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Autore: Gaia Bessie    30/09/2020    3 recensioni
A cosa servirà, poi, parlare se esistono persone in grado di spogliarti senza emettere suono?
Sugawara si è perso in un mare di malumore e mutismo e, allora, tutti quanti si domandano dove sia finito. Perché, a modo suo, Sawamura aveva ragione: qualcuno ha portato via Suga e chissà dov’è finito, in che antro buio e mostruoso s’è nascosto, che ombra della sua mente è riuscita a catturarlo.
«Quello che non posso sopportare, quello che mi sta spezzando» mormora. «È doverti guardare come se non ci appartenessimo, come se tutto questo ti scivolasse addosso. Ti sento così tanto che non sentirti più riesce ad assordarmi».
[Sugawara/Shimizu, Nishinoya/Azumane | One-Shot | Seconda classificata al contest "Folclore d'Italia - Prima edizione" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Asahi Azumane, Daichi Sawamura, Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara, Yuu Nishinoya
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il club di pallavolo del Karasuno è composto da corvi che sono riusciti a reimparare a volare ma, sopra il cielo della loro palestra, vi sono solamente rondini che sferzano il cielo. Volano così alte che nemmeno Hinata – che è quello che salta più in alto di tutti – riesce a sfiorarle con la punta delle dita.
Poi, in un giorno che profuma di pioggia, non volano più. E planano come aerei in picchiata sul terreno, ai piedi di Suga che, invece, guarda il cielo come se potesse intravedervi il proprio futuro o delle risposte a una domanda che non riesce a porre, nemmeno nella cieca tranquillità dei propri pensieri.
C’è un nido, sopra l’albero che lo ripara dalle prime premature gocce di pioggia, con dei pulcini che piangono e pigolano per il freddo, la fame e la mancanza. La loro madre è scomparsa via in volo e non è più tornata, lasciandoli in quel silenzio che assorda, in quella mancanza che affama: forse, è partita con la consapevolezza che, al suo rientro, guarderà tra i ramoscelli e le foglie secche e solamente degli scheletrini minuscoli, senza piume e senza ali, le restituiranno lo sguardo.
Sugawara li guarda e non riesce a non pensare che, in fondo, sarebbe bastato cambiare – e smettere quelle piume troppo leggere, troppo fragili, ricoprirsi di pelliccia e grasso per sopravvivere a uno scroscio di pioggia.
Si guarda le mani, domandandosi se potrebbe bastare anche lui, la pelliccia o un po’ di grasso, per mutar forma.
Ma ha cominciato a piovere e le rondini si schiantano sul suolo come stelle cadenti, nell’ennesimo sogno spezzato che gli s’infrange davanti. Sarebbe in grado di volare, sotto la pioggia, lontano dal terreno?

 
Far from the shallow
 
Tell me something, boy
Aren't you tired tryin' to fill that void?
Or do you need more?
Ain't it hard keeping it so hardcore?
I'm falling
In all the good times I find myself
Longing for a change
And in the bad times I fear myself
 
