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Autore: Carme93    07/10/2020    4 recensioni
In una tiepida giornata di fine inverno, Federico Mestri si ritrova rinchiuso in un bagno della scuola insieme a Marica Ghizzi, una delle sue compagne di classe più antipatiche. I due ragazzi sono costretti a sopportarsi in attesa che qualcuno apra la porta da fuori, così Federico finirà per confidarsi proprio con la persona più improbabile.
[Questa storia si è classificata terza al contest "Le note del dramma" indetto da Sabriel_Little Storm sul forum di EFP e alla challenge "Slot machine" indetta da Juriaka sul forum di EFP].
Genere: Drammatico, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Kidfic | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di un anno scolastico'
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[Questa storia partecipa al contest "Le note del dramma" indetto da Sabriel_Little Storm sul forum di EFP e alla challenge "Slot Machine" indetta da Juriaka sul forum di EFP con promp t20: Un personaggio a vostra scelta, da bambino, ha subito un trauma. Ne parla a 8, che lo ascolta]. 








 

Il processo dei ricordi
 
 
 


 
 
I raggi di un tiepido sole penetravano tra le nuvole, che avevano dominato la città per tutta la mattina, rammentando che la primavera era ormai vicina. Spesso, però, non ci si sofferma ad ammirare i frammenti di bellezza che ci circondano, perché i turbamenti ci avvincono e i nostri occhi sono rivolti verso la nostra anima.
 «Sei sicuro, Fede? Tuo padre ti ha detto che non è il caso».
Federico distolse gli occhi dal cielo e si rivolse a Samir, il suo migliore amico: «Devo farlo».
Erano fermi nel cortile della scuola e venivano continuamente superati da altri ragazzi, che non vedevano l’ora di tornare a casa. In realtà Federico avrebbe preferito non trattenersi oltre e, soprattutto, non discutere più di quella storia, ma l’amico era di tutt’altra idea.
«Vuoi che vengo con te?».
Federico scosse la testa e compì qualche passo avanti. «No. Non sono solo, c’è mio padre».
Samir annuì. «Se ti va, chiamami più tardi».
«Va bene, vai o Cassy ti lascia qui».
Samir fece una smorfia, ma assentì e si affrettò a raggiungere la loro amica. Federico non sapeva se l’avrebbe chiamato, probabilmente avrebbe preferito stare da solo, ma l’amico avrebbe atteso che si sentisse pronto a confidarsi. Si passò una mano tra i capelli, incerto su come comportarsi: aveva detto al padre che avrebbe mangiato qualcosa in giro e poi l’avrebbe raggiunto, ma era da tutta la mattina che aveva un dolore alla bocca dello stomaco e nessuna voglia di mangiare.
«Federico!».
Si voltò automaticamente al richiamo e fissò interrogativo la sua compagna di classe, che sembrava più agitata del solito.
«Che vuoi Mara?». Non c’era simpatia tra loro e di solito si ignoravano, nonostante ciò lui tendeva a essere cortese con tutti quanto meno per educazione, quel giorno però non aveva proprio pazienza.
«Marica non si sente bene. Vieni!».
Mara lo prese per un braccio e cominciò a trascinarlo verso l’ingresso della scuola.
«E io che c’entro?». Sapeva di essere scortese e che non era quello che di solito si rispondeva a una richiesta d’aiuto, ma, al di là del suo cattivo umore, non era normale che loro si rivolgessero a lui, quando in generale l’avrebbero considerato meno di zero.
«Non c’è nessun altro».
Questo era molto più credibile. «I suoi non stanno venendo a prenderla? Un bidello?». Perché doveva occuparsi lui di Marica?
«No, lei deve venire a pranzo con me e io sono con l’autobus. E il bidello che c’entra?».
Federico già trovava quella conversazione insensata, ma la seguì lungo il corridoio ormai deserto. «I collaboratori scolastici hanno il dovere di prestare soccorso agli studenti…».
«Ma stai zitto tre secondi?» sbottò Mara, fermandosi di fronte al bagno delle ragazze.
«Io lì non entro».
«Ma per favore, muoviti. C’è solo Marica».
Federico sbuffò e la seguì.
«È in quel cubicolo» disse Mara. «Che si fa?».
Federico si chiese se l’avessero preso per un medico, buttò lo zaino sul pavimento ˗ pentendosene due secondi dopo perché sicuramente non era ancora stato lavato ˗ e si avvicinò a Marica leggermente piegata in avanti.
«Marica?» chiamò incerto, entrando a sua volta nel cubicolo. Se stava vomitando, avrebbe dovuto reggerle la testa probabilmente.
La ragazza lo afferrò per un braccio, ma non alzò la testa. Preoccupato, Federico si chinò su di lei redendosi conto che stava sorridendo. «Ma che…?».
In quel momento qualcuno, probabilmente Mara, chiuse la porta del cubicolo.
«Ehi!» sbottò volgendosi verso la porta chiusa. «Ma che problemi avete?».
«È tutta la mattina che cerco di parlarti» replicò Marica raddrizzandosi e sorridendogli. «A mali estremi, estremi rimedi».
«Ma che cavolo dici?» replicò Federico. «Mara, apri questa porta!». Da fuori non giunse risposta. «Mara!».
«Andata».
«Ti sei bevuta il cervello? Chiamala! Che razza di scherzo è?».
«Se n’è andata» ripeté Marica scandendo le parole. «A quest’ora avrà già raggiunto Daniele. Oggi veniva a prenderli il padre».
Federico prese un bel respiro e chiese: «Che vuoi?».
«Oh, finalmente una domanda intelligente» sorrise Marica. Federico le lanciò un’occhiataccia. «Devo parlarti, ma tu mi hai evitato tutto il giorno».
«E dobbiamo farlo adesso?».
«Dimmi sinceramente che se usciamo di qui, tu ti fermi e parli civilmente con me».
«Parlare civilmente con una che finge di stare male e attira le persone nei bagni?».
«Così suona decisamente male».
«È una cosa da pazzi».
«Stai alzando la voce».
«Fammi uscire da qui» sbottò Federico.
«Soffri di claustrofobia?».
«No».
Le gli si avvicinò di più e lui si appiattì contro la parete. «Allora sei gay».
«No».
«Nessun ragazzo cerca di sfuggirmi in certe circostanze».
«Beh, rassegnati, non piaci a tutti».
Marica rise. «Se vabbè».
«Cosa vuoi?».
«Ti piace Alisia?».
Federico la fissò sconvolto per qualche secondo. Aveva sentito bene? No, non era possibile, nemmeno Marica poteva arrivare a tanto.
«Oh, ci sei?» chiese la ragazza sventolandogli una mano davanti agli occhi. Si era allontanata da lui.
«Tu mi hai chiuso in un bagno per chiedermi se mi piace Alisia Silvestri?».
«Esattamente. Perché ti stupisci? È la mia migliore amica».
Federico sentì il suo respiro accelerare e s’impose di calmarsi. «Io ho un impegno importante e tu mi trattieni qui per una cosa del genere?».
«Anche l’amore è importante o i tuoi filosofi non te l’hanno insegnato?».
Il ragazzo strinse con forza le mani tra loro. «Fammi uscire da qui!».
«Non finché non mi rispondi».
«No, Alisia non mi piace, ok? Non voglio avere nulla a che fare con voi!».
Marica s’incupì. «Lo sapevo, accidenti. Le hai rifilato qualche droga quando siete usciti insieme?».
«Ma sei scema?» sbuffò Federico sempre più irritato. «No. E ti ricordo che lei mi ha ingannato! Ha fatto una scommessa con Aurelio e Isaac e mi ha convinto a portarla a mangiare una pizza! Non mi piace: è bugiarda, manipolatrice e stupida!».
«Alisia non è stupida e lo sai, anche se si è presa una cotta per te quella sera, quindi dubito un po’ del suo quoziente intellettivo adesso».
«Ora posso andare?».
«Chiamo Mara».
«Non era andata a casa?».
«Un amico di suo fratello dovrebbe essere fuori da scuola, in cambio della sua collaborazione io uscirò con lui. È uno dei più carini di quarta».
Federico strinse le braccia al petto in attesa che quella messinscena finisse.
Marica prese il cellulare e chiamò, dopo qualche secondo lo rimise in tasca e lo fissò: «La segreteria telefonica».
«Cosa?».
«Ha spento il cellulare».
«Marica, sto perdendo la pazienza» sbottò Federico.
«E che vuoi da me?».
«Ti ho chiesto io di chiudermi qui dentro!?».
Marica non replicò e cominciò a chiamare aiuto, ma non rispose nessuno. Probabilmente a scuola c’erano solo quelli delle pulizie.
«Beh, chiama qualcuno dei tuoi amici visto che sono tanto bravi».
«Il cellulare è nello zaino. Fuori» sbuffò Federico.
Marica sospirò.
«Ehi, non hai nessun diritto di lamentarti. Siamo chiusi qui dentro per colpa tua» le ricordò Federico.
«Beh, allora, perché non ti piace Alisia? Sei gay, vero?».
«Vaffanculo» replicò il ragazzo. Non che avesse nulla contro i gay, ma lui doveva uscire da lì al più presto e non aveva il tempo di disquisire con quella stupida. E poi quale che fosse il suo orientamento sessuale, non ne avrebbe mai parlato con lei. Si conoscevano dal primo liceo, ma non andavano per nulla d’accordo. Marica era presuntuosa, volgare e parecchio ignorante; al contrario Federico era un ragazzo mite, appassionato di filosofia e alquanto studioso. Ma non era quello il problema, semplicemente Federico non ne sopportava l’arroganza e la volgarità, per il resto avrebbe anche potuto essere un genio e gli avrebbe dato lo stesso fastidio.
Il ragazzo prese un bel respiro e si guardò intorno, poi salì sul gabinetto e cercò di arrampicarsi sulla parete, in modo da saltar fuori.
«Ma sei pazzo?» sbottò Marica scostandosi per non essere urtata.
Federico si appese alla parete, provando a darsi una spinta con i piedi ma senza successo: Cassy, una sua cara amica e compagna di classe, aveva ragione a dire che era una mozzarella. Forse avrebbe dovuto iniziare a fare attività fisica seriamente. Riprovò appoggiando il piede sullo scarico.
«Vedi che lo rompi».
Era insopportabile. Il ragazzo sondò l’appoggio con il piede e si rese conto che Marica aveva ragione: non avrebbe retto il suo peso. Frustrato, provò ad arrampicarsi di nuovo, ma ancora una volta non ci riuscì. Imprecò e si voltò a fissare Marica fuori di sé.
«Non ti avevo mai sentito dire tante parolacce» commentò lei.
«Tu non sei normale! E nemmeno le tue amiche! Mi hai chiuso in un bagno per quale motivo, eh? Una cosa insensata!». Federico percepì il battito del cuore accelerare e prese degli ampi respiri: l’ultima cosa di cui aveva bisogno era avere un attacco di panico in un bugigattolo in compagnia di Marica Ghizzi!
«Quello che ha problemi mentali qui sei tu» replicò Marica. «Che stai facendo con quella maglia?».
Federico deglutì e abbassò gli occhi: le sue mani stavano torcendo ossessivamente e convulsamente il maglione che indossava. Si costrinse a smettere e fulminò la compagna con lo sguardo.
«Che problemi hai?» insisté, però, Marica. «Non è la prima volta che lo fai. Lo hai fatto anche quando Isaac stava malmenando Samuele. Ti ho visto: non hai fiatato, non ti sei mosso, non sei intervenuto. Però hai visto. Eri presente. Se non fosse intervenuto Luca, tu saresti rimasto a guardare».
«SMETTILA!» urlò Federico, appiattandosi con le spalle alla parete. Il suo respiro era sempre più affannoso. Non voleva pensarci, non voleva ricordare. Nonostante tutti i suoi buoni propositi e la sua prontezza nel giudicare Marica e i suoi amici, lui non aveva mosso un dito in aiuto di Samuele quando alcuni ragazzi della classe l’avevano preso di mira. Non muoveva un dito quando Aurelio Pantani li insultava, ma lasciava che fossero Giuseppe e Samir ad agire. Sempre loro. Lo sapeva di essere un maledetto codardo. Eppure avrebbe tanto voluto reagire, dar loro quello che si meritavano. Non era capace.
Marica lo fissava scettica, probabilmente chiedendosi per la prima volta se avesse fatto bene a chiudersi nel bagno con un pazzo. Che cosa pensava? Che le avrebbe messo le mani addosso?
Sbuffò e si lasciò scivolare a terra. «Non mi piace la violenza» disse come se fosse una risposta sufficiente.
«Non ti piacciono molte cose a parole» lo provocò Marica, ma il suo tono era meno aggressivo del solito.
«Non mi piace il sangue, per questo non sono intervenuto quando Isaac ha attaccato Samuele».
«Cazzate. Io non ti ho nemmeno sfiorato e qui dentro non c’è sangue».
«Hai scelto il giorno sbagliato, devo assolutamente uscire».
«Beh, dobbiamo aspettare che quelli delle pulizie si accorgano di noi».
«È questo che mi fa infuriare. Non arriverò in tempo».
«Che devi fare di così importante?».
«Non sono affari tuoi».
«Qualcosa dovremo pur fare in attesa di uscire» replicò Marica sedendo vicino alla parete opposta a quella di Federico.
«Possiamo stare in silenzio».
«Non mi piace stare in silenzio» replicò lei.
«Sei insopportabile». Quella ragazza era invadente e pettegola, perché mai avrebbe dovuto raccontarle cose che sapeva solo Samir o al massimo Giuseppe e Cassy? No, lei non meritava nulla.
«Dai».
«No».
«Dove devi andare?».
«Sei un’impicciona».
Rimasero in silenzio per un po’, poi Marica tornò all’attacco: «Allora chiederò in giro».
«Che cosa?».
«Che cosa devi fare di così importante».
Federico sbuffò. «Nessuno ti risponderà». Come poteva pensare che uno dei suoi amici l’avrebbe tradito? Sicuramente non avrebbe nemmeno avuto il coraggio di chiedere a Cassy che le avrebbe strappato i capelli e no, non era solo un’ipotesi: una volta, in prima, si erano veramente accapigliate ed erano state sospese. Cassy conservava una ciocca di capelli, che giurava di aver staccato dalla testa di Marica, in un cofanetto come segno della sua vittoria. In realtà era stato più un pareggio visto che erano state separate, ma vallo a spiegare alle due ragazze, ognuna delle quali vantava la propria vittoria.
«Beh, posso sempre chiedere in giro che cosa nasconde il perfetto Federico Mestri».
Il ragazzo non la degnò neanche di uno sguardo: almeno metà o più della scuola non avrebbe nemmeno saputo dire chi era Federico Mestri; era più probabile che conoscessero suo padre.
«Quanto sei difficile. Allora caricherò su Tik Tok questo video».
Federico non avrebbe voluto, ma sollevò gli occhi e si rese conto che la ragazza l’aveva ripreso mentre cercava di scalvare il muro divisore dei bagni.
«Cancellalo» le ordinò.
«Neanche per sogno».
«Marica!».
«Dimmi che cosa nascondi».
Federico scattò e cercò di prenderle il cellulare, lei si difese. Nella colluttazione il telefonino cadde e scivolò sotto la porta. Il ragazzo si buttò a terra e cercò di raggiungerlo con la mano.
«Non ci pensare nemmeno» strillò Marica pestandogli il braccio e facendolo gridare.
«Ma sei scema? Hai i tacchi!».
«Sono bassi» replicò lei, accucciandosi accanto a lui e cercando di riprendersi il cellulare.
Spingendosi e cercando d’intralciarsi a vicenda finirono per spingerlo lontano.
«Merda, è colpa tua» sbottò Marica tirandosi indietro e sedendosi nuovamente sul pavimento. «Se c’è un solo graffio sullo schermo, me lo paghi».
«Te lo puoi scordare» replicò Federico. «Se siamo qui dentro, è solo colpa tua».
«È un iPhoneX!».
«Oh, davvero?» replicò Federico sarcastico.
«Vaffanculo, Mestri».
«Prego prima tu, non ti prenderei mai il posto».
«Quanto sei spiritoso» sbuffò Marica. «Vedremo se sarai così felice quando posterò quel video».
«Non ti permettere» sibilò Federico.
«Aspetta solo che usciamo da qui».
«Ti denuncio» la minacciò.
«Ah, sì? Fa’ pure, ma penso che il preside sospenderà entrambi».
Federico si accigliò e scosse la testa: il preside era molto autorevole e ci teneva che i suoi studenti rispettassero le regole, ma dubitava che se la sarebbe presa con entrambi e non solo con Marica. Dopotutto lui lì era la vittima. «Lo sai che sei a un passo dall’espulsione?».
«Sono affari miei».
«Bene, ho anch’io il diritto di tenere certe cose per me».
«Lo sai benissimo che non me ne frega niente di essere espulsa o di perdere l’anno. E nemmeno della denuncia, mio padre è un avvocato».
Federico fece per ribattere, poi chiuse la bocca: chi glielo faceva fare? Quella discussione era insensata. Dopotutto non ci avrebbe messo molto a scoprire la verità, probabilmente sarebbe stato sufficiente che chiedesse al padre e avrebbe saputo ogni cosa. Sospirò e tirò fuori dalla tasca del giubbotto un vecchio ritaglio di giornale e glielo porse.
Marica lo prese e lo squadrò: soffermando la sua attenzione sulla foto di una donna accanto all’articolo. Federico chiuse gli occhi: la conosceva a memoria.
Se avesse saputo disegnare, avrebbe potuto delineare il volto abbronzato, incorniciato da capelli castani solitamente legati in strette code o chignon, e gli occhi azzurri-blu che tanto lo avevano incantato. Niente trucco, perché lei riteneva che fosse un vezzo eccessivo che nel suo lavoro non aveva significato, niente orecchini tranne nelle feste. E quel ciondolo che cingeva sempre il suo collo: l’unico orpello che si concedeva e che Federico tanto adorava. Era una collana con un cuore su cui erano incisi tre nomi, in modo che fossero sempre con lei. Avrebbe potuto delineare a mente anche la divisa che indossava. Tutto nel minimo dettaglio.
La sua mente, però, andò oltre o cominciò a scavare nella memoria, quella che una parte di lui aveva messo da parte per un po’ sperando che facesse meno male. Una specie di cassetto degli orrori che inevitabilmente finiva per riaprire, nonostante sapesse quanto gli facesse male. Eppure una parte di lui man mano che cresceva si rendeva conto che il dolore diminuiva, come se fosse anestetizzato; ma la ferita era lì, lui lo sapeva, si era formata la crosta, ma non si cicatrizzava tanto che bastava poco per strappare la crosta e sanguinare ancora.
 
