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Autore: Nao Yoshikawa    18/09/2020    4 recensioni
Crowley inizia lentamente e inesorabilmente a perdere la memoria a causa di una maledizione lanciata dai demoni. Lui e Aziraphale riusciranno a spezzarla o dovranno semplicemente rassegnarsi ad un destino già scritto?
Quanto è importante la forza di un ricordo?
«Posso azzardarmi a dire che questi oramai non sono più vuoti di memoria, giusto? Da quanto vanno avanti?» domandò stringendogli un ginocchio con una mano. Era una situazione inquietante e piuttosto spiacevole, ma l’angelo stava cercando di non pensare al peggio.
«Non saprei… una settimana, forse? Non capisco. Perché sto iniziando a dimenticare delle cose? Anche quelle più recenti…mi sono dimenticato del giorno in cui ti ho chiesto di sposarmii», Crowley si portò una mano tra i capelli, scombinandoli, con gli occhi lucidi.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Belzebù, Crowley, Gabriele
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Per Aziraphale era come vivere  e muoversi in una fragilissima sfera di cristallo. Come camminare su una corda dal precario equilibrio. Sarebbe bastata una singola mossa o una parola sbagliata per mandare tutto in pezzi, per tal motivo l’angelo ci prestava più attenzione possibile. La convivenza con il suo “nuovo” coinquilino andava più che bene, nonostante Crowley continuasse a ripetergli che presto si sarebbe trovato un'altra abitazione, perché di certo non voleva  approfittare della sua gentilezza angelica.
“Potrebbero davvero crearci problemi, i nostri”, aveva detto, ma in realtà non ci credeva troppo nemmeno lui.
Era tutto strano. Lo era svegliarsi e vedere Aziraphale (i due dormivano in posti separati, sebbene almeno per Crowley non ce ne fosse bisogno). Avere qualcuno pronto ad esserci, ad ascoltarlo, ad accoglierlo.
Il quarto giorno della loro convivenza, Crowley si convinse che forse Aziraphale rivedeva in lui l’amato marito morto. Sarebbe stata la cosa più plausibile, avrebbe spiegato perché fosse così gentile, perché aveva deciso di ospitarlo e il resto.
E nonostante fosse un demone, Crowley non voleva approfittarne. Aziraphale era triste, anche quando sorrideva i suoi occhi erano malinconici. Questo, per qualche strano motivo, lo intristiva a sua volta. 
«Cosa farai oggi? Altre tentazioni?» Aziraphale cercava di essere gentile e affabile e di fare finta di nulla, nonostante la voglia di abbracciarlo, baciarlo e stringerlo. Aveva pensato alle parole giuste per dirgli la verità, anche se da un lato era convinto che sarebbe stato meglio non rivelargli nulla, provare semplicemente  a farlo innamorare di nuovo. Ricominciare. Ma la verità era che Aziraphale non voleva perdere quei ricordi immortalati in delle foto. O scritti su una pagina di diario.
«Sì, credo di sì», sospirò Crowley pensieroso, bevendo dalla sua tazza di caffè.
Gli era tutto così familiare. Anche l’angelo stesso gli dava l’impressione di averlo già visto da qualche parte. «Ma siamo sicuri di non esserci mai conosciuti? Tu mi sei familiare.»
Aziraphale abbassò lo sguardo sul suo caffellatte. Aveva paura. Di tutto, dell’ignoto, era terribile e frustrante.
«Ci sono tanti angeli come me al mondo, magari ti sbagli.»
Crowley però scosse il capo, poggiando il braccio sul tavolo e guardandolo intensamente.
«Pensare a te mi fa pensare al profumo della pioggia. E questo è strano, come ben sai non mi è mai piaciuta.»
Aziraphale sgranò gli occhi, poggiando d’istinto una mano sulla sua.
«E a cos’altro ti faccio pensare?» sussurrò. Crowley non sembrò affatto infastidito da quel contatto, era troppo intento a pensare.
«Non saprei di preciso, è qualcosa di vago, qualcosa di felice e molto antico. Ti conosco da poco, ma ho anche la sensazione di conoscerti da una vita intera. È così assurdo…
Non è assurdo, Crowley. Io esisto ancora. Da qualche parte, dentro di te. Ci sono ancora io, ciò che siamo.
