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Autore: Ghirigoro1994    20/09/2020    2 recensioni
Dal testo:
La luce arancione di un lampione penetrava nell'abitacolo, tingendo i suoi capelli di un rosso ancor più caldo e acceso, e rendendo i suoi occhi quasi demoniaci.
“Quella è la tua casa?”
Mi abbassai per guardare l'edificio in legno: mi ricordava in modo impressionante alcune baite che avevo visto in Trentino.
“Casa dolce casa”, confermò. Poi il suo tono cambiò e si fece serio, quasi ostile, quando disse: “Ora scenderai da questo lato e correrai dietro di me fino a dentro. Non fermarti e non allontanarti da me o dalla luce dei lampioni, chiaro?”
Non sapevo come reagire... voglio dire, ma faceva sul serio?
A giudicare dallo sguardo, sembrava proprio di sì...
“Cosa?” mugugnai.
“I lupi escono di notte”, fu la sua risposta.
Cosa diavolo centrava la luce con i lupi? Non mi risultava ne fossero spaventati! Ebbi un brivido, immaginando che cose ben più oscure si muovessero fra gli alberi lì attorno.
---(Il rating potrebbe cambiare da arancione a rosso)---
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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III
Dalla Padella...

 

 


Mi ci volle forse un intero minuto per calmarmi e rendermi conto che stavo guardando un disegno posto sul soffitto, al disopra di me.
A dire il vero, la stanza era piena di fogli e quadri che ritraevano lupi, fitte e buie foreste e creature che ritenei fossero chimere. La luce calda ma fioca di un'abatjuor rendeva quelle rappresentazioni ancor più oscure e sinistre, aumentando esponenzialmente il mio disagio.
Quindi non mi trovavo all'esterno... ma dov'ero allora? E a chi apparteneva quella strana stanza?
Non fu facile ordinare ai miei addominali di irrigidirsi e lavorare per riguadagnare una posizione eretta.
La mia testa era ancora pesante e i pensieri scoordinati; avevo quasi difficoltà a mantenermi seduta: avevo la sensazione di oscillare ed essere sul punto di cadere giù.
Mi sforzai per mantenere almeno un accenno di lucidità.
Dovevo stabilire le mie priorità, e in capo a tutte c'era quella di bere. Se quella era una casa, ci sarebbe sicuramente stata dell'acqua, ma ancora non sapevo a chi appartenesse... chissenefrega...! L'acqua è vita, ed era la sola cosa importante, in quel momento; il come e il quando fossi finita in quella stanza potevano aspettare.
Le gambe, una volta che i piedi ebbero incontrato il pavimento di scuro legno (noce), mi inveirono contro, propagando le grida ingiuriose fino alla spina dorsale.
Come avrei fatto a raggiungere una fonte d'acqua, ancora non lo sapevo...
E se avessi gridato, per richiamare l'attenzione della persona a cui apparteneva la casa? No, per qualche ragione il mio istinto mi diceva di procedere in modalità stealth e di mantenermi nascosta finché non avessi capito in quale situazione realmente mi trovassi. Certo, se il mio corpo fosse stato leggermente più collaborativo e meno mal messo, forse, la cosa sarebbe stata decisamente più facile.
Una parte di me era tentata di perdere qualche secondo in un'esplorazione più approfondita dell'ambiente: era in assoluto la stanza più strana che avessi mai visto...
Che mi trovassi nella camera di un giovane artista era quasi sicuro, e la cosa mi ispirava fiducia ed ammirazione, ma la priorità era l'acqua! Questo, la mia mente confusa doveva capire.

