quelli vedessero solo il nero, nonostante quelli, ora, gli implorassero di non proseguire oltre. Lo guardavano in attesa di una risposta, ed erano paura e speranza che s’incontravano e scontravano per decidere chi dovesse averla vinta – peccato che quella decisione spettasse a lei quanto a lui.
È complicato – e invece era semplice.
 Perché una decisione l’aveva già presa.
 Perché il vissero felici e contenti era scomparso, fuggito via, e il nuovo futuro s’era già delineato all’orizzonte, lì, nella loro piccola bolla di bambini falsi all’interno della quale solo tre passi li separavano.
 Non avevano fatto altro che correre, in quella bolla.
 E lui, che in vita sua mai aveva corso quanto lei, era stanco di negare, di masticare tanti va tutto bene sempre meno ingannevoli e di relegare in una stanza chiusa a chiave le nuove verità – quelle battevano i piedi, urlavano, chiedevano di poter uscire e gli disturbavano il sonno.
 
Tre.
 
 Shinichi deglutì, le gambe ancora incerte.
 
Due.
 
 Shiho udì la ragione gridare no.
 
Uno.
 
 La misero a tacere.
 
Tre, due, uno – zero erano ora i passi che li dividevano.
 
 Gli occhi di Shiho furono l’ultima cosa che Shinichi vide – chiuse i suoi e pensò a tutto e niente, mentre le labbra, bollenti, finalmente tacevano per dedicarsi ad altro, e i respiri, aggrovigliandosi, sussurravano segreti a lungo taciuti e infine esplosi.
 
Eccolo, il futuro – due equazioni sbagliate che però funzionavano.
   
 
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