«Posso assicurarti che ha tutto senso», gli sussurrò, ora così vicino che avrebbe voluto baciarlo.
«Tu dici? Io ho come l’impressione che Lei si stia divertendo a giocare con la mia mente, ma magari mi sbaglio, amo tanto fare la vittima.»
Crowley si staccò all’improvviso, come se si fosse reso conto  in quel momento di essere stato sfiorato da un angelo. Si alzò, indossando gli occhiali da sole.
«Ad ogni modo, ti sarò di disturbo il meno possibile, angelo.»
«Lo sai che non mi disturbi», sospirò lui, già soffrendo di quella mancanza di contatto. «Tu… riempi il vuoto, ecco…»
Crowley si sentì arrossire. Quell’angelo stava iniziando a piacergli, ma non del tipo che ne avrebbe approfittato per una notte e poi via. Aziraphale gli faceva venire voglia di proteggerlo e di comportarsi in maniera migliore.
«Sono solo…io…» sussurrò. Poi non dissero più nulla e si  separarono. Aziraphale sospirò, accasciandosi sulla sedia. Sapeva di non essere solo, di avere il sostegno dei suoi amici, perfino di Gabriel. Nonostante facesse ancora il duro, alla fine erano legati dallo stesso dolore. I ricordi erano stati perduti, ma non erano ancora riusciti a separarli.
 
Crowley era salito sulla Bentley e aveva iniziato a sfrecciare a velocità molto sostenuta prima per le stradine di campagna, poi per la città, ignorando ogni buon senso. Avrebbero avuto sicuramente problemi. Gli angeli erano dei veri bacchettoni e nemmeno i demoni erano di modi gentili. Non osava immaginare cosa il suo superiore, Belzebù, avrebbe detto. Proprio mentre pensava ciò, la canzone dei Queen che stava ascoltando venne interrotta da un’interferenza. Sembrava che qualcuno fosse appena entrato nella radio e Crowley capì che forse uno dei suoi stava cercando di mettersi in contatto con lui.
«Crowley!» sentì chiaramente.
«Amh, con chi ho il piacere di parlare?»
«Sono io, Dagon. Qui sotto abbiamo un po’ di problemi, della serie che Belzebù non si trova.»
«Eh?» esclamò lui facendo una smorfia. «Che vuol dire non si trova? Con tutta la gente che dipende dai suoi ordini non può sparire.»
«Per l’appunto, qualcosa mi dice che si trova lì sulla terra. Puoi dare un’occhiata?»
Crowley avrebbe voluto chiederle perché diavolo non la cercasse da sola, a Dagon non era mai piaciuto troppo in realtà, e nemmeno a Belzebù, ma dato che non aveva nulla da fare…
«Oh, e  va bene! Ma voglio un riconoscimento per questo!» borbottò girando a destra.
Era tutto molto bizzarro. Angeli gentili con lui, demoni che gli chiedevano aiuto… il mondo era finito sotto sopra! Superò Soho, concentrandosi sui suoi sensi da demone per captare un’eventuale presenza demoniaca: Belzebù effettivamente non si trovava lontana e sembrava… trovarsi sospesa su un fiume.
 
Tutta la sua vita era un’enorme bugia. Lei, che era a capo di tutti quei demoni, temuta  e rispettata, in realtà non aveva capito nulla. In realtà era stata ingannata, era stata la vittima e la carnefice di un’altra coppia di amanti. Come aveva potuto cedere a quel sentimento umano chiamata amore? E soprattutto, si chiedeva, perché doveva fare così male? Aveva amato Gabriel una volta, ma l’aveva dimenticato, e adesso? Che gli rimaneva di lei, di lui, di loro?
Sospirò, sentendo il profumo della pioggia: magari avrebbe piovuto di nuovo?
Nessuno avrebbe potuto capire il suo dolore. O, per meglio dire, ci sarebbe riuscito una persona soltanto, un demone che in quel momento parcheggiava la sua auto, scendeva e si avvicinava con la mano tesa.
«Sai, se vuoi suicidarti non credo che funzionerà. L’acqua dovrebbe essere almeno benedetta.»
Aprì le palpebre, avvertendo solo dopo il tocco di Crowley sulla propria spalla. Colui che aveva reso una vittima, a cui aveva riservato lo stesso destino crudele da cui nemmeno lei era potuta sfuggire.
