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Autore: ymirjeannie    01/10/2020    0 recensioni
[ One Shot| Original Characters| Introspettivo ]
La storia parla di due uomini, entrambi adulti, appartenenti allo stesso ceto sociale ma con caratteri molto diversi: un narcisista violinista francese e un anonimo pittore nel tempo libero stringono un rapporto di amicizia così intimo da potersi considerare migliori amici. Però, l'ambiente in cui vivono ed una particolare vicenda cambierà tutto, costringendo il nostro anonimo narratore a scrivere un racconto, cercando invano di colmare un vuoto nella sua vita.
Dal testo:
"A questo punto, immagino, vi starete chiedendo chi io sia, ebbene sono lieto di potervi annunciare di non essere il protagonista di questo breve racconto, ma solo un umile narratore vicino a lui. Posso garantire che una storia su di me risulterebbe alquanto noiosa, fidatevi.
Per cui, la persona che vestirà i panni del protagonista è un mio vecchio amico, un conoscente, un uomo di cui ho quasi nostalgia a raccontare.
Non so dire se incontrare Saber, un ricco violinista francese che aveva fatto della sua passione un lavoro, fu la cosa migliore o peggiore che potesse mai capitarmi. Ancora oggi, dopo parecchi anni, fatico a decidere.(...)"
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Inghilterra, 1970.

Nella vita capita spesso di fare conoscenze di cui, in futuro, ci si pente, ciò accade di continuo e fin dalla tenera età: a scuola, a lavoro, per caso. Non saprei dire se esiste una definizione per spiegarlo e non credo di avere abbastanza fantasia per poterne inventare una, ma l’avere presente questo fatto è fondamentale per il continuo del mio racconto.

Un giorno, ancora non so dire con certezza se quella fosse una buona o brutta giornata. Ho sempre pensato fosse ingiusto catalogare le giornate come “belle” o “brutte” sulla base di qualche goccia caduta o avvenimenti non piacevoli.

Eppure, ahimè, devo già contraddirmi, la mattina in cui lo incontrai rientrava perfettamente nella categoria “brutta”: pioveva a dirotto ed io, colto alla sprovvista, mi ritrovai senza alcun mezzo per ripararmi dal crescente acquazzone, così decisi di entrare in un pub; per mia fortuna, era il locale che preferivo al momento. Aveva aperto da pochi mesi ed era davvero un bel posto, con il pavimento in legno perennemente lucido e la parete in cartongesso, dipinta di uno straordinario bordeaux; ogni oggetto lì dentro, che fosse un semplice tavolo o il bancone principale, era elegante. Inoltre, dato l’orario e la recente apertura, non era molto frequentato e regnava una calma quasi ultraterrena, era raro che giovani vivaci, o chiunque altro per loro, vi si fermasse a lungo per disturbarne la quiete. 

A questo punto, immagino, vi starete chiedendo chi io sia, ebbene sono lieto di potervi annunciare di non essere il protagonista di questo breve racconto, ma solo un umile narratore vicino a lui. Posso garantire che una storia su di me risulterebbe alquanto noiosa, fidatevi.

Per cui, la persona che vestirà i panni del protagonista è un mio vecchio amico, un conoscente, un uomo di cui ho quasi nostalgia a raccontare.

Non so dire se incontrare Saber, un ricco violinista francese che aveva fatto della sua passione un lavoro, fu la cosa migliore o peggiore che potesse mai capitarmi. Ancora oggi, dopo parecchi anni, fatico a decidere.

Accadde proprio quella mattina, entrò e si sedette accanto a me, puntandomi subito gli occhi addosso. Sentivo il suo sguardo su di me, curioso e indagatore, quasi fossi una preda, e questa consapevolezza mi infastidì tanto che mi girai palesemente scocciato e lo sostenni; solo allora notai quanto fosse di bell’aspetto, dai colori mediterranei e i tipici tratti francesi, distinguibili quasi, emanava un fascino fuori dal comune ma pressante, imponeva chiaramente di essere ammirato e per un momento rimasi spiazzato, ebbi la stessa emozione e scarica di adrenalina che provavo quando mi trovavo di fronte un’opera d’arte. La sensazione non mi abbandonò mai del tutto, ma poco dopo mi resi conto del ghigno di superiorità e divertimento che si era dipinto sul volto, e mi indispettii nuovamente.

«Buongiorno» lo salutai con una gentilezza palesemente forzata.

«Bella giornata, eh?»

Alzai un sopracciglio, chiedendomi per quanto pensasse di mantenere quel cipiglio sarcastico e divertito, se volesse prendermi in giro per tutto il tempo.

«L’ha vista? Favolosa» risposi acido. Non avevo mai tollerato possibili offese alla mia persona ed ero solito scattare all’istante non appena ritenevo una frase tale, e di certo non amavo come si stesse burlando di me così apertamente.

Lui, però, allargò il sorriso.

«Sembra che lei sia stato colto alla sprovvista da questa pioggia. Su, le offro un tè per riscaldarsi.»

