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Autore: PapySanzo89    07/10/2020    2 recensioni
John cammina non prestando attenzione, finché il suo orecchio cattura qualche nota.
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO TERZO (EPILOGO)
 
 
 
 
La periferia di Londra è estremamente buia e silenziosa, non c’è quasi alcun suono se non il rumore del vento che soffia tra i cassonetti e qualche ratto nascosto che corre da una parte all’altra della strada nel tentativo di trovare cibo vicino ai ristoranti ormai chiusi. È l’una del mattino di un tetro e grigio mercoledì che minaccia pioggia, con le sue nubi nere e l’aria che entra dalle narici e ti arriva nei polmoni, ghiacciandoli.
E John è lì, in quel mercoledì notte; è lì che cammina in quei vicoli grotteschi aspettando che qualche malvivente ne esca fuori mentre accompagna di peso un suo collega a casa, è lì mentre il suo pensiero va alla serata appena trascorsa in una falsa pizzeria italiana mentre il suo capo iniziava la solita riunione mensile sul come tutti dovessero andare d’accordo e darsi una mano e quale occasione migliore che bere e mangiare in allegria, è lì mentre pensa che al posto di quella serata avrebbe preferito fare qualsiasi altra cosa, come ad esempio starsene a casa con una tazza di tè fumante in mano ascoltando le note del violino di Sherlock riempirgli l’anima grazie al suo IPod. Sì, quella sarebbe stata una serata perfetta. Sarebbe stata ancora più perfetta se solo ci fosse stato Sherlock, ma…
Sospira e scuote la testa e si vieta categoricamente di pensare a da quant’è che non vede quel ragazzo, da quant’è che vorrebbe sentire di nuovo il suono della sua voce e vedere quelle mani posarsi delicatamente sull’archetto e suonare qualcosa, unicamente per lui. Sospira al ricordo di quell’unica volta in cui sono stati insieme tutta una giornata e a come gli occhi di Sherlock si siano illuminati a certe domande, a come ogni tanto le guance gli si imporporavano a un complimento e a come Sherlock sia riuscito a dargli dell’idiota più di una volta ma l’unica cosa che è riuscito a pensare John è a quanto diavolo fosse adorabile.
Sant’Iddio è estremamente fottuto. Fottuto da un ragazzino di nemmeno venticinque anni che ha visto in totale tre volte e con cui ha parlato a malapena una volta e mezza. Se non è pazzia questa John proprio non sa cosa sia.
 
Allora sta pur certo che ti troverò, John Watson. E non sarà destino, sarò io ad averlo fatto.
 
Le parole di Sherlock gli riecheggiano nelle orecchie in quel silenzio immenso e il cuore di John salta stupidamente un battito. Ha aspettato. Ha davvero aspettato e sperato di rivederlo di lì a pochi giorni, che Sherlock sarebbe saltato fuori dal posto più improponibile per dirgli che era ovvio l’avrebbe trovato, perché lui fa questo, lui trova tutto ciò che vuole perché lui fa questo per lavoro.
Il fatto che non si siano ancora rivisti dopo quasi due mesi gli fa solo pensare che quello che ha sentito lui con Sherlock, quello che ha provato a stare con quel ragazzo seduto in un bar a non far altro che parlare, sia stata una cosa unilaterale.
Ma poi ricorda le guance arrossite di Sherlock e le occhiate date da sotto le ciglia scure quando pensava di non essere visto e il cuore gli si fa un po’ più leggero.
E poi al diavolo! Se Sherlock non si farà vivo nella prossima settimana John ha tutta l’intenzione di andare a Scotland Yard, trovare Gregory Lestrade e spingerlo a dirgli dove diavolo si trova Sherlock. Destino o meno John non ha più tempo per queste cazzate.
 
John si ricorda cosa sta facendo e dove sta andando solo quando il suo nuovo collega –Michael, se non ricorda male?- inizia a farneticare qualcosa sui turni e sull’impossibilità di vivere bene a Londra e John si desta dai suoi pensieri, lasciando perdere per un attimo Sherlock e tutto ciò che porta dietro a sé quel nome, concentrandosi su quello che deve fare, che nell’immediato futuro è lasciare il suo collega sulla porta del suo appartamento e poi fare dietrofront e tornare a casa sua –che sta tutta dall’altra parte di dove si trovano adesso- prima di morire congelato.
Il collega balbetta ancora qualcosa stringendo il braccio attorno al collo di John che per un attimo non respira e poi indica un palazzo, John spera solo sia la casa giusta e che il tipo non sia troppo ubriaco per non distinguere dove siano.
Una volta arrivati Michael inizia a frugarsi nelle tasche dei pantaloni in cerca delle chiavi, lamentandosi ancora di qualcosa che John è sinceramente troppo stanco per ascoltare ma aspetta paziente accanto a lui, terrorizzato dall’idea che l’altro cada da un momento all’altro non reggendosi bene sulle gambe.
 
Alla fine sembra che l’altro trovi le chiavi in una tasca interna del giubbotto e alza una mano a salutare John, che ricambia con un mezzo sorriso e lo guarda entrare in casa per sicurezza.
 
Mai più, si dice quando il portone si chiude e può finalmente andarsene ma rimane lì per qualche istante, con le mani nelle tasche, sui gradini del portone a fissare per qualche minuto il cielo.
 
Non si vedono molte stelle a Londra, l’inquinamento luminoso –anche se scarso in quella zona- gioca brutti scherzi e John può vederne solo una minima parte ma gli piacciono le stelle, tanto.
In Afghanistan, di notte, il cielo era un vero e proprio spettacolo e quella è una delle poche cose che gli manca di quel posto, se non addirittura l’unica.
 