Un ironico susseguirsi di eventi, un piano ineffabile di un Dio che si stava divertendo fin troppo con loro.
«Tu? Che cosa fai tu qui?» domandò avvertendo le prime goccioline bagnarle il viso e i capelli, tuttavia ciò non la infastidì troppo.
«Bella domanda, me lo chiedo anche io. Ma Dagon mi ha stranamente chiesto aiuto e mi sembrava parecchio preoccupata. Che succede, problemi all’Inferno?» domandò tutto divertito, togliendosi gli occhiali e mostrando le iridi dorate. Belzebù non rispose subito, capì di provare un forte disagio. Crowley aveva perso tutto per colpa sua e lui neanche lo sapeva. Forse si trattava di senso di colpa, un altro sentimento stupidamente umano quanto l’amore.
«Vattene via, Crowley. Tu non dovresti neanche starci qui»
«A dire il vero sei tu quella che non dovrebbe stare qui, ma intanto eccoti», Crowley tese una mano, osservando come le goccioline di pioggia gli bagnavano il palmo.
«Ti prego, smettila. Dovresti odiarmi, punto e basta, non venire qui a cercare di consolarmi», disse freddamente.
«Consolarti? Non era proprio quella l’intenzione, ma… dovrei odiarti per cosa, esattamente? Va bene, non siamo sempre andati d’accordo, ma di qui ad odiarti mi sembra eccess-»
«Capirai presto, Crowley», oramai bagnata fradicia, Belzebù finalmente lo guardò negli occhi. «Se non mi fossi innamorata, adesso non mi ritroverai a provare empatia e comprensione nei tuoi confronti. Odio il fatto che siamo così uguali.»
Con una postura perfettamente dritta e fiera, Belzebù gli passò davanti come se non fosse fradicia.
«Ma… dove te ne vai, ora? Cosa faccio se Dagon mi contatta? Io… ah, ma perché me la prendo tanto? Non è nemmeno un mio problema», decise infine, anche se il suo superiore gli aveva dato da pensare: Belzebù era strana, sembrava triste, e non una tristezza comunque. E soprattutto, cosa gli aveva mai fatto per doverla addirittura odiare? Sembrava che tutti stessero cercando di nascondergli qualcosa,  l’angelo compreso.
Ma cosa? Perché stava andando così? E perché se cercava di rimettere i pezzi a posto avvertiva solo una grande confusione?
Odiava la pioggia, sempre così umida e fin troppo bagnata. Per questo provò sollevò quando avvertì qualcosa sopra la sua testa. E poi sentì una voce.
«Ragazzo, non dovresti stare sotto la pioggia.»
Ad aver parlato era stata una donna. Nel guardarla, Crowley ebbe quasi l’impressione che la pioggia non la sfiorasse neanche. E inoltre, nel vederla, aveva quasi perso la capacità di parlare.
«Io stavo…. In realtà me ne stavo andando e… ma ci conosciamo, per caso? Mi pare familiare. Oh, ma chissà quanta gente ho conosciuto in questi seimila anni, alle volte la memoria mi fa dei brutti scherzi», Crowley iniziò a parlare a bassa voce, come se stesse conversando con se stesso. La donna però non sembrava minimamente disturbata, anzi, ora gli sorrideva con dolcezza.
«Allora, tu e Aziraphale siete riusciti a ritrovarvi?»
Aziraphale? Quella donna conosceva Aziraphale? Allora sotto doveva davvero esserci qualcosa.
«Lei conosce Aziraphale? In che senso poi ritrovarci? Ci eravamo persi…?  Credo che lo ricorderei, altrimenti», affermò incerto.
«Sì, diciamo che conosco Aziraphale e che conosco anche te. E so che tenete molto l’un l’altro. Al punto da andare contro tutto, Paradiso e Inferno.»
Crowley indietreggiò, sentendosi adesso vagamente inquieto. Quella donna gli parlava in un modo da fargli provare molteplici sensazioni, calore, angoscia, voglia di piangere  e liberarsi.
«Tenerci? Ma noi non ci conosciamo neanche…» mormorò, ora un po’ provato.
«Oh sì che vi conoscete, puoi fidarti di me. Non preoccupatevi, poggerò due mani sulle vostre teste affinché non vi perdite.»
