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Autore: morgana85    11/09/2020    10 recensioni
Dal testo:
«Ma non ha nessun senso!».
«Il fatto che tu non lo conosca, non vuol dire che non ce l’abbia».
«Avanti sapientone, dimmelo!», lo inseguì, camminando impettita alle sue spalle. Lui sembrò ignorarla, analizzando con attenzione i titoli dei numerosi volumi che aveva di fronte, quasi fosse seriamente impegnato nella ricerca di chissà cosa. «Non lo sai, non lo sai, non lo s…».
«Desiderio», le chiuse la bocca con una mano, improvvisamente così vicino da farle venire caldo. Sentì le guance imporporarsi sotto quello sguardo che per lei era fonte di segreti, di un colore così vivo da ricordarle le oasi di Asher. «Miann significa desiderio, piccola ragazzina insopportabile». Per un istante che si dilatò all’infinito, non fecero altro che guardarsi negli occhi, il respiro caldo di Sahira che gli stuzzicava il palmo. «Quando sarai più grande, ti spiegherò perché sei diventata il mio desiderio».
[TERZA CLASSIFICATA al "Wish upon a star" contest indetto da inzaghina.EFP sul Forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Storia partecipante al "Wish upon a star" contest indetto da inzaghina.EFP sul Forum di EFP


 
Réalta bhriste – Una stella a metà
 

«Non ci credo», accelerò il passo, arrancando nella neve fresca che era caduta copiosa quella notte. Con il lungo mantello verde scuro che la avvolgeva da capo a piedi, risaltava nella vastità di bianco che li circondava come uno smeraldo tra i diamanti. Tra le ombre del cappuccio, che copriva quasi interamente il volto, spiccavano solo gli occhi di uno stranissimo color ambra, con pagliuzze trasparenti come il ghiaccio che aveva cristallizzato il lago Theor.
«Ti dico che è vero», ribatté il bambino, voltandosi nella sua direzione e continuando a camminare all’indietro, «Baba Musia non dice mai bugie».
«E io non ci credo!», pestò i piedi con rabbia, fissandolo con aria imbronciata. Il fiato si condensava in nuvolette di vapore, facendola somigliare ad un piccolo drago, mentre il freddo le saliva su per il naso.
«Allora tornatene a casa», Erian si bloccò improvvisamente, incassando il colpo quando lei gli sbatté contro, cadendo come un sacco di patate nella neve. Andava molto fiero della sua altezza, nonostante avesse solo undici anni – tre più di lei, che lo facevano sentire un uomo vissuto – e il fisico esile e scattante.
«Ehi», lo fulminò con lo sguardo, tendendo la mano per cercare un appiglio con cui alzarsi. Quando capì che il suo compagno di giochi non l’avrebbe aiutata, prese una grossa manciata di neve e gliela lanciò contro, ringhiando come un gattino infuriato quando lui la evitò senza problemi.
«Ci vado senza di te», la liquidò con un’occhiata annoiata, voltandole le spalle e riprendendo il suo cammino.
«Erian!», Sahira lo chiamò a gran voce, rabbrividendo per il freddo. Iniziava a sentire i vestiti inumidirsi, mentre guardava sconsolata gli stivali quasi completamente zuppi, «non lasciarmi qui da sola!». Urlò di rabbia, districandosi dal mantello e alzandosi in tutta fretta. «Erian!», si mise a correre nonostante la neve facesse affondare ogni suo passo, rendendola goffa e lenta. Si fermò solamente quando gli fu alle spalle, piegandosi sulle ginocchia e cercando di riprendere fiato. Solo in un secondo momento si accorse della mano tesa nella sua direzione, immobile a qualche centimetro dal naso. La guardò stranita, sollevando il viso verso quello del bambino e incontrando i suoi occhi verdi che la guardavano intensi. Le erano sempre piaciuti, immaginava così gli occhi di un Re. Quando le sorrise – mai un sorriso completo, solo quella piega dolce e appena accennata – si convinse a far intrecciare le loro dita, seguendolo quando lui la strattonò senza farle male.
Arrivarono mano nella mano alla grande casa di pietra scura, arroccata sullo sperone roccioso che si ergeva oltre le mura meridionali della città. Nonostante il sole fosse allo zenit sopra le loro teste, la sua pallida luce invernale non faceva altro che regalare ombre irregolari sulla facciata ricoperta da una meravigliosa pianta di clerodenrum¹. Sahira rabbrividì, facendosi più vicina ad Erian.
«Non mi dirai che hai paura, Miann», la canzonò, guardandola dall’alto in basso.
«No», squittì sottovoce, deglutendo. Non era mai stata lì, l’Anziana glielo aveva sempre vietato. Quando lo sentì ridere si allontanò di scatto, sfidandolo con lo sguardo, «io non ho paura di niente». Lo spintonò, continuando a camminare imperterrita, la testa bassa come un toro in procinto di caricare e un borbottio incessante ad accompagnare ogni passo. «E non mi chiamare in quel modo ridicolo, lo odio».
Erian entrò senza nemmeno bussare, ma la cosa non la stupì davvero. Lui era cresciuto sotto gli insegnamenti di quella donna che per lei rappresentava solo un mistero. Lo seguì senza indecisioni, trovandosi immersa in un grande ambiente dalla luce soffusa. La cosa che più la colpì fu il profumo di erbe essiccate e fiori, un aroma dolce e corposo che la fece sentire a casa. Si guardò intorno curiosa, aggrottando le sopracciglia quando notò quanto tutto fosse pulito e in ordine. Non sembrava affatto la casa di…
«Sembri delusa piccola».