John sbuffa e si decide a lasciar perdere il cielo e tutti i suoi pensieri e a muoversi per tornare a casa: giornata di riposo o meno non ha intenzione di gironzolare senza meta.
 
Respira a pieni polmoni il freddo di Londra, l’aria seppur inquinata, per darsi una bella svegliata perché gli aspetta almeno una buona mezzora di camminata e chiude gli occhi un istante, concentrandosi sul niente, ascoltando il silenzio che lo circonda come una manna dal cielo e lasciando che i pensieri scivolino via lasciandogli qualche istante di infinita pace.
 
Il problema è che poi Londra non è proprio così silenziosa.
 
Un bidone dei rifiuti cade malamente a terra seguito a ruota da un uomo che evidentemente è troppo ubriaco per non urtare oggetti immobili.
Evidentemente non è la giornata di John.
Con un ulteriore sospiro si volta verso l’uomo e fa qualche passo in sua direzione, intenzionato a chiedere se avesse bisogno di qualcosa e se si sentisse bene ma l’uomo -molto più lucido di quanto John si fosse aspettato- si rialza da terra in pochi istanti e ricomincia a correre e proprio nella sua direzione, spintonandolo per passare e continuare a correre senza voltarsi indietro.
John ha un’imprecazione sulle labbra –è così tardi, è così stanco, fa così freddo- ma questa viene fermata da uno strattonamento nei riguardi della manica del suo giubbotto che viene tirata ed improvvisamente si ritrova trainato da Sherlock che lo tira per il braccio e gli intima di muoversi.
 
«Cosa diavolo…?»
 
«Non c’è tempo, John. Dobbiamo fermarlo.»
 
E John guarda la figura di Sherlock. Guarda i suoi ricci scuri illuminati dai lampioni delle strade, guarda il suo cappotto grigio scuro aprirsi dietro di lui mentre corre, guarda per qualche istante i suoi occhi dal colore impossibile fissarsi nei suoi prima di voltarsi verso l’uomo che stanno inseguendo e guarda i suoi zigomi alti e improvvisamente è come se John potesse respirare di nuovo.
E tutto ciò che John si sente di fare a quel punto è liberare la stretta della mano di Sherlock dal suo giubbotto e cominciare a correre sul serio. Non è mai stato uno bravo con gli scatti ma ha fiato da vendere e stamina in esubero quindi perché non sfruttarle?
 
Sherlock gli fa un mezzo sorriso sghembo e lo supera e John riesce solo a pensare all’IPod che ha con sé in tasca e al fatto che questa sera –questa sera!- glielo restituirà e che questo vorrà pure dir qualcosa, no?
Sorride tra sé e sé e accelera il passo.
 
 
                                                                                                            ***
 
Il rumore di piedi che strisciano per terra, di telefoni che continuano incessantemente a suonare e di voci stanche che rispondono il più professionalmente possibile tengono compagnia a John, che se ne sta seduto su una sedia di legno malconcia nel corridoio di Scotland Yard ad aspettare che Sherlock esca dall’ufficio di Gregory Lestrade. Per che cosa lo stia aspettando, John non ne è poi così sicuro.
Diversi agenti lo sorpassano e gli scoccano un’occhiata interrogativa alla quale lui non risponde, tenendo la testa alta ad osservare la porta a vetri che lo separa da Sherlock. Sherlock che cammina avanti e indietro, le mani che si muovono velocemente e il cappotto che si apre dietro di lui come un mantello mentre –anche se non può sentirlo ne è sicuro- parla a raffica senza riprendere nemmeno fiato per spiegare cos’è successo. Accanto a Lestrade un’agente con le braccia incrociate scuote la testa smuovendo i folti capelli ricci scuri e apre bocca per dire qualcosa, Sherlock la zittisce con un solo sguardo e gli occhi di lei si fanno glaciali. John non sa bene cosa stia succedendo là dentro ma in poco più di dieci minuti è ben riuscito a vedere che Sherlock non è molto amato in quel posto, diversi agenti non si sono risparmiati battutine sarcastiche quando è entrato –completamente disinteressati dall’essere sentiti o meno- e non hanno risparmiato nemmeno occhiate verso l’ufficio di Lestrade bisbigliando poi qualcosa quando notavano di essere osservati da John.
E John non riesce davvero a capire cosa possano avere contro Sherlock, perché John lo guarda e l’unica cosa che riesce a vedere è un bellissimo e brillante ragazzo di venticinque anni che è tutto uno svolazzamento di cappotto, di mani sollevate in aria, di sorrisi vittoriosi e felici e occhi accesi d’entusiasmo.
Lo sa, perché ha assistito personalmente, che ha una lingua velenosa e pungente e che i suoi modi sono spesso raffazzonati ma è una cosa che passa assolutamente in secondo piano se messa a confronto alle cose stupefacenti che riesce a fare.
Almeno secondo John.
 