Quasi mi lasciai sfuggire uno sbuffo, non avevo la minima intenzione di permettergli di passarla liscia con una bevanda calda, non dopo quella burla!

«Non si disturbi, non mi piace il tè.»

Mi ignorò totalmente, ed anzi iniziò a fare una lista contenente diversi gusti, specificando quali aveva già assaggiato in quel locale e quali aveva gradito di più.

«Guardi che non—» iniziai, spazientito, cercando di fermarlo.

«Barista, due tè ai frutti di bosco!»

***

«Ah, comunque mi chiamo Saber.»

Solo più avanti conobbi meglio quello strano individuo che sembrava non volermi più lasciare in pace e scoprì presto che non era solo un bell’uomo, ma vantava un portamento elegante e lussuoso, si intuiva subito a quale ceto sociale appartenesse. Sia donne che uomini erano attratti da lui, chi per bellezza, per talento o per soldi, ma era parecchio comune incontrarlo in compagnia di una dama sempre diversa o con il compagno di bevute del giorno, riusciva a dare l’impressione di essere accanto al proprio migliore amico persino quando la persona in questione era un totale sconosciuto.

Saber era forse la persona più subdola, arrogante, infida, mendace e machiavellica che avessi mai incontrato. Nonostante mantenesse un portamento elegante, si divertiva a vestire panni diversi e cambiare personalità in base a chi si trovava di fronte: se un individuo avesse avuto la sfortuna di non piacergli a priori sarebbe stato il classico acido bastardo, pronto a tutto pur di mettere l’altro in soggezione e irritarlo, una volta riuscitoci si rivestiva di una maschera glaciale, a tratti inquietante, per umiliarlo. Il malcapitato che lo avesse annoiato si sarebbe trovato davanti un maleducato che l’avrebbe continuamente interrotto, per poi alzarsi nel mezzo di una conversazione e andarsene, spesso lasciando il conto all’altro. Quando gli chiesi spiegazioni per quei gesti tanto infantili quanto incivili, mi rispose solo: “è come se gli facessi pagare una piccola penitenza per essere una persona scialba, prevedibile e vuota con cui ho avuto il dispiacere di spendere un po’ di tempo della mia vita, tempo che avrei tranquillamente passato in un modo più piacevole”.

Tuttavia capitava, anche se raramente, di catturare il suo interesse: quando accadeva era solito a mostrarsi affascinato a qualsiasi dettaglio e lato dell’argomento in questione, estrapolando più informazioni possibili finché non si fosse stancato.

Per quanto assurdo –ora ipotizzo perché gli tenessi testa o non mi mostrassi particolarmente impressionato da lui—, io non lo stancai mai e fui l’unico, probabilmente, a capire qualcosa del vero violinista, che tutti conoscevano solo all’apparenza, accontentandosi del velo superficiale che egli stesso stendeva sugli altri, lasciando poche o false informazioni qua e là, giusto quelle strettamente necessarie per chiudere le bocche a lui poco rilevanti.

Si credeva un gradino sopra gli altri e li guardava sempre dall’alto in basso. Difficilmente, ma che dico, era quasi impossibile estrapolargli informazioni reali su se stesso, non ne parlava mai in modo onesto e spesso mi rifilava un elenco di avvenimenti degni di un libro, se invece ciò che chiedevo era troppo personale poteva reagire in due modi: limitarsi a cambiare argomento, nominandomi posti esotici, viaggi di lavoro, creature mistiche, leggende metropolitane, libri, musica e molto altro, oppure –anche se era più raro– lasciava cadere lo sguardo nel vuoto, assumendo un’espressione nostalgica, a tratti malinconica, e si dimenticava del mondo attorno.

A prova di questo, ciò che mi accingo a raccontare adesso, interessò diversi anni della mia vita.

Inizialmente credetti fosse insicuro, e che dietro le sue parole o azioni vi fosse un’effettività ben più profonda, debole, ebbene la realtà non era troppo distante: Saber era un narcisista, sicuro di sé solo all’apparenza, incredibilmente sadico e disposto a tutto pur di essere al centro dell’attenzione. Ho un ricordo tangibile dello spasso che mostrava quando manipolava le persone a suo piacimento, creava sul momento tutto un profilo non appena capiva il tipo di individuo che aveva decretato come preda, sfruttando la sua ben più che vasta cultura. Io stesso l’ho visto esibirsi in alcuni di queste: nominarsi un direttore di un circo in Polonia, pur non essendo mai stato in quel paese, o presentarsi come un patito di navi da guerra, sapendo riconoscere –improvvisamente– ogni parte dell’imbarcazione ed esponendo persino critiche e preferenze in base ai diversi modelli, e solo una volta conclusa la conversazione mi rivelò il suo totale disinteresse.

Non poteva vivere senza due cose: violino e spada.