Sahira sobbalzò, voltandosi di scatto e arretrando di un passo. Non si era mai immaginata davvero Baba Musia, ma di sicuro la donna giovane e bella, dai lunghi capelli rossi e gli occhi blu non era quello che si era aspettata. «No, io…», cercò Erian, che rispose alla sua occhiata spaurita con un’alzata di spalle.
«Fammi indovinare», si avvicinò al ragazzino, salutandolo con una carezza e un bacio tra i capelli, «vecchia, cieca e con la casa piena di ragnatele, giusto?». La bambina annuì con un piccolo cenno, facendola scoppiare in una risata che Sahira avrebbe ricordato per il resto della vita. Come la sua voce, era dolce e melodiosa quanto il suono di mille campanelli. «Venite, sarete infreddoliti». Baba Musia si accomodò sull’antica panca accanto al camino, facendogli cenno di raggiungerla. Attizzò il fuoco in silenzio, offrendo loro pane e miele e appendendo i mantelli ad asciugare.
Il silenzio si allargò nella stanza, lasciando spazio all’allegro scoppiettio del fuoco e ai versi degli animali che arrivavano dalla montagna. Sahira non riusciva a distogliere lo sguardo da Erian, che sembrava comunicare con la donna seduta di fronte a lui in una lingua fatta solo di aria e pensiero. Provò un’istintiva stretta allo stomaco, come se essere esclusa da quel momento in cui sembrava essere di troppo, la rendesse gelosa. Erian aveva sempre parlato solo con lei, di tutto.
«Avanti, diglielo».
La voce del suo amico la riscosse, facendole sputacchiare un po’ di infuso per la sorpresa. «No, diglielo tu», ribatté piccata, aggrottando le sopracciglia e mettendo il broncio.
«Io lo so già», fu la sua laconica risposta. «Desideravi così tanto scoprire la verità».
A volte lo trovava davvero irritante, non sopportava quando le si rivolgeva come se fosse adulto e lei solo una stupida poppante. Aveva già otto anni, per tutti gli dèi! Ricambiò la sua occhiata di sfida alzando il mento e sedendosi composta sulla sedia, prendendo un profondo respiro prima di parlare. «Dicono che tu abbia racchiuso le stelle in una stanza», deglutì quasi con timore, continuando a fissare le dita che si intrecciavano senza sosta. Tutto, pur di non guardare quella donna negli occhi. Era così giovane nei lineamenti – se fosse stata vecchia e brutta e antipatica, forse sarebbe stato più facile – ma quello sguardo sembrava scavare fin nel profondo delle ere del mondo. Aveva il terrore che, incrociandolo, avrebbe perso persino sé stessa nell’intrico di segreti che custodiva. «E che tu riesca a catturarne una ogni volta che qualcuno ha bisogno di un desiderio da esprimere».
«E credi sia vero?». Baba Musia ora eri lì, inginocchiata di fronte a lei per poterla guardare negli occhi. Il sorriso che le incurvò le labbra era tenero, quasi materno, mentre le scostava una ciocca di capelli dalla fronte.
«Io penso che le stelle siano troppo in alto, per riuscire a toccarle», arrossì, facendo dondolare i piedini nervosa, «gli dèi sono gelosi dei loro tesori, e le stelle sono fatte di tante cose preziose».
«Erian», la donna lo chiamò con dolcezza, senza tuttavia abbandonare gli occhi della bambina, «in quello scrigno laggiù troverai due piccole sfere di vetro. Prendile, ma fai attenzione a non farle cadere». Si alzò, allungando le braccia verso Sahira e facendole cenno di avvicinarsi. Lei si morse un labbro, indecisa. «Possiamo chiedere alla Dea, lei è clemente e dà ascolto ai desideri dei bambini». Non appena Baba Musia la prese in braccio, Sahira provò una sensazione così confortante da spingerla a chiudere gli occhi e stringerle le braccia attorno al collo, infilando il naso tra i suoi capelli, che scoprì profumare di camomilla e vento d’inverno. Non ricordava l’abbraccio di sua madre – era troppo piccola, quando l’aveva abbandonata – ma se avesse dovuto immaginarlo, sarebbe stato come quello. Caldo, sicuro e potente. «Non avere paura, dolce seren», le sussurrò, carezzandole la testa. La bambina annuì, meravigliandosi di come le avesse parlato nella lingua della sua gente. Fu quasi dispiaciuta quando la donna la mise nuovamente a terra, dicendole che era giunto il momento di guardare. Non era sicura di volerlo fare, ma la mano tiepida e leggermente umida di Erian le infuse la forza necessaria.
Non avrebbe mai rivisto niente di simile, in tutta la sua vita. Non c’erano più pareti a delimitare la stanza, o forse erano sempre lì ma tutto sembrava non avere confini. Esisteva solo una distesa infinita di blu, declinato in così tante tonalità da non poterle riconoscere tutte. Incastonate come gioielli nel manto di una regina, le stelle brillavano alla distanza di un respiro, luminose e perfette.
Sahira allungò una mano, ritirandola di scatto quando una scia luminosa le sfiorò la punta delle dita, lasciandole un’impalpabile strato di polvere perlacea sulla pelle. Si portò la mano davanti al naso, continuando a muoverla e osservando incantata i riflessi che emanava, quasi fosse diventata lei stessa una stella.
«Te l’avevo detto», la schernì Erian, tirandole una debole spallata. Sahira strillò quando si sentì sollevare per la vita, mentre lui la faceva girare con i piedi a mezz’aria. Ma l’iniziale fastidio fu subito sostituito dalla sorpresa di vedere le stelle vorticarle intorno come lucciole impazzite. Risero entrambi, ruzzolando sul pavimento e rimanendo sdraiati a braccia spalancate a guardare il cielo sopra di loro.
Era tutto vero. Ed era meraviglioso.