Alla fine John nota un cambiamento nella postura del detective che finisce col coprirsi gli occhi con una mano e a scuotere la testa, sospirando poi verso il soffitto e a fare un cenno a Sherlock con la mano verso l’uscita.
John è in piedi quando la porta si apre e sente la stanchezza e la fame cadergli addosso come un macigno ma non dice nulla facendo un piccolo sorriso in direzione di Sherlock quando questo lo raggiunge a grandi falcate.
Sherlock ha gli occhi di un bambino il giorno di Natale e il sorriso più felice che abbia visto da quand’è tornato a Londra e sta per dirgli qualcosa se non fosse che la donna dell’ufficio di Lestrade si avvicina.
«Ehi, strambo, lo sai che il rapimento è illegale, vero?»
Il sorriso di Sherlock si spegne di colpo e John sente un improvviso odio per quella donna a cui non ha nemmeno mai rivolto la parola.
Sherlock si volta nella sua direzione e la guarda con fare annoiato.
«Dovrei sapere di cosa stai parlando?»
La donna si avvicina e indica John con il mento come se questo dovesse spiegare tutto per filo e per segno.
«Nessuna persona sana di mente passerebbe del tempo con te di sua spontanea volontà. Allora, cos’è, l’ha rapita? Possiamo fare qualcosa a riguardo immediatamente»
John la guarda e per un attimo non sa cosa dire, ritrovandosi a parlare con un’agente di polizia del suo possibile rapimento, poi vede con la coda dell’occhio la postura di Sherlock irrigidirsi e tutta la meravigliosa serenità del consulente investigativo svanire nel nulla.
E John è improvvisamente furioso.
«In realtà,» dice senza nemmeno pensare a cosa sta facendo e prendendo la mano di Sherlock nella sua, accarezzandone il dorso con il pollice «saremmo nel bel mezzo di un appuntamento quindi se non ha nient’altro di intelligente da dire preferiremmo andarcene» e può sentirlo da sé che il sorriso che sta facendo è un sorriso grottesco e per nulla amichevole.
L’espressione sbigottita della donna che cerca di balbettare qualcosa ma fallisce miseramente fa capire a John che non ha nessuna intenzione di continuare a guardare quello spettacolo pietoso quando può andarsene di lì in quel preciso momento e passare un po’ di tempo con Sherlock. Sherlock che gli restituisce timidamente la stretta di mano come per dirgli grazie, Sherlock che gli fa scaldare il cuore con un gesto semplice come quello, ed improvvisamente per John è semplicemente tutto troppo e quello che fa è voltare i tacchi dopo aver fatto un cenno con la testa verso la donna e trascinarsi dietro Sherlock senza aggiungere altro.
Riesce a calmarsi solo quando escono da quel posto e l’aria notturna gli dà uno schiaffo in faccia ed improvvisamente è di nuovo sveglio e infreddolito e l’unica cosa che vorrebbe fare sarebbe infilarsi sotto le coperte dopo aver mangiato qualcosa di caldo.
Si volta verso Sherlock per chiedergli cos’ha intenzione di fare ma le parole gli si fermano in gola quando vede come l’altro lo stia guardando e John improvvisamente non sente più poi così tanto freddo.
Non è mai stato guardato in un modo simile e perciò non saprebbe nemmeno spiegare il tipo di sguardo, ma gli sembra quasi che Sherlock abbia scoperto l’ottava meraviglia del mondo. Il ché è ovviamente stupido perché John è semplicemente John.
Sherlock, la mano che stringe ancora con forza la sua, gli si avvicina di un passo e sono talmente vicini che i cappotti si sfiorano.
«Fame?» si limita a chiedere con quella sua voce bassa che in uno strano modo fa pensare a John alle belle giornate passate sotto il piumone d’inverno con qualcuno che ti abbraccia e ti scalda e ti ama.
John lo guarda negli occhi e sente lo stomaco chiuderglisi ma non perderebbe un’occasione del genere per tutto l’oro del mondo.
 
«Da morire»
 
Sherlock gli sorride e annuisce, tirandolo poi per la mano per farsi seguire e alzare l’altra per fermare un taxi.
 
«Baker Street. C’è un ristorante cinese ancora aperto, anche se per poco.»
 
John lo guarda per qualche istante, annuisce e lo segue.
 
***
 
Il 221B di Baker Street lo accoglie con il caminetto ancora acceso -il fuoco scoppiettante l’unico rumore oltre i loro passi- e un odore che in qualche maniera è famigliare e allo stesso tempo estraneo. Tutto di quel posto gli fa pensare alla parola casa. Sarà il calore del fuoco che gli sta togliendo di dosso il freddo pungente che gli si era attanagliato addosso, sarà il fatto che tutto in quel posto sembra vissuto, che c’è qualcuno dentro che non solo ci vive per avere un tetto sopra la testa ma che proprio lo abita perché tutto ciò su cui posa lo sguardo gli fa pensare a Sherlock.
C’è caos ovunque, pile e pile di documenti scompostamente messi in posti dove dei documenti non dovrebbero stare, tazze di tè sulla parte libera da provette sul tavolo in cucina con dentro ancora le bustine, libri lasciati aperti pieni di appunti fatti a matita e post-it tra le pagine chiuse, foto appese direttamente alla parete con puntine di diverso colore (e John non sa se i colori siano abbinati a qualcosa ma conoscendo quel poco che conosce Sherlock pensa comunque di sì), sul caminetto un teschio gli restituisce lo sguardo mentre un pugnale se ne sta conficcato nel legno tenendo ferme quelle che sembrano bollette e richieste scritte a mano e vari altri ammennicoli e per ultimo il suo sguardo cade sul divano dove si trova il violino (e il cuore di John perde stupidamente un battito al ricordo di mattonelle bianche di una metro che fanno da sfondo a un bellissimo ragazzo con proprio quel violino tra le mani mentre suona una musica che a John ha cambiato non solo la giornata, ma a quanto pare la vita da quando è tornato a Londra) l’archetto poggiato con delicatezza sul tavolino di fronte.
È così diverso dal posto dove fa ritorno lui alla sera (le poche cose che possiede ancora impilate in una valigia sotto il letto, i libri mai tirati veramente fuori, l’armadio semi sgombro perché non si è mai preso la briga di disfare gli scatoloni) che il sorriso gli nasce naturalmente sulle labbra insieme a una strana sensazione alla bocca dello stomaco.
L’odore di cinese impregna l’aria del soggiorno e ci mette un attimo a ricordarsi che è lì con Sherlock.
Sherlock.
John si volta in direzione del ragazzo che poggia la busta del cinese sul tavolo in cucina e si spoglia di giacca e sciarpa, lasciando tutto poggiato malamente sulla sedia e voltandosi in sua direzione con uno strano sorriso complice.
John gli si avvicina e Sherlock gli fa cenno di sedersi dove più preferisce.
Mangiano perlopiù in silenzio, cullati dal rumore delle bacchette che si muovono, il vento sulle finestre e il fuoco nel camino. Parlano del caso, ovviamente. John vuole sapere il più possibile di tutta la faccenda e Sherlock non si esime dal tirare fuori più dettagli possibili. È tutto così domestico e famigliare che John non riesce in nessun modo a credere di conoscere quel ragazzo da così poco e di aver messo piede lì dentro per la prima volta.
 