 
Il corvo è volato via dal nido. È questo che mormorano le altre squadre vedendo che, alle amichevoli, Sugawara non gioca più – né occupa il proprio posto in panchina, né scalpita per entrare in campo. È sparito in un giorno di pioggia, fuori dalla palestra del Karasuno e, da quel momento in poi, non vi ha fatto più ritorno.
Sawamura e Azumane l’hanno cercato in ogni brandello di esistenza, forzandolo a scollarsi dai propri pensieri ma, di Suga, non sono riusciti a cavar fuori nemmeno un frammento. Il palleggiatore s’è serrato in un atteggiamento ostile e pensieroso, dove non s’intravede nemmeno l’ombreggiatura del suo perenne sorriso.
Perché Sugawara non sorride nemmeno più. Come un’anima in pena si aggira tra una lezione e la seguente, senza impegno, senza entusiasmo; scucirgli un coccio di discorso è un’impresa titanica, che mette a dura prova la pazienza di Daichi e la perseveranza di Asahi, facendo assaggiar loro il sapore acre del fallimento.
E se lo domandano tutti, cosa sia successo a Sugawara, cosa lo abbia spezzato e ricomposto in una maniera sbagliata, cosa gli abbia drenato via l’entusiasmo e l’allegria. Nishinoya, che peli sulla lingua non ne ha mai avuti, s’è arrischiato a domandargli quale problema avesse e, per tutta risposta, Suga gli ha voltato le spalle e in silenzio si è allontanato.
«Oh, andiamo» spiega Yū ai suoi compagni, con aria di superiorità, quando gli domandano cosa Sugawara abbia risposto. «Qualcuna lo ha rifiutato, è chiaro».
Tanaka scoppia a ridere, tenendosi la pancia, seguito a ruota da Hinata. Ma Daichi è serissimo e, sul volto, ha dipinto un luminoso bagliore di consapevolezza che gli storpia i lineamenti.
«Come se Suga potesse innamorarsi» commenta Hinata, scuotendo il capo energicamente. «Ha la pallavolo, a cosa gli servirebbe una ragazza?».
«Almeno a lui non servirebbe un cervello» sibila Tsukishima, fulminando Shōyō con un singolo sguardo. «A differenza di qualcun altro».
Hinata si agita, pronto a replicare, ma il capitano si schiarisce la gola, interrompendoli. Daichi non dice niente, ma ha i pugni serrati e le nocche che sembrano volersi infrangere sulla barriera inutile della pelle.
«Scusate» borbotta, piano. «Ma ho bisogno di una boccata d’aria».
Perché Daichi Sawamura conosce il nome, il cognome e il volto di quell’improvviso cambiamento manifestatosi in Suga. E li conosce un grado di certezza tale che, il solo pensiero, rischia di farlo barcollare di fronte all’entrata della palestra.
«Daichi!» Azumane lo prende per un braccio, il medesimo lampo di comprensione gli rischiara il viso. «Non penso dovremmo…».
Ma Sawamura vuole comprendere, più di ogni altra cosa, quanto sia stato stracciato e sfilacciato il cuore di Suga, per spingerlo a voler fuggire via persino da sé stesso. Cosa lo abbia privato del respiro e delle parole, spingendolo a cercare aria fresca dietro ogni scroscio di pioggia.
«Non possiamo farci niente» continua lo schiacciatore, tirando via dal viso una ciocca di capelli scuri. «Permettigli di leccarsi le ferite».
Il capitano non sembra convinto: fuori piove e, seduto sotto un albero, Sugawara si bagna di pioggia e pensieri, osservando incantato come le nuvole siano in grado di allagare i nidi di rondine. Si stringe le braccia al petto, forse per ripararsi dal freddo, forse per cercare conforto – e, sia a Daichi sia ad Asahi, si stringe il cuore.
«Andiamo» mormora Sawamura, tirando Azumane per un braccio. «Quando si sentirà pronto verrà a parlarci».
Ma entrambi silenziosamente temono che, il palleggiatore, sia così perso tra i suoi pensieri che, ritrovare il filo che lo collega alla realtà, gli risulterà impossibile. Perché sono colorati e dolci, i pensieri di Sugawara, meno dolorosi di uno scroscio di pioggia e, allora, meglio il tepore di un sogno che il gelo della realtà.
Non ha paura, Suga, di perdersi per sempre? Non trema almeno un po’, nel rendersi conto che è sempre più difficile riconnettersi alla realtà?
Daichi lancia un ultimo sguardo al proprio compagno di squadra, al suo amico, e vorrebbe solamente prenderlo per un braccio e tirarlo via da lì.
Come potrebbe farlo, però? Sugawara è un corvo dall’ala spezzata.
 
***
 
Daichi non si rassegna: d’altronde, il suo punto forte è sempre stata la cieca determinazione, e la lealtà verso i propri compagni di squadra. Lui non lo può sopportare, il muro di silenzio di Suga, la cupa ostinazione con cui evita ogni contatto con il resto della squadra – fa ancora, Sugawara, parte della squadra?
Ma, avvicinare l’ormai ex palleggiatore, è impossibile: come un’ombra s’aggira tra i corridoi, negli angoli bui e oscuri della propria mente, evitando ogni contatto umano. E Daichi, che sfiora la mente di Suga come si sfiora il capo o la pelle, è ubriaco di quella consapevolezza annichilente. Sta evitando lei.
Sawamura, però, ha troppo cuore per fermarla e domandarle perché abbia deciso di ferire a morte Sugawara. Dirle che ha un debito di innocenza nei suoi confronti, perché l’ha privato di quell’aria dolce e un po’ svampita che era stata sua, in un tempo ormai sbiadito. Eppure, quando Daichi la vede, che sfila per i corridoi come se essi fossero fatti d’aria o nuvole, gli manca il coraggio.
Perché Shimizu s’infrangerebbe come pioggia, al pensiero d’aver spezzato il cuore – o le ali – di Sugawara e, Daichi, non ha abbastanza forza per essere così duro con lei.
Eppure, quando s’incontrano davanti la classe, e lei ha i capelli insolitamente scarmigliati e gli occhi gonfi, nel capitano dei corvi s’insinua una spiacevole consapevolezza: lei sa. Perché lo guarda con uno sguardo che è compassione, quella sì, ma anche profondo rimpianto.
Lui vorrebbe dirle qualcosa, forse persino discolparla, ma Shimizu scuote il capo, entrando nell’aula. Così, Daichi tace, inghiottendo la spiacevole sensazione di aver assistito a un bastoncino che, giocando a shangai, viene sfilato nella peggior maniera possibile. E Sugawara, come un castello di fiammiferi, era crollato giù, privato del giusto appoggio.
«Asahi» mormora, tirando lo schiacciatore per la manica della divisa, facendolo fermare sulla soglia della classe. «Lei… Suga… Insomma…».
Azumane lo guarda e fatica a cogliere il nesso tra quelle parole, così rimane a fissarlo, disorientato.
«Sembra che tu abbia visto un fantasma» osserva, rabbrividendo al pensiero. «Dici che è stato un fantasma, a ridurre Sugawara in quello stato?».
«Peggio» risponde Daichi, cupo. «Suga ci ha nascosto qualcosa, in questi mesi, credo».
È deluso, il capitano, ha una vena d’irritazione che gli corrode la fronte, donandogli un’espressione corrucciata. Azumane alza le mani, con fare gioviale, cercando di appianare la tensione.
«Oh, andiamo» dice, con finta allegria. «A meno che Suga non si occupi di rapine a mano armata, non penso sia niente di così grave».
«Forse» conviene Daichi, serafico. «Ma sarebbe bello se venisse a parlarcene, anche fosse una rapina a mano armata».
Non riesce a dirlo ad Azumane, ma il fatto che Suga non abbia trovato abbastanza coraggio per dir loro che s’era innamorato no, peggio, innamorato di lei, potrebbe essere peggiore di una rapina. E non solamente per la furia omicida, che sicuramente tutto ciò scatenerà, di Tanaka e Nishinoya, ma perché lo stesso Daichi fatica a pensare a un modo per superare quella spaccatura nel rapporto tra lui e Suga.
Di te mi fidavo, vorrebbe dirgli e, al contempo, prenderlo a schiaffi. Spezzargli l’ala incrinata e ricostruirgliela, gettarlo giù dall’albero e insegnargli a volare. Di te mi fidavo, Suga.
 