Sinceramente non riesco a ricordare il tragitto che mi consentii di abbandonare la stanza e raggiungere uno stretto corridoio; la memoria riappare nel momento in cui il mio orecchio colse la fonte del mio desiderio: rumore di acqua che scorre.
Barcollando, e con le mani appoggiate alle scure pareti di legno, mi avvicinai alla sorgente del rumore, che coincideva con una piccola falce di luce che feriva la parete opposta del corridoio.
L'istinto gridava di ignorare ogni resistenza e paura, fiondarsi in quel punto, spalancare la porta appena socchiusa e finalmente dissetarmi. Ma lo misi a tacere e proseguii con ancor maggior cautela e lentezza.
Le prime cose vidi, quando sbirciai all'interno di quella che scoprii essere la stanza da bagno, furono le sfumature pallide di un corpo, rese confuse dal vetro appannato della doccia e dal vapore acqueo.
Quasi non m'importò di violare l'intimità di quella persona, quando vidi il lavandino... bianco e invitante...
Stavo per cedere al crudele bisogno e fiondarmi all'interno, quando, senza preavviso, la persona interruppe lo scrosciare dell'acqua.
Dalla doccia, gocciolanti e avvolti da una nube di vapore, emersero dei capelli rossi.
D'istinto mi portai la mano a coprire la bocca. Non mi mossi, rimasi invece ad osservarla nuda e bagnata, completamente esposta al mio sguardo.
Miseria ladra, cosa non è...
Leccare quella pelle, tesa sopra lievi ma nervosi muscoli, mi avrebbe dato un duplice piacere. Sarebbe stato bello dissetarsi in quel modo, non mi vergogno ad ammetterlo: lo desiderai.
La mia figura era celata dall'oscurità del corridoio, ma una piccola lama del mio volto era sicuramente illuminata: se Robin avesse alzato lo sguardo nella mia direzione, mi avrebbe vista. Ma lo stesso non mi mossi e, trattenendo il fiato, continuai a guardarla, a violare il suo pudore senza badare al mio o alla situazione in cui ero.
Il seno era teso e tirato all'insù dai muscoli pettorali, che le conferivano un secondo piccolo gonfiore. Piccoli, pallidi, sodi e con la ciliegina che erano i suoi capezzoli induriti dal cambio di temperatura, mi parvero un'autentica visione.
Guardai il suo addome nervoso, tonico e piatto muoversi ritmato, mentre sollevava le braccia -altrettanto nerborute ma armoniche- per asciugarsi i capelli con un asciugamano rosso scuro, quasi del medesimo colore dei suoi capelli. Il mio sguardo si abbassava lentamente, come se la forza di gravità agisse in modo rallentato. Sfortunatamente, prima che i miei occhi potessero violarla ulteriormente, si voltò.

Lo so che data la situazione il mio agire suonerà davvero fuori luogo, quasi grottesco, ma quello che scrivo è ciò che realmente avvenne. Quando si vivono alcune situazioni, la nostra mente non reagisce come in un copione predefinito: ho sentito storie di gente che si metteva a ridere davanti ad una pistola puntata... Anch'io risi, una risata neanche così isterica, quando mi ritrovai a fissare i corpi dei miei famigliari. Non ci trovavo nulla di ironico, gradevole, esilarante o anche solo vagamente piacevole, ma risi... risi sentendomi perduta e sconfitta, completamente vulnerabile e sola, mentre un dolore sconosciuto mi dilaniava e spezzava a partire dal petto.

Il mio sguardo, già allineato col punto, incontrò il suo culo; anch'esso pallido e sodo, più grande di come appariva sotto i jeans.
Che roba...
Mi ritrovai a paragonare il suo corpo col mio, diversi come giorno e notte: lei era alta, slanciata, muscolosa in maniera davvero erotica e delicata, sottile... Molto bella e femminile, con una nota di forza per nulla sgradevole. Io, al confronto, apparivo quasi come una figura greve e banale: ero bassa, i fianchi forse un po' troppo larghi e i muscoli delle gambe non facevano che appesantire e arrotondare la mia figura. Senza motivo razionale -data la situazione- mi sentii a disagio per il mio aspetto.
Alzando appena lo sguardo, i miei occhi colsero un dettaglio: sulla schiena di Robin spiccava un enorme e largo squarcio che, col tempo, si era mutato in una cicatrice ampia e dai contorni irregolari. Era grande e violenta, in contrasto con la delicata bellezza del suo corpo, ma per qualche strano motivo, mi sembrò ovvio che ci fosse: quella ferita doveva stare sulla sua schiena. Si appartenevano come la luna appartiene al cielo notturno.
Sottrassi ai miei occhi il piacere del suo corpo.
Finalmente libera da quello strano incanto, ma di nuovo preda della paura, avanzai per lo stretto spazio cercando di non far rumore, mentre obbligavo i miei muscoli a lavorare per muoversi il più in fretta possibile.

