Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    15/09/2020    1 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 19

 
Eren

11:38, nel mio salotto.

Rimango in piedi vicino al divano con le mani chiuse a pugno. Non devo difendermi da qualcosa o qualcuno. È solo confortante, per quanto sia strano dirlo. Jean mi dedica un sorriso che mi fa rizzare i peli sulla nuca. Non mi sorride da chissà quanto tempo. È strano come quella piccola piega nell’angolo della sua bocca riesca a farmi sentire a disagio.

Sembra… rilassato.

Non sono sicuro del motivo per cui ciò mi mette a disagio. È così, però, e prima di poter protestare, mi attira verso di sé per stringermi in una specie di abbraccio fracassa-ossa che mi spezza il respiro.

“Mina mi ha chiamato,” mormora contro il mio orecchio.

Mi irrigidisco e mi stringe di più. Seppellisce la faccia contro il lato del mio collo ed espira pesantemente contro la mia pelle. Mi stringeva come se avesse paura che possa scappare da un momento all’altro.

E diavolo, è così. Lo sento crescere nelle mie ossa, una specie di contrazione ai polpacci, l’improvviso bisogno di lasciar perdere tutto e correre. Voglio arrendermi, voglio lasciarmi andare, ma non lo faccio. Sono stufo di questo. Scappare sempre, intendo. Ma non c’è molto che possa fare. È una delle mie preziose strategie di adattamento.

“Ah sì?” Domando retoricamente, la mia voce uniforme e morbida, e lui mi libera. “Che cosa ha detto?”

“Mi ha detto che eri con un amico,” dice, corrugando le sopracciglia, e io annuisco per confermare la validità della sua dichiarazione. “Lo sapevo che prima o poi saresti andato. Era tardi quando mi ha chiamato.”

Deglutisco.

C’è qualcosa bloccato nella mia gola, qualcosa di grosso e ostruttivo, ma i miei tentativi di rimuoverlo sono inutili. Tutto il mio corpo è pesante ed esausto quando penso al giorno precedente. Abbiamo passato un sacco di tempo nel minuscolo ufficio di Mina. Bertholdt le ha raccontato tutto quanto, liberandosi del peso dal petto. Quando Mina ha chiesto al mio amico di approfondire le cose, sono stato bandito in soggiorno. Non l’avevo più visto da quando eravamo tornati a casa.

Non mi ha detto una sola parola.

“Siamo stati lì tutto il giorno,” gli assicuro. Non voglio che lui pensi di essere sparito nella notte come faccio di solito. Annuisce, si rilassa e fa un passo indietro. Sento di poter respirare di nuovo.

“Che cosa è successo?” Chiede con cautela. Alzo le spalle.

“Il mio amico aveva bisogno di aiuto.” Jean annuisce.

“Tu le hai…?”

“Parlato?” Finisco per lui la frase. Jean annuisce di nuovo. “Non ne ho sentito il bisogno. Lui aveva più bisogno di lei.”

Jean sprofonda lentamente nel divano. Lo guardo, infilando le mani nelle tasche e aspetto che dica qualcos’altro. Sembra pensare alle mie parole. Mi chiedo cosa voglia dire, cosa dirà, e prima che possa chiederglielo, apre la bocca.

“Mi ha raccontato dell’incidente con il biglietto da visita,” mormora, e lo guardo attentamente.

Incidente.

La parola ha una connotazione così negativa.

L’incidente mi fa pensare a tutte queste situazioni sgradevoli. L’incidente con Nick, quando ha deciso che voleva più di quanto io volessi dare. L’incidente con Levi, quando ha deciso di mettersi in mostra davanti ai suoi amici. L’incidente con Historia, quando ha deciso che era stanca che la trattassi da schifo. L’incidente di Mikasa, quando ha deciso che voleva abbandonarmi.

Ma l’incidente del biglietto da visita non è stato davvero un incidente. Avevo semplicemente fatto ciò che faccio sempre: rifiutare ogni singola offerta di aiuto. Nulla di nuovo.