***
 
Non la cerca più.
Sugawara ha ridotto il proprio mondo a un eterno vagabondare dove, però, l’ombra di Shimizu lo segue sempre. E lui, a guardarla, non si volta mai.
Se lo facesse, se solamente permettesse a sé stesso di fermarsi per guardarla negli occhi, allora non riuscirebbe più a camminare, perché con uno sguardo lei gli polverizzerebbe le ossa e strapperebbe le piume.
Marzo piove sensazioni che Suga si lascia scivolare addosso, convincendosi che non importa. Che dimenticherà e, un giorno, lo sguardo di Shimizu sarà solamente l’ennesimo ricordo scolorato. Dimenticherà persino di averle detto ti amo, il primo della sua vita e anche l’unico a non aver ricevuto risposta, se non uno sguardo disorientato e un lieve movimento di labbra – che erano un no, un no che avrebbe potuto avere il nome di chiunque, forse persino di Tanaka o di Nishinoya.
E, la verità, è che Sugawara non sa perdere. Non si è arreso di fronte alla superiorità di Kageyama: ha chinato il capo per il bene della squadra, quello sì, ma nel suo cuore ha continuato ad ardere quella scintilla, quell’ambizione, che l’ha costretto a impegnarsi il triplo di tutti gli altri.
Non sa perdere persino di fronte a un tacito no e desidera non arrendersi mai; ma l’evidenza è una soltanto ed è che Shimizu l’ha evitato da quel giorno. Che lui s’è mascherato in un silenzio insondabile e ha respinto chiunque, perché chiunque non è mai lei.
S’è rintanato in un nido di rovi, Suga, e da lì osserva i corvi zuppi di pioggia, con il nero che si slava via fino a divenire bianco, che banchettano sul terreno zeppo di briciole. Lui non si muove: la parte più egoista di sé vorrebbe fargli credere che è uscito immutato da quel rifiuto, ma non è così.
Si è gettato giù da un albero e, con l’ala spezzata, Sugawara non è riuscito a planare e s’è solamente potuto schiantare al suolo – e adesso, che è solo e zuppo di pioggia, è costretto a fare i conti con il dolore delle ferite.
«Cosa stai facendo? Ti prenderai un raffreddore, così».
Shimizu ha un tono materno, compassionevole, che in quel momento Suga non è in grado di sopportare. La pioggia lo cela al suo sguardo preoccupato così che, lei, non riesce ad accorgersi che le ha voltato le spalle solamente per non farle vedere quanto sia vicino alle lacrime.
«Importa?» domanda, laconico. «Io non…».
«Certo che sì» lo interrompe. «Come farai, ad allenarti, se ti dovessi ammalare?».
Suga ride, in un orribile suono strozzato che pare sul punto di dilaniarlo, scoprendogli la trachea. Scuote la testa e, quando finalmente trova il coraggio di guardarla, ha le lacrime agli occhi per davvero.
«Non mi alleno più» risponde lui, semplicemente. «Pensavo te lo avessero detto».
Pensavo ti importasse, vorrebbe dirle ma non ne ha il coraggio, di provocarla per estirparle l’ennesima risposta che potrebbe solamente destabilizzarlo.
«Non volevo crederci» commenta Shimizu, delusa. «Perché vuoi distruggerti in questo modo?».
Suga sorride e, per un momento, sul suo volto si proietta il sé stesso di qualche settimana prima, facendo tremare Kiyoko.
«Non lo senti mai, di avere un vuoto da riempire?» le domanda, piano. «Di volere di più?».
Shimizu non riesce a rispondere, perché lui ridacchia e ha uno spasmo al braccio, quasi come volesse prenderla e attirarla a sé.
«Ecco» mormora, scrollando le spalle. «Io voglio di più».
 