Fu un miracolo, quello che mi consentì di raggiungere l'ingresso senza rotolare giù per le scale; un vero colpo di culo!
Con immenso sollievo, mi resi subito conto che la baita era libera da sbarre e protezioni varie; non persi un solo secondo in più e, spalancando la porta, mi gettai all'esterno.
Il gelo mi morse la pelle e le carni con dolorosa ferocia e il sudore si gelò immediatamente a contatto con l'aria polare che spirava, a mio avviso, da un inferno parallelo.
Non so quanto volontario fu il fatto di ritrovarmi inginocchiata nella neve, ma la cosa non aveva nessuna importanza. Come un animale ficcai la faccia nel morbido manto e presi a divorare la neve con famelica violenza. In quel momento non me ne poteva importante proprio niente di quando pericoloso fosse quello che stavo facendo, proprio niente! La sete è un male che non avrei voluto infliggere neppure alla mia carceriera prima, e quasi assassina poi.
Riemersi per riprendere fiato, ma il mio tormento era ancora lì; senza neppure finire di inspirare lasciai che la mia testa ripiombasse nella neve, ed i miei denti presero a graffiare lo strato più basso e duro. Ingoiai la gelida sostanza per un tempo indefinito ed incorporeo. Poi finalmente mi sentii meglio, a tal punto da riuscire ad ignorare il dolore di bocca e fronte per il gelo che le aveva attanagliate e ferite. Persino il sapore del mio stesso sangue, che mi invadeva completamente la bocca, non mi sembrò così male.
Rialzarsi fu più facile, il mondo intero fu da me percepito meno complesso, dopo che ebbi bevuto.
Dovevo recuperare la mia roba e scappare il più lontano possibile... c'era solo un piccolo problema; piccolo come una montagna insormontabile: la mia roba era custodita dall'enorme Suv nero che mai, e dico mai, si sarebbe aperto per me.
Solo Robin poteva aprirlo. La stessa donna che mi aveva rapita, rinchiusa e infine minacciata con un coltello, costringendomi a uscire in balia della tempesta; la tempesta che mi aveva probabilmente ridotto in quel pietoso stato.
Perché non l'avevo uccisa? Era nuda e indifesa, avrei potuto facilmente sopraffarla...
Un corno: ero ridotta ad uno straccio usato nel bagno di una stazione di servizio, da troppo tempo dimenticato in una pozza d'orina.
Uccidere... sarei capace di farlo? Se il mio corpo fosse stato nel pieno delle sue possibilità, io, Vittoria Volpe, avrei tolto la vita a quella donna?
Avevo già ucciso, ma questo mi dava il via libera per farlo ancora? No, certo che no, o il pensiero non mi avrebbe fatta sentire così sporca. E poi era diverso: questa volta avrei ucciso consapevolmente, volontariamente e a sangue freddo... non era la stessa cosa di tanti anni prima, quando...
“Vittoria, buon Dio! Cosa diavolo ci fai lì fuori?!”
Robin mi costrinse ad interrompere ogni ragionamento e ricordo.
Mi voltai a guardarla come un cane guarda il padrone col telecomando morsicchiato in mano.
Per una frazione di secondo pensai che non mi andasse bene il fatto che ora fosse vestita; lo pensai nella frazione di secondo prima di cominciare a correre verso gli alberi.
“Vittoria! Fermati, maledizione! La foresta...” La sua voce morì nella distanza che ci separava e nel fischio del vento, unito al pulsare del sangue nelle mie orecchie.