Deglutisco di nuovo il nodo in gola e scrollo le spalle, tentando di apparire disinvolto. Mi sento tutt’altro che disinvolto. Tuttavia, non ho intenzione di dirlo a Jean.

“Non è un grosso problema,” dico. Provo a valutare la sua reazione. È difficile, però. Non so mai come reagirà fino a quando non lo farà.

“Vuole ancora aiutarti,” dice Jean lentamente. “Era seria a riguardo, lo sai. So che le cose non sono andate così bene l’ultima volta, ma Mina è diversa. Lo giuro.”

“Lo so,” rispondo. Mi chiedo se penso di saperlo davvero. “Capisco. Ma non mi piace molto l’idea di essere diventato un premio per una gara di carità.”

Jean restringe gli occhi. “Non sei un premio in una gara di carità. Lei vuole solo aiutarti.”

“Solo perché gliel’hai chiesto tu,” rispondo con uno sbuffo derisorio. Jean sospira.

“Non è vero.”

“Come vuoi,” dico, perché non ho nient’altro da dire. Lo guardo. “Mi dispiace di aver marinato la scuola oggi, comunque. Ieri non è stata una bella giornata.”

“Non sono arrabbiato,” mormora Jean, e mi ritrovo ad alzare le sopracciglia. Si stringe nelle spalle e si gratta la nuca. “Mi ha detto che eravate davvero scossi.”

Annuisco lentamente e mi mordo l’interno della guancia. All’improvviso, mi viene in mente un pensiero.

“Ehi, Jean?”

“Cosa c’è?”

“Tu... hai mai avuto a che fare con casi di stupro?” Domando. Gli occhi di Jean si spalancano.

“Ti è successo qualcosa?”

“Non a me,” mormoro. “A qualcun altro.”

All’improvviso, Jean mi lancia uno sguardo consapevole.

“Di solito ho a che fare con lamentele di disturbo della quiete pubblica e piccoli crimini,” ammette Jean. “La mia unità non ha che a fare con casi del genere. C’è un’unità speciale per casi di stupro.”

Annuisco, sentendomi un po’ scoraggiato. Mi sento abbastanza a mio agio nel parlare con Jean. E se Bertholdt volesse perseguire legalmente le cose, preferirei che il caso fosse seguito da Jean. Non so se Bertholdt vuole denunciare ciò che gli è successo, e non so se Mina sia costretta al segreto in questo tipo di casi. Non voglio forzare Bertholdt, ma voglio offrirgli una strada da percorrere in caso scegliesse di fare qualcosa.

“Conosci qualcuno di quelle unità?” Chiedo. Jean annuisce.

“Alcuni. Lavoriamo tutti nello stesso ufficio,” risponde. Increspa le labbra. “Posso contattare qualcuno di loro, se vuoi.”

Sollevo le spalle.

“Puoi procurarmi un biglietto da visita o qualcosa del genere? Non sono sicuro di quanto voglia andare fino in fondo.”

“Certo, posso farlo,” continua Jean per poi aggrottare le sopracciglia. “Ehi, stai bene?”

Annuisco. “Sto bene.”

Ormai ha capito che questo è il mio modo di mandarlo via, ma questa volta non cede. Non so cosa dovrei fare in questa situazione. Voglio essere un buon amico per Bertholdt, ma non sono sicuro di quanto lui mi voglia coinvolgere in tutto questo. Immagino che starò in stand-by finché non avrà bisogno di me.

“Va bene,” dice Jean. “Se lo dici tu.”

Annuisco, sorridendo con uno dei miei sorrisi finti, e Jean sospira piano.
 
 
***

13:46, ginnastica. 