***
 
Vuole di più, le ha detto, frastornandola. L’ha immersa in un mare di implicazioni contraddittorie, guardandola come se potesse vederle il cuore, lì, attraverso i vestiti – a cosa servirà, poi, parlare se esistono persone in grado di spogliarti senza emettere suono?
Ma come fa, Sugawara, a dire di volere di più, quando lei non è riuscita a concedergli nemmeno un brandello dei suoi pensieri?
Kiyoko, in classe, siede silenziosamente, come in trance. Sa che Sawamura e Azumane la stanno osservando – ha una lettera scarlatta in fronte – e sono pronti a domandarle una spiegazione che lei non possiede. D’altronde, non riesce a trovarla nemmeno per sé, una spiegazione valida.
Perché Suga l’ha fulminata con uno sguardo e uno scroscio di pioggia, congelandola di fronte a un coccio di cuore. È sfilacciato, il nastro che tiene insieme le emozioni di Shimizu, sfilacciato e logoro: se si spezzasse, lei si scioglierebbe in un fiume di lacrime e… - è un’implicazione che non vuole considerare: non ci riuscirebbe.
Ma, quando guarda fuori, si accorge che nelle pause tra una lezione e la successiva, Sugawara è ancora lì, sotto la pioggia. Non ha un ombrello ma, dal vetro della finestra, lui sembra in grado di resistere anche a una secchiata d’acqua gelida. Guarda dritto davanti a sé, come se la pioggia non fosse in grado di ferirlo.
Ogni tanto, Kiyoko incontra il suo sguardo e, allora, un brivido le rompe le ossa. Perché lui la guarda come se il suo rimanere in piedi dipendesse solamente da quello sguardo e, quando lei si volta, il secondo dopo Suga è sparito dalla visuale.
Poi, al momento della pausa pranzo, mentre Shimizu si ritrova incatenata a osservare la finestra, Daichi finalmente perde la pazienza e si siede di fronte a lei, con aria minacciosa.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» sibila, fissando anche lui Sugawara che, sotto un albero, s’è assopito. «Tra te e Suga».
«Andiamo, Daichi» cerca di placarlo Asahi, mettendogli una mano sulla spalla. «Non trattare Shimizu… beh, come tratti noi della squadra».
Ma il capitano non si fa distrarre. «Ha qualcosa che non va, da settimane» continua. «E tu lo guardi come se sapessi cosa è, che l’ha fatto uscire di testa in questo modo».
Lei china il capo, arrossendo. «Non è niente» mormora. «Gli passerà».
Azumane tira un sospiro di sollievo, di fronte alla risposta di Shimizu ma, guardando Daichi, quel sospiro che s’incaglia in gola, strozzandolo. Perché il ragazzo ha un’espressione, se possibile, ancora più cupa – rischiarata da quella stessa comprensione che aveva mostrato, quando Nishinoya aveva illustrato la propria fantasiosa teoria sul malumore di Sugawara.
«Tu e lui» articola Daichi, a fatica, quasi come se lui stesso faticasse a credere a quell’insinuazione. «Tu… lo hai rifiutato?».
Lei non sa cosa dire. «Io…» mormora, incerta. «Non…».
«Daichi» lo richiama Asahi, a disagio. «Non mi sembra il caso di porre domande del genere».
Ma Sawamura è duro e fermo, e persino Azumane arretra di fronte a quella coriacea determinazione.
«Shimizu» la chiama, questa volta dolcemente. «Non voglio forzarti. Vorrei solamente capire cosa è successo… dov’è finito Suga».
Lei lo sa, dov’è finito Suga, ma come potrebbe tirarsi fuori quelle parole impronunciabili?
 
***
 
Se io potrò impedire
a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano
Se allevierò il dolore di una vita
o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano
(Emily Dickinson)
 