Non so per quanto costrinsi le mie gambe a correre nella neve alta, però ci pensarono loro a dirmi quando fu abbastanza: smisero di funzionare e, irrigidendosi come gli arbusti che mi circondavano, mi abbandonarono ed io mi ritrovai ad impattare contro la neve -non più così alta e morbida- del sottobosco.
Il naso mi esplose, o per lo meno, quella fu la sensazione.
Con le lacrime agli occhi per il forte dolore, cercai un punto in cui strisciare e piagnucolare in santa pace per qualche tempo. Ma vidi solo alberi e neve, neve e alberi; non una tana, una grotta... un anfratto qualunque.
Mi sentivo nuovamente perduta e terribilmente a pezzi... piccoli, talmente piccoli da non poter essere ricomposti, mai più.
Sarei morta in quella foresta, morta e dimenticata...
“Buon pomeriggio Vittoria, hai una nuova notifica: Pietro Caruso ha commentato un tuo post su Cipper.”
Un verso che poteva somigliare a un miagolio sofferente mi sfuggi dalle labbra.
“Ramsung!”
Con tutta la foga che riuscii a mettere in atto, mi rovistai nei jeans -che per inciso, non sapevo di avere indosso.
“Funzioni di nuovo, Ramsung!” guaii, preda della gioia più pura.
Guardai lo schermo nero mentre il sangue, che mi grondava dal naso, formava piccole gocce sulla scura superficie liscia.
“Ransung J396, chiama i soccorsi!”
La piccola IA vibrò sul palmo della mia mano e lo schermo si illuminò, mostrandomi la schermata di chiamata in cui spiccavano le cifre 911.
Piansi e gemetti in preda al sollievo più effimero, quando una voce maschile e dolce esordì: “Nove-uno-uno, qual è l'emergenza?”
“Salve! Ahm... oh mio Dio! Grazie...!” Singhiozzai, sentendo la speranza riaccendersi.
“Cerca di parlare lentamente, signorina. Qual è l'emergenza, riesci a dirmelo?”
Annuii come se lui potesse vedermi, poi dissi ad alta voce: “Ahm... mi sono persa... io sono... sono... nella zona sud di un lago... ahm, aspetti...!” Non avevo intenzione di nominare di nuovo Darktown, visto l'epilogo dell'ultima volta, e dovevo ricordarmi il nome con cui Robin aveva chiamato il lago.
Non riuscendo a riportarlo alla mente dissi: “Riesce a rintracciare la mia telefonata? La prego, non so cosa fare... la prego mi aiuti! La prego...!” supplicai.
“Ci sto lavorando, non ti preoccupare. Dimmi, sei ferita?”
“Sì, mi sto dissanguando... un po'...” Non era totalmente una bugia: il sangue non smetteva di fuoriuscire dalla mie narici.
“Quanti anni hai?”
Probabilmente quell'informazione non gli serviva a molto, se non rassicurarmi e tenermi occupata, ma io lo assecondai... eccome, se lo feci!
“Ho ventisei anni, sono italiana, il mio gruppo sanguigno è 0 Rh positivo, certo è un po' difficile trovare un donatore per me, ma io sono quello per eccellenza, non è così? Sono preziosa, in questo senso!” gridai, senza neppure respirare, fornendo più informazioni possibili.
“Secondo i sistemi di geo-localizzazione, ti trovi nella zona sud di Lake Simcoe, ma il segnale è un po' disturbato, aspetta che...”
Non lo lasciai finire, proruppi: “Sì! Sì, è quello il nome, venite a prendermi, vi prego...!”
“Rimani calma e cerca di descrivere ciò che vedi, cerca qualche punto di riferimento.”
“Ahm...” mugugnai, guardando la desolazione fatta di soli alberi -tutti uguali, per quanto mi riguardava.
Una vibrazione e poi: “Batteria di RansungJ396 esaurita. Vittoria, ricaricami.” Poi il nero ed il silenzio.
La risata che sgorgò dalle profondità di me si trasformò prestò in un grido che ferì le pareti della mia gola, già dolorante a causa del gelo.