La palestra mi dà davvero sui nervi. Non so sia perché credo di dover provare a fare qualcosa o perché non devo vedere Reiner. Credo sia per quest’ultimo motivo. Ogni volta che ci passo accanto, la voglia di colpirlo in faccia diventa sempre più forte. La mia mente è ancora fortemente fissata su ciò che Bertholdt mi ha raccontato. E anche se gran parte vuole prenderlo a pugni fino a sfigurarlo, so che non risolverebbe nulla.

“Jaeger!”

Smetto di progettare modi per uccidere silenziosamente Reiner e alzo lo sguardo per il signor Zacharias dirigersi verso di me con uno sguardo severo, e mi chiedo cosa ho fatto di sbagliato.  

“Sì?” Dico, asciugandomi il sudore dalla fronte. La palla da basket mi rimbalza accanto e non faccio nulla per afferrarla. Mi dirigo verso il bordo del campo dove mi aspetta il signor Zacharias.

“Vai a controllare Levi,” dice.

“Levi?” Ripeto, e mi giro per fare una rapida scansione della stanza.

Abbastanza sicuramente, Levi non è da nessuna parte. Prima c’era. Abbiamo parlato in spogliatoio e poi siamo stati messi nella stessa squadra. Uno dei palloni da basket l’ha colpito allo stomaco e la sua faccia si era contorta in una smorfia di dolore. Ma prima che potessi chiedergli come stesse, era andato dal professor Zachiaras. A giudicare dalla conversazione che stavo avendo, evidentemente non era tornato. 

“Dov’è?”

“In corridoio,” risponde. “Ha detto che aveva bisogno di bere qualcosa.”

Aggrotto la fronte.

“Vado a cercarlo,” assicuro. Il professore annuisce e io mi dirigo all’uscita della palestra. 

Mentre apro le pesanti porte, guardo il corridoio che dà verso la fontana. Levi non si trova da nessuna parte e mi ritrovo a rosicchiarmi l’interno della guancia.

“Dove diavolo ti sei cacciato?” Mormoro tra me e me.

Mi avvicino allo spogliatoio e spingo lentamente la porta. Non sono nemmeno sicuro che sia lì. Sento il suono dell’acqua corrente. Speriamo sia lui. Altrimenti, sarebbe davvero imbarazzante.

Torno verso il bagno, con un ghigno in faccia. Quel bastardo pensa di potermi sfuggire, eh? ‘Ho bisogno di bere qualcosa’. Seh, certo. Probabilmente voleva solo saltare la partita di basket. Non posso biasimarlo, comunque.

“Stai provando a saltare la lezione, Ackerman?” Comincio, ma la mia voce vacilla immediatamente non appena dico il suo nome.

Levi alza lo sguardo in completo shock. La mia bocca si asciuga appena poso lo sguardo sul suo torso nudo. Il suo addome è coperto di grandi lividi scuri. Un sussulto lascia le mie labbra e inciampo all’indietro, gli occhi fissi sulla sua pelle nuda. Levi impreca e si lava via il resto dell’unguento.

“L-Levi?” Balbetto. Lui stringe la mascella.

“Esci, Eren,” sussurra. Non sembra arrabbiato, ma qualcosa mi dice che cambierà quanto più mi dilungherò.

Non posso muovermi, però. Sono congelato, e all’improvviso mi viene in mente quando ha visto i lividi che Nick mi ha lasciato quella volta. Gli avevo risposto che nessuno mi aveva picchiato, vero?

Santo cielo.

Come ho fatto a essere così cieco?

“No,” dico, costringendomi a ritrovare la calma, e mi avvicino con esitazione. “Che diavolo ti è successo?”

“Niente,” mormora. Si gira di nuovo nel lavandino e indossa la maglia. Chiude il tubetto di unguento e lo infila nella tasca dei pantaloni. “Senti, vuoi andartene o no?”

“No,” dico con voce calma e lui mi guarda.

“Sto bene,” dice. Scuoto la testa con decisione.

“Non ti fa male?” Sussurro. Si appoggia all’indietro contro il lavandino ed espira rumorosamente.