Non seppi mai da dove nascesse l’amore per la seconda, in compenso scoprii che amava anche e in maniera spropositata la lettura, una volta lo vidi molto concentrato su un libro e quando, preso dalla curiosità, chiesi informazioni, dovetti subire tre ore di monologo sul suo scrittore preferito, Jules Verne. Mi disse che come grande ammiratore del genere fantascientifico non poteva non amare i libri di colui che lo affermò. Ricordo ancora vividamente come vantava la sua Francia dicendo che “il più grande scrittore di tutti i tempi era francese”, aveva una collezione immensa di libri, ma non lo vidi mai così fervidamente attaccato a uno di questi come lo era con i libri di Verne, una volta mi rivelò, probabilmente sovrappensiero, che quella passione derivava dal padre, che lavorava nel campo e fin da piccolo riempiva la casa di pagine, raccolte e manoscritti di ogni genere.

Viveva per la musica, si intendeva di parecchi strumenti e adorava la fisarmonica, ma sosteneva sempre e con convinzione che niente avrebbe mai potuto surclassare il capolavoro che era il violino.

Spesso mi chiedevo come fosse arrivato in Inghilterra, dato che millantava origini francesi, ma quando cercavo di aprire l’argomento si asteneva sempre dal rispondere e solo dopo tanto tempo decise di liquidarmi dicendo di averla visitata da piccolo insieme ai genitori, di come nonostante tutto si fosse subito innamorato e ambientato e avesse deciso di passarvi il resto della sua vita.

Questa affermazione mi lasciò spiazzato, non avevo mai preso in considerazione l’idea di lui legato ad una famiglia, continuai a chiedergli ma non mi rivelò quasi nulla sulle sue origini, lasciando in particolare la figura della madre avvolta nel mistero. Avevo intuito che avesse preso i tratti caratteristici e l’amore per la lettura dal padre, un certo Darius, ma della donna conoscevo solo il cognome, poiché era quello con cui Saber stesso si firmava: Lebon.

«Era una violinista, lei mi ha insegnato le basi per suonare» se ne uscì un giorno, dal nulla, ed io fui talmente sorpreso che, acceso dalla curiosità, continuai a fargli domande per tutto il giorno, fallendo in ogni caso, perché lui decise di chiudersi totalmente e non rivelarmi più nulla.

Passavo spesso i miei pomeriggi nella sua villa, perché nonostante fosse un enigma alquanto bizzarro, era altrettanto curioso come ci trovassimo bene insieme; più volte gli dedicai mie tele, e lui più volte insistette su una mia carriera da pittore ma, nonostante amassi l’idea, l’accantonavo sempre.

Un giorno insistette per mostrarmi la sua collezione di spade, convinto che ne sarei rimasto affascinato. In vero, ci andò vicino, la sua immensa raccolta mi lasciò di stucco. In precedenza, aveva già decantato l’immensa raccolta ma non credevo potesse averne così tante, da dedicarvi una stanza intera. Dopo essersi preso qualche attimo per godersi, compiaciuto, la mia espressione sbigottita, mi illustrò le varie tipologie, stupendomi ancora di più, possedeva moltissimi modelli diversi: claymore, dalwel, ensis, falcione, firangi, flamberga, gladio, jian, katane, nimcha e altri tipi di cui col tempo ho rimosso il nome. Successivamente mi mostrò la sua prediletta, una sciabola –che a mio parere stonava con la persona che conoscevo–. La amava, mi spiegò a lungo il perché la curva non così accentuata la rendesse perfetta, e mille altre informazioni che dimenticai poco dopo e che, perfino sforzandomi, non saprei raccontare.

Quel giorno, però, giocammo troppo su quella maledetta curva, tant’è che scherzai su quella presunta perfezione che avrebbe potuto sostituire un archetto, addirittura. Inizialmente mi lanciò un’occhiataccia infastidita, mi sentì anche in colpa ed iniziai mentalmente a preparare delle scuse, ma poco dopo scoppiò a ridere.

«Sarebbe piuttosto comico e insolito» rise ancora. D'un tratto ricordai che la cosa che più mi colpì in lui, inizialmente, fu la risata. Credetemi se vi dico che stonava a dir poco con le sue abitudini poco normali: possedeva una risata splendida, cristallina e parecchio contagiosa. Adoravo sentirlo ridere in quel modo, sembrava come se tutti i suoi pregi si racchiudessero in quel singolo gesto. Ovviamente, mi lasciai subito contagiare, superficialmente, dando per scontato che l’argomento fosse chiuso.

Non mi pentirò mai abbastanza di averlo fatto.

Quel giorno decise di mostrarmi per bene la villa, portandomi in giro un po’ ovunque, tra stanze e interi piani inesplorati. Pensandoci su, credo che la sua sia stata una scusa per divertirsi alle mie spalle nel vedermi spaesato e intimorito dal perderlo di vista. Effettivamente, più volte girò un angolo mentre io rimasi fermo in mezzo ad un corridoio, e probabilmente se non fosse stato per la sua attenzione nel tenermi vicino –nonostante il suo evidente spasso– i miei timori si sarebbero realizzati. In confronto la mia abitazione assomigliava più alla casa di un umile contadino, nonostante anche io abitassi in un edificio abbastanza maestoso. Ad ogni modo, dopo quel pomeriggio presi ad essere sempre più presente nella vita di Saber, come lui nella mia, man mano che imparavo la collocazione dei singoli mobili e oggetti, posizionati con la minuziosa cura dei dettagli tipica del suo stile, anche il nostro rapporto migliorava e ben presto fu colui che consideravo “migliore amico”.