Federico era sempre stato un bambino mite, curioso e desideroso di mettersi in gioco. Aveva sempre ammirato molto i suoi genitori, perché sapeva che facevano lavori importanti ed erano stimati da molte persone. Quasi s’inorgogliva quando fermavano il padre per strada solo per salutarlo e stringergli la mano o chiedergli consiglio; mentre con la madre non era necessario: la sua divisa parlava da sola insieme a tutte quelle medagliette che portava sulla spalla e che si era fatto spiegare che cosa significassero, un po’ c’era rimasto male scoprendolo perché da piccolo si era convinto che dessero quelle insegne un po’ come le medaglie delle Giovani Marmotte.
Aveva anche una sorella più grande di sette anni, forse troppi per comprendersi veramente. Costanza era una ragazza, quasi al suo opposto, ribelle, poco incline allo studio e apparentemente felice quando riusciva a contrariare i genitori e a fare l’esatto contrario di quello che volevano. Suo padre era sempre molto tranquillo, era raro che alzasse la voce e, Federico, l’aveva sentito più volte invitare la moglie alla calma affermando che in fondo fosse solo un’adolescente e fosse normale cercare la propria indipendenza; la madre aveva un carattere più focoso e collerico e quindi litigava spesso e volentieri con la figlia maggiore.
Federico non era mai riuscito a legare veramente con la sorella. A volte ci aveva riflettuto e alla fine si era convinto che a volte la distanza d’età incidesse troppo. Sua sorella non era il tipo che adorava i bambini e giocava con il fratellino (il che poteva essere un bene, Federico aveva visto più volte Samir vittima dei giochi della sorella minore: una volta era andato a scuola con lo smalto sulle dita perché non sapeva come toglierlo, Cassy aveva riso con le lacrime, ma alla fine Vittoria l’aveva aiutato prima che Isaac e altri ragazzi lo vedessero). Eppure avrebbe voluto una sorella che fosse un punto di riferimento, che lo aiutasse e lo ascoltasse se necessario; invece l’unica volta in cui non gli aveva detto di levarsi dai piedi o di farsi gli affari suoi, era stato quel maledetto giorno: l’unica volta in cui l’aveva sentita veramente vicina, ma avrebbe preferito che non fosse mai accaduto. Sua sorella non c’era mai stata per lui, nemmeno dopo quel giorno, quando avrebbe avuto più bisogno di lei. Eppure loro padre l’aveva giustificata e l’aveva perdonata per essere sparita e per molto altro.
«Che roba è?» chiese infine Marica riscuotendolo dai suoi pensieri.
«Oggi devo andare a un processo o almeno ci sarei andato se tu non mi avessi chiuso qui dentro» sbuffò Federico tentando di scacciare quei ricordi, accorgendosi di star nuovamente tirando il maglione.
«Un processo?» replicò Marica.
Federico annuì fissando una scritta oscena sul muro: e poi erano loro ragazzi quelli che sporcavano i bagni.
«Non ci capisco nulla» insisté Marica. «Sei strano».
Federico si sporse verso di lei e si riprese l’articolo. Fissò gli occhi della donna nella foto, ormai scoloriti tanto che l’azzurro originale si vedeva a malapena. Deglutì e si afferrò le gambe con le braccia. Chi se ne fregava che Marica era la solita odiosa Marica e che avrebbe raccontato tutto a tutti? In fondo non era un segreto e gli atti di quel processo sarebbero stati pubblici; in più non avrebbe sopportato il silenzio in quel momento, troppi ricordi gli erano tornati alla mente e lo avrebbero soffocato.
«Visto che sei tanto curiosa, ti spiego» sospirò con il cuore in gola.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Circa sei anni prima
 
 
 

 
 