Chiacchierano ancora quando il cibo è finito e i cartoni del cinese vengono spostati di lato per far loro spazio sul tavolo. Parlano ancora quando Sherlock apre una seconda bottiglia di vino e allunga le gambe sotto il tavolo come se non ce la facesse a stare seduto in maniera normale. Continuano a parlare e parlare ma improvvisamente, John non sa nemmeno come, le dita delle loro mani si sfiorano sopra il tavolo e la caviglia destra di Sherlock è poggiata sulla sua sinistra.
Ed è bello, Sherlock. Per la non-sa-nemmeno-quale-volta il pensiero gli affiora e non riesce a fare a meno di notare gli zigomi alti, gli occhi chiari illuminati dalla piccolo luce fredda della cucina, i capelli ricci che sembrano indomabili quanto la sua stessa persona, le labbra piene stirate in un sorriso mentre lo guarda e sembra semplicemente felice che John sia lì con lui in quel momento.
E d’improvviso, senza nemmeno pensarci, John allunga la mano e il semplice sfiorarsi di prima diventano due mani che si stringono con forza, i sorrisi canzonatori si spengono per dare spazio a sorrisi timidi, con occhi che si guardano con una luce del tutto diversa rispetto a prima.
 
«Sei riuscito a trovarmi,» dice John, quasi per spezzare quell’aria carica di sottintesi che si è formata tra loro «iniziavo quasi a preoccuparmi, caro consulente investigativo» il tono è scherzoso, le dita che accarezzano la mano di Sherlock no.
Sherlock lo studia per qualche istante, la testa inclinata di lato come a mostrare la linea lunga e perfetta di quel collo bianchissimo, e John si lascia osservare senza dire nulla, gli occhi puntati su due nei sul collo di Sherlock che lo pregano di avvicinarsi e assaggiare quel lembo di pelle. Si lascia scrutare dall’altro senza fretta, senza nessun problema, lasciando che i suoi pensieri gli si leggano in faccia perché vuole sapere se per Sherlock è lo stesso, se sono sulla stessa pagina e vogliono la stessa cosa.
Sherlock si alza improvvisamente in piedi con una grazia che non dovrebbe essere concessa ad un nomale essere umano e tira John per la mano, di modo che si alzi anche lui.
«Non sottovalutarmi in questa maniera, John,» dice con la sua bassa voce «volevo prima chiudere questo caso così da avere più tempo»
Sherlock gli è così vicino che i loro vestiti quasi si sfiorano e il suo respiro gli solletica la pelle del viso.
John deglutisce mentre con occhi mezzi socchiusi guarda quella bocca che è lì, a pochi centimetri dalla sua, basterebbe allungare un poco il collo per riuscire a-
«E per cosa ti serviva tutto questo tempo in più?» si ritrova a chiedere spostando gli occhi verso quelli dell’altro e poi di nuovo verso la sua bocca, come una falena attirata dalla luce di una lampada.
Sherlock lo bacia e John lo attira a sé con quanta più forza possibile, la mani incastrate nei suoi capelli ricci, la bocca che morde, succhia, bacia mentre Sherlock gli si appoggia addosso e improvvisamente John è intrappolato tra Sherlock e il tavolo della cucina. Non si può lamentare di niente.
Le mani di Sherlock si aggrappano al suo maglione e lo tirano, poi toccano il collo di John con reverenza, poi sono sui suoi fianchi e tra i suoi capelli e John lo sente ovunque ed è una sensazione mai provata prima ma va bene, Dio, va più che bene.
La bocca di Sherlock si allontana dalla sua e John ansima -quasi senza fiato- con gli occhi chiusi mentre appoggia la fronte sulla spalla dell’altro e cerca di darsi una calmata, un contegno, qualcosa.
«John» la voce di Sherlock è così vicina che John ne sente ogni più piccola sfumatura mentre le labbra di Sherlock gli si poggiano tra i capelli in un casto bacio e, oh mio Dio, non è la cosa più tenera che gli sia mai capitata?
«John» ripete la voce di Sherlock perché John non riesce in alcun modo a far uscire un suono dalla sua fottuta bocca per rispondergli decentemente. Allora John si rialza, scostando a malavoglia quella bocca dai suoi capelli, e va ad incontrare gli occhi di Sherlock.
Sherlock, guance arrossate, capelli spettinati e occhi lucidi, gli restituisce uno sguardo languido che gli fa tremare un po’ le ginocchia e poi le mani di Sherlock tirano di nuovo il suo maglione e John si alza senza fare storie e segue Sherlock, ovunque stia andando, perché improvvisamente si rende conto che lo seguirebbe fino in capo al mondo se solo glielo chiedesse.
 