Ci fu un momento in cui la sua carriera sembrò decollare, lo chiamavano spesso per assistere o esibirsi in concerti suoi. Era particolarmente contento in quel periodo e svariate volte suonò per me, ogni volta credevo fermamente che in fondo, quel successo lo meritava davvero; era davvero talentuoso, nelle sue mani i violini sembravano poter prendere vita, dando inizio ad un’armonia che prometteva di mandare in un’altra dimensione, tanto era bella. Ogni nota si incastrava perfettamente con la successiva, danzando insieme in quella composizione quasi ultraterrena. Era diverso da altri artisti suoi coevi e di certo era eccezionale. Fu l’unico periodo in cui frequentai il teatro, non me ne ero mai appassionato eppure non uscivo prima della fine dello spettacolo; io, che di arte mi intendevo solo di pittura, ero sempre in prima fila ai suoi concerti, sempre molto felice per lui.

Quella felicità, però, non era destinata a durare.

Non era destinato a rimanere primo nella scena, dopo pochi anni la gente si stancò di ascoltare violini, organi, pianoforti, e qualsiasi strumento potesse ricordare quei bei tempi, preferendo invece le musiche dei nuovi tempi. Il suo successo svanì quindi nel dimenticatoio, strappandogli la possibilità di riemergere una seconda volta e intrattenere quella gente che prima incantava.

Saber non la prese affatto bene, ma anzi man mano che passavano le settimane, lui diventava sempre più cupo, chiuso in se stesso, lugubre. Non ci volle molto affinché i miei discorsi, e la mia stessa presenza, diventassero di colpo una presenza non gradita, quasi come una mosca che gli ronzasse intorno.

Spesso aprivo una conversazione, continuavo finché non diventava un monologo, e poi lo osservavo alzarsi, guardarmi con occhi vuoti, visibilmente stanco da me pur sapendo che non ero io a stancarlo. Dopodiché si chiudeva in quel salotto, sempre lo stesso, dove conservava gelosamente la collezione di spade.

In genere rimanevo fuori dalla stanza, seduto sul divano di pelle a leggere. Altre volte gironzolavo nelle vicinanze della porta. Solo dopo vari mesi mi consentì l'accesso e quella prima volta ne rimasi inorridito, nulla o quasi era come la ricordavo: le spade, prima accuratamente sistemate, ora giacevano in disordine sul pavimento, molte erano senza la loro custodia, i pochi mobili presenti erano ricolmi di piccoli tagli, come colpiti più volte. La cosa che, però, più mi fece accapponare la pelle in mezzo a quel trambusto, furono dei violini con le corde tagliate di netto.

Il mio amico teneva lo sguardo basso, colpevole. I capelli castani, solitamente raccolti con cura, ora ricadevano disastrati sul volto, ricordando vagamente un nido per uccelli, tanto erano in subbuglio.

«Saber…» lo chiamai piano, spezzando l’idilliaco silenzio che si era formato in quel lasso di tempo, temendo al tempo stesso di distruggerlo. Non l’avevo mai visto in quello stato, ricordava un cucciolo dopo aver visto con i propri occhi la madre andar via, lentamente, continuando per la propria strada incurante del figlio rimasto indietro.

«Che stai facendo?»

«Non lo vedi? Suono.»

«Con una sciabola?»

«Quale sciabola –incurvò appena le labbra, in un sorriso così triste che per un attimo credetti non fosse reale– è… il mio nuovo archetto… fantastico per suonare, ti ricordi? La curva è davvero perfetta. Sarei il primo della storia… funzionerà, mi ameranno di nuovo. Lo capisci, vero? Nessuno ci ha mai provato, sono l’unico.»

Solo in quel momento mi resi conto della realtà di cui mi aveva reso parte; non era solo amore per i sorrisi che gli rivolgevano, era il bisogno quasi ossessivo di attenzioni e fama, gli mancava da morire suonare per un pubblico che lo amasse e il pensiero di essere improvvisamente dimenticato, come un qualcosa di frivolo e di poco conto, era stato decisamente troppo per la sua mente.

Odiai con tutte le mie forze quella spada, con ogni probabilità fu stupido farlo, ma era l’oggetto della fissazione del mio amico e lo stava pian piano portando con sé, lontano dalla realtà logica dei fatti, dovevo fermare quella folle credenza, una spada non era capace di sfiorare quelle sottili corde producendo suoni, e i violini rovinati ai suoi piedi ne erano la conferma. Non riusciva a capirlo ed ero certo che continuando in quel modo si sarebbe solo fatto del male.

«Saber…»

«Mh?»