«Scegliete la vostra stella». Si sollevarono di scatto, mentre Baba Musia faceva dondolare davanti ai loro occhi spalancati due semplici collane, da cui pendeva una piccola sfera di vetro per ognuna. «Avanti, prima che ci ripensi», sorrise, scuotendo la testa divertita. Ci fu un gran vociare “forse quella laggiù” “no, la voglio più splendente della tua” “guarda questa come è grossa!”, finché entrambi non indicarono una stella proprio allo zenit, precisamente sopra le loro teste e tra le loro dita che si sfioravano, «Quella!».
Baba Musia sentì il cuore perdere un battito, mentre tratteneva il respiro. Non potevano aver scelto lo stesso astro. Nessuno lo faceva, se non chi era destinato a cercarsi all’infinito, fino a quando la stella non sarebbe stata nuovamente completa.
Sahira si aprì in un meraviglioso sorriso, girandosi verso Erian e fissandolo negli occhi. La donna seguì con attenzione quello sguardo, troppo adulto e profondo per appartenere a due bambini. C’era un desiderio nascosto in quel muto scambio di pensieri, dove scorse un futuro pieno di rinunce e dolore che la fece rabbrividire.
Quando vide l’astro brillare e poi esplodere, fluttuando in due metà perfette fino a riempire le sfere di vetro, capì di non poter fare più niente per cambiare il destino che li attendeva. Sussurrò una preghiera, cercando a fondo la forza necessaria per lasciarli andare. «Quando lo vorrai, ti basterà chiudere gli occhi», infilò la collana al collo di Sahira, fermandosi con la mano proprio all’altezza del cuore, «e pensare con tutte le forze al tuo desiderio più bello». Le posò un bacio sulla fronte, sigillandolo con la benedizione degli dèi, «Fa attenzione, piccola seren», chiuse le mani a coppa attorno a quel viso che le ricordava tanto la bambina che aveva perso, «la differenza tra quello che desideriamo e ciò che temiamo è appena più spessa di una ciglia».
 
Si svegliò di soprassalto, madida di sudore e con il cuore in subbuglio. Passò una mano sul viso, scostando dalla fronte i capelli bagnati e prendendo un profondo respiro mentre si guardava intorno smarrita, mettendo a fuoco uno alla volta i dettagli di quella che riconobbe come la sua alcova, un intenso profumo di camomilla e vento d’inverno a stuzzicarle il naso.
Un brivido di freddo l’attraversò, dandole la scarica necessaria per tornare lucida. Guardò alla sua sinistra, dove un giovane uomo dai capelli scuri e i lineamenti così belli da sembrare irreali, dormiva profondamente.
Anche quella notte non l’aveva presa. Nonostante fossero ormai mesi che frequentava le sue stanze, non l’aveva quasi mai nemmeno sfiorata. E quando lo faceva, sembrava stesse cercando di imparare i suoi lineamenti a memoria.
Aveva usato ogni trucco di seduzione che i lunghi anni di carriera le avevano insegnato, portandola ad essere la cortigiana più desiderata ben oltre i confini della città. Ma quel ragazzo sembrava essere immune al suo fascino, alla spudorata voglia che aveva di lui. Si, per la prima volta desiderava essere posseduta da uno dei suoi amanti. E avvertiva con una nitidezza destabilizzante lo stesso desiderio scorrere in lui, nel corpo agile e scattante che rispondeva alle sue carezze contro la volontà del suo ospite.
 
«Milady, vi stanno attendendo», una ragazza pallida e minuta, che doveva da poco aver superato i diciotto anni, si affacciò sulla soglia della camera, torturando il tessuto candido e morbido che nascondeva le forme da giovane donna.
«Grazie Maylan», le sorrise, indossando la lunga vestaglia e stringendola in vita, «puoi rimanere se vuoi. I miei abiti avrebbero bisogno di essere sistemati».
«Dite sul serio?», gli occhi della ragazza scintillarono, mentre si torturava il labbro inferiore senza osare guardarla in viso. «Sarebbe un onore, Milady», accennò un inchino, scostandosi per lasciarla passare.
Lo stretto passaggio segreto la condusse in breve nell’alcova riservata ai clienti. Il familiare odore d’incenso l’accolse, facendola sentire a proprio agio nella luce soffusa delle candele. Si concesse un istante per assaporare quella sensazione di tranquillità, ascoltando il suo corpo tendersi e diventare ricettivo all’ambiente che lo circondava.
Le ricordava casa, e forse proprio per quello l’aveva arredata in quel modo, con i cuscini sparsi sui grandi tappeti e il letto avvolto da infiniti veli rossi e gialli e arancioni. Le rievocavano il sole della sua terra e i profumi dell’infanzia.
Si ripeteva ormai da tempo, quanto tutto quello avrebbe dovuto rappresentare per lei – una prostituta desiderata da principi e venerata da re – solo un altro gradino nella rapida scalata verso la libertà.
Ma non poteva mentire a sé stessa per sempre.
Aveva creduto che, prima o poi, qualcuno l’avrebbe salvata da tutto quello. Era stata forte e astuta, aveva colto ogni occasione per trasformare quella squallida vita in qualcosa che valesse quantomeno la pena di essere vissuto. Ma non le rimanevano altro che cose troppo effimere per essere considerate importanti. Ed ora era stanca, infinitamente stanca.
«Non vi muovete, ve ne prego», un sussurro caldo le percorse la pelle sensibile del collo, facendola sobbalzare. Mani forti ma gentili la fermarono, impedendole di girarsi. «Tenete gli occhi chiusi», le sfilò la vestaglia, che ricadde in un punto che Sahira non seppe identificare. Ma improvvisamente niente sembrava importante, se non il calore che avvertiva oltre lo strato leggero della sottoveste. «Siete bella quanto una stella, stasera», la voce divenne roca e profonda, mentre dita delicate le sfioravano la curva della spalla, scostandole abbastanza la veste per poter disegnare linee immaginarie con i polpastrelli.