Accadde in un battito di ciglia, letteralmente. Perché poco dopo quella donna vestita di bianco non c’era più e Crowley si ritrovava a tenere in mano il suo ombrello. Era stata una visione, un sogno ad occhi aperti o era semplicemente impazzito?
 
Belzebù si era lasciato alle spalle  Crowley. Non voleva parlare con lui, non poteva, non ne aveva il diritto. Si sentiva la testa scoppiare. Non voleva tornare all’Inferno, ma voleva anche smettere di pensare. Ma come?  I suoi ricordi erano andati perduti. Perché dirglielo? Era una maledetta tortura.
Era arrivata una leggera nebbiolina e la strada sembrava deserta. Solo odore di pioggia e nient’altro. Ad un tratto si sentì debole e si piegò sulle sue stesse gambe, con le mani sulla testa pulsante.
«Gabriel…» mormorò. Si odiò, ma le importò poco. Lo voleva lì con lui, non importava cosa sarebbe successo poco. Ma Gabriel non l’avrebbe mai lasciata da sola. Era un po’ il suo angelo custode, per questo lui le comparve davanti, sentendosi felice, perché finalmente lei lo aveva chiamato.
«Bel, sono qui», sussurrò.
 
Se avesse saputo che quella sarebbe stata l’ultima notte, probabilmente Gabriel avrebbe fatto in modo che durasse di più, in qualche modo. Il buio era accogliente, reso meno oscuro dalle stelle su nel cielo, il manto d’erba era soffice e, nonostante un lieve vento freddo, a coprirli c’erano le loro stesse ali. Gabriel aveva preso il suo abito scuro, l’aveva sfilato via, scartandola piano, gettandolo sull’erba e poi l’aveva fatta sua. Non sapeva che sarebbe stata l’ultima volta. Ci avevano provato ad allontanarsi prima di rimanerne troppo coinvolti, ma era oramai tardi.
E poiché era tardi. Belzebù non poteva fare a meno di tracciare i suoi lineamenti con le dita mentre lui la baciava , la possedeva ancora.
Lineamenti che avrebbe scordato, così come i tocchi, le sensazioni, tutto.
Aveva pianto tante volte, anche se da sola. Sarebbe stato magnifico scappare, ma anche così non sarebbe mai potuta sfuggire al suo destino. Forse era più coraggioso rimanere nonostante tutto, coraggioso ma anche così incredibilmente doloroso. Avevano ballato tutta la notte, e poi si erano lasciati cadere sull’erba, non abbastanza stanchi dal non fare l’amore più volte di seguito. Solo a notte fonda si erano fermati per studiarsi, accarezzarsi come se si stessero conoscendo per la prima volta.
«Non posso credere né accettare che ti dimenticherò», soffiò Belzebù a pochi centimetri dalle sue labbra, le palpebre socchiuse per la stanchezza.
«Nemmeno io. Per questo ti tengo stretta il più a lungo possibile… finché ci sei, ti stringo.»
Così aveva fatto, era stato di parola, stringendo il suo piccolo corpo tra le braccia, come a volerlo proteggere da una maledizione che si era già abbattuta su entrambi. Non avrebbero voluto cadere vittime della stanchezza, non c’era tempo per dormire, non guardarsi o toccarsi, ma alla fine crollarono inesorabilmente, stretti l’uno all’altro. Gabriel non sapeva quanto tempo fosse passato quando si svegliò, ma era l’alba e la nebbiolina stava iniziando a estinguersi. Accanto a lui, l’erba era ancora calda e Belzebù non c’era. Era sparita senza dirgli nulla e questo poteva significare solo una cosa: Belzebù aveva dimenticato tutto.
Non l’avrebbe inseguita, non le sarebbe andato dietro, era inutile e non ne aveva il diritto. Non aveva trovato un modo per fermare la tragedia, si meritava di soffrire. Almeno uno dei due si sarebbe risparmiato il dolore.
E forse una lacrima cadde sulla sua guancia.
 
Belzebù si alzò, completamente fuori di sé. Le gambe erano ancora deboli e per questo motivo si aggrappò a lui. Gabriel la strinse, come non faceva da duecento anni e la sentì tremante e spaventata.
«Noi siamo stati insieme una volta e non ricordo nulla, più nulla! Tutto ciò mi fa impazzire, perché non posso ricordarti? Ma davvero io ti amavo?»