«Sai che quella non è un archetto e non potrà mai suonare, vero?» col senno di poi, avrei dovuto essere più delicato, anche in quel momento avrei voluto esserlo, mi avvilisce tutt’oggi quella totale mancanza di tatto, in quel momento così delicato. Difatti, lui reagì esattamente come avevo temuto: si voltò, puntò le iridi castane dapprima sulla spada nelle sue mani, poi si posarono su di me, ma invece di infuriarsi mi guardò confuso.

«Che stai dicendo? Questo è un archetto. Non lo capisci?»

«Non può esserlo, né ora né mai. Non vedi che taglia le corde? Dai, mettila via.»

Fu lì che si imbestialì.

Aggrottò le sopracciglia, assumendo un cipiglio tra l’infastidito e il disdegno, strinse l’elsa della spada e vi drizzò la punta verso il mio petto.

«Perché non vuoi capire?! Proprio tu dovresti appoggiarmi, dovresti apprezzarmi. Ti ricordi la curva perfetta? Mi prendevi in giro? Ho mai deluso le aspettative, in tutto questo tempo?» urlava, con una disperazione tale da farmi tremare. Anche lui era scosso da tremiti, teneva stretta l’impugnatura ma quella continuava a tremolare, leggevo nel suo sguardo persino la paura di ferirmi davvero, ma era troppo irritato per abbassare le sue difese.

«Vai via» mormorò infine.

«Cosa? »

«Vai via, esci. »

«Stai scherzando?»

«Mi rendo conto di aver sbagliato a mostrarti questa stanza. Era così ovvio, non potrai mai capirmi, non hai mai seguito il tuo sogno. Tu non vivi per qualcosa, ti adagi nelle ombre delle vite altrui, che tanto ti piacciono, osservando da un punto esterno e imponendoti di non risaltare mai, in nessun caso. Il benestare della tua famiglia bastava a sfamarti per una vita e non hai mai preso in considerazione l’idea di seguire le tue passioni. Anonimo come sei, non potrai mai capire la gioia dell’essere venerati per il proprio talento. Un fallito del genere non potrà mai capirmi.»

Era troppo.

Rimasi fermo, pietrificato dalla potenza di quelle parole, tanto veritiere quanto letali. Probabilmente anche lui si era reso conto di aver esagerato, ma non mi disse nulla e preferì evitare il mio sguardo, concentrando il suo sul pavimento

«Capisco» dissi soltanto, prima di voltarmi e ripercorrere i miei passi, uscendo dalla stanza.

Ricordo solo vagamente che pensai a quanto fosse lui lo stupido e il sognatore, era come un bambino capriccioso convinto che impuntarsi in quel modo avrebbe sortito l’effetto da lui desiderato.

Mi sento ancora colpevole per quel litigio, erano ormai anni che lo conoscevo ed ero stato ugualmente cieco, in quell’occasione. Saber era così, per quanto potesse mostrarsi sicuro di sé era colmo di insicurezze, nel profondo. Non credo sapesse cosa stesse realmente facendo, probabilmente era troppo attaccato alla fiducia per quella spada e alla speranza che potesse funzionare, voleva più di ogni altra cosa essere riconosciuto, voleva che la gente stesse lì, ad ascoltarlo, dettata solo dalla propria volontà. Voleva tornare a incantare sconosciuti, leggere nei loro sguardi danze al ritmo della sua musica, e non si sarebbe fermato finché non ci sarebbe riuscito.

È a dir poco assurdo come l'essere umano sia in grado di ridursi a certi livelli e disposto a tutto pur di ottenere l'oggetto o il soggetto del suo desiderio.

Io sono sempre stato un umile gestore di compagnie, e un pittore per hobby, sono rimasto sul modesto e mai mi sono permesso una tale ambizione, al punto di mettere tutto a rischio per seguire un sogno. Avevo sempre una visione chiara dei miei limiti e di conseguenza, per quanto mi sforzassi, non riuscivo mai a capire cosa stesse provando Saber, non riuscivo a comprenderlo.

Comunque, nei giorni successivi il nostro rapporto si raffreddò e le già di per sé rare volte in cui parlavamo diminuirono ancora, quasi del tutto. Lui era arrabbiato con me e io con lui, aveva preso a tenermi il broncio e non ci volle molto prima che smettessimo del tutto di parlarci, presi dall'orgoglio del ''ho ragione io''. Se ci penso, trovo che sia stata una scelta piuttosto stupida. È insensato troncare un bel rapporto perché si litiga e si è troppo orgogliosi per chiarire. Ma questo lo capii dopo.

Mi venne in mente una scultura da poco finita che mi fecero vedere, raffigurava due adulti, seduti schiena contro schiena, avevano visibilmente litigato ed erano entrambi chiusi in se stessi, il dettaglio interessante era dato dai due bambini all’interno che quasi si toccavano per mano, desiderosi di passare sopra a tutto e di tornare a giocare il prima possibile. Purtroppo, la mia pessima memoria non mi ha permesso di ricordare il nome di quella splendida opera, ma rammento bene che quell'immagine rimase subito impressa nella mia mente. In quel periodo noi eravamo esattamente così: due adulti troppo presi dall'amor proprio per lasciar perdere quella piccola discussione e "tornare a giocare".

