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Autore: Shireith    16/09/2020    2 recensioni
Gli sorride. «Sei sveglio.»
Suga annuisce; poi Daichi lo vede abbassare lo sguardo – non sulla ferita,
quella non vuole guardarla – e stringere i pugni, ancorando le dita alle lenzuola (bianche, sempre e solo bianche).
«Avremmo dovuto vincere, quest’anno», pronuncia con voce strozzata, quasi gli fosse rimasta troppo tempo incastrata in gola.

{DaiSuga accennata; leggero what if? ambientato durante il secondo anno}
Storia scritta per l'iniziativa "A scatola chiusa" organizzata da Rosmary nel gruppo Facebook “Caffè e calderotti”.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Daichi Sawamura, Koushi Sugawara
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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«A volte, nella vita capitano infortuni in cui bisogna avere un po' di follia per cavarsela.»
(François de La Rochefoucauld)
Suggerito da Gaia Bessie.

Sull’imparare a volare


 Cammina così piano che gli sembrerebbe di fluttuare nel vuoto, se non fosse per l’eco prodotto dal ticchettio regolare delle sue scarpe sul pavimento lucido e immacolato. L’ospedale dorme, immerso nell’inchiostro notturno della città, lì tra tanti palazzi anonimi. L’oscurità non è confortante, ma Daichi, ombra che s’aggira tra i corridoi, la preferisce al bianco preminente che, anziché rassicurarlo, riesce solo ad angosciarlo.
 Sono tristi, gli ospedali, e vorrebbe essere ovunque tranne che lì.
 Apre piano la porta, che cigola appena mentre lascia trapelare uno spicchio di luce bianca, sempre e solo bianca – e con altrettanta delicatezza se la richiude alle spalle.
 Suga dorme. Potrebbe far finta, in effetti, ma Daichi sa che non è così; lo sa perché Suga non sorride, non gli rivolge parole rassicuranti (false) né promesse per il futuro (vane).
 Ha paura, Suga, e almeno negl’incubi, un tempo sogni, non deve né può far finta. Daichi osserva la sua espressione angosciata mentre si agita nel sonno ed è così che capisce.
 Poco dopo lo raggiunge – anche i suoi sogni sono incubi.
 
 «Daichi?»
 Riapre gli occhi; non sa quanto tempo sia passato, ma dal buio che si staglia al di là della finestra capisce che è ancora notte.
 Gli sorride. «Sei sveglio.»
 Suga annuisce; poi Daichi lo vede abbassare lo sguardo – non sulla ferita, quella non vuole guardarla – e stringere i pugni, ancorando le dita alle lenzuola (bianche, sempre e solo bianche).
 «Avremmo dovuto vincere, quest’anno», pronuncia con voce strozzata, quasi gli fosse rimasta troppo tempo incastrata in gola.
 
Avrebbero dovuto vincere.
 
 Così sarebbe stato, forse, se Suga non si fosse procurato quella ferita durante una partita amichevole.
 Quel forse, però, rimbalza tra le pareti come la corda stonata d’un violino e Daichi gli rivolge un sorriso amaro – forse non esiste. Avrebbero perso comunque: sanno bene che una squadra come la Karasuno, figlia di una gloria che appartiene al passato, non sarebbe andata lontano, con o senza Suga.
 
Quella gloria, eppure, Daichi la vuole.
 
 «Vinceremo l’anno prossimo», replica. Non sa se nelle sue parole vi sia speranza o follia – probabilmente entrambe. «Ci vuole… allenamento. E fortuna. Ma soprattutto allenamento. Tanto, tanto allenamento. Se Nishinoya e Tanaka non…»
 Suga sorride: Daichi è sempre il solito, pensa mentre lo osserva lamentarsi dei due novizi che, ben presto, saranno al loro secondo anno di liceo; per loro e Asahi, invece, sarà il terzo.
L’ultimo.
 Vinceranno, l’anno prossimo, si ripete Suga, rincorrendo le parole di Daichi. Servono allenamento, dedizione, fortuna – e un pizzico di follia che, in fondo, non guasta.
 È folle, in effetti, pensare che una squadra come la loro possa arrivare ai Nazionali – ma folle, a loro insaputa, sarà anche il loro terzo e ultimo anno di liceo.
 
Perché come altro potrebbero essere descritti, Hinata e Kageyama, se non come due folli che alla fine ce la fanno?
 
 «Mi rimetterò presto, Daichi, e torneremo a giocare.»
 
E folli lo sono e saranno un po’ tutti, tra i corvi che, di nuovo, impareranno a volare.
   
 
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