Mentre tutti sono agli allenamenti, Sugawara è ancora lì, davanti all’entrata della palestra, a udire il suono della palla che si schianta sul pavimento: gli mancherà, in qualche modo che Shimizu non sa, o si è persa anche quella gioia nella nuova pelle di Suga?
Ha una persona nuova, davanti, che si è rinsaldata in una maniera che le rende impossibile riconoscerlo, che la guarda e lei sprofonda nel vuoto di quello sguardo, nell’ennesimo buco nero fatto di piume e ramoscelli di rovo.
«Suga» lo chiama, cercando di scuoterlo dai suoi pensieri. «Volevo parlarti».
Lui la guarda – e duri sono i suoi occhi, dura la sua espressione – e inghiotte un sorriso che, per una frazione di secondo, aveva cominciato a premergli lungo la linea delle labbra.
Dove sei finito, vorrebbe chiedergli lei, mentre Sugawara fatica a riemergere dai corridoi bui dei propri pensieri, dove s’è rinchiuso da settimane. Pensa alla fiducia con cui Daichi l’ha guardata, Shimizu, pensa al sorriso comprensivo di Asahi – e pensa che, dopotutto, lei glielo deve a Suga, il tirarlo fuori da quel posto in cui ha cominciato a nidificare.
«Davvero?» domanda lui, atono. «Deve essere importante, se hai aspettato così tanto per venire a dirmelo. Sono giorni che te ne stai a guardarmi».
Lei incassa il colpo, ma non arretra. «Cosa ti è successo?» sussurra, dolcemente. «Dove sei finito?».
Sugawara ride, piano. «Daichi, non è vero?» commenta, scuotendo il capo. «Te lo ha detto lui, di venire qui?».
Shimizu scuote il capo, turbata. «Certo che no» risponde. «Io…».
«Oh, no» la interrompe lui, annoiato. «Non dirmelo. Non penso di volerlo più sapere, ormai».
Silenziosamente, Kiyoko si domanda se finirà per divenire come lui, di fronte a quel rifiuto: se anche lei si sporcherà le piume di delusione e, quando vorrà volar via, non ci riuscirà più, finendo per dover planare sul terreno nudo e arso. Nidificare sotto il sole e la pioggia, potendo raccogliere solo rovi con il becco, è questo che ha portato via Sugawara?
Perché, a modo suo, Sawamura aveva ragione: qualcuno ha portato via Suga e chissà dov’è finito, in che antro buio e mostruoso s’è nascosto, che ombra della sua mente è riuscita a catturarlo.
«Potresti ascoltarmi, invece» suggerisce Shimizu, dolcemente. «Non sarebbe bello, tornare come prima?».
Sugawara la guarda ma, sul suo volto, non reca traccia del suo passato : controluce sembra tutto una cicatrice, pronto ad aprirsi e a sanguinare sull’erba ai suoi piedi. Sospira, così forte che persino quel movimento sembra in grado di spezzarlo in metà diseguali.
«Pensi davvero che basti, adesso» sibila, ferito. «Dirmi che sei pazzamente innamorata di me, solo perché Daichi o chi per lui ti ha fatto la paternale?».
Lei indietreggia, ferita. «Io non…» mormora, ma s’interrompe, perché Suga ride e ha gli occhi lucidi.
Shimizu vorrebbe mordersi le labbra, sporcandosi i denti di lucido, ricacciando indietro quelle due parole.
«Lo so» mormora, lui, scuotendo il capo. Per un momento, la maschera cade e, sotto di essa, Suga è semplicemente solo e disperato. «Credimi, lo so».
Lei vorrebbe fermarlo ma, quando la sua mano gli sfiora il braccio, Sugawara si ritrae come si fosse appena scottato.
«Non toccarmi» le intima. «Non… non devi più toccarmi, se non vuoi».
Shimizu china il capo. «Certo che voglio» ammette. «Sei tu, che te ne sei andato».
«Io non me ne sono andato» ribatte Sugawara, secco. «Non… non cercare di farla sembrare diversa, Kiyoko».
L’ha fatta tremare, semplicemente pronunciando il suo nome, a voce abbastanza alta affinché chiunque possa udirlo. È troppo tardi per dirgli che, con un semplice nome – il suo – Sugawara è in grado di causarle quel tremito convulso al cuore?
«Io ti amo» lo dice con una serietà tale che, per un secondo soltanto, il vecchio Suga riemerge dalle proprie ceneri. «Ti amo e vorrei dirlo al mondo: io ti amo e vorrei stare con te».
Una lacrima le sfregia il volto, colorandolo di nero, come l’ennesimo corvo sporco di terra e punto dai rovi. Vorrebbe chiamarlo per nome, anche lei, ma ha la gola completamente atrofizzata.
«Ma non posso costringerti a stare con me, se tu non vuoi» prosegue, lui, con la voce marchiata dal pianto. «Non posso costringerti a riamarmi, né a guardarmi come hai fatto in tutti questi giorni».
La guarda e sta trattenendo così tante lacrime che, se semplicemente le lasciasse scorrere, causerebbe uno tsunami lungo la sua camicia.
«E non posso nemmeno dirti di scusarmi, per tutti quei difetti che non ti piacciono di me» prosegue. «Perché non ti piace quando gesticolo, o che sia più sensibile di quanto tu riesca a comprendere, o che abbia così poco tempo per te».
Shimizu ormai piange senza ritegno, stringendosi tra le proprie braccia, imponendosi di non crollare lì, davanti ai suoi piedi.
«A me starebbe bene. Mi starebbe bene amarti da solo, anche senza dovertelo dire» sussurra, più piano. «Mi starebbe bene se persino un giorno volessi ignorarmi, forse persino odiarmi, perché io continuerei ad amarti comunque».
Dietro di lui, tutti i suoi compagni di squadra sono usciti dalla palestra, ma a Sugawara sembra non importare minimamente.
«Si può sapere cosa sta succedendo?» urlano in coro Tanaka e Nishinoya. «Suga sta infastidendo Kiyoko?».
«Voi due» sibila Daichi, afferrandoli per la collottola. «Fareste meglio a tacere immediatamente».
Il capitano del Karasuno si guarda attorno, pronto a dispensare altri rimproveri, per notare come tutti gli altri giocatori abbiano rivolto la loro piena attenzione a Sugawara che, incurante di ogni sguardo e persino delle lacrime di Shimizu, continua a parlare speditamente.
«Quello che non posso sopportare, quello che mi sta spezzando» mormora. «È doverti guardare come se non ci appartenessimo, come se tutto questo ti scivolasse addosso. Ti sento così tanto che non sentirti più riesce ad assordarmi».
In quel momento, tutti rimangono con il fiato sospeso, a guardare Sugawara che, riprendendo fiato, sembra quasi esser tornato in sé.
«E c’era bisogno di tutta questa scena?» si lascia sfuggire Hinata. «Non potevi dirglielo e basta?».
Daichi non fa in tempo a fulminarlo, perché Suga li guarda tutti, uno per uno, e scoppia a ridere.
È tornato?
 