«E queste assenze quando lei avresti fatte?».
«C’è la data e anche la firma di papà. Forse dovresti stare di più a casa».
Federico si passò una mano sugli occhi assonnati e sospirò: sua madre e sua sorella stavano litigando. Di nuovo. La cosa peggiore è che lo facevano sempre durante i pasti, quando avrebbero potuto trascorrere qualche momento tutti insieme e tranquilli. Certo, sua sorella non aveva torto: sua mamma trascorreva più tempo a lavoro che a casa, ma lui non avrebbe mai osato urlaglielo in quel modo.
Si appoggiò allo stipite della porta e sbirciò all’interno della piccola cucina. La loro era una bella casa, sapeva di avere ben poco di cui lamentarsi e, come la mamma gli ricordava spesso, loro erano bambini molto fortunati. La cucina era piccola perché negli intendimenti iniziale avrebbero dovuto usare la sala da pranzo, ma rimaneva quasi sempre chiusa perché troppo grande per quattro persone.
«Sei un’insolente!» sbottò la madre. «Lo sai che falsificare una firma è illegale?».
«Non ho falsificato alcuna firma io» ribatté la ragazza. Federico si rese conto che la madre si stava veramente arrabbiando e sospirò. «E comunque sono maggiorenne, potrei benissimo firmarmelo da sola il libretto! È un sopruso il vostro!».
«Se te lo permettessimo, non ti presenteresti nemmeno a scuola!» ringhiò la madre.
«Se non ci voglio andare, non ci vado!».
Federico sobbalzò e si voltò quando una mano si appoggiò sulla sua spalla. Suo padre gli sorrise leggermente, il ragazzino sapeva che nemmeno lui era felice di quei continui litigi.
«Buongiorno» disse suo padre con voce calda e forte, spingendo lievemente il ragazzino all’interno della stanza senza mollare la presa.
Federico ricambiò il saluto e le due donne si voltarono verso di loro.
Sua madre strinse le labbra in una linea sottile. Federico la osservò meglio: indossava già la divisa, perfetta, nemmeno una piega. Era pronta per uscire. Alla vista del marito, lei prese il libretto delle giustificazioni della figlia e con un gesto brusco glielo passò dall’altra parte del tavolo. «Hai firmato tu quelle giustificazioni e la nota della professoressa di fisica?».
Federico vide il padre incupirsi e sfogliare il libretto, gli si avvicinò e scorse una lunga nota. Provò a sbirciarne il contenuto, ma sua sorella gli lanciò uno strofinaccio addosso.
«Non t’impicciare».
«Costanza!» la richiamò loro madre.
Il ragazzino comprese che era meglio non insistere, così sedette e si riempì lentamente, per evitare di farlo cadere di fuori, la tazza di latte, facendo finta d’ignorare la tensione nell’aria.
«Non ho firmato un bel niente senza dirtelo, sai che non mi permetterei mai» sospirò il padre, che poi si rivolse a Costanza. «Hai davvero tirato in faccia il compito alla professoressa?».
«È una stronza».
Federico abbassò la testa sulla tazza, come se avesse potuto evitare la tempesta: sua madre stava per scoppiare. Se non l’aveva ancora fatto, era perché c’era il marito.
«Costanza» disse il padre in tono di avvertimento. «Tu vuoi essere trattata da donna, ma il tuo atteggiamento è da immatura. Perché ti sei comportata così?».
«Perché ha detto che mi boccerà. È illegale, lo sapete! Piuttosto che prendervela con me, dovreste denunciarla!».
La madre sbuffò. «Non denuncio nessuno perché ha detto la verità».
«A te non te ne frega niente! A te interessa solo che io prendo il diploma, vero? Ma a me non frega niente della fisica!» strillò Costanza, dando un calcio alla sedia. «Mi avete costretta a iscrivermi al liceo, se fosse stato per me sarei andata all’industriale!».
«Certo, così sarei dovuta venire a cercarti per strada mentre fumi gli spinelli con i tuoi compagni!» urlò a sua volta la madre.
«È un pregiudizio borghese!».
Federico bevve un lungo sorso di latte. «Che significa borghese?».
«Non ora» replicò suo padre.
«Né mai, perché non vogliano che tu lo sappia» disse Costanza.
«Basta, ne ho sentite abbastanza scemenze per oggi! Io vado a lavorare» sbuffò loro madre lanciando un’occhiataccia alla figlia e baciando il marito a fior di labbra.
Federico si alzò e la seguì all’ingresso.
«A inglese mi vieni a prendere tu e compriamo il gelato?».
La madre indossò il giubbotto, che tanto suscitava l’ammirazione del ragazzino perché aveva il simbolo dell’Arma.
«Verrà papà a prenderti».
Federico rimase male. «Non puoi venire tu?».
«No, ho un appuntamento importante» replicò la donna prendendo il cappello. «Ci vediamo stasera, Federico».
Il ragazzino le diede un bacio sulla guancia e sedette sconsolato sulla sedia vicino al telefono.
«Ci andiamo domani pomeriggio a prendere il gelato, va bene?».
Federico sorrise leggermente e annuì: sapeva che la madre faceva un lavoro importante, ma avrebbe voluto che stesse di più con lui. Probabilmente era egoista, una volta ne aveva parlato con suo padre e lui gli aveva detto che è normale quando si vuol bene a qualcuno.
«Va’ a finire di fare colazione e comportati bene a scuola».
«Sì, certo» sospirò il ragazzino. Chiuse la porta e tornò in cucina, in tempo per incrociare sua sorella che lo spinse di lato e lo guardò male.
«Costanza!» la richiamò il padre.
Federico l’osservò e si avvide che era nervoso.
«Sbrigati, o farai tardi» gli disse.
Il ragazzino annuì e bevve a sorsi veloci il latte rimasto, notando che il padre non aveva nemmeno toccato il caffè.
Di solito suo padre era molto paziente, ma quella mattina lo sollecitò più volte.
«Costanza non viene con noi?» gli chiese sedendo in macchina.
«È già uscita. Un’amica le ha dato un passaggio in motorino».
Nonché a Federico dispiacesse: poteva sedersi davanti quando non c’era la sorella e aveva il padre tutto per sé, ma quella mattina quest’ultimo era troppo nervoso per dargli veramente retta.
Federico provò a conversare con lui come facevano di solito, ma non sembrava molto incline. Alla fine gli chiese: «Allora, che significa borghese?».
Suo padre mise la freccia e sbuffò: «Con quest’aggettivo di solito s’indica una persona del ceto medio alto, ricca e perbenista. Molti anni fa si contrapponevano borghesi e proletari, letteralmente ricchi solo di figli. È stato anche usato con significato dispregiativo, un po’ come ha fatto Costanza prima».
«E noi siamo borghesi?».
«Ti ho detto che oggi non ha molto valore questo aggettivo. Comunque possiamo dire che siamo benestanti».
«E il liceo che c’entra?».
«Niente. Ma molti pensano che esistano scuole di serie A e di serie B».
«Come il calcio».
«Diciamo» replicò suo padre accostando. «Né io né tua madre pensiamo che ci sia niente di male a studiare in un istituto tecnico o in un professionale. Il lavoro in tutte le sue forme rende dignitoso l’uomo».
«Perché non avete voluto che Costanza s’iscrivesse all’industriale?».
«Perché in questa città gli istituti professionali non funzionano bene, anzi. Non c’è controllo, non c’è niente. Abbiamo proposto a tua sorella di andare all’istituto tecnico commerciale che comunque è ben gestito, ma lei non ha voluto e quindi alla fine abbiamo optato per il liceo sperando che si mettesse a studiare, ma non l’ha fatto».
«Ma è sempre stata promossa».
Suo padre sospirò e scosse la testa, poi si avvicinò e gli arruffò i capelli. «Sei ancora piccolo, ora va’ a scuola».
«Va bene, ci vediamo all’una?».
«Sì, potrei tardare un poco, ma tu aspettami vicino al cancello e non ti allontanare».
«Va bene».
«Buona giornata, Federico».
«Anche a te, papà». Gli diede un rapido bacio e poi scese dalla macchina, gli fece un cenno di saluto con la mano e si avviò verso il cancello: ormai c’erano poche persone in giro, quindi la campanella era suonata e si affrettò a entrare.
La mattinata trascorse normalmente. A Federico la scuola piaceva, ogni tanto era noiosa, specialmente qualche materia, ma non abbastanza da lamentarsi come faceva sua sorella o, peggio ancora, saltare le lezioni. E poi c’erano i suoi compagni, li conosceva solo da qualche mese ˗ gli era dispiaciuto non poco lasciare quelli delle elementari e le maestre ˗, ma dopotutto le medie non sembravano così male e stava legando con loro.
«Fede, guarda un po’ che mi uscito doppio ieri».
Il ragazzino sollevò lo sguardò dal libro e si voltò verso il compagno che gli mostrava la figurina di Andrea Pirlo.
«Ti manca, vero? Voglio almeno dieci figurine per questa».
Come facevano a ricordarsi le figurine che avevano e che non avevano? Poi però Giulio non ricordava quando era caduto l’impero romano d’Occidente! A Federico il calcio non piaceva particolarmente, spesso seguiva le partite con il padre, ma era solo un modo per stare insieme a lui. E faceva la collezione solo perché a tutti gli altri compagni piaceva e lui voleva essere coinvolto. Un po’ si sentiva in colpa, perché avrebbe preferito non far comprare le figurine senza motivo a suo padre, ma era più forte di lui.
«Sì, ok». La raccolta di quell’anno non era iniziata nemmeno da due mesi o poco più, che aveva già un mucchio di doppioni, se fosse stato per lui Giulio avrebbe potuto prendersele tutte. Una parte di lui si chiedeva perché suo padre non l’avesse ancora capito, eppure comprendeva sempre un sacco di cose, alle volte prima dello stesso Federico: lui buttava sempre album e doppioni in un lato della libreria e non gli considerava più di tanto quando era a casa.
«Mostrami quelle che hai. Se mi dai De Rossi, posso darti Pirlo direttamente».
«L’ho promesso a Marco» sussurrò.
«Uffa, allora mostrami le altre, così scelgo».
«Dopo, all’uscita» bisbigliò Federico tornando al libro di storia. La professoressa di Lettere mal sopportava che giocassero con le figurine durante la lezione ed era molto severa su questo.