Dopo un po' di tempo, sia per la sua mancanza che per l'aver aperto gli occhi sul rapporto che si stava lentamente sgretolando, decisi di tornare a casa sua per fargli visita, e andavo ogni giorno. Potrei inventarmi scuse come la presenza di una bella domestica dai lunghi capelli e dalle curve perfette, ma la realtà era che tornavo solo per lui, mi dispiaceva aver litigato, mi sentivo in colpa per l'averlo quasi abbandonato. Quindi passavo le giornate nella sua villa, principalmente a non far nulla, qualche volta mi portavo tele e pennelli per dipingere, altre volte ancora mi sedevo vicino alla porta di quel salotto. Qualche volta mi vedeva, a quel punto io rimanevo a fissarlo, ma la maggior parte delle volte mi guardava con sufficienza, ignorandomi. Non fingeva di non conoscermi o non notarmi, come ero sicuro avrebbe fatto con chiunque altro, lo conoscevo troppo bene per credere che non gli mancassi nemmeno un po’, conoscevo il modo in cui guardava le cose ed era come un libro aperto per me, ma era troppo orgoglioso per rendersene conto subito e tirava sempre dritto per la sua strada.

Fu solo dopo mesi di totale silenzio che decise di rivolgermi a parola. Inizialmente ero così sorpreso dal chiedermi con chi stesse effettivamente parlando, ma i suoi occhi erano fissi nei miei, ero certo non fosse diventato cieco tutto d’un colpo, non nascondo l’immensa gioia che mi investì il petto quanto riconobbi quella solita scintilla che avevano quando parlava con me. Non mi chiese esplicitamente scusa per avermi offeso, non mi pregò né altro, non ce n’era bisogno, sapeva che riuscivo a leggerlo meglio di quanto volesse lui stesso e non mi sfuggirono quei piccoli dettagli che tradivano un certo dispiacere, ma riprese a parlarmi come se non fosse mai successo nulla. Non era mai bravo a ingannare chi lo conosceva davvero bene.

Ad ogni modo, credo entrambi capimmo più in quello scambio di sguardi e battute sugli argomenti casuali di quanto avrebbero mai fatto altre due persone qualunque chiedendosi scusa a vicenda.

Nonostante avessimo riallacciato i rapporti non si rasserenò mai del tutto e non smise mai di inseguire ciò che per lui ormai era diventata un’ossessione. Non mi permise più di entrare in quella stanza, né tantomeno di parlarne, anzi: l’unica volta in cui proferimmo parola fu per farmi promettere di non mettervi più piede. Eppure, dopo quella volta, non chiuse mai la porta a chiave.

Non tornò mai la persona che avevo conosciuto prima del suo apice, e non passa giorno in cui non mi manchi, non permise mai al suo animo di rasserenarsi, e io dovetti abituarmi a quella sua versione più cupa, contorta e folle.

Se non altro, mi consolava la certezza infondata che ormai avesse raschiato il fondo e mi illusi di non dovermi aspettare sorprese. Eppure, un giorno superò anche quel limite.

Come ogni altro giorno si era chiuso nel salotto. Io, affamato, mi ero incamminato verso la cucina per chiedere alla cuoca se potessi rubacchiare qualcosa da mangiare, e quando ero ormai arrivato al frigo e il mio stomaco agognava già delle pietanze squisite sentii un urlo a dir poco agghiacciante che viaggiò per tutta la casa, fino alla cucina, ed immobilizzò tutti. Ricordo lo sguardo spaesato delle domestiche che controllavano intorno cercando il disastro, ci volle circa un minuto buono perché collegassimo la voce al padrone di casa e il terrore si dipinse sui nostri volti. Io fui il più veloce e sbattendo con poca delicatezza l’anta del frigo, che fin ora avevo trattenuto con una mano, mi feci spazio tra le donne, uscendo dalla sala e iniziando a correre a perdifiato, con il cuore in gola, per i corridoi immensi di quella casa che mai avevo visto così spaventosamente grande e ingombrante, sembrava non finire mai e più mi affaticavo per andare veloce, più mi rubava il fiato. Solo quando raggiunsi la massiccia porta di quella sala mi fermai, così vicino che potevo distinguerne i ghirigori dorati, ma non rimasi lì a fissarla e la spalancai, sperando fino all’ultimo di scorgerlo voltarsi verso di me infastidito, pronto a incenerirmi con lo sguardo e rimproverarmi per aver interrotto la sua concentrazione.

Ovviamente, non vidi ciò che speravo.

Sono sicuro di aver perso in un unico colpo dieci anni della mia vita, in quel momento, tanto fu il panico e la paura per lo spettacolo che mi si presentò davanti, tanto forti dal provocarmi una fitta dolorosa allo stomaco, che probabilmente si chiuse subito.