«Sapete che alcune stelle possono far avverare un desiderio?», inclinò il capo concedendogli maggiore spazio, allungando le mani dietro di sé per poterlo toccare. Riuscì a malapena a raggiungere il bordo della brache, prima che lui la fermasse.
«E voi come potete conoscere i miei desideri?», le sciolse i lacci che chiudevano la scollatura, proseguendo la carezza fino al seno. Non l’aveva mai fatto, non si era mai spinto più in là di una lieve stretta sui fianchi, o affondare il viso tra i suoi capelli quando si stendeva accanto a lei sul letto.
Sahira gemette, avvertendo nitidamente l’effetto che quel tocco così innocente ed erotico le aveva provocato. Si inarcò appena, sospirando profondamente, «I desideri degli uomini sono impossibili da celare», sorrise maliziosa, strusciandosi contro di lui senza vergogna, «e ogni donna conosce il modo migliore per esaudirli». Si girò tra le sue braccia, sfiorando la mascella con le labbra, tracciando un sentiero che percorse nuovamente con la lingua e con il respiro, fino a raggiungere le sua bocca. «Chiedete, non vi sarà negato nulla», si mosse lenta, sapendo quanto poco sarebbe bastato per farlo arretrare. Provò a baciarlo – per gli dèi, voleva quelle labbra come acqua con cui dissetarsi – ma ancora una volta lui si ritrasse, trattenendosi con uno sforzo non indifferente.
Perché la rifiutava?
Lo attraeva, ne era certa. Lo sentiva. E allora perché cercava la sua compagnia, se non era per il desiderio che provava per lei?
 
Parlavano per la maggior parte del tempo, mangiando dallo stesso piatto e bevendo dallo stesso calice. Aveva scoperto quanto lo eccitasse sentire la sua voce leggere per lui, mentre erano sdraiati e gli accarezzava distrattamente i capelli.
La prima volta che lo aveva sentito ridere, era stata avvolta e sopraffatta da quel suono profondo e sincero. Così bello da non riuscire a rimanere in disparte, iniziando a ridere con lui come non faceva da anni. Da una vita, forse.
Con le sue mezze risposte riusciva a stuzzicare la sua intelligenza, che trovava nelle domande sagaci di lui un degno avversario. La infastidiva e al tempo stesso l’attirava, come il miele faceva con un orso. Dannato.
Corrugò la fronte, cercando di ricordarne almeno il nome, accorgendosi solo in quel momento che non lo sapeva. Non glielo aveva mai detto.
Liquidò quel futile pensiero con un gesto secco della mano, aveva poca importanza sapere chi fosse. Sarebbe presto diventato solamente un altro ricordo sfocato, l’ennesimo cliente soddisfatto che avrebbe pagato il suo tempo profumatamente.
Uscì in silenzio dalle lenzuola, cercando a tentoni il pesante mantello foderato di pelliccia e trovandolo abbandonato ai piedi del letto. Dedicò un ultimo sguardo al ragazzo addormentato, prima di voltargli le spalle e sparire dietro la porta nascosta accanto al camino.
Il passaggio segreto la condusse nella sua stanza privata, decisamente meno sontuosa dell’alcova in cui riceveva i clienti, ma dove si sentiva a proprio agio e libera da ogni vincolo. I piedi non fecero nessun rumore, calpestando gli immensi tappeti dall’aria esotica che ricoprivano quasi interamente il pavimento. Trovò il fuoco già acceso e il tepore nell’aria era piacevole come una carezza, mentre a poca distanza una vasca d’ottone era già stata riempita con acqua profumata. Sorrise, benedicendo ancora una volta Maylan e la sua efficienza.
Si accucciò accanto al camino, buttando tra le braci un altro ciocco di legno, osservando quasi ipnotizzata le scintille che scaturirono quando prese fuoco, offrendole un’immediata sensazione di calore. Le immagini del sogno che l’aveva svegliata danzarono tra le fiamme, vivide e crudeli. Era convinta di aver dimenticato quel periodo della sua vita – ventun primavere trascorse, che sembravano secoli – e di averlo rinchiuso nell’angolo più recondito della mente. Non ripensava alla sua infanzia da molto tempo, così tanto da considerarlo più simile al racconto di un cantastorie attorno al fuoco, che alla vita che aveva vissuto.
 
Giunta in quella terra da un paese oltre i confini del mare, rimase impressionata dal manto soffice e freddo che ricopriva ogni cosa come polvere. Rendeva tutto dello stesso colore candido e ultraterreno, un po’ come la sabbia del deserto da cui proveniva, che invece conferiva al mondo un aspetto infuocato.
Osservò con un sopracciglio inarcato le impronte degli zoccoli del suo cavallo, facendolo avanzare lentamente e provando a capire come fosse possibile, che il sentiero su cui stavano procedendo tenesse memoria del loro passaggio. Infine, sotto lo sguardo divertito e paziente della sua custode, si lasciò scivolare dalla sella – la curiosità e la conoscenza erano sempre stati un tratto dominante del suo carattere – strizzando gli occhi quando i piedi entrarono in contatto con il terreno. Ne aprì uno lentamente, quasi avesse paura di vedere i suoi stivali scomparire da un momento all’altro. Accorgendosi che non sarebbe successo niente di grave, si accucciò tastando con le dita quella consistenza soffice ma compatta, portandone un po’ alle labbra e facendola sciogliere sulla punta della lingua. Era fredda e dissetante come acqua di fonte.