“Sono abituato,” mormora. Mi avvolgo le braccia intorno come una forma di conforto.

Non aiuta affatto, per la cronaca.

“Pensavo avessi detto che era non bisogna abituarsi al dolore...” La mia mente corre con tutti questi diversi scenari. Non so cosa pensare. Non sono nemmeno sicuro che il mio cervello funzioni perfettamente a questo punto. Abbasso lo sguardo e mi mordo di nuovo il labbro.

“Dovremmo tornare in classe,” dice Levi seccamente, allontanandosi dal lavandino. “Andiamo-”

“Come pensi possa tornare in classe dopo questo?” Sibilo. Levi restringe gli occhi. “Che cazzo ti è successo?”

Rimane in silenzio per un po’. Mi passo le dita tra i capelli e inizio a camminare avanti e indietro.

“Che cosa... sul serio, che diavolo...?” 

“Ne parliamo più tardi,” dice Levi in ​​tono acuto. Mi fermo e lo guardo. “Va bene, Eren? Spiegherò tutto più tardi. Ma ora andiamo, va bene?”

Deglutisco forte.

“Prometti?”

Sembra sorpreso. Ma alla fine annuisce.

“Promesso,” dice. “Adesso andiamo.”

Mi passa accanto per andarsene. Rimango fermo sulla soglia del bagno, le braccia ancora avvolte attorno allo stomaco. All’improvviso fa davvero freddo. Il corpo è metà intorpidito e metà troppo sensibile. Sbatto le palpebre alcune volte per eliminare la sensazione di calore che si accumula dietro le palpebre.

Guardo incerto lo specchio. I miei occhi sono cerchiati di rosso e lacrime, ma almeno non ho iniziato a piangere. La mia mente torna immediatamente all’immagine dello stomaco di Levi.

“Merda, amico,” mormoro, e la mia voce suona in modo odioso nella stanza silenziosa.

Rabbrividendo, giro i talloni e lascio lo spogliatoio.
 
 
***

15:13, la mia camera da letto.

Sono seduto sul mio letto mentre Levi sta in piedi, le braccia incrociate saldamente sul petto. Non riesco a guardarlo in faccia. Non so cosa farò se lo faccio. Piangerei, probabilmente, che è l'ultima cosa che voglio.

“Fammi vedere,” sussurro.

Le mani di Levi cadono ai suoi fianchi, per poi sollevare l’orlo della maglietta. Quando la toglie completamente, continua a stringerla tra le mani. Osservo il suo addome. È piuttosto scolpito e immagino sia dovuto ai duri allentamenti di football, ma al momento non potrebbe fregamene di meno.

La mia unica attenzione è sui lividi sul suo stomaco. Sono per lo più concentrati verso la parte centrale, carnosa, il che è quasi un sollievo. Non ci sono lividi sulle costole, quindi almeno non sono rotte. 

Allungo esitante la mano verso di lui. Mi guarda impassibile prima di avvicinarsi a me.

È nauseante.

I miei occhi pizzicano di nuovo. Non riesco a respirare. Sono grato che non ci sia nessuno tranne noi. Non so come lo spiegherei ai miei genitori, figuriamoci Jean.

“Girati,” ordino. Tiro via la mano quando si gira lentamente.

I lividi sulla schiena sono dello stesso rosso scuro di quelli sullo stomaco. Immagino sia stato spinto contro qualcosa, ma ho troppa paura di chiedere. Non voglio che confermi nessuno dei miei pensieri, soprattutto perché mi stanno venendo in mente fin troppi scenari. 

Premo leggermente contro uno dei lividi. Sibila di dolore e mi scuso immediatamente.

“Quando... quando è successo?”

Si gira di nuovo.

“Durante il fine settimana,” borbotta. Abbassa lo sguardo sulla maglia ancora tra le sue mani. “La notte che ti ho chiamato, in realtà.”