«Dai, la prof non ci vede».
Federico sbuffò, sapeva di non doversi far trascinare, ma non era semplice: voleva fare colpo sui nuovi compagni e non far pensare loro di essere noioso come diceva sempre sua sorella.
«Dopo».
«Dai, che palle che sei».
«Federico, Giulio, smettetela di chiacchierare!» li richiamò la professoressa.
Il ragazzino si morse il labbro odiando essere rimproverato.
Giulio dopo una decina di minuti tornò alla carica.
«E va bene» acconsentì sperando che la professoressa non li rimproverasse di nuovo perché chiacchieravano. Conservava il mazzo dei doppioni nel giubbotto di solito, così lo recuperò e lo passò al compagno, poi si concentrò sul manuale di storia quasi a prendere le distanze da lui.
«Voglio queste» disse Giulio dopo un po’.
Federico si voltò di nuovo verso di lui e riprese in mano il mazzo dei doppioni e osservò quelle scelte dal compagno.
«Va bene?».
«Ah, allora è questo che state facendo da un pezzo!» sbottò la professoressa avvicinandosi. «Consegnatemi quelle figurine».
Federico s’irrigidì colto di sorpresa.
«Prof».
«Professoressa, Giulio. Non accorciamo i nomi quando non è necessario. Avanti consegnatemi le figurine, le restituirò ai vostri genitori».
«Ed è quello che mi preoccupa» borbottò il ragazzino, ma alla fine fu costretto a capitolare e a consegnare le dieci figurine prescelte e Pirlo; Federico lo imitò.
«Datemi i diari ora».
Federico sgranò gli occhi, ma ancora una volta non provò nemmeno a protestare. Dopo che scrisse le due note, ripresero la lezione come se nulla fosse successo. Federico chinò il capo sul libro e cercò di trattenere le lacrime: non aveva mai preso una nota fino ad allora. I suoi si sarebbero arrabbiati molto? Nemmeno qualche ora prima si erano arrabbiati con sua sorella per lo stesso motivo; anche se Costanza non aveva nemmeno chiesto scusa. Probabilmente avrebbe dovuto riferirlo immediatamente al padre all’uscita. Sì, decisamente, meglio dirlo prima a lui che alla madre: lei si sarebbe arrabbiata molto. Ma come gli era venuto in mente di assecondare Giulio? Se solo avesse potuto tornare indietro!
All’improvviso qualcuno bussò alla porta ed entrò una bidella. «Professoressa, mi scusi. Federico Mestri deve uscire. C’è il padre».
Il ragazzino si riscosse dai suoi pensieri e fissò stranito i due adulti. Perché suo padre era andato a prenderlo prima? Doveva esserci un errore. Suo padre lavorava a quell’ora, doveva anche avere qualche udienza, come aveva sentito dire alla madre la sera prima.
«Federico» lo chiamò la professoressa. «Forza, tuo padre ti sta aspettando».
Una strana sensazione s’impadronì di lui, come un peso sullo stomaco. Non era possibile: i suoi genitori non volevano che saltassero la scuola, perché era loro dovere seguire le lezioni. Non sapendo che cosa dire, si alzò e preparò lo zaino, poi salutò e seguì la bidella con il cuore in gola.
Suo padre era in compagnia del preside, ma sembrava turbato. I due adulti discutevano concitatamente a bassa voce; Federico notò che il preside era il più loquace, mentre suo padre si limitava a rispondere con poche parole e qualche brusco cenno d’assenso.
Il ragazzino salutò timidamente, quasi timoroso di attirare l’attenzione dei due adulti su di sé. Il preside gli rivolse uno sguardo dispiaciuto e li congedò velocemente.
Il ragazzino avrebbe voluto chiedere subito spiegazioni al padre, ma lui gli pose una mano sulla spalla e lo guidò fuori dalla scuola.
Federico cercò di riflettere: suo padre non poteva essere arrabbiato per la nota, non poteva saperlo! E il preside perché gli aveva rivolto quella strana espressione? Nemmeno lui poteva sapere della nota e comunque non avrebbe spiegato quell’atteggiamento. Perché suo padre era andato a prenderlo?
Il signor Mestri aveva parcheggiato poco distante e picchiettò impaziente sullo sterzo con le dita, mentre il figlio tentava di riporre lo zaino pesante sul sedile di dietro per poi sedersi davanti.
L’uomo mise in moto e partì, ma non proferì parola. Federico non aveva idea di quale fosse il problema e non sapeva dove stessero andando: non era la strada che di solito facevano per andare a casa. Inoltre suo padre era sempre più nervoso, si vedeva da come stringeva il volante o sbuffava ai semafori.
Federico era sempre più sorpreso: suo padre era la personificazione della calma di solito. Che aveva? «Papà» tentò.
Suo padre si voltò verso di lui. Aveva gli occhi lucidi? No, doveva essere un’impressione, un gioco della luce. Gli rivolse un’occhiata stranita, come se si fosse dimenticato della sua presenza, poi un’espressione amara balenò sul suo viso prima che distogliesse lo sguardo. Non l’aveva mai guardato in quel modo. Che cosa aveva fatto di così terribile?
Suo padre fermò la macchina bruscamente, accostando.
«C’è il passo carrabile» mormorò Federico sempre più turbato.
Lui non sembrò sentirlo e si appoggiò meglio al sedile.
«Stai bene?».
«Ascoltami, Federico» disse allora suo padre, «stamattina c’è stata una rapina».
Il ragazzino aggrottò la fronte: non si aspettava che gli dicesse una cosa del genere.
«Tua mamma è intervenuta insieme ai suoi uomini».
Sembrava che ogni parola fosse un’enorme sofferenza per l’uomo. Continuava a non guardarlo. Federico sentì il cuore battere forte: sua madre era brava a prendere i criminali, ma non se ne vantava mai e difficilmente parlava di lavoro a casa.
«C’è stata una sparatoria».
Sparatoria. Federico si rigirò in bocca quella parola. Sapeva che cosa significasse, le aveva viste nei film, ma suonava quasi strana. Ma tutti i rapinatori erano armati di solito, che cosa c’era di strano?
«Tua madre è rimasta ferita».
Federico si fissò le scarpe, mentre quelle parole facevano breccia nella sua mente e nel suo cuore. Sua madre era forte, ci avrebbe messo un po’ a guarire forse, ma, conoscendola, non avrebbe nemmeno preso giorni a lavoro. Non disse nulla. Che cosa doveva dire?
«Andiamo da lei» disse suo padre rimettendo in moto e passandogli il proprio cellulare. «Vedi se tua sorella ti risponde».
«Ma è in classe».
«Tua sorella non va a scuola da almeno una settimana. Chiamala, per favore».
Suo padre non sembrava troppo arrabbiato. Possibile? Sospirò e trovò il numero di Costanza tra le ultime chiamate, almeno cinque. Fece partire la chiamata e attese, ma dopo aver suonato a lungo s’inserì la segreteria telefonica.
«Non risponde».
Suo padre serrò la mascella e strinse di più le mani sul volante, non rispose subito ma dopo qualche minuto: «Tieni tu il cellulare e riprova a chiamarla tra un po’».
Non parlarono più finché suo padre non parcheggiò fuori da quello che Federico riconobbe come l’ospedale della città. Il ragazzino lo seguì con il cuore in gola, stringendogli la mano.
Il signor Mestri si fermò alla reception, poi raggiunsero un reparto dove c’erano degli uomini in divisa. Uno di loro si avvicinò, strinse la mano a suo padre e fece un cenno a lui.
Federico osservò suo padre che gli parve più pallido, ma, quando si rivolse a lui, lo fece con voce ferma. «Siediti, dobbiamo aspettare».
Il ragazzino lanciò un’occhiata poco convinta alle squallide e tristi poltroncine di plastica, ma obbedì. Avrebbe voluto andare via di là: non gli piaceva tutto quel bianco, ce n’era troppo. Tentò di calmarsi e richiamò la sorella, ma ancora una volta non rispose. Trascorse più di un’ora prima che, dopo cinque telefonate – Federico era sempre più agitato e in qualche modo avrebbe voluto che lei fosse lì – Costanza rispose seccata: «Ma che vuoi?».
Federico deglutì non sapendo che cosa rispondere, alzò lo sguardo sul padre in compagnia dei colleghi della madre e ipotizzò di portargli il cellulare, poi lasciò perdere. «Sono Federico» mormorò. La sua voce sembrò risuonare nel corridoio.
«Perché hai il cell di papà?».
«Vieni?».
«Ma sei scemo? Dove devo venire? Federico?».
Il ragazzino si rese conto di non essere capace di spiegarle e cominciò a respirare più rapidamente. Che cosa avrebbe dovuto dirle?
«Dammi, ci parlo io».
Suo padre si era avvicinato e Federico gli porse il cellulare: l’uomo pronunciò poche parole e chiuse il telefono, poi il corridoio tornò nuovamente silenzioso.
Dopo un tempo che il ragazzino non avrebbe saputo definire, furono raggiunti da Costanza in compagnia della sua migliore amica. Sembrava scioccata e si avvicinò al padre chiedendo spiegazioni, poi sedette accanto al fratellino. La sua migliore amica le si affiancò e le sussurrò parole di conforto per tutto il tempo.
Federico si strinse in sé stesso: anche lui avrebbe voluto qualcuno che lo consolasse.
All’improvviso un medico uscì dalla sala operatoria, faceva un po’ impressione con il camice verde acqua e la mascherina spostata sul lato del volto. Federico, Costanza e la sua amica si alzarono di scatto. Il più piccolo non aveva ben idea di che cosa aspettarsi, ma il medico sembrava a disagio e non era mai un bene quando un adulto lo era. I due carabinieri si spostarono di lato per lasciare spazio al signor Mestri.
«Lei è il marito?».
Federico vide il padre annuire, invitando silenziosamente il medico a continuare, ma non comprese pienamente le parole che si scambiarono né quello che ne seguì. Si sentì, però, le ginocchia deboli e tremanti, ma nessuno fece caso a lui. Uno dei carabinieri si allontanò di corsa, mentre il maresciallo rimase rigido accanto a suo padre. Costanza sbiancò, mentre la sua amica altrettanto terrea in volto le strinse un braccio.
Federico si lasciò scivolare a terra e si portò le ginocchia al petto, percependo un improvviso vuoto al cuore, e chiuse gli occhi per non vedere più quel bianco che sembrava soffocarlo.