“Cosa ti ho fatto di male, Dio?!” inveii contro la sommità degli alberi.
Non seppi mai perché mi appellai al Signore, quella volta: non sono mai stata credente; forse non c'era una spiegazione, semplicemente fu quello che mi uscì.
Rimasi inginocchiata nella neve anche se non percepivo più le mie ginocchia e, grosso modo, tutta la parte inferiore del mio corpo.
Forse avrei dovuto lasciarmi cadere e attendere che il gelo mi cullasse conducendomi in un sonno senza risveglio.
Avevo già avuto intenti suicidi: ingurgitato della varechina; provato a prendere dei sonniferi per poi mettermi a mollo nella vasca da bagno... ma la morte non aveva considerato abbastanza buona la mia performance, ed il mio provino era stato un fallimento: “Le faremo sapere”.
Ma ora non volevo morire.
Forse la morte era una signora un po' dispettosa e dispotica, forse era lei a voler scegliere il momento in cui mi avrebbe voluta con sé.
Quante deliranti stronzate sono capace di scrivere...
Rimaneva il fatto che non volevo morire, non in quel momento, non in quel bosco... non da sola.
Volsi ancora una volta lo sguardo in alto, ma questa volta non pensai al Creatore, pensai soltanto che il sole stava calando per la seconda -o ennesima- volta dall'inizio di quell'avventura. E non potei fare a meno di sentirmi ancor più impaurita e sola.
“Tu! Questa proprietà privata!”
Era una voce maschile, tremendamente roca e arcigna, quella che mi colse alle spalle.
Mi voltai lentamente, percependo le piccole bolle d'aria scoppiettare dal bacino fino alla nuca.
“Mi aiuti, la prego...” mugugnai, incapace di decidere se quello che vedevo fosse reale o una semplice proiezione di un delirio: quell'uomo era un'assurda caricatura di un cowboy caduto in disgrazia! Mi sarebbe anche potuto venir da ridere, se contro di me egli non avesse tenuto puntata una doppietta.
Rimase immobile, continuando a puntarmi l'arma contro.
Anch'io non mi mossi, mi limitai invece a fissare i suoi piccoli occhi scuri da roditore che, coperti dalla folta, cadente chioma da salice piangente tutt'altro che sana, a loro volta fissavano sospettosi me. Invero, gran parte del suo viso era ricoperto e quasi totalmente nascosto, fra l'irsuta barba e i capelli lunghi... o forse erano le sopracciglia?
“Quella nuova”, gracchiò -peggio di una cornacchia con la bronchite- e sputò le parole come se avessero un sapore ripugnante. “Nuovo cucciolo preso di Darka.” Quel nome gli era uscito con ancor maggior ripugno e disprezzo.
Non capivo di chi stesse parlando e, francamente, in quel momento non me né poté fregar di meno.
“Può aiutarmi...?” uggiolai, come un vero cucciolo.
Abbassò l'arma e, nella per nulla candida barba bianca, sì aprì una ferita nera decorata da ripugnanti denti gialli e marroni... quelli che ancora presenziavano nella sua bocca, certo.
“Posso.”
Le sue parole avrebbero dovuto darmi sicurezza, ma mi infusero soltanto una forte e soffocante sensazione d'angoscia.
Ma quale altra scelta avevo? Solo quella di morire in mezzo al nulla.
“Mi può dare una mano...? Ahm... non sento più le gambe.”
Il mio busto doleva per la posizione in cui lo tenevo innaturalmente torso, ma temevo che voltandomi lui sarebbe scomparso, lasciandomi di nuovo sola.
Mi guardò per qualche secondo poi, mettendosi il fucile a tracolla, si avvicinò a me.
Non mi ci volle molto per cominciare a sentire il fetore dei suoi abiti e del corpo sporco di umori di cui volevo continuare a ignorarne la natura.