Mentre il suo sguardo si riempiva degli scintillii che il sole creava sfiorando la neve, capì di essersi innamorata dell’inverno. Proprio lei, figlia dell’autunno e del vento clemente del Sud, che portava il colore delle sabbia dorata negli occhi e sulla pelle il tepore della pietra ancora calda al limitare dell’estate.
«Ehi tu!», sussultò al gracchiare improvviso di una voce rude, inciampando nel mantello e cadendo tra la neve. «Levati dai piedi mocciosa, prima che il mio cavallo ti schiacci sotto gli zoccoli».
Sahira socchiuse gli occhi, una luce ribelle e spietata ad illuminarli. Strinse i pugni mentre si alzava senza fretta, sbarrando la strada al soldato che ora la fissava incredulo. Se pensava di averle fatto paura, gli avrebbe dimostrato cosa significava difendersi dai Predoni. «Amadan gòrach gun eanchainn»². Sogghignò dell’espressione poco intelligente che il soldato le rivolse, spingendola a portare le mani sui fianchi e a sollevare il mento altezzosa, «Vuol dire…».
«Mi dispiace, vi lascio strada immediatamente», si intromise una voce più giovane, mentre un cavallo nero quanto la notte si affiancava al capofila. «È questo che significa, non è così?».
La bambina provò a ribattere, ma lo sguardo che incrociò tra le ombre del cappuccio la lasciò senza fiato. Nemmeno tra i guerrieri della sua tribù aveva mai incontrato occhi così belli, intensi e lucenti come pietre preziose, verdi quanto l’erba fresca bagnata di rugiada.
Fece giusto in tempo a fare un passo indietro prima che lo stallone proseguisse, facendosi strada tra la neve.
 
Non era rimasto più niente di quella bambina, nemmeno il colore dei capelli, che si era premurata di tingere di un caldo mogano dai riflessi violacei, molto più adeguato alla personalità prorompente di una prostituta d’alto bordo come lei. La figura esile e dolce di quella piccola fanciulla, dai desideri forti e il carattere ribelle, era diventata sempre più sfocata ad ogni giorno trascorso nella sua nuova veste di cortigiana. Fino a quando la sua verginità era stata venduta ad un nobile, appartenente alla corte del Re. Da allora non ne era rimasta nemmeno la cenere, dispersa dal vento impietoso da cui sembrava essere scossa la sua intera esistenza.
Lasciò cadere il pesante mantello senza troppa grazia, raccogliendo in fretta i lunghi capelli in una treccia, che arrotolò sulla sommità del capo come una corona. Una strana inquietudine le scorreva sotto la pelle, come se i suoi sensi fossero incredibilmente ricettivi. Provò a rilassarsi, immergendosi fino al mento nell’acqua calda e dall’odore piacevolmente stuzzicante. Abbandonò il capo contro il bordo della tinozza, chiudendo gli occhi e lasciando che le mani vagassero lungo tutto il corpo.
Certo, quello non era il futuro che aveva immaginato, mentre viaggiava con le altre piccole schiave attraverso il Paese. Quando aveva chiesto l’amore, chiusa nella propria stanza in attesa che l’Anziana la conducesse verso il proprio destino, aveva sognato un principe alto e bello e gentile.
Rise di sé stessa, pensando a quanti principi e re e uomini d’onore erano passati nel suo letto e tra le sue gambe.
Si accarezzò un seno, stringendo il capezzolo fino a sentire un piacevole dolore farla tremare. Prese un profondo respiro, scivolando verso il basso, giocando con l’acqua che la sfiorava con la stessa delicatezza di un amante.
Ripensò a Erian, a quegli occhi verdi che non aveva mai davvero dimenticato. Chissà se anche la sua vita era stata stravolta, se era diventato quello che desiderava. Se conservava ancora qualche ricordo della loro infanzia.
 
«Perché continui a chiamarmi così?».
«Così come?», Erian la guardò stranito, aiutandola a sistemare un libro su uno scaffale particolarmente alto.
In quel momento fece caso per la prima volta al suo odore. Riconobbe il profumo muschiato della foresta oltre le montagne, ed uno più intenso, che associò alla pioggia che accompagna l’estate. E poi c’era qualcos’altro, una fragranza che le ricordava le notti del deserto da cui proveniva. Sorrise, sapeva di casa.
Si accorse di aver chiuso gli occhi solo nel momento in cui Erian la richiamò schiarendosi la voce, troppo concentrata sulla sensazione strana che l’aveva colpita alla bocca dello stomaco. «Marinn, Mirian», sbuffò spazientita, incrociando le braccia al petto, «insomma, con quel brutto nomignolo».
«Io non lo trovo affatto brutto», lo vide sogghignare, prima di scompigliarle i capelli.
«Ma non ha nessun senso!».
«Il fatto che tu non lo conosca, non vuol dire che non ce l’abbia».
«Avanti sapientone, dimmelo!», lo inseguì, camminando impettita alle sue spalle. Lui sembrò ignorarla, analizzando con attenzione i titoli dei numerosi volumi che aveva di fronte, quasi fosse seriamente impegnato nella ricerca di chissà cosa. «Non lo sai, non lo sai, non lo s…».
«Desiderio», le chiuse la bocca con una mano, improvvisamente così vicino da farle venire caldo. Sentì le guance imporporarsi sotto quello sguardo che per lei era fonte di segreti, di un colore così vivo da ricordarle le oasi di Asher. «Miann significa desiderio, piccola ragazzina insopportabile». Per un istante che si dilatò all’infinito, non fecero altro che guardarsi negli occhi, il respiro caldo di Sahira che gli stuzzicava il palmo. «Quando sarai più grande, ti spiegherò perché sei diventata il mio desiderio».