E davvero, forse, ti amo ancora?
«Mi amavi molto, sì. E anche io ti amo ancora, anche se è passato del tempo. Dopo duecento anni credevo che avrei potuto dimenticarti, poi ho capito che questa era una punizione anche per me. Sono stati crudeli con noi.»
«E io sono stata crudele con loro!» esclamò con il viso poggiato sul suo petto, in predo al panico, alla paura. Aveva perso la sua compostezza. «Voglio tornare indietro, come si fa?»
«Oramai è tardi per tornare indietro», Gabriel le baciò i capelli. «Non è colpa tua… non potevi sapere.»
«Sì che potevo! Parte della mia vita è stata cancellata… e adesso anche quella di Crowley… seimila anni della sua esistenza adesso hanno un vuoto. Merito solo odio, io!»
Gabriel si rese conto di non averla mai vista tanto umana come in quel momento. Così la strinse forte a sé.
«Io non ti odio, ti amo»
«Ah sì? Mi ami?» domandò sollevando lo sguardo e cambiando tono. «E se mi ami allora perché non hai trovato un modo per impedirlo?»
Gabriel non si aspettava quella rabbia da parte sua, ma forse avrebbe dovuto metterla in conto.
«Come fai a sapere che non ci ho provato?»
«Infatti non posso saperlo, ma qualsiasi cosa tu abbia fatto, non ha funzionato!»
La sua voce era spezzata dalla rabbia e dal dolore.
Adesso che si era resa conto della terribile verità, voleva soltanto giustizia, qualcuno a cui dare la colpa di quella punizione crudele. Non era in sé, questo Gabriel l’aveva capito, ma era difficile non offendersi per quanto aveva appena sentito.
Belzebù aveva ragione, avrebbe  dovuto fare qualcosa di più, ma esattamente cosa?
Lei stessa sapeva bene che non esisteva rimedio per una maledizione del genere.
«Belzebù, questo è crudele da parte tua. Puoi ben immaginare il mio dolore, quanto male sono stato nel vederti dimenticare tutto, l’averti lontana senza potermi avvicinare. Ma sentirmi dire anche questo… non credo di meritarlo», disse duramente.
Non era un estraneo. Non era solo uno stupido qualunque. Era stato il suo amante, il suo compagno, a cui probabilmente si era donata, con corpo e cuore. Scosse il capo, portandosi una mano davanti alla bocca per cercare di trattenere i gemiti. Era orribile, era giusto. 
«Odiami, ti prego»
«No. Come ho già detto, io ti amo ancora, anche dopo tutti questi anni.»
E allora Belzebù tornò a farsi abbracciare, con il viso poggiato al suo petto, senza più alcuna certezza.
 
Per Crowley quella era stata sicuramente una giornata strana. Aveva fatto degli incontri bizzarri, a partire da Belzebù e quella donna strana che gli aveva parlato con tanta dolcezza e confidenza, rassicurandolo e scatenando in lui una forte curiosità.
Tornò che era già sera, Aziraphale aveva preparato la cena, che avrebbe potuto sfamare un esercito. Era quasi commovente il modo in cui si prendeva cura di lui.
«Ciao car-Crowley!» so corresse. «Hai passato una buona giornata?»
Era strano, sembrava quasi che fossero sposati. Crowley si sedette, un po’ stordito in verità.
«Più che buona, direi piuttosto strana. Oh e davvero, non devi fare tutto questo per me.»
«Questo l’hai già detto. E poi sei mio ospite, ci mancherebbe altro.»
«Certo, ovvio…» Crowley abbassò lo sguardo. «Ti senti molto solo, non è vero Aziraphale?»
L’angelo fu sorpreso da quella domanda, a cui rispose subito.
«Sì, in effetti mi sento molto solo… da quando lui non c’è più.»
Era arrivato proprio al punto in cui Crowley voleva che arrivasse.
«Scusa la poca delicatezza ma… per caso io ti ricordo lui? Sono una specie di sostituto?»
Quella domanda lo sconvolse ancora di più. Mentire non era facile, Aziraphale si rendeva conto di non essere affatto un bravo bugiardo.
«Io… sì, lo ammetto, mi ricordi molto mio marito», mormorò. «Vi somigliate per aspetto e per carattere ma… giuro che non sei un sostituto. Il fatto è che… mi sono sentito subito legato a te, Crowley, e ti prego di non farmi domande perché è difficile da spiegare.»