 
 
*  *   *
 






«Federico, sbrigati!».
Il ragazzino sospirò e indossò la prima felpa che trovò nell’armadio. Erano trascorse quasi due settimane da quel giorno e suo padre gli aveva detto che sarebbe stato meglio che tornasse a scuola. Costanza aveva protestato e aveva litigato con il padre. Federico si era limitato ad annuire: che differenza avrebbe fatto? Che senso aveva stare a casa? Non più di quanto ne avesse andare a scuola. Qualcosa aveva ancora senso?
Federico aveva trascorso tutto il tempo da solo nella sua stanza e aveva incontrato i familiari solo durante i pasti. La tensione tra suo padre e sua sorella era aumentata di giorno in giorno finché non avevano discusso sulla scuola. Loro padre aveva perso la pazienza e aveva persino urlato, evento molto raro.  Costanza, ormai, si trovava quasi sempre fuori casa.
Il padre lo accompagnò come al solito, ma nulla era veramente come sempre.
Era in ritardo, così in classe trovò quasi tutti i suoi compagni, ma non l’insegnante. Alcuni lo salutarono timidamente, altri evitarono il suo sguardo. Ciò lo sorprese all’inizio, ma poi si rese conto che loro sapevano e quella era la conferma che nulla fosse come prima. Raggiunse il suo banco e Giulio gli sorrise.
«Ciao».
«Ciao» ricambiò appoggiando lo zaino a terra.
«Tieni» disse Giulio porgendogli una figurina.
Federico lo fissò perplesso. Era Icardi, un calciatore dell’Inter. Non allungò la mano. La storia delle figurine gli era tornata in mente, così come la nota di cui non aveva mai parlato ai suoi genitori. Sentì una strana sensazione allo stomaco. «Non ne ho figurine da scambiare».
«Non voglio scambiarla» si affrettò a rispondere Giulio. «Te la regalo».
Federico continuò a fissarlo: Giulio era gelosissimo delle sue figurine, perché i suoi non gliene compravano molte. Non avrebbe mai pensato che un giorno si sarebbe messo a regalarle. E perché a lui poi? In quel momento entrò la professoressa di matematica.
«Ah, sei tornato Federico».
La sua espressione colpì il ragazzino: l’aveva vista altre volte in quei giorni sul viso degli adulti – sua sorella aveva detto che era compassione. Non disse nulla e rivolse una nuova occhiata a Giulio. «Non la voglio» sibilò a voce un po’ alta. Non avrebbe saputo dire perché reagì in quel modo, quasi con cattiveria.
«Tutto bene?» chiese la professoressa.
Federico si guardò intorno e vide che tutti avevano gli occhi fissi su di lui. Tutti. Si sentì mancare l’aria.
«Federico?».
«Voglio cambiare posto» disse all’improvviso mentre gli occhi gli cadevano su Samir, un compagno straniero che a malapena parlava perché aveva difficoltà con la lingua e tutti ridevano di lui. Federico non voleva parlare con nessuno. Non voleva che nessuno gli parlasse. «Posso stare con Samir?».
La donna sembrò sorpresa, ma annuì e invitò la ragazzina che sedeva accanto a Samir a spostarsi.
Compassione. Che sentimento strano.
Federico prese posto accanto a Samir, che gli sorrise, ma lui lo ignorò proprio come aveva ignorato l’occhiata ferita di Giulio. Meccanicamente seguì quella lezione e quelle che seguirono. Gli altri evitarono d’infastidirlo per fortuna e così trascorse quella giornata. Eppure all’uscita, il ragazzino aveva ancora il cruccio di quella nota: la professoressa non gliel’aveva chiesta. Ancora una volta per compassione. Non capiva.
 
Quella sera decise che avrebbe mostrato la nota al padre e avrebbe chiuso la questione: gli dava troppo fastidio lasciarla in sospeso. O voleva solamente parlare con suo padre, cosa che di fatto non faceva da troppo tempo.
«Dove accidenti è andata tua sorella, eh? Te l’ha detto?» sbottò l’uomo sbattendo il cellulare sul tavolo.
Federico sobbalzò, non abituato a quell’atteggiamento del padre, solitamente molto pacato e minimamente incline a imprecare.
Era l’ora di cena, ma non c’era quasi nulla da mangiare in casa: suo padre si era dimenticato di fare la spesa. E anche questa era una stranezza, poiché era un uomo molto attento e puntuale.
«Costanza non mi dice mai niente» rispose e quello almeno era rimasto uguale.
Il padre sembrava veramente arrabbiato, probabilmente Federico avrebbe dovuto rimandare la discussione, ma non gli interessava veramente: voleva farlo e basta.
«Devi firmare questa» gli disse semplicemente, mettendogli davanti il diario aperto alla pagina della nota.
Ci fu un momento di silenzio come se il padre fosse stato colto di sorpresa e cercasse di comprendere le sue parole.
«Ma non l’hai presa oggi» disse alla fine stranito.
«No, mi sono dimenticato».
Suo padre lo guardò per un attimo: non c’era compassione sul suo volto, ma un’altra espressione che Federico non comprese. Era troppo piccolo per capire che a volte anche gli adulti si sentono smarriti e non hanno risposte.
L’uomo firmò la nota e disse semplicemente: «Non farlo più».
Questo turbò profondamente Federico: era un richiamo debole e generico, insensato, come se non avesse veramente idea di quello che aveva fatto e, se in quella nota ci fosse stato scritto che chiacchierava o che aveva risposto male, sarebbe stata la stessa cosa. Lo osservò mentre riprendeva il cellulare e richiamava Costanza; poi sconsolato, si allontanò intenzionato a rintanarsi in camera sua.
«Ordino la pizza, va bene?».
Annuì distrattamente: non aveva fame, ma dirlo non sarebbe servito a nulla. Suo padre non avrebbe permesso che andasse a letto digiuno.
 