“Santo cielo,” mormoro, passandomi la mano tra i capelli. “E non hai pensato di dire qualcosa?”

“Di solito non lo faccio,” dice. Sento il corpo irrigidirsi.

“Merda,” mormoro, fissandolo scioccato. “Non è la prima volta che succede?”

Levi mi guarda in silenzio prima di annuire. Sto per vomitare. Mi chino e afferro i capelli tra le mani.

“Oh mio Dio,” sussurro, sentendomi incredibilmente stremato, e il letto sprofonda accanto a me.

“Rilassati,” mormora Levi, spingendomi le spalle all’indietro.

“Come ti aspetti che mi rilassi?” Giro la testa per guardarlo.

Non risponde immediatamente. Continua a spingere finché non mi arrendo e mi lascio appoggiare sul letto. Si distende su un fianco e mi guarda. È ancora a petto nudo e mi ritrovo a fissare nuovamente il suo stomaco.

“Da dove vuoi che inizi?” Chiede piano. Mi giro dalla sua parte e lo guardo.

“Dall’inizio,” sussurro, la mia voce si spezza e Levi sospira piano.

“Certo,” dice, e mi tira per la manica fino a quando il mio corpo non viene incollato al suo. Non mi rendo conto di stare tremando fino a quando non fa scorrere ripetutamente la mano su e giù lungo il mio braccio.

Il calore dietro le palpebre si dissipa e sento le lacrime scivolare sulle guance. Mi mordo forte la lingua. Un sapore metallico mi inonda la bocca. Faccio un respiro profondo e cerco di costringermi a calmarmi. Non posso, però, e Levi mi avvolge con un braccio.

“Per favore, calmati,” prega, la sua voce disperata, e io scuoto la testa.

“Non posso,” sussurro, sul punto di piangere a dirotto, e qualcosa mi sfiora la fronte.

Mi ci vuole un po’ di tempo per capire che sono le sue labbra. Continua a premere piccoli baci contro le mie guance e la punta del mio naso, prima di tornare alla mia fronte.

È patetico sia lui a confortarmi. Non dovrebbe essere il contrario? Non dovrei provare ad aiutarlo io?

“Stai bene?”

Mi accartoccio le gambe verso lo stomaco e non rispondo. Mi costringo ad annuire e lui si allontana da me. Mi ritrovo a piangere per la perdita di calore corporeo, ma non riesco a vedere la sua faccia quando siamo così vicini.

“Sto bene,” mormoro e incontro i suoi occhi.

Lui annuisce, ma tiene la mano sulla schiena. Mi fa venire i brividi.

“Quest’estate è stata l’inizio della fine,” inizia a voce bassa e devo quasi sforzarmi di sentirlo. “Beh, è andato tutto a puttane. Sono stato mandato a vivere da mio zio. Mi ha odiato non appena ho varcato la soglia di casa sua.”

Mi mordo il labbro inferiore.

“È lui che ...?” Inizio, incapace di finire, e annuisce una volta sola.

“È spesso ubriaco,” dice espirando pesantemente, e sento le sue dita piegarsi in un pugno intorno alla mia maglia. Allungo la mano e stringo la sua, intrecciando le dita abbastanza strette da far male. È scomodo avere il braccio attorcigliato in quel modo, ma dà a entrambi qualcosa a cui aggrapparci. “È il classico ubriaco violento e arrabbiato. Non c’è molto altro da dire a parte questo.”

“Quanto spesso lo fa?” Chiedo, anche se non voglio davvero conoscere la risposta.

“Abbastanza spesso da doverlo sempre nascondere,” dice Levi in ​​modo uniforme. Rimango in silenzio e la sua espressione si ammorbidisce. “Hai paura.”

“Per te,” dico lentamente e lui solca le sopracciglia.

“So badare a me stesso.”

“Non si tratta di questo,” mormoro, guardando il suo stomaco. “Tu stai sopportando questa oscenità.”