***
 
«Si può sapere cosa è successo?» strepita Tanaka, di fronte a uno già spazientito Sawamura. «Daichi, ci devi delle spiegazioni».
«Sì, esatto!» si unisce Nishinoya. «Tu lo sapevi, che Sugawara infastidisce Kiyoko-san».
Daichi respira profondamente, appellando tutta la propria pazienza di fronte alle intemperanze dei due ragazzi del secondo anno. Alla fine, di fronte agli sguardi inquisitori dei due, si arrende.
«Ragazzi» esordisce, con fare paterno. «Purtroppo le vostre attenzioni non erano… ricambiate, ecco».
Sia lo schiacciatore sia il libero sembrano pronti a interromperlo, con aria bellicosa ma, questa volta è Asahi a interrompere il dialogo, scrutando con severità i suoi compagni di squadra.
«Concordo con Daichi» esordisce, sicuro. «Ve ne farete una ragione».
Lancia uno sguardo indecifrabile a Yū, ma lui sembra non accorgersene.
«Ma noi difendiamo l’onore di Kiyoko! Non è vero, Noya?» urla Tanaka, contrariato. «Noya?».
Ma Yū tace e fissa Asahi come se gli avesse rivelato un tremendo segreto lì, di fronte a tutti quanti.
 
***
 
«Pensavamo fossi sparito» Asahi e Daichi affiancano Sugawara, a pranzo, come se quella parentesi durata quasi un mese non si fosse mai verificata.
«Quando ha qualcuno da proteggere, il corvo torna sempre al proprio nido» risponde Suga, scrollando le spalle. «Ma, per un po’, ho voluto proteggermi da solo».
«Non so se mi piace, questa tua piega filosofica» commenta Sawamura, esasperato. «Non hai idea di cosa hai scatenato con Tanaka e Nishinoya».
«Posso immaginarlo» commentò Suga, placidamente. «Scusami Dai-chi» disse, scandendo allegramente il nome del compagno di squadra.
Non se ne accorge immediatamente che Asahi, dal giorno prima, fatica a proferir verbo – c’è qualcosa che, tra la fronte e le sopracciglia, s’agita e si contorce in una ruga piena di preoccupazione.
«Asahi» lo chiama Suga, scuotendolo appena. «Si può sapere perché non dici niente, ma sembri comunque…».
«Terrorizzato» completa Daichi, volgendo lo sguardo verso l’asso della squadra. «Cosa mi sono perso?».
Azumane li guarda, e ha il viso contratto per un terrore primordiale. «Ho detto qualche parola di troppo» mormora, così piano che gli altri due faticano a sentirlo.
 