Di fronte a me c’era Saber, inginocchiato a terra, con il volto contratto in una smorfia di dolore. Una mano toccava molle il pavimento, poggiandosi in una piccola pozza di sangue, mentre l’altra era occupata a tamponare la spalla sinistra, fonte di tutto quel sangue e…

Oh, mio dio, no.

In un primo momento la sua spalla mi sembrò tagliata nettamente in due parti distinte e separate, quando spostai lo sguardo sul pavimento, notai il violino rotto, diviso in due parti più o meno disuguali, accanto alla sciabola sporca di sangue buttati vicino alla sua figura tremante.

Dopo un primo momento di sbigottimento mi precipitai a soccorrerlo e notai solo allora la reale gravità della lacerazione: quell'idiota si era quasi tranciato di netto il braccio e aveva distrutto del tutto la clavicola, squarciando una parte del sottoscapolare.

«Che diavolo hai combinato, razza di stupido incosciente?»

Ero furioso e preoccupato. Urlavo ordini ai domestici, ribadendo di chiamare il subito il pronto soccorso, e lo guardavo terrorizzato, continuando con insulti e rimproveri, ai quali lui rispose con un misero sguardo di scuse.

«Mi sono fatto prendere dall'ira e ho messo un po' troppa forza nel braccio con cui tenevo l'archetto» tutto qui. Era questa la sua scusa. Gli diedi uno scappellotto in testa e lo guardai male.

«Sei un’idiota. Dopo questa col cavolo che ti avvicini ancora alla sciabola.»

«Archetto -precisò con un cipiglio infastidito, sembrava non prendere molto in simpatia quello che doveva essere un ordine da parte mia- e non credere che ti darò retta! Non mi separerò da loro e non sarà un taglietto a fermare il mio sogno!»

«Più che un sogno mi sembra un’ossessione.»

«Non mi interessa cosa sembra a te, non rinuncerò per queste stupide bazzecole!»

Fu solo allora che sospirai, mi parlava come se stesse benissimo, e nonostante stesse pian piano perdendo colore sul viso, continuava a fissarmi con quel cipiglio così orgoglioso e vivo, fu questo a calmarmi.

«Potrei seriamente prendere in considerazione l'idea di fartele sparire.»

Lui sorrise, beffardo, come a dirmi “devi solo provarci”, ma sapevo di aver toccato il tasto giusto, ed infatti calmò i suoi bollenti spiriti e non disse nulla; Le mie brevi conoscenze mediche -che in realtà altro non erano che ciò che avevo imparato dai libri di casa mia e pura logica- mi permisero di bloccare il flusso sanguigno con la prima cosa che trovai: un foulard viola nella tasca di Saber.

Ricordo che la prima cosa che pensai fu: ma che diamine ci fa con un foulard in tasca? Non l'ho neanche mai visto usarne.

Non fu felice di vedere arrivare i soccorsi, quando due infermieri provarono ad aiutarlo si alzò da solo e camminò, con non poca fatica, fino all’autolettiga, sedendosi di sua spontanea volontà ma con un cipiglio più che infastidito, io salii con lui e partimmo subito verso l’ospedale.

Mi fece promettere di non raccontare la realtà su quell’incidente, sebbene non ne sia fiero lo ascoltai e quando il medico mi chiese tirai fuori una serie di scuse borbottando ipotesi usando come scusa la mia presenza altrove. Non ho mai amato mentire e tirai un sospiro di sollievo solo quando il medico sì allontanò per chiudersi in sala operatoria.

L’attesa fu snervante, non ricevemmo uno straccio di notizia per delle ore, mi preoccupava l’ipotesi che avesse perso troppo sangue, ma avevo anche un’altra idea che si faceva largo nel marasma dei pensieri: e se gli avessero tolto la possibilità di suonare? Quel taglio era spaventosamente profondo e non era da escludere l’incapacità di sistemare alla perfezione quel disastro. Ma se fosse rimasto senza musica, come si sarebbe ridotto? Lui viveva per il suo violino, e se la sola mancanza di attenzioni l’aveva ridotto in quello stato, quale sarebbe stato il folle gesto se avesse saputo che avrebbe dovuto smettere di suonare?

No, Saber avrebbe preferito la morte. Ne ero certo, e l’idea mi terrorizzava.

I miei timori, purtroppo, non erano infondati.

Quando, dopo quelle ore, vidi uscire lo stesso chirurgo con cui avevo parlato, con un’espressione amara dipinta sul volto, capii che quella sarebbe stata la fine del mio amico. Nonostante questo, mi avvicinai timoroso e chiesi spiegazioni: aveva colpito tendini importanti e non era sicuro avrebbe potuto riprendere in mano un violino, non come una volta. Mi disse che c’erano poche probabilità di rivederlo suonare e mi spiegò che sarebbe rimasto un periodo in osservazione in una di quelle stanze bianche e angoscianti.