***

La camera di Sherlock è illuminata vagamente dalla porta lasciata aperta e dalla poca luce del lampione che entra dalla finestra, c’è poco da poter vedere se non la sagoma del letto e dell’armadio ma John non presterebbe attenzione a dove si trova nemmeno se fosse tutto illuminato a giorno. Sherlock lo bacia in un modo che a John fa esplodere il cuore, lo sfiora ovunque in punta di dita come se temesse di poterlo rompere (a lui, John…) o come se temesse che da un momento all’altro potesse svanire nel nulla. John lo tira a sé, gli afferra i fianchi con forza e gli fa capire che non è un’illusione, che è lì con lui e che ha tutta la più buona intenzione di restarci.


C’è un solo attimo di esitazione, un singolo John detto a voce bassa mentre le mani toccano sotto i vestiti e il letto è a distanza di mezza falcata.
John guarda quegli occhi chiari resi languidi da baci e carezze ed è come se Sherlock gli avesse detto tutto ad alta voce. Annuisce, John. Annuisce e gli sfiora una guancia con la mano e Sherlock si riversa in quella carezza, baciandogli il palmo e fermando la sua mano con la propria come a non volerlo lasciare andare.
Ma John non ha intenzione di andare da nessuna parte, sente l’odore della pelle di Sherlock, il calore del suo corpo e si sente finalmente a casa.
 
***
 
Sherlock emette un concerto fatto di soli John come se quella fosse l’unica parola in grado di pronunciare in quel momento e John ha il cuore in gola al pensiero che probabilmente è proprio così. Il suo nome cambia suono a seconda di dove John lo tocca e John non ha mai pensato, mai una volta in vita sua, che il suo nome fosse qualcosa di più che un comunissimo nome affibbiato alla maggior parte della popolazione ma adesso, pronunciato dalla bocca di Sherlock, è la parola più bella e musicale che abbia mai sentito in vita sua ed è una parola importante e John si sente importante. E la voce di Sherlock è bassa e roca quando John gli sfiora le cosce con le labbra, alta e giocosa quando gli solletica i fianchi o gli bacia la pancia, deliziata quanta gli succhia il collo e John si sente il fautore di quella musica, si sente come la mano di Sherlock che, sinuosa e incantatrice, muove l'archetto producendo melodie indimenticabili.
E John questo si sente adesso: un autore di melodie indimenticabili. Perché il suono della voce di Sherlock che chiama solo e unicamente lui è qualcosa di straordinariamente potente. Sherlock che invoca il suo nome mentre John ne sfiora le carni e si muove sinuoso sotto di lui è la musica più bella che abbia mai sentito, Sherlock che pronuncia con voce roca il suo nome a fior di labbra dopo l’orgasmo è la conclusione migliore a quella melodia che non è mai stata sentita da nessuno prima di lui.
John è riuscito a comporre una melodia che gli è entrata nel cuore ed è sicuro non lo abbandonerà mai.
 
***

John non è tanto sicuro che riuscirà mai a togliere la mano dai capelli di Sherlock (non è tanto sicuro che vorrà mai farlo) né tantomeno di riuscire a smetterla di baciarlo ogni volta che gli occhi incontrano i suoi, o che metterà mai più piede fuori da quel letto perché per quale diavolo di motivo dovrebbe farlo quando Sherlock è lì che lo abbraccia e lo guarda come se fosse lui quello fantastico?
Ed è una sensazione strana quella, è una cosa che non ha mai provato prima, è qualcosa che gli si forma a forza nel petto e in qualche modo gli stringe i polmoni e lo fa smettere di respirare perché, mio Dio, è innamorato perso di un ragazzo conosciuto pochi mesi addietro e con cui ha scambiato poco più di qualche parola in un pomeriggio d’inverno. Eppure è la verità inconfutabile di quello che sente mentre osserva il respiro di Sherlock tornare regolare, mentre guarda gli occhi languidi tornare vigili e attenti e fissarsi nei suoi, mentre le mani di Sherlock gli circondano la vita e John spera che non le toglierà mai di lì, mentre sente il proprio cuore saltare diversi battiti al solo guardarlo, al solo vedere un mezzo sorriso timido accompagnare uno sguardo che vuol sembrare quasi di indifferenza ma che fallisce miseramente.
«Forse era il caso di chiudere le tende» si ritrova a dire sottovoce per non rompere troppo un silenzio più che perfetto mentre i primi, tenui raggi di sole si fanno largo oltre la finestra, illuminando la figura nuda di Sherlock che John non finge nemmeno di non guardare. Sherlock ghigna e si alza per qualche istante (la mano di John che resta ferma sul suo fianco perché non può andare troppo lontano, non adesso) prendendo le coperte e sollevandole coprendo entrambi fino sopra la testa.
«Così dovrebbe andare bene uguale» sussurra di rimando in quel bozzolo fatto unicamente da loro due e null’altro.
E a John sorride perché sì, va bene. Va tutto più che bene.
 