Crowley sollevò finalmente lo sguardo.
«Allora non sono l’unico. Mi sembri familiare anche tu. È strano, è come se avessi fatto un sogno lungo una vita in cui c’era anche tu. Ma i sogni sfumano, quindi non ricordo bene… è stupido, lo so.»
Si sorprese quando si rese conto che Aziraphale lo guardava sorpreso, forse anche speranzoso.
«Stupido? No, non lo credo affatto»
Ad un tratto, ecco che poteva finalmente intravedere la sua speranza, un appiglio, qualcosa.
«Ad ogni modo, perché non mangi qualcosa, adesso?» domandò poi con un affabile sorriso. E nonostante Crowley non amasse particolarmente il cibo umano, non poté certo rifiutare una tale cortesia.
Arrivò l’ora di dormire e come di consueto i due si separarono. Ma Aziraphale, steso nel suo comodo divano letto con la coperta tirata su, non riusciva proprio a dormire.
Quanto sarebbe durata quella farsa? E per quanto sarebbe riuscito a recitare? Non Era troppo bravo a mentire, ogni volta che guardava Crowley rischiava di rivelare tutta la verità. Avvolto nel silenzio della sera, Aziraphale si rese conto di essere bloccato semplicemente per paura: non sapeva come Crowely avrebbe potuto reagire, era un estraneo ai suoi occhi, nonostante avvertisse una connessione, un senso di familiarità.
Era sempre stato coraggioso, ma adesso non riusciva proprio a muoversi. Crowley era sempre il suo Crowley? O era morto per davvero e quella che aveva davanti era un’altra persona?
Aziraphale si girò su un fianco nel tentativo di prendere sonno, quando un lamento lo destò del tutto: Crowley si lamentava, quasi urlava dalla camera da letto. Senza pensarci due volte si alzò, precipitandosi da lui. Crowley stava steso a letto, con gli occhi ancora chiusi, rigido come un bastone, doveva stare ancora dormendo.
«Crowley…. Crowley!» esclamò, avvicinandosi e scuotendolo piano. «Crowley, sveglia!»
Il demone spalancò gli occhi. La sua voce e il suo tocco avevano avuto l'effetto di essere trascinato via dalle tenebre. Un incubo, solo uno stupido incubo senza senso e che non riusciva ad interpretare, troppo vago, ma una cosa se la ricordava fin troppo bene: veniva separato da qualcuno, ma non riusciva a vedere il suo viso. Lo chiamava e gridava, ma nessuno lo udiva. E poi c’era un profondo senso di angoscia, anche adesso che era sveglio.
«Aziraphale», sussurrò, accorgendosi di avere il viso sudato. «Mi dispiace, non volevo svegliarti. Ho avuto solo uno stupido incubo.»
«Ti ho sentito gridare e… ma insomma, che stavi sognando?» domandò accendendo la luce e vedendo i suoi occhi sgranati e il suo petto muoversi su e giù.
«Io… non so, non me lo ricordo… ma non deve essere stato piacevole… è la prima volta che mi capita, ultimamente non ci sto bene con la testa», ammise.
Aziraphale pensò che forse i suoi ricordi stavano lottando per tornare alla sua memoria. Si, voleva credere che fosse così.
«D’accordo, allora facciamo così…», disse alzandosi e sedendosi poi sulla poltrona. «Rimango con te finché non ti addormenti.»
L’angelo giurò di vederlo arrossire.
«Guarda che non sono un bambino, sono un demone! Però, ecco, se vuoi rimanere non mi dai fastidio, ma comunque non è necessario!» borbottò, domandandosi perché mai la sua presenza dovesse essere così rassicurante. Aziraphale sorrise, non avrebbe infierito molto.
«D’accordo, Crowley. Non preoccuparti.»
Poco dopo spense la luce. Sentì Crowley sistemarsi a letto e crollare addormentato dopo qualche istante: il suo respiro era ora lieve e rilassato. Rimase a fissarlo e si ricordò di tutte le volte che avevano dormito a fianco all'altro, delle volte in cui si era svegliato prima, rimanendo a fissarlo. Almeno questo non era cambiato, non del tutto almeno.
   
 
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