La professoressa il giorno dopo sembrò sorpresa di vedere la nota firmata e ancor di più le sue scuse per essersela dimenticata. Eppure, per fortuna, non gli disse che non era necessario, ma l’accettò e affermò che andava bene. Federico si sentì un po’ sollevato: non voleva che a scuola gli ricordassero quello che era successo, voleva fare finta di nulla. Samir era silenzioso e non lo disturbava. Federico sapeva di doversi scusare con Giulio e si sentiva in colpa un po’ con tutti poiché non rivolgeva la parola a nessuno nonostante i compagni cercassero di essere gentili.
 


 
*
 

 
 
Era trascorsa più di una settimana dal rientro a scuola e Federico continuava a sforzarsi di credere che nulla fosse cambiato; ma se durante le lezioni era quasi possibile, tutto gli tornava alla mente quando rientrava a casa: suo padre era distante e oberato dal lavoro, in più quando era a casa litigava con Costanza. Il ragazzino si sentiva completamente smarrito: a scuola le ore si susseguivano precise e ogni insegnante li faceva lavorare secondo i propri ritmi, ma a casa c’era solo il vuoto, lo stesso che aveva nella sua anima e i compiti non era sufficienti per tenere a freno quella voragine che, a volte, sembrava quasi divorarlo.
Quel pomeriggio concluse i compiti e preparò lo zaino per il giorno dopo, poi si guardò intorno sconfortato: la sedia in camera sua era colma di vestiti sporchi. Negli ultimi tre giorni aveva indossato la stessa maglia, ma ormai si era anche macchiata e non avrebbe potuto rimetterla. Storse la bocca e decise di dover fare qualcosa. Facendo due viaggi trasportò tutti i vestiti in bagno, cercando nel frattempo di ricordare come si usasse la lavatrice. Dopo aver toccato diversi pulsanti riuscì ad accenderla, fece per mettere tutti i vestiti alla rinfusa ma poi si ricordò che bianchi e colorati non dovevano andare insieme. Una volta sua madre e sua sorella avevano litigato perché Costanza non l’aveva ascoltata e aveva fatto diventare rosa le camicie che la madre usava al lavoro. Divise i vestiti, anche se la maggior parte era colorata, e caricò la lavatrice. In seguito avrebbe lavato anche i bianchi. Infine accese, contento del suo operato. Rimase a fissarla girare per qualche minuto, poi si alzò e andò in camera della sorella: suo padre e sua sorella sarebbero stati contenti se avessero trovati i vestiti puliti, no? Prima o poi avrebbero avuto il suo stesso problema, no?
Naturalmente Costanza non c’era, in caso contrario non avrebbe potuto entrare così. Titubante sostò sulla soglia perché c’era qualcosa di strano: la stanza solitamente era disordinata ˗ vestiti, trucchi, borse e libri sparsi dappertutto ˗, invece ora era perfettamente pulita, o meglio vuota. Questa fu la prima impressione che ebbe. Accese la luce, in quanto ormai era completamente buio, e si guardò intorno: sulla scrivania adocchiò subito un foglio. Nient’altro. Si avvicinò e lo spiegò: era una lettera per suo padre. Lesse le prime righe un paio di volte, prima di comprenderne il significato. Abbandonò il foglio sulla scrivania, cercando di calmare la respirazione che stava accelerando. Aprì le ante dell’armadio e costatò che era quasi vuoto.
Sua sorella se n’era veramente andata.
Non erano mai andati troppo d’accordo, ma quell’ennesima costatazione che tutto non sarebbe mai stato come prima lo colpì paralizzandolo sul posto per diversi minuti. Stava per scoppiare in lacrime quando la luce si spense. Questo lo lasciò interdetto e con il cuore in gola cercò l’interruttore a tentoni, ma anche dopo averlo cliccato più volte non accadde nulla. Deglutì e cercò di spostarsi in corridoio e riaccendere anche quelle lampadine. Non ci riuscì. Iniziando a spaventarsi, si spostò seguendo la parete del corridoio: doveva scendere al piano di sotto e telefonare a suo padre.
Impiegò più di dieci minuti per trovare le scale e a scenderle senza scivolare. Alla fine andò a sbattere contro il mobiletto del telefono. Si massaggiò il fianco e a tentoni cercò la tastiera per comporre il numero, ma ebbe difficoltà. Per fortuna, si ricordò della torcia riposta nel cassetto, la trovò e l’accese. Deglutì e si concentrò sui numeri per ignorare le ombre che si proiettavano sui muri.
Sospirò: il cellulare di suo padre squillò a vuoto, infine s’inserì la segreteria telefonica. Allora compose il numero dello studio e dopo qualche secondo rispose la sua segreteria.
«Sono Federico» disse concitato. «Mi può passare mio padre?».
«Ciao, Federico» rispose la signora Venuti, che conosceva da un sacco di tempo. «Tuo padre è in riunione, gli dico di richiamarti?».
Il ragazzino giochicchiò con il filo del telefono incerto su come comportarsi.
«Tutto bene?» gli chiese la segretaria.
«No, se n’è andata la luce. È tutto buio» rispose in tono piagnucoloso. Non voleva disturbare suo padre, ma aveva paura. Non voleva più stare al buio. Chiuse gli occhi cercando di non guardarsi intorno.
«Sei sicuro che non si è fulminata qualche lampadina?».
«È tutto buio» ripeté.
«Va bene, stai tranquillo. Ora, avverto tuo padre».
«Grazie» mormorò e si sedette sulla sedia più vicina. Non aveva senso che andasse in giro. Mise le gambe sulla sedia e si abbracciò le ginocchia appoggiandoci sopra il mento. Prima o poi suo padre sarebbe tornato. Non poteva lasciarlo solo. Non anche lui. Che avrebbe fatto da solo?
Il padre rientrò quaranta minuti dopo – il ragazzino aveva fissato ossessivamente l’orologio che portava al polso ˗, Federico, appena sentì scattare la serratura, saltò giù dalla sedia e gli corse incontro scoppiando in lacrime.
Suo padre chiuse la porta e lo abbracciò. «Va tutto bene, ora vediamo dov’è il problema… Su, non piangere…».
Non andava tutto bene. Sapeva di dovergli dire della lettera, ma le parole sembravano bloccate in gola.
«Vediamo un po’ che cos’è successo» disse l’uomo prendendo la torcia che il ragazzino aveva stretto in mano fino a quel momento. Federico rimase appiccicato a lui, mentre controllava il quadro elettrico. «C’è qualcosa che non va» borbottò suo padre spingendo la levetta dello stotz, ma quella tornava sempre giù. «Ma hai toccato qualcosa? Hai accesso la tv e altro insieme?».
«No, ho messo la lavatrice».
«Cosa?» chiese perplesso l’uomo voltandosi verso di lui.
Alla luce della torcia sembrava molto stanco e aveva il voto tirato e pallido. Eppure non era ancora molto vecchio, Federico ne era sicuro.
«I vestiti erano tutti sporchi».
Suo padre sbuffò, palesemente irritato, e si avviò verso il piano superiore. «Fermo» lo bloccò con una mano. «È tutto bagnato, non vedi?».
«Ma io ho fatto tutto quello che faceva m-…» si bloccò non volendo continuare. Non voleva pronunciare quel nome.
Suo padre se ne accorse e gli disse di non muoversi da lì, per non bagnarsi, poi armeggiò qualche minuto in bagno. «Ho staccato la presa, domani chiameremo l’idraulico».
«Non volevo romperla» disse Federico realmente dispiaciuto e con le lacrime agli occhi.
«Non fa niente» mormorò l’uomo, poi tornò al piano di sotto e rialzò lo stotz. La luce finalmente tornò. «Perché non vai a giocare un po’ in camera, mentre io asciugo il pavimento? Cerca di non scivolare».
Federico rimase in silenzio e obbedì. Non aveva voglia di giocare né di fare null’altro, così si sdraiò sul letto, ma rimase a fissare il soffitto finché il padre non lo chiamò per la cena. Allora recuperò la lettera di Costanza, raggiunse il padre in cucina e vide che aveva preparato dei panini, come sempre ormai.
Gli porse subito la lettera.
Suo padre lo fissò per un attimo perplesso. «Che cos’è?».
«Era sulla scrivania di Costanza».
L’uomo si accigliò, lesse la lettera e s’incupì.
«Non torna?» si azzardò a chiedere dopo un po’.
«Starà via per un po’» mormorò suo padre.
«Non ho più fame, posso andare a letto?».
Suo padre lo fissò per un attimo, poi disse: «Finisci almeno il panino».
«Non mi va» insisté il ragazzino fissando la metà che aveva ancora in mano.
«Va bene, se hai sonno».
Federico annuì distrattamente e gli augurò la buonanotte. Sembrava che ci fosse un muro tra di loro e aveva paura di attraversarlo. Non poteva capirlo ancora, ma non era l’unico tormentato da quelle medesime sensazioni.
«Ho deciso di assumere qualcuno che si occupi della casa, va bene?».
Le parole del padre lo bloccarono sulla soglia della cucina. No, non gli andava bene che qualcuno entrasse in casa loro, ma annuì.
 