 
Schiuse le cosce, stuzzicando con i polpastrelli il suo punto più delicato. Si lasciò sfuggire un gemito, mordendosi il labbro e azzardando un tocco più profondo. Tenne stretto il pensiero di quegli occhi, mentre penetrava con un dito e tremava, un desiderio imprevisto a scuoterla fino alla punta dei piedi.
Non aveva mai scoperto cosa significasse davvero per lui. Quando, una mattina di qualche settimana dopo si era svegliata per andare a cercarlo, aveva trovato la sua stanza deserta e solo il ricordo del suo profumo a dirle addio. Era sicura che Baba Musia sapesse cosa era successo, ma si era scoperta troppo vigliacca per andarci da sola. Aveva pianto - in silenzio e di nascosto - per notti intere, fino a quando l’Anziana non aveva iniziato ad addestrarla per il suo destino e ogni emozione aveva perso consistenza e valore.
Riprese a muoversi con lentezza, lasciandosi guidare dal proprio corpo verso la ricerca di quel piacere effimero ma necessario. Bastò poco prima di abbandonarsi ad un orgasmo liberatorio, che la lasciò con il fiato corto e i pensieri sciolti come neve al sopraggiungere della primavera.
La differenza tra quello che desideriamo e ciò che temiamo è appena più spessa di una ciglia”. Si sollevò di scatto, la vista ancora annebbiata dall’inebriante sensazione del godimento, mentre la voce di Baba Musia le risuonava tra i pensieri come un campanello d’allarme. Forse la verità era tutta lì, in quello che aveva desiderato e che si era trasformato in ciò che non sapeva nemmeno di temere. L’amore di un uomo, nascosto dietro il terrore che non sarebbe mai arrivato da chi realmente desiderava riceverlo.
Uscì in fretta dall’acqua, avvolgendosi senza troppa cura in un telo asciutto e dirigendosi verso il piccolo scrittoio che occupava l’angolo più buio della stanza. Aprì il secondo cassetto, rovesciando malamente le poche cose che conteneva, tastando sul fondo con foga. Quando un secco click le rivelò che aveva trovato quello che stava cercando, una strana sensazione di panico la immobilizzò.
Si lasciò cadere sullo sgabello, passandosi una mano sul viso e mordendosi il labbro inferiore. Doveva essere impazzita, non c’era altra spiegazione. Non apriva quel nascondiglio dal giorno in cui era entrata a servizio in quella casa di piacere, quando lo aveva scoperto per caso e aveva deciso di riporvi l’unica cosa che le appartenesse davvero. Lì dentro erano custoditi tutti i suoi sogni infranti e i desideri espressi tra le lacrime, quando tornava nella sua stanza dopo aver soddisfatto ogni tipo di indecenza.
Voleva davvero vanificare la fatica e il dolore e la solitudine provati in quei lunghi anni, solo per uno stupido sogno? Doveva solo a sé stessa quello che era diventata, quando invece di arrendersi ad un destino senza vittorie, aveva fatto della sua più grande sconfitta un’arma vincente. Da piccola e innocente fanciulla che aveva nel cuore il deserto, era diventata una donna potente e ammaliante, con l’inverno a custodire i suoi pensieri e tutto ciò che un tempo aveva provato.
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, una mano posata all’altezza del cuore nel vano tentativo di placarne il battere accelerato. Ricordare era pericoloso, poteva essere un rifugio sicuro in cui crogiolarsi e allo stesso tempo un pugnale avvelenato pronto a colpire.
Mosse la mano sul fondo, trattenendo il fiato quando le dita incontrarono qualcosa di liscio e freddo. Sollevò le palpebre con cautela, quasi avesse paura di essere accecata da un bagliore troppo forte. Nemmeno le lacrime – le prime che versava da anni – le impedirono di sussultare alla vista del piccolo ciondolo posato sul palmo.
All’interno di una sfera di vetro, la luce calda e pulsante della stella che custodiva non era cambiata, quasi fosse in attesa del desiderio che quella bambina dagli occhi d’ambra doveva ancora esprimere.
 
 
Guardandola, avvolta nel pesante mantello verde scuro e con il viso nascosto dal cappuccio, sembrava quasi uno di quegli spiriti di cui gli abitanti della città avevano tanta paura. Le scappò una risatina, pensando a quanto potesse essere molto più pericolosa, rispetto alle ombre dei morti che continuavano a vagare nel mondo.
Attraversò la porta meridionale delle mura, mescolandosi alla gente che si accalcava per entrare, salutando con un cenno le due guardie di posta. Non fecero domande né provarono a fermarla, sapevano di dover tenere le distanze da quella donna che sembrava dispensare potere tanto quanto piacere.
Annusò il vento che le sfiorò le guance, sentendo distintamente il profumo della neve a poca distanza. Probabilmente, sulla grande catena montuosa che faceva da scudo naturale contro gli invasori, doveva aver nevicato da poco. L’inverno era giunto in fretta e in silenzio, cogliendoli quasi di sorpresa.
Un brivido le percorse la schiena, facendole socchiudere le palpebre e prendere un profondo respiro. In giornate come quella, la mancanza della sua terra si ripresentava come un vecchio dolore.
Erano passati tanti anni da allora, e sebbene fosse ancora giovane, sentiva di portare sulle spalle il peso di molte vite. Nonostante fosse solo una bambina quando i soldati del Re l’avevano prelevata come voto e pagamento di un vecchio debito della sua tribù, ricordava perfettamente i profumi del vento caldo e secco che spirava la notte, o i colori sgargianti dell’alba sulle dune, dove si arrampicava riempiendosi gli occhi e il cuore di tutta quella meraviglia.
Era tutto così diverso.
Lì gli odori erano ruvidi, quasi speziati, come se ogni passo che percorreva lungo il sentiero ora tranquillo, sprigionasse fragranze sempre diverse. L’aria era fresca e le muoveva i lunghi capelli, come un bambino dispettoso in cerca di attenzione.