***

Fa caldo, fa troppo caldo, fa incredibilmente caldo. La maglia gli si è attaccata alla pelle per il troppo sudore, l’aria è irrespirabile e troppo –troppo- calda, la sabbia tirata su dal vento gli entra in bocca, negli occhi, e dove diavolo ha lasciato il foulard? E gli occhiali? Perché fa caldo se è notte? Di notte fa freddo, di notte fa così incredibilmente freddo, le stelle si vedono per chilometri a non finire ma questa sera no, questa sera è buio e caldo ma non è normale, c’è qualcosa che non va c’è qualcosa che-
Qualcosa gli afferra la gamba e lo trascina verso il basso, John guarda a terra e vede che la sabbia si è aperta e delle mani lo afferrano e lo tirano, vogliono risucchiarlo dentro, vogliono prenderlo e non farlo uscire mai più, vogliono-
Alza la testa quando una luce si fa largo al di sopra di una duna e per un istante si dimentica delle mani, si dimentica dell’essere trascinato giù, sempre più in basso mentre le ginocchia ormai non riescono più a muoversi perché sono state completamente risucchiate, si dimentica di tutto perché-
Lo vede, sopra la duna con le scarpe perfettamente pulite perché la sabbia sembra non scalfirlo, cappotto in mezzo al deserto dove la notte è calda e le stelle non risplendono e il violino imbracciato come fosse un’arma, come se potesse aiutarlo in qualche maniera, come se il solo suono potesse essergli di qualche conforto e aiutarlo ad uscire da lì, ma dal violino non esce alcun suono nonostante Sherlock stia agitando braccia e archetto e John vuole sapere cosa c’è che non va, cosa sta succedendo, vuole raggiungerlo perché-
Un colpo sordo e Sherlock è a terra, il violino disperso da qualche parte dietro di lui, il sangue che viene assorbito dalla sabbia dandole un colore più scuro. Sherlock ha gli occhi aperti verso il cielo senza stelle e un proiettile nel cranio, rivoli di sangue che ne distorcono i contorni netti, Sherlock è-
«-John!»
John si sveglia e la prima cosa che si ritrova a pensare è che è buio. È buio, , ma non è il buio del deserto e le sue gambe ben adagiate comodamente su un letto (non suo) e non risucchiate da arti ignoti nella sabbia. Poi una mano gli tocca tentativamente la spalla e John si ritrova a trasalire come un idiota perché non se lo aspettava, perché nessuno lo ha mai toccato al risveglio da un incubo, perché sembra tutto così fuori posto, ma la mano non si sposta e anzi resta lì e aumenta la presa.
«John…»
John fa respiri profondi e cerca di calmarsi concentrandosi su quella mano, su quel tocco, su Sherlock.
Si sente morire di vergogna e imbarazzo per essersi fatto vedere così la prima notte che passano insieme –la prima dannata notte, non gli poteva essere risparmiato almeno questo?- e si passa una mano sul viso, sentendosi la fronte sudata ma fredda. Sherlock gli accarezza la schiena e in qualche modo questo fa sentire John ancora peggio.
«Guarda in cosa ti sei andato a cacciare.» cerca di dire con un filo di voce facendo dell’ironia ma in realtà non crede di essere mai stato così serio in vita sua.
Un ex-medico militare con zoppia psicosomatica e incubi nel cuore della notte.
Sherlock a quel punto gli si avvicina e la mano che accarezzava la schiena di John si ferma sul suo fianco in uno strano abbraccio.
Ha caldo, John. Ha tremendamente caldo e la gola chiusa e un senso di claustrofobia che non se ne vuole andare ma non se la sente di allontanare il corpo di Sherlock appoggiato al suo mentre la mano libera di Sherlock va ad afferrare la sua e a stringerla.
«Dici questo solo perché non hai ancora visto cosa tengo nel frigo.»
E John rimane un attimo interdetto, una mano che si massaggia i muscoli dietro il collo e gli occhi che finalmente si alzano per incontrare quelli dell’altro, prima di sentire l’inizio di una risata farglisi largo nel petto per poi ritrovarsi a ridere, ridere quasi fino alle lacrime con Sherlock che lo segue a ruota, la mano sempre stretta a tenere quella di John come se non volesse farlo andare via e volesse rassicurarlo che c’è, che è lì con lui, e John ride ancora e Sherlock riesce finalmente a rilassarsi dopo l’incertezza di aver visto John agitarsi e aggrovigliarsi nelle lenzuola e non aver avuto la minima idea di come aiutarlo.
Quando entrambi riescono finalmente a smettere di ridere come i due idioti che sono si guardano, poggiati entrambi alla testiera del letto, e restano ad osservarsi per diverso tempo, senza fretta (perché in fin dei conti che fretta c’è?), e un sorriso nasce spontaneo sulle loro labbra.
John si ritrova a baciarlo ancora prima di essersi accorto di aver mosso un muscolo.
Sherlock lo abbraccia e il silenzio li circonda, l’unico suono i mormorii di entrambi, il fiato corto, le labbra che si toccano.
 
***
 
«Dato che sembra evidente che il sonno non è più un’opzione proporrei di alzarci»
Sherlock, sdraiato perpendicolare sul letto con la testa appoggiata al suo stomaco, glielo dice senza un’inflessione particolare, sembrando testare cosa John ne pensi di quell’idea, del resto sono a malapena le cinque e rimanere sdraiati non sembra poi un’idea tanto brutta. Ma Sherlock ha ragione, il sonno è un qualcosa di molto lontano al momento e non gli farebbe schifo una tazza di caffè.
«Devo pur vedere cosa tieni in quel frigo, no?»
Sherlock sorride e si alza.
 