 
 
*
 
 
 
Ormai la primavera era iniziata, ma Federico si sentiva così giù che neanche le giornate più tiepide e la natura che rifioriva lo entusiasmavano. Ogni tanto durante le lezioni si distraeva e fissava il cielo terso, ma sembrava non trasmettergli nulla. In più non dormiva bene.
Suo padre aveva effettivamente assunto una signora straniera che si occupava di cucinare e ordinare la casa. Ora era tutto perfetto non poteva non costatare il ragazzino guardandosi intorno. La signora si chiamava Aniuska e sembrava desiderosa di far bene. Federico ogni tanto la osservava, ma per il resto del tempo non la calcolava e non le rivolgeva la parola. Lei si mostrava sempre gentile e cercava di attirare la sua attenzione, ma lui la sfuggiva. In più c’era Peter. Peter era il figlio della signora e non aveva ancora un anno. Piangeva, dormiva e mangiava. Federico non lo considerava nemmeno.
Il padre tornava tardi la sera ed era sempre più taciturno. Di Costanza non si sapeva più nulla o almeno Federico non l’aveva più sentita. Non si era premurata neanche di salutarlo.
Un pomeriggio, di cattivo umore più del solito, decise di usare il computer nello studio. Non aveva il permesso di farlo da solo, ma non gli interessava di essere rimproverato perché almeno avrebbe potuto parlare con suo padre.
Non sapeva perché ma qualcosa dentro di lui voleva sapere che cosa fosse accaduto veramente quel giorno. Nessuno gliel’aveva spiegato, suo padre si era rifiutato quando aveva provato a chiedere. Aveva colto i bisbigli dei parenti, ma tutti tacevano appena lo scorgevano. Aveva persino provato a chiedere a Costanza prima che andasse via, ma sua sorella gli aveva urlato contro.
Prese un bel respiro e avviò la ricerca su Google. Il video doveva essere ormai vecchio di mesi, ma riuscì comunque a trovarlo: erano alcuni sprazzi delle telecamere di sorveglianza, che poi erano stati mandanti in onda nei vari servizi televisivi.
Lo guardò più e più volte finché Aniuska non entrò nella stanza facendolo sobbalzare.
«È qui signorino! L’ho chiamata un sacco di volte».
Federico le rivolse un’occhiata stralunata: trovava ridicolo essere chiamato signorino. Inoltre l’aveva sentita mentre lo chiamava, ma aveva preferito ignorarla.
«Signorino, suo padre non vuole che usi computer».
«Altri cinque minuti» borbottò il ragazzino.
«Solo cinque però» ripeté la donna.
I cinque minuti divennero dieci, poi quindici, poi venti fino a più di mezz’ora. Federico spense il computer solo quando sentì il padre rientrare e corse nella sua stanza. Stranamente Aniuska non gli disse niente. Perché? Federico non lo comprese, ma nelle settimane successive rivide quel video più volte – quanto meno ogni volta che suo padre non era in casa. E ogni volta faceva ben attenzione a cancellare la cronologia. Non era tanto il computer, quanto la sicurezza che il padre non avrebbe approvato la sua ossessione per quel video. A quello della rapina si aggiunsero poi anche dei documentari sull’uccisione di altri poliziotti e carabinieri in servizio. Ben presto anche i suoi sogni si popolarono di immagini violente, di sparatorie e auto che saltavano in aria. Quando si svegliava il cuore gli batteva forte, il respiro quasi gli mancava e rimaneva sveglio per ore prima di calmarsi.
Cercò di nascondere questo stato d’animo a tutti, ma a scuola faticava a concentrarsi a causa del sonno. Più il tempo passava, più si sentiva peggio.
 
 
 
*
 
 
 
Quella mattina era soleggiata e tiepida, quindi il professore di ed. fisica aveva deciso di portarli a giocare in cortile. Federico, però, era mezz’addormentato ed era stato mandato a sciacquarsi il viso negli spogliatoi. Compì il gesto meccanicamente e poi si lasciò andare su una panchina. Era a pezzi, ma ogni volta che andava a letto aveva gli incubi. Era come se le scene di quei video si fossero conficcate nella sua testa.
All’improvviso la porta dello spogliatoio si spalancò ed entrarono tre ragazzi di terza in compagnia di Samir. Federico automaticamente si nascose in uno dei bagni prima che qualcuno facesse caso a lui – almeno non i più grandi, perché era sicuro di aver avuto gli occhi di Samir su di sé per un attimo. Con il cuore in gola sbirciò fuori.
I tre ragazzi spintonarono il più piccolo.
«Avanti, negro. Hai fatto quello che ti abbiamo chiesto?».
Federico sgranò gli occhi vedendo il compagno cadere sul pavimento, la sua testa per poco non aveva colpito il bordo di uno dei lavandini. Il ragazzino strinse la maniglia del bagno con forza senza neanche rendersene conto.
«Allora?» sibilò uno dei tre.
Federico non conosceva i loro nomi, ma li aveva notati più volte per i corridoi o in cortile perché si mettevano in mostra e infastidivano gli altri studenti, specialmente i più piccoli e le ragazze, e spesso venivano richiamati dai bidelli o dal professore che sorvegliava il cortile la mattina.
«No».
La risposta di Samir fu forte è chiara e anche questo sorprese Federico, abituato al silenzio del compagno di banco, che si vergognava a parlare anche durante le interrogazioni.
Il più alto e grosso dei tre di terza media prese Samir per i capelli, ma il ragazzino strinse i denti e non si lamentò. «No? No?».
Federico chiuse istintivamente gli occhi sperando che la smettesse: sembrava che volesse staccarli i capelli della testa. Tutti insieme. Sentì il respiro accelerare.
«Dovevi solo prendere l’iPhone di quella smorfiosa di Alessandri! Voi negri non siete bravissimi in questo?».
Gli altri due ragazzi risero.
«Io non rubo» disse distintamente Samir.
Federico riaprì gli occhi profondamente turbato nel vedere il compagno in ginocchio davanti a quei tre, mentre veniva scosso per i capelli. Doveva fare qualcosa lo sapeva. Doveva intervenire, chiamare aiuto. Non poteva stare lì a guardare.
«Lui non ruba!» sbottò il ragazzo più grande. «E noi che facciamo a chi non ci obbedisce?».
«Gli diamo una bella lezione» rispose uno degli altri due scrocchiando le dita.
Federico non pensava fossero cattivi fino a quel punto. Muoviti! pensò intensamente, ma le sue gambe era diventate molli e sembravano non volerlo reggere, figuriamoci fare un solo passo verso gli altri; gli occhi gli si riempirono di lacrime e il respiro divenne sempre più difficoltoso, mentre Samir incassava un paio di pugni sullo stomaco, prima di scivolare di lato e recuperare un flacone di sapone liquido – caduto quando aveva urtato il lavandino ˗ e tirarlo in faccia a uno dei tre ragazzi.
La vista di Federico divenne sempre più offuscata e le voci dei quattro che combattevano si confusero tra loro. Il ragazzino si lasciò scivolare sul pavimento mentre tutto cominciava a girare e un forte dolore al petto lo fece piegare in due, soprattutto per la paura.
Per un attimo al posto degli altri ragazzi rivide la madre e i tre rapinatori proprio come nel video. Voleva agire, voleva fare qualcosa, ma non riusciva a muoversi.
«Che cos’hai?» la voce acuta di Giulio gli risuonò alla testa, ma non seppe rispondergli. «Professore!» gridò ancora il ragazzino.
Giulio scomparve dal suo campo visivo e apparve quello più vecchio e leggermente rugoso dell’insegnante di ed. fisica. «Federico respira, fai dei respiri profondi».
Non riusciva più a respirare! Non lo vedeva?
«Prova a fare dei respiri profondi, dai» insisté l’uomo.
Federico voleva aria e tentò di fare come richiesto: il primo respirp sembrò doloroso, ma si accorse di riuscire a farlo.
«Bravo, continua così».
Respirò ancora e ancora. Nel mentre il professore gli tirò delicatamente le braccia che si era stretto alla pancia. «Va tutto bene, stai tranquillo. Respira ancora».
Lentamente Federico iniziò a sentirsi meglio, sebbene ancora le braccia e le gambe tremassero in maniera preoccupante. Che aveva?
«No, no, stai tranquillo» disse il professore notando che il respiro stesse accelerando di nuovo. «Va tutto bene».
Non andava tutto bene! Voleva i suoi genitori. Tutti e due. Sentì le lacrime premere per uscire e il dolore al petto rinforzarsi. Il professore lo fece sdraiare sul pavimento, tenendogli le gambe sollevate.
«Respira» lo istruì. Federico sempre più confuso e spaventato obbedì e poi bevve qualche sorso della bottiglietta che il professore gli porse. Poi Giulio riapparve nel suo campo visivo e gli sorrise timidamente. Giulio non era timido, ma doveva essersi spaventato. Vedendo la sua espressione decise di mettersi seduto, il professore lo aiutò e lo invitò a bere ancora. Federico prese ancora qualche sorso. «Hai avuto un attacco di panico» spiegò il professore. «Può succedere. Stai seduto qualche minuto, ok? Giulio fagli compagnia e distrailo».
Giulio annuì e sorrise nuovamente a Federico, che, però, si sentì a disagio, memore di come l’aveva trattato qualche mese prima e di come a malapena gli avesse rivolto la parola da allora. Giulio, però, iniziò a parlare a ruota libera e a raccontare la partita contro quelli di seconda. A Federico interessava ben poco, ma si appigliò a quelle parole senza senso finché non tornò il professore. La sua vista era tornata quasi normale e si avvide che non c’era nessun altro dei suoi compagni, probabilmente rientrati in classe.
«Va meglio?».
Federico annuì: si sentiva ancora debole, ma gli sembrava di essere tornato padrone di sé.
«Te la senti di alzarti?».
Il ragazzino annuì nuovamente, ma apprezzò l’aiuto dell’insegnante perché sentiva ancora le gambe tremanti.
«Chiamiamo tuo padre, così puoi tornare a casa».
«No!» quasi gridò Federico sorprendendo sia il professore sia Giulio.
«Come no? È…».
«Sto bene, no?» lo interruppe Federico.
«Sì, ma hai avuto comunque un attacco di panico e…».
«Mancano solo due ore e poi mi verrà a prendere. Non è necessario chiamarlo» disse Federico, non sapendo nemmeno lui perché si stesse opponendo. Voleva eccome suo padre, ma non lo voleva chiamare in quel momento.
«È la prima volta che hai questi attacchi di panico?».
«Sì» mentì Federico. E comunque era quasi vero: la notte quando si svegliava non si era mai sentito in quel modo. Deglutì al pensiero che potesse riaccadere. Aveva avuto veramente paura di non riuscire più a respirare.
«Sei sicuro di non voler tornare a casa?».
«Sì».
«Va bene. Giulio andate in classe insieme, non lasciare il tuo compagno da solo».
Giulio annuì serio e leggermente turbato.
Federico fu quasi sollevato di poter tornare in classe e far finta che non fosse successo nulla.
«Mi raccomando, bevi, hai bisogno di reidratarti» gli consigliò il professore.
Federico si accorse di aver sudato mentre si cambiava la maglia e poi tornò in classe con Giulio costantemente al suo fianco. Sembrava che il compagno temesse che avesse un altro attacco da un momento all’altro. E in fondo anche Federico nutriva la stessa paura.
Il resto della giornata trascorse molto lentamente, almeno a parere di Federico, che sentiva gli occhi di tutti puntati addosso.