Camminò senza fretta, assaporando la distanza che si riduceva lentamente ma inesorabilmente, fino a condurla – in una vita completamente diversa – davanti a quella casa di pietra scura che ancora la metteva in soggezione. La pianta di clerodenrum, una tempo rigogliosa, ora non era altro che un ammasso di rami rinsecchiti e giallastri, dove il ghiaccio si era divertito a intessere ragnatele di cristallo.
Un’improvvisa tristezza le fece serrare la mascella, avendo la prova di quella che aveva considerato solo una futile chiacchera tra prostitute. Anche l’ultima Viandante aveva lasciato quel luogo dimenticato dagli dèi e governato da un Re senza nobiltà.
Abbassò il cappuccio, sussurrando una preghiera nella lingua della sua infanzia e trovando il coraggio di aprire la porta, che le lasciò il passaggio con uno scricchiolio sinistro. Nonostante gli anni trascorsi e l’incuria, non era cambiato niente. Sorrise con nostalgia, dirigendosi verso la vecchia panca accanto al camino, su cui si sedette per potersi guardare intorno. Intrecciò le mani in grembo e chiuse gli occhi, ritrovando il profumo di Baba Musia – camomilla e vento d’inverno – e il tepore di un fuoco che non sarebbe più stato acceso.
Era stata una stupida.
«Ce ne hai messo di tempo». Sahira si voltò di scatto verso l’ingresso, le dita strette d’istinto attorno all’elsa del pugnale che nascondeva sotto il mantello. Nel vano della porta, da cui filtrava la fredda luce invernale del sole allo zenit, si stagliava la figura di quello che riconobbe come un uomo. «Non hai bisogno di quello», la voce era stranamente divertita, mentre muoveva un passo verso l’interno, «se avessi voluto farti del male, saresti già morta da un pezzo».
Quando la penombra definì i tratti di un viso giovane e bello, sgranò gli occhi. Si alzò di scatto, lasciando che il mantello le scivolasse dalle spalle e si arrotolasse ai suoi piedi come un animale docile. «Tu!», assottigliò lo sguardo, mentre una rabbia cocente le infiammava il viso, facendole imporporare le guance, «Come ti sei permesso? Da quanto mi stai seguendo?».
«Ha davvero importanza?», fece un altro passo, interpretando il suo silenzio come una minaccia. Gli scappò una risatina, «Più o meno da tutta la vita».
Quella risposta, così diretta e senza filtri, la travolse come una marea improvvisa, facendola barcollare all’indietro quasi l’avesse schiaffeggiata. Si riprese in fretta, raddrizzando le spalle, «Il tempo scorre diversamente, nei nostri due mondi», si mosse nella direzione opposta, come un predatore in attesa dell’attacco del nemico, «quella che tu consideri un’intera esistenza, per me non sono altro che pochi mesi, di cui non ricorderò altro che le monete d’oro che mi hanno fruttato». Si appoggiò al grande tavolo, inclinando il viso per poterlo osservare con un ghigno quasi crudele, «E ora vattene», sibilò stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche, «questo posto non fa per te».
Si studiarono in silenzio e da lontano, fino a quando una risata riempì l’aria, infrangendosi come uno specchio andato in mille pezzi. Sahira rabbrividì, quasi un ricordo sepolto l’avesse travolta senza preavviso. «Hai sempre avuto paura di questa casa», una folata di vento gelido invase la stanza, spostando la polvere accumulata dagli anni, che sembrò brillare nel cono di luce, «quindi forse sei tu, ad essere nel posto sbagliato».
«Io non ho paura di niente».
«Si, me lo hai già detto», infilò una mano sotto il mantello, estraendone un semplice cordino di cuoio da cui pendeva una perfetta sfera di vetro, «il giorno in cui hai ricevuto questa».
La ragazza si portò le mani al collo, sospirando con sollievo quando si accorse che la collana era ancora al suo posto. Bastò il tempo di un battito di ciglia, per capire cosa significasse tutto quello. «Dove lo hai preso?», strinse le dita attorno al ciondolo, nell’inconscio tentativo di nasconderlo.
«È mio».
«Menti», assottigliò lo sguardo, cercando qualcosa che smentisse il timore che le aveva invaso ogni senso. «Conoscevo a chi apparteneva», estrasse dalla scollatura il ciondolo gemello, come prova evidente della menzogna che stava ascoltando. «Dove lo hai preso?», chiese nuovamente e con rabbia.
«La persona che lo aveva non c’è più», il ragazzo sciolse il nodo del mantello, abbandonandolo su una sedia e chiudendosi la porta alle spalle, «non è rimasto più niente di lui».
«Non sai quello che dici». Il respirò le strozzò la gola, facendola ansimare come un topo in trappola. Se avesse per un secondo dato ascolto al suo sesto senso, si sarebbe accorta che nessuno dei pensieri che le era vorticato in testa era quello esatto. Proprio lei, che era sempre stata un’eccellente osservatrice e padrona di un intuito vivace, aveva scambiato l’evidenza con l’illusione di un passato che non sarebbe più tornato.
In preda alla disperazione si avventò contro di lui, urlando per la rabbia e il dolore più intensi che avesse mai provato, cercando in ogni modo di strappargli di mano il ciondolo. Riuscì a malapena a farlo arretrare, sferrando calci e provando a graffiare ogni centimetro di pelle che riusciva a raggiungere. Quando lui le afferrò entrambe i polsi, cercò di divincolarsi con uno strattone, perdendo l’equilibrio e sbilanciandosi all’indietro. Lo trascinò con sé, che riuscì ad attutire la caduta passandole un braccio dietro la testa.