***
 
«Questa è decisamente la cosa più strana che abbia mai visto. Perché diavolo tieni una testa nel frigo?» John mescola il caffè e per metà è divertito e per metà è disgustato da ciò che ha appena visto mentre si incammina nel soggiorno per mettere più spazio possibile tra lui e la cucina.
Sherlock è tutto uno svolazzamento di vestaglia sopra al pigiama mentre si aggira attorno al tavolo e John non riesce davvero a credere a quanta grazia possa avere una persona che cammina a piedi scalzi sopra al tavolinetto in soggiorno a quell’ora indecente del mattino. Per quanto riguarda lui invece si è rimesso i propri vestiti e nulla gli è mai sembrato più scomodo e inappropriato in vita sua.
«Un esperimento sulla salivazione, ho dovuto approfittare della distrazione di Molly per prendere quella testa ma ne è valsa la pena.»
Il cucchiaino di John si ferma improvvisamente.
«Chi è Molly?»
Sherlock sistema qualcosa nel frigo e si pulisce le mani sui pantaloni non prestando troppa attenzione al tono o alla domanda di John di per sé.
«Oh? Oh, una conoscente all’obitorio, l’hanno trasferita qui da poco ma sembra stranamente accomodante nei miei riguardi per cui ne approfitto il più possibile.»
John sorride e beve il caffè chiedendosi se con tutto il suo acume Sherlock davvero non sappia come mai questa Molly è così stranamente accomodante.

Si poggia con il fianco sul tavolo in soggiorno e sente qualcosa di solido collidere contro il legno duro e d’improvviso –come un idiota- ricorda di avere con sé l’IPod di Sherlock che per un qualche miracolo non è rovinosamente caduto dalla tasca dei suoi jeans.
Appoggia il caffè sul tavolo e tira fuori l’IPod ringraziando non si sia rovinato e poi guarda Sherlock (ancora intento a guardare qualcosa nella cucina) e sorride.
«Alla fine sono riuscito a restituirtelo» dice facendo voltare Sherlock in sua direzione per capire di cosa stia parlando. Sherlock guarda l’IPod nero tra le dita di John e alza un lato della bocca in un mezzo sorriso. Gli è mancato il suo IPod, stava quasi pensando di prendersene uno nuovo non fosse che sapeva che prima o poi avrebbe rivisto John.
«Mi ha aiutato, sai, in notti insonni» John evita di parlare degli incubi ma sa perfettamente che non serve dirlo ad alta voce perché l’altro capisca.
Sherlock gli si fa vicino e alza una mano afferrando il polso di John che tiene l’IPod e resta così, diversi secondi a fissarlo dritto negli occhi.
«Sono contento che ti sia servito» dice a bassa voce non scostandosi troppo da John. Si sorridono e c’è un enorme peso di detto/non detto tra loro ma Sherlock spezza il momento allontanandosi per tornare in cucina annunciando che gli serve un caffè doppio e di poggiare pure l’IPod dove meglio crede.
John osserva la figura di Sherlock ai fornelli mentre prepara la caffettiera e scuote la testa, ancora un po’ incredulo di tutta la situazione.
Appoggia l’IPod sul caminetto e osserva con aria dubbia il teschio che gli restituisce lo sguardo con occhi vuoti e decide che sì, è proprio un vero teschio, quando il suo occhio cade sopra qualcosa a cui prima non aveva fatto caso. Nascosto dietro pugnali, fogli svolazzanti e qualche libro lasciato a prendere polvere si intravede uno dei classici bicchieri da portar via di Starbucks, solo che questo è un po’ ammaccato, come se fosse stato compresso in qualche maniera, e il cartone ha i classici segni di quando viene bagnato, come se fosse stato sotto la pioggia.
Il cuore di John salta un battito.
Nella sua testa risuona un non può essere assieme a un non farti troppi film mentali ma si ritrova ad allungare comunque una mano e a prendere il bicchiere mentre con un orecchio sente la caffettiera fischiare e Sherlock parlare di qualcosa mentre si versa il caffè e fa ritorno verso il soggiorno ma John si rivolta il bicchiere fra mani e là, nero su bianco, il suo nome scarabocchiato e mezzo rovinato dalle gocce di pioggia cadute quel giorno di tanti mesi fa lo guarda di rimando: John.
Un semplice bicchiere di carta con il suo nome sopra. La prima volta che si sono scambiati qualche parola.
«L’hai conservato per tutto questo tempo?»
Sherlock, che stava seguendo un filo di discorso tutto suo, alza gli occhi dalla sua tazza di caffè e li fissa su cosa invece tiene John, improvvisamente ammutolito.
John alza gli occhi incredulo a guardarlo e un sorriso spontaneo gli alza le labbra e può vedere il colorito pallido di Sherlock acquistare un po’ di colore sulle guance, imbarazzato.
«Era importante,» si limita a dire Sherlock senza riuscire a proseguire come vorrebbe.
Era importante perché qualcuno per la prima volta gli si era avvicinato con un gesto gentile. Era importante perché quel giorno faceva freddo, non sentiva più le dita e un estraneo visto una singola volta in metro gli si era avvicinato per porgergli un caffe e fare due chiacchiere, con lui. Era importante perché oltre le dita, quel giorno, anche il petto gli si era riscaldato con una sensazione nuova, bella.
«Ho saputo così che ti chiami John, dopotutto.» si risolve a dire senza aggiungere altro perché tanto non saprebbe nemmeno come fare.
John riappoggia il bicchiere sulla mensola vicino all’IPod (cosa potrebbe simboleggiare di più loro due se non proprio quel bicchiere e quell’IPod in quel momento non lo sa nemmeno lui) e si avvicina in pochi passi prendendo il viso di Sherlock tra le mani e baciandolo con tutta l’intenzione del mondo. Lo bacia come se non dovesse mai lasciarlo andare, lo bacia cercando di fargli capire cosa significhi per lui, lo bacia perché può e perché è bello farlo e perché Sherlock ha conservato un bicchiere.
«Suono il violino a orari improponibili, posso stare per giorni senza parlare e ho una vita frenetica,» è la prima cosa che dice Sherlock a fil di voce appena John si scosta per indugiare in baci sul collo, sugli zigomi, di nuovo sulla bocca «tengo teste mozzate nel frigo e ho un fratello insopportabile.» continua Sherlock col fiato corto perché John gli sta mandando in cortocircuito il cervello e se da una parte vorrebbe tanto che John la smettesse di baciarlo con così tanta cura e devozione perché così proprio non riesce a pensare normalmente dall’altra spera ardentemente che John non smetta mai.
John si ferma con la bocca sulla guancia di Sherlock (uno Sherlock il cui petto si alza e si abbassa in maniera quasi allarmante) e con un ultimo bacio si scosta per guardarlo negli occhi, sorridendo.
«C’è un motivo per cui mi stai dicendo tutto questo?»
«Due nuovi conviventi dovrebbero sapere i propri difetti.»
E dovrebbe essere terrificante, non è vero? E forse il fatto che John non la pensi per niente in questa maniera dovrebbe preoccuparlo in qualche modo, ma Sherlock parla di convivere –con lui- e l’unica cosa a cui riesce a pensare John è dove riuscirà ad incastrare tutti i suoi libri in quella libreria già così stracolma in soggiorno.
«Io ho problemi con la gestione della rabbia, ho problemi di fiducia e una sorella alcolizzata e come hai sperimentato tu stesso di prima mano faccio spesso incubi. Ma ho dei bellissimi maglioni natalizi che penso starebbero benissimo nell’armadio vicino le tue camice di seta.»
Sherlock storce il naso all’idea e John ride, non riesce ad impedirselo, e poco dopo Sherlock ride con lui ed è tutto così calmo, così tranquillo, così famigliare che John teme che tutto si frantumerà da un momento all’altro facendolo risvegliare nel suo orrido monolocale in periferia.
Ma i rumori di Londra si stanno risvegliando, il sole ormai rischiara quasi del tutto l’appartamento e John non è mai stato uno bravo ad inventarsi questo tipo di domesticità nei suoi sogni.
«A quanto pare dovrò conoscere un fratello insopportabile» John sorride nel dirlo e Sherlock alza gli occhi al cielo, esasperato.
«Posso solo consigliarti di non accettare passaggi da estranei che si accostano con limousine nere ma servirebbe solo a rallentare l’inevitabile»
E John, per ora, non chiede perché non vuole sapere, per ora va tutto benissimo così e quindi vuole godersi questo momento il più possibile, in qualche modo sa che andrà bene.
«Sherlock…»
Il consulente si volta a guardarlo e John gli scosta dei riccioli ribelli dalla fronte.
«Suoneresti qualcosa per me?»
E il sorriso di Sherlock è bellissimo quando lo guarda e tutti e due sembrano un po’ emozionati da quella richiesta.
«Tutto quello che vuoi, John.»
E a loro non serve altro.