***
 
Il corvo ha ritrovato i suoi simili e, adesso, può mettersi di giocare. Che è quel che Nishinoya ama fare – giocare, mandare la palla al palleggiatore e vederla schiacciata da qualcuno, preferibilmente Azumane, nel campo avversario.
E, al pari di Sugawara, anche Nishinoya detesta perdere: e, quando Asahi l’ha zittito con un’occhiata ininterpretabile, Yū ha perso la propria battaglia. Perché silenzioso è rimasto a guardarlo, cercando di cogliere i sottintesi, e silenzioso è rimasto a riflettere su sottintesi che non ha colto.
Non gliel’ha perdonata, Nishinoya, quell’occhiata. Non gliel’ha perdonata, né potrebbe, perché fino in fondo non l’ha compresa – ed è quello, che lo tormenta, il buio pesto della mancanza di comprensione.
Perché Noya è abituato alla presenza di Asahi quasi come lo è a quella dei suoi genitori, è abituato ad abbracciarlo dopo ogni partita, a osservarlo in tralice dopo ogni schiacciata. Ma, a decifrare quell’occhiata, così scocciata e impenetrabile, quello no.
Perché Asahi sembrava scocciato o, peggio ancora, deluso dalla sua scenata contro Sugawara. Ed era una delusione intestina, differente dal fastidio di Daichi di fronte all’intemperanza sua e di Tanaka.
Passa la giornata a cercarlo – tra i muri, tra i palloni della palestra, forse persino tra i compagni di squadra – e, quando lo trova, Azumane ha la medesima espressione che gli ha dedicato il giorno prima.
Yū non la sopporta, quell’eventualità così remota ma, al momento, così vicina che potrebbe toccarla, se solamente non ne fosse spaventato a morte. Non è l’aver fatto arrabbiare Asahi, che lo turba così profondamente, è l’averlo deluso che gli è insopportabile.
Perché Azumane corre, schiaccia e parla con gli altri come ogni altro normalissimo giorno ma, a Nishinoya, non dedica nemmeno uno sguardo distratto. È come se evitasse persino il contatto visivo, con lui, forse sta volando troppo in alto per accorgersi dei fluttui a bassa quota di Yū.
«Mi stai evitando?» alla fine, Nishinoya non riesce materialmente a sopportare tutto quel silenzio. «Perché secondo me lo stai facendo».
«No» risponde, secco, Asahi. «Non ti sto evitando».
Ma Yū ha occhi luminosi come stelle, e offuscati da una nube di lacrime, così che Azumane non riesce per davvero a guardarlo. Perché il pensiero d’avergli adombrato lo sguardo è terribile e intollerabile, ma è anche la pura evidenza che lo colpisce come l’ennesima stretta allo stomaco.
«Okay» ammette, prima che Nishinoya possa contraddirlo. «Ti sto evitando».
«Non dovresti» risponde Yū, contrariato. «Io…».
Azumane lo guarda e, ancora una volta, si sente come se avesse semplicemente perso le parole. E, probabilmente anche le speranze così che, nel guardarlo, si ritrova a essere un corvo spennacchiato, muto e disperato.
«Lo so» tossisce, stanco. «Ma io non sono Suga, Noya. Non potrò mai…».
È che lui è un corvo pauroso, quando in città vola via spaventato dai grattaceli – Noya è esattamente quello, il suo grattacielo. È piccolo, ma fa paura come fosse alto sei metri, e lo guarda con una tale luce da accecargli i pensieri.
«Cosa?» domanda Nishinoya, incalzandolo. «Cosa non potrai? Parla chiaro, Asahi».
Lui sospira. Forse, Yū non è un corvo: è un passerotto che saltella lungo il campo, poco conscio della propria stazza, coraggioso come un’aquila. Di certo, è territoriale come un pettirosso – e, se fosse meno insicuro, Asahi potrebbe intuirlo dallo sguardo possessivo che gli rivolge, quasi senza accorgersene.
«Niente» borbotta infine, lui, voltandogli le spalle. «Dimentica quello che stavo dicendo, va bene?».
Nishinoya lo guarda – e non è convinto – ma nemmeno riesce a trattenerlo con sé. Potrebbe inseguirlo, ma il viso di Asahi è così sconvolto e turbato che i piedi di Yū si rifiutano di muoversi.
 
***
 
Sugawara non aspetta una risposta di Shimizu, qualcosa nella sua testa gli urla continuamente che non potrebbe mai averne una. Ma, inspiegabilmente, qualcosa al centro del suo cuore si è sciolto, permettendogli di ritrovarsi tra i ghiacciai in cui s’era perso, di fronte al rifiuto.
Eppure, da qualche parte nei corridoi – ora illuminati – della sua mente, sperimenta nuovamente la mancanza.
Non è il sesso, a mancargli. Ciò che lo consuma, come un cerino che prova a sciogliere un ghiacciaio, è l’assenza stessa di Shimizu.
Perché non la vede da nessuna parte e, per quanto il suo amor proprio possa bruciare e provi a impedirgli di cercarla, lui la cerca. La cerca e non la trova, nei corridoi, in classe, tra una lezione e l’altra.
È scomparsa, non riesce più a vederla nemmeno riflessa tra i blocchi di ghiaccio della propria mente. E, per quanto sia dispendioso e autolesionista ammetterlo, ne sente la mancanza, come a volte gli manca l’aria al pensiero che potrebbe non vederla più. Che lei potrebbe non volergli più parlare, perché l’ha messa a disagio di fronte a tutti gli altri membri della squadra – causando, tra le altre cose, il malcontento di Tanaka e Nishinoya.
Che potrebbe non perdonarlo perché la ama disperatamente e disperatamente la rivorrebbe indietro; Shimizu non è in grado di perdonare i sentimenti di Sugawara, perché probabilmente è altrettanto inflessibile con i propri.
Ma lui non si arrende e, ogni mattina, le fa trovare nell’armadietto una busta chiusa, con su scritto il suo nome. Dentro, un foglio bianco – se non fosse per una scritta minuscola che ne decora l’angolo superiore.
Lì, una frase e la firma di Suga, che come un sorriso s’apre su quel biancore annichilente. Chissà se Shimizu la legge mai, quella frase, o l’ignora come ignora Suga che l’aspetta sotto l’albero, davanti la palestra, come i pulcini di corvo aspettano i genitori tra i ramoscelli di rovo secchi e spezzati.
Ti amo ancora, le scrive come se quell’ancora non fosse un anche oggi. Anche se tu non vuoi.
Ed il punto è esattamente quello: si tratta di volere, o forse di potere, perché Shimizu non vuole e non può amare Sugawara come lui vorrebbe e potrebbe essere amato.
Ma lui non molla. E l’aspetta silenziosamente come fosse un miracolo o una stella cadente, ogni giorno, senza che lei si decida mai a fare la propria comparsa.
Gli hanno detto – tutti quanti e Tanaka in particolare – di rinunciare: che chi ama non per forza si vede amato a sua volta ma, a quelle parole, Suga non s’arrende e tenace rimane ancorato al suo albero, come v’avesse fatto il nido.
Punge come potesse infilzargli una spina nel cuore, quella consapevolezza – che lei non si presenterà – ma lui non perde le speranze. Che è quel che dice a Daichi ed Asahi quando provano a tirarlo via di lì.
Sugawara non ha perso le speranze. Ed è anche la risposta alla domanda che, in un tempo eroso fino a divenire sabbia, Sawamura s’era posto – dov’è finito Suga?
È seduto a osservare le rondini planare ai piedi di un albero, mentre aspetta una risposta ai miliardi di messaggi lasciati nell’armadietto di Shimizu.
È lì, sotto un principio di pioggia. Ma lei non lo sa, o lo sa e l’ignora, così che il tempo diviene sabbia tagliente e vetrificata, che l’acceca e l’assorda, come quella mancanza che sente come un grido disperato. Ma, da lì, Suga non si alza mai.
 