Saber aveva sempre odiato gli ospedali, ogni occasione era buona per mostrare il disprezzo verso il sistema sanitario, il dubbio gusto di chi dipingesse le pareti o si occupasse della planimetria, criticava il disgustoso menù della mensa e qualsiasi altro dettaglio riguardasse quell’ambiente. Non mi spiegò mai il motivo, ma intuii che c’entrasse con la morte della madre, forse l’unica donna che ebbe mai amato; mi parlò di lei solo una volta, in un pomeriggio burrascoso, stranamente fu lui ad aprire l’argomento, fermo davanti una delle grandi finestre, fisso ad osservare l’acqua che con impeto scendeva giù, mi raccontò di come sua madre amasse i temporali, al contrario di lui che invece li aveva sempre odiati.

«Diceva che solo durante questi acquazzoni il cielo desse realmente sfoggio di sé, in tutta la sua potenza, e ci ricordava la nostra fortuna nell’avere un tetto sopra la testa, che poi era una villa. Ogni volta fermava qualsiasi cosa stesse facendo per osservare la pioggia, ne rimaneva affascinata. Dopo, quando si riprendeva, insisteva per riscaldare da sola l’acqua per fare tre tisane, io e lei ci sedevamo a terra, nonostante i divani non mancassero, e ci accoccolavamo mentre mio padre –su un’enorme poltrona– ci leggeva un libro.»

«Com’era lei?» chiesi realmente curioso. Lui si voltò a guardarmi, ma guardò me solo per qualche secondo, poi capii che si era perso in chissà quali ricordi malinconici. Lo vidi sorridere appena, dopo un po’.

«Era un’abile violinista» mi disse, come aveva già ripetuto una volta, prima di cambiare argomento.

Oltre le divagazioni, durante il suo periodo in cui fu ricoverato, gli feci visita sempre, credo ogni giorno, ma notavo spesso il suo rinnovato umore cupo. Inizialmente credetti che fosse arrabbiato per il dover rimanere fermo in un letto e per il non poter muovere il braccio, ma man mano che passavano i giorni il suo umore peggiorava. Ogni tanto provava a fingere di star più o meno bene, ma vedevo come in realtà volesse solo rimanere solo e uscire da quel posto per lui così opprimente.

Rimase in osservazione diciassette giorni, in tutto. Lo scoprii quando, una mattina, entrai nella sua camera e non lo trovai. Fu lì che scomparve.

Un’infermiera di passaggio mi confermò la sua dimissione, e quando tornai a casa sua con lo scopo di setacciarla in lungo e in largo pur di capire, la trovai vuota: non c’era traccia di lui, di violini, o delle sue spade, nemmeno i domestici seppero dirmi qualcosa. Se ne era andato senza lasciare nessuna traccia di sé.

 

 Inghilterra, 1998.

Ho impiegato gli ultimi diciotto anni cercando quello strambo uomo, ma le mie ricerche si sono rivelate sempre buchi nell’acqua, sebbene abbia raccolto qualche informazione sulla sua discendenza, di come non arrivò in Inghilterra durante un viaggio, ma si trasferì due anni dopo la sua nascita in Svizzera, Saber e la sua famiglia rimangono avvolti nel mistero.

Nel periodo successivo alla sua scomparsa caddi nello sconforto, realmente preoccupato per lui, decisi perfino di visitare la Francia nella speranza di trovarlo, ma non lo trovai mai.

Non mi pento di averlo conosciuto, mi rammarico solo aver speso così tanto tempo per lui, anche se mi duole ammettere il sentire la sua mancanza, la nostalgia per i bei tempi passati mi vieta persino di avvicinarmi alla sua vecchia casa, sebbene sia certo di trovarla vuota e in rovina.

Ormai credo sia morto, eppure spero ancora di rivedere quel mio vecchio e stupido amico.


Angolo Autrice
Salve! 
Scrivere gli angoli mi crea sempre un po' di genuino imbarazzo, sto lì a cercare di costruire un discorso e in mente ho solo citazioni della disney alla: "sono Ade dio dei morti ciao come andiamo?" xD
Una one shot luuunghissima, nata nel 2016, negli ultimi mesi l'ho ripresa ed aggiornata ed è stato parecchio bello poter rimettere le mani su questi due tonti e gay <3, che poeticamente mi piace vedere come due facce della stessa medaglia e in una certa visione palesemente cotti, anche se non è proprio amore ciò che provano l'uno per l'altro, ma nemmeno una qualsiasi amicizia, lo dice il narratore, che Saber non se ne fa amici ma chissà come si tiene stretto proprio lui. E questo narratore, così anonimo da non avere nemmeno un nome? Mi piace immaginarlo davanti una finestra, dopo tutti quegli anni, a ricordare il suo vecchio amico con nostalgia, e un pizzico di rabbia, perché no?
Ordunque, servono un paio di informazioni: la scultura che cita il narratore si chiama "Love", è di Alexander Milov e personalmente la adoro, l'ho scoperta a caso e tr
ovo sia perfetta per spiegare qual era la situazione tra due. Per il resto! Credo di aver detto più o meno tutto, quindi mi inchino facccio una giravolta e poi un'altra e saluto, a presto!
-Ymirjeannie

 

  
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