 
 
 
 
Fin.
 
 
 
 
 
 
NOTE AUTRICE:
Allora… uhm, salve?
Tipo… non ho la minima idea se qualcuno si ricorda ancora o meno di questa storia (perché era… il… 2014……….) ma dovevo finirla. So che sembrerà stupido in qualche maniera ma questa è una di quelle storie che proprio mi rimaneva sul groppone non finire perché, nella sua semplicità, le voglio proprio bene e voglio proprio bene a questi due idioti.
Il plot –grazie a Dio- me l’ero già segnato per quest’ultima storia nel 2014 e, anche se ovviamente non sarà venuta esattamente fuori come la volevo all’epoca, più o meno tutte le parti che volevo mettere me le ricordavo quindi insomma, l’avessi scritta all’epoca forse sarebbe venuta fuori meglio ma non rivanghiamo troppo il passato coff coff.

In questa ultima shot non volevo parlare di musica (al contrario delle prime tre) perché la musica viene fuori proprio da Sherlock quando fa l’amore con John e all’epoca la trovavo una cosa molto romantica la trovo romantica pure adesso perché se no l’avrei tolta ed era anche un po’ il significato di tutta la fic in sé.
In sintesi, sono felice di avercela fatta, perché questi due nonostante la quarta stagione riescono sempre a rimanermi nel cuore (e forse un po’ li odio per questo) e perché volevo farla.
Se qualcuno è arrivato fino a qui, se qualcuno dell’epoca c’è ancora e l’ha letta, beh grazie. Spero comunque vi abbia regalato qualcosa.

Questo invece è un appunto che mi ero segnata sempre nel 2014 e mi ha fatto troppo ridere e quindi lo lascio nelle note a riprova che davvero non maturo mai. X’D

LA MIA OTP è IL BICCHIEPOD (ANCHE SE TAZZAPOD E’ PIU’ CARINO) ovvero il bicchiere con l’IPod, altro che Johnlock XD IBicchiere
   
 
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