Levi si acciglia.

“Non posso fare nulla, Eren,” dice con fermezza. “È tutto quello che ho.”

“No, non lo è,” sussurro. “Hai così tante persone che ti supportano, che si prendono cura di te! Non devi sopportarlo. Tu... puoi dirlo a qualcuno.”

“L’ho detto a te, no?”

“Sai cosa intendo,” dico, stringendogli più forte la sua mano. “Solo... mi dispiace così tanto.”

“Non sei tu quello che mi ha picchiato,” cerca di scherzare, ma io non rido. Sospira piano. “Cosa stai pensando?”

“Sto pensando che avrei dovuto notarlo prima.”

“Non era possibile. Non è che ne fossi ovvio al riguardo.”

“Lo so. Ma…”

“Ehi,” dice piano, ma io non lo guardo.

“Ecco perché ti sei agitato quella volta, vero?” Mormoro. “Quando hai visto i miei lividi quel giorno. Pensavi che qualcuno mi avesse fatto la stessa cosa.”

Lui annuisce e mi stringe le dita alcune volte.

“Ero così preoccupato,” ammette, facendo scorrere il pollice sulle mie nocche. “Volevo... volevo proteggerti da chiunque ti avesse fatto una cosa del genere. Mi hai spaventato a morte.”

Deglutisco e mi siedo, fissandolo. Non mi lascia andare la mano e non voglio che lo faccia. È l’unica cosa che mi tiene insieme.

“Non voglio ti faccia del male,” sussurro. Levi rotola sulla schiena con una smorfia.

“Aspetto di compiere diciotto anni,” inizia. “Appena succede, me ne vado da lì.”

“E adesso?” chiedo. “Cosa farai adesso?”

“Stringo i denti e vado avanti,” dice Levi, usando la mano libera per passarsi le dita tra i capelli. Si nasconde dietro la testa e mi guarda. “È tutto ciò che posso fare.”

Le mie spalle si abbassano. Mi avvicina e appoggio la fronte contro il suo petto, assicurandomi di non premere su nessuno dei lividi. Mi lascia la mano per passarla sulla mia schiena in modo rassicurante e ne approfitto per respirare il suo profumo.

“Starai bene,” dico contro la sua pelle. Le mie labbra iniziano a tremare e le premo contro il suo petto. Rido amaramente e scuoto la testa. “Dio, dovrei essere io quello a confortarti. Non il contrario.”

“Non mi dispiace,” dice timidamente. “Mi stai distraendo.”

“In senso buono?” Domando, sollevando la testa; annuisce.

“In senso buono,” dice.

Ci fissiamo, senza dire nulla. Mi siedo lentamente e lui mi segue. Si sporge in avanti verso di me e trattengo il respiro, tenendo gli occhi aperti mentre si avvicina. Preme le nostre fronti insieme. Un respiro tremante mi esce dalla bocca e allungo la mano per accarezzargli i capelli. Lui avvolge le braccia al mio busto e stringe.

“Avevi ragione, sai?” Dice piano. Mi mordo l’interno della guancia.

“Riguardo a cosa?”

“Noi abbiamo bisogno l’uno dell’altro,” spiega. “Io... ho davvero bisogno di te, Eren.”

“Sono qui,” lo rassicuro, la mia voce assume un tono disperato e affonda le dita nella schiena come se stesse cercando di sciogliermi. “Sarò sempre qui.”

“Lo so,” sussurra con voce così spezzata che mi si blocca il respiro in gola.

Non riesco a pensare a una risposta. I miei occhi si chiudono e muovo le mani in modo da afferrargli il viso. Segue il movimento della mia mano e gli permetto di premermi contro il letto. Si mette sopra di me, con le mani a ogni lato della mia testa. Lo guardo, aspettando che dica qualcosa.

“Grazie,” dice infine, e tutto il mio corpo si irrigidisce.

Posso solo annuire in risposta.
   
 
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