Quel giorno andò Aniuska a prenderlo e dovettero fare la strada a piedi, il che lo infastidì parecchio: avrebbe voluto vedere suo padre all’uscita, ma lui era impegnato, ancora!
A tavola mangiò poco e poi si buttò sul divano, sordo ai richiami di Aniuska di spegnere e iniziare a fare i compiti: non ne aveva proprio voglia quel giorno. Si sentiva arrabbiato e spaventato, ma non voleva parlarne con lei.
«Basta!» sbottò a un certo punto la donna, spegnendo la tv. Federico si ritrovò a fissare lo schermo nero per qualche istante. «Sono le quattro! Compiti!».
Aniuska aveva quell’accento straniero molto forte, ma non si sforzava come Samir di parlare correttamente. Samir! Una stretta allo stomaco gli fece mordere il labbro: non voleva mettersi a piangere, poi sarebbe sembrato che lo faceva per il rimprovero ricevuto.
«Tanto papà torna tardi» borbottò. Ancora una volta senza la piena consapevolezza delle sue parole. Si alzò e si diresse verso la sua camera, ignorando Aniuska che continuava a parlare. Una volta giunto in camera, però, aprì svogliatamente il libro di matematica, ma non cercò nemmeno gli esercizi da risolvere. Non ne aveva voglia! Cosa voleva lei da lui? Non era nessuno, pensò con rabbia. Si gettò sul letto e recuperò un fumetto.  
Continuò così finché Aniuska non entrò nella sua stanza, forse per controllarlo, e si accorse che non stava facendo nulla.
«Finito compiti?».
«No» borbottò continuando a fissare le vignette.
«No?» ripeté la donna infastidita. In quel momento però suo figlio iniziò a piangere nell’altra stanza e lei disse: «Dirò al giudice».
Federico abbassò il fumetto osservandola mentre andava via. Si sentì in colpa: gli aveva lasciato fare tutto quello che voleva da quando era arrivata e lui l’aveva ignorata, benché conoscesse perfettamente le regole. Sospirò decidendosi di mettersi a fare i compiti. Sapeva bene come ragionava suo padre e che non avrebbe gradito scoprire il suo comportamento, ma il problema non era solo quello: gli avrebbe chiesto perché. Era sempre così con lui. Anche se era arrabbiato, si sedeva e chiedeva il perché delle azioni sue e di Costanza. Costanza odiava quello che chiamava interrogatorio psicologico. Loro padre diceva sempre che voleva che riflettessero sulle loro azioni e non agissero in un determinato modo solo perché gli era stato imposto o per paura delle conseguenze. La madre era più collerica e urlava più facilmente prima ancora di cercare di capire il perché. Il punto, però, era che Federico non voleva spiegare il perché. Avrebbe dovuto raccontargli tutto: i video, il non aver agito davanti alle prepotenze subite da Samir, la sua cattiveria immotivata con Giulio e Aniuska, gli attacchi di panico e gli incubi. Voleva parlare con lui, lo desiderava, ma non aveva la forza.
Concluse i compiti in tempo per il rientro del padre da lavoro. Durante la cena Aniuska non disse nulla e nemmeno suo padre, Federico si stupì perché pensava che la donna avrebbe raccontato subito tutto. Possibile che volesse coprirlo ancora una volta? Ma perché? Mangiucchiò qualcosa e poi ottenne il permesso di andarsene a letto.

Si addormentò quasi subito, ma gli incubi tornarono a tormentarlo come se fossero stati lì al confine tra coscienza e subconscio pronti ad attaccarlo.
Si trovava in una banca, la gente si nascondeva la testa, qualcuno urlava, proprio come nei film in tv. Ma a tenere tutti sotto controllo non erano tre rapinatori qualsiasi, ma i tre ragazzi di terza. Erano poco più delle ombre che si chinavano su di lui che non riusciva a muoversi. Voleva scappare, urlare, chiamare aiuto. Loro erano sempre più vicini.  Il più alto e grosso si chinò e gli strinse le mani intorno al collo. Il battito del cuore aumentò e il respiro si mozzò. Non riusciva più a respirare.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Stava soffocando. Perché nessuno lo aiutava? Vide Samir che osservava la scena poco distante, ma, incrociando i suoi occhi, scosse la testa.
Nessuno l’avrebbe aiutato. Era solo.
Il ragazzo strinse di più.

Federico si svegliò di soprassalto. Il cuore batteva all’impazzata e lui respirava a fatica. Si spaventò ricordando l’attacco di panico della mattina, non voleva trovarsi da solo. Da solo non avrebbe saputo riprendere a respirare.
Un tuono scosse la casa e quasi saltò giù dal letto per la paura. Cercò di razionalizzare, ma voleva solo suo padre. Provò a mettersi le pantofole ma non ci riuscì, così le scalciò via per la stizza e si diresse verso la stanza del padre. La porta era chiusa, ma lui non si preoccupò e la spalancò.
Rimase immobile quando un fulmine illuminò la camera vuota. Totalmente vuota. Il letto era intatto. Proprio come quello di Costanza. Urlò terrorizzato, quando un altro tuono scosse la casa. Suo padre non poteva averlo lasciato solo. Non anche lui. Scoppiò in lacrime e la vista gli si offuscò come quella mattina. Aveva caldo tanto che gli sembrò di essere tornato in estate. Non riusciva più a respirare.
«Federico». La voce calda e allarmata del padre risuonò nella camera. «Che hai?».
Il ragazzino si strinse a lui piangendo più forte. L’uomo ricambiò la stretta e lo baciò sulla testa. «Calmati, sono qui».
Federico sentì immediatamente la morsa al petto allentarsi, ma non mollò la stretta anzi la rafforzò, ma cercò di calmare il respiro perché voleva parlargli. «N-n-non e-ri a-a letto».
L’uomo gli accarezzò le spalle iniziando a cullarlo tra le braccia. «È presto, Fede. Sono le dieci, stavo solo guardando un po’ di tv».
Solo le dieci. Quelle parole galleggiarono nella sua testa, impiegò un po’ a rielaborarle. Non era piena notte, come aveva creduto, e non aveva dormito nemmeno un’ora. Dormito. Era stato solo un incubo: d’altronde quei tre come avrebbero potuto entrare in casa sua a quell’ora? Forse non sapevano nemmeno dove abitasse.
Si sentì al sicuro e sciocco tra le braccia del padre, ma continuò a piangere. Gli sembrava di non riuscire a fermarsi. Quando finalmente ci riuscì, si sentì svuotato e si accorse di aver inzuppato la camicia del padre, ma lui gli sorrise bonariamente.
«Meglio?».
Federico annuì stancamente.
Suo padre lo condusse verso il letto quasi di peso e lo fece sedere. Con suo sollievo gli sedette accanto e gli circondò le spalle con un suo braccio.
Dopo qualche minuto sopraggiunse Aniuska con una tazza di latte caldo. Federico si accorse di star tremando e di aver freddo, quindi accolse con piacere le prime sorsate.
«Dispiace, signor giudice» disse Aniuska torcendosi le mani. «Io rimproverare bambino prima».
«Non credo sia per questo» disse pacatamente l’uomo. «Hai avuto un attacco di panico anche stamattina, vero, Federico?».
«Come lo sai?» gli chiese flebilmente.
«Mi ha chiamato il tuo professore» replicò l’uomo spostandogli i capelli dalla fronte sudata.
Federico non replicò e bevve ancora.
«Non si deve preoccupare, Aniuska. Mi occupo io di Federico adesso, vada pure a riposare».
La donna comprese di essere stata gentilmente congedata, ma sembrava ancora inquieta prima di andarsene.
«Mi dispiace» sospirò