“Up, up!”
Con tutta la ruvidità di questo mondo, mi afferrò per il braccio sinistro e mi sollevò come fossi un sacco dell'immondizia.
“Ahm... grazie infinite, mister... ahm?” indagai, massaggiandomi discretamente il punto in cui mi aveva afferrata.
La risata che sgorgò dalla sua gola fu gutturale all'inverosimile e dannatamente storta.
“Ah ah ah, mister!” Schizzi di fetida saliva bianca e gialla rischiarono di colpirmi.
“Ahm...?” fu tutto quello che riuscii a dire, incapace di articolare una frase complessa o anche solo di senso vagamente compiuto.
“Chiamame Mister”, gracchiò, continuando a ridersela di gusto. “Mi piace!”
Mi limitai ad annuire.
Forse fu perché mi ero, diciamo così, un po' rilassata, ma cominciai a sentire freddo... tanto freddo.
“Venire”, mi esortò, quando finalmente la sua ilarità si fu placata.
“Ahm, non è che per caso ha un cellulare da prestarmi? Il mio è scarico.” Sollevai la IA come se fosse un uccellino caduto dal nido. Volevo chiamare subito qualcuno e farmi venire a prendere, evitando di commettere l'errore della prima volta.
“Stronzate!” tuonò. “Maledetto il giorno che una di quelle diavolerie tocca mie mani! Se era per me, neanche esistevano.”
Decisi che il suo modo di esprimersi non fosse importante (per quella sbavatura, invero, mi ero accorta che non si era mai espresso correttamente) e chiesi invece: “Mi può accompagnare da qualche parte? Un luogo in cui possa effettuare una telefonata, possibilmente...?”
Mi guardò come se non fosse possibile comprendere il significato delle mie parole.
“Vorrei tornare a casa... dal mio ragazzo: un palestrato da panico, un bodybuilder!” inventai, cercando di incutergli una qualsivoglia forma di timore. Ovviamente non c'era nessuno ad aspettarmi a casa, proprio nessuno.
“Venire, up up! Moglie sa cosa fare con ragazzina.”
Povera donna...
“Ahm... avrei ventisei anni... ma, sì, penso che l'importante sia che sua moglie... ahm... da che parte?”
“Tu ventisei anni, io Napoleone Granparte!” mi schernì.
“Ahm...” No, meglio non commentare.
“Cos'ha il naso? Tuo uomo dato ben servito? Anche lui qui?” Sembrava ancora sospettoso, ma ora anche un po' irritato.
“Ahm... no, ho... ahm... ho inciampato. E no, lui è a casa, mi aspetta”, ribadii.
Mi sentivo stordita e la presenza di quello strano individuo non faceva che incrementare l'assurdità dell'intera vicenda. Non aveva senso continuare a dialogare con lui, non avrei dovuto farlo... avrei semplicemente dovuto insistere affinché mi portasse da un telefono... o un ospedale, o una qualsivoglia forma di vita... ahm... intelligente...
“Moglie aiuta. Vai, camminare.” Il suo grosso braccio, fasciato da quella che doveva essere un felpa mimetica, indicò un punto alla destra del tramonto.
Sua moglie sarebbe sicuramente stata un piacevole progresso, no?
Cominciai a muovere i primi passi verso la direzione da lui indicata, ma solo pochi metri dopo, la mia nuca esplose in mille frammenti bianchi e rossi.


Voci e rumori indistinti da qualche parte nell'oscurità, frammenti...
“Buch... lei... cretino! Darka... cretino!”
Frammenti senza senso.
Una seconda voce, greve e gutturale.
“Mister!”
La prima voce, quella che doveva appartenere a una vecchia isterica: “Sei un cretino!”
“...dare pane... acqua.”
“Sprecare pane... quella, sì?!”
Poi l'oblio m'inghiottì e fu solo il nulla.

   
 
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