***
 
Un giorno, Asahi raccoglie il poco coraggio a sua disposizione e, a passo di marcia, raggiunge Sugawara sotto l’albero davanti alla palestra. Lì, davanti al suo sguardo perplesso, si siede con la schiena appoggiata al tronco e chiude gli occhi, pensieroso.
«Asahi» lo chiama Suga, perplesso. «Non che è per…».
«Non dire niente» lo supplica Azumane, passandosi una mano sulle fronte. «Possiamo semplicemente rimanere qui, in silenzio?».
Sugawara annuisce. Un brandello di sole ha fatto capolino dalle nubi.
 
***
 
«Azumane mi evita» è diventato il mantra di Nishinoya. «Non è vero che mi sta evitando?».
Forse vorrebbe che qualcuno negasse l’evidenza ma nessuno riesce a trovare il coraggio di dirgli che, sì, l’asso della squadra lo sta evitando. Ed è seduto con Sugawara sotto l’albero di fronte la palestra, ma non dice una parola che sia una.
«Sì, Nishinoya, sì» sibila Tsukishima, esasperato. «Ti sta evitando, cerca di venirci a patti».
Yū lo guarda, e nei suoi occhi vi è lo stupore innocente di un bambino, e spalanca la bocca, sinceramente sorpreso.
«Ma perché?» domanda, perplesso. «Se lo sai, devi dirmelo».
Tsukishima apre la bocca ma, all’ultimo istante, Daichi lo fulmina con lo sguardo, costringendolo a chinare il capo e tacere.
Nishinoya si guarda attorno, ma nessuno dice una parola.
 
***
 
«L’hai vista?» Asahi saluta Sugawara con la medesima domanda, ogni pomeriggio.
E lui l’accoglie con la medesima risposta, che è un no sussurrato scuotendo il capo, che sa di stanchezza, di esasperazione.
Finché, un giorno, qualcuno compare all’orizzonte: e non è Shimizu né l’ennesimo corvo-vedetta venuto a controllare come stiano, quei due volatili senza ali. Nishinoya cammina come si vergognasse di mettere un piede di seguito all’altro ma, quando finalmente raggiunge Azumane e Sugawara, ha un sorriso sul volto e gli occhi fieramente asciutti – ha smesso di piovere, nello sguardo di Yū. Asahi non ha più bisogno di planare via e schiantarsi su un suolo fangoso e pieno di pericolosi sassi.
«Ho capito» dice, semplicemente. «Io… ci ho messo un po’, ma… credo di aver capito».
Asahi sorride, non ha altro da dire.
 
***
 
«Hai intenzione di rimanere lì ancora per molto?» Shimizu lo guarda, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Sawamura mi ha detto che sono settimane, che…».
«Che ti aspetto» completa Suga, scrollando le spalle. «Penso di poter continuare ancora».
Lei lo guarda – e ha il cuore spezzato, sfilacciato – e non riesce a dire una parola. Non ha altro da dire?
Ha smesso di piovere: le rondini ritornano al nido.
 
I'm off the deep end, watch as I dive in
I'll never meet the ground
Crash through the surface, where they can't hurt us
We're far from the shallow now
(Lady Gaga, Shallow)


Doverose spiegazioni:

Che dire. Io non so bene cosa si sia impossessato di me, perché questa è la mia seconda fic nel Fandom in qualcosa come due giorni. Livello ossessione: Gaia Bessie, in pratica.
Per primissima cosa, vi segnalo che nel testo vi sono alcune citazioni, e sono queste:

1Il volo delle rondini con il maltempo non è una mia invenzione
2 Anche per quanto riguarda nidi e abitudini dei corvi
3 e anche per i teneri passerotti
4 La lettera scarlatta, invece, è un mio piccolo omaggio a questo libro

Per quanto riguarda invece le mie personalissime considerazioni, c'è molto da dire.
In primo luogo, sì, Suga è OOC ed è OOC perché il contest richiedeva un cambiamento radicale in lui e, tutto ciò che sono riuscita a partorire, è stato ciò.
Un'altra cosa che ci tengo a chiarire è che questa storia parte dal presupposto che vi fosse una relazione, meramente fisica, tra Suga e Kiyoko (che consacro a mia OTP immortale).
Per il resto, penso sia tutto chiaro, ma sono sempre disponibile a rispondere a eventuali domande.
Grazie per avermi letta.

Gaia
   
 
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