Il frammento di stella contenuto nelle sfere si illuminò, risplendendo come una piccola meteora infuocata. Chiusero gli occhi inconsapevolmente nello stesso istante, mentre tutto si faceva buio e ovattato, quasi la porta per un altro mondo si fosse spalancata.
Quando li riaprirono, fu come tornare indietro nel tempo. Ancora una volta si ritrovarono immersi in uno spazio senza confini, governato da un cielo che aveva l’assurda pretesa di condensare ogni singola sfumatura di blu. In una pioggia di piccole scintille, le due metà della stella tornarono ad unirsi, riprendendo il proprio posto esattamente allo zenit, sopra di loro e a sigillo dell’abbraccio improvvisato in cui si erano trovati.
Sahira si accorse di aver iniziato a piangere solo nel momento in cui il ragazzo le sfiorò una guancia, provando a cancellare la scia salata che una lacrima le aveva tracciato sulla pelle. Provò a divincolarsi, ma l’intensità che incontrò nei suoi occhi – di un verde così chiaro e lucente, come acque di un lago di montagna – cancellò ogni resistenza. Sentiva il suo fiato sul viso, il suo odore intenso e così buono. Non fece altro che guardarlo, la vista annebbiata dalle lacrime e il cuore perso in un miscuglio di dolore e sorpresa. «Lasciami andare», fu una preghiera sincera, che suonò molto come una sconfitta.
«Sarebbe da stupidi, non credi?», posò la fronte contro la sua, quasi stesse cercando la forza necessaria per andare avanti. Scosse la testa, rispondendo alla domanda inespressa che le vide scorrere negli occhi, di quel colore così insolito, «Passare una vita intera a desiderare qualcosa senza mai agire». Le sfiorò le labbra con il polpastrello, quasi le stesse disegnando, «Mi sei mancata così tanto, Miann».
«Dimmi che non è vero», gli infilò le dita tra i capelli, tirando fino a quando una smorfia di fastidio non gli passò sul viso. «Non ti prendere gioco di me».
«Non l’ho mai fatto», le alzò il mento, e la trovò splendida nella luce fioca delle stelle, che disegnavano ombre simili a ricami sulla sua pelle d’alabastro. «Te l’avevo promesso, ricordi?», la scrutò titubante, cercando di sollevarsi per non gravarle addosso. Quando sentì le gambe di Sahira stringergli i fianchi, fu convinto di non riuscire più a creare un pensiero coerente.
«Avevi detto che mi avresti spiegato perché sono il tuo desiderio», gli accarezzò il viso, fermandosi contro la sua guancia e godendo del calore dei loro corpi a contatto. «Erian», gli posò un bacio sulla fronte, poi uno sul naso, singhiozzando tra le lacrime.
Rimasero abbracciati sul pavimento come tanti anni prima, quando erano poco più che bambini ed avevano catturato una stella.
Erian non le chiese il permesso, semplicemente la baciò. Le sfiorò la bocca con la propria, succhiandola come se stesse cercando di capire di che cosa sapesse realmente. Gemette spingendosi contro di lei e passandole la lingua sulle labbra, in una carezza così piacevole che Sahira non riuscì a trovare nessun buon motivo per resistergli. Quando gli invase la bocca, il suo sapore fu così eccitante che per istinto poggiò le mani sulla sua schiena, tirandolo contro di sé. Non avevano fretta, semplicemente assaporavano il piacere della scoperta con una consapevolezza disarmante, perché erano loro e niente nelle loro vite li aveva potuti cambiare.
«Sono belli», Erian attorcigliò una lunga ciocca di capelli attorno ad dito, tirandolo appena per farla avvicinare e poterla baciare ancora, «fanno risaltare i tuoi occhi».
Sahira sorrise, avvertendo le guance farsi più calde a quel complimento. Le sembrava di essere con un uomo per la prima volta, Erian scardinava ogni sua convinzione. «Sei sparito come se non fossi mai esistito», si rannicchiò contro di lui, la testa sotto il suo mento e i piedi intrecciati.
«Non era quello che volevo», seguì la linea del collo soffiando contro la sua pelle, scostando leggermente il vestito per poterle lasciare un bacio sulla spalla, «ma…».
Sahira gli posò due dita sulle labbra, scuotendo leggermente la testa, «Ti prego, non adesso». Alzò gli occhi verso il cielo che ancora li avvolgeva, cercando la mano di Erian e baciandogli i polpastrelli uno ad uno, «ci sarà tempo per ogni cosa. Vuoi esprimere un desiderio con me?».
«Non ne ho bisogno», con un movimento fluido ribaltò le posizioni, portandola sopra di sé, «tu sarai sempre il mio desiderio migliore».
 
 
 
 
¹ Piccolo alberello proveniente dall’estremo oriente. Presenta delle foglie grandi, ovate e ha dei rami pelosi mentre i fiori profumati che appaiono in 
  estate sono a forma di stella bianco-rosati, e sono molto simili ai gelsomini. Le bacche commestibili, che compaiono in inverno, sono invece di colore
  blu scuro, circondate da un calice di colore rosso intenso, che le rende molto appariscente
² Da Google: stupido imbecille senza cervello.
  Perdonate la traduzione, non so se è realmente questa, ma – purtroppo - non conosco nessuno scozzese che possa verificarne la veridicità.
  Prendetela come licenza poetica.

 
Bentrovate/i!
Se siete passati di qui e siete giunti fino a questo punto, mi fa piacere.
Storia nata per il contest citato all'inizio, devo dire che ha messo a dura prova la mia scrittura XD
Non ne voleva sapere di nascere, ma sono testarda quanto un centauro, quindi... lascio a voi il giudizio.
Solo due piccole note: Seren significa stella (in gallese) e Miann significa desiderio (in gaelico scozzese).
Alla prossima lettura
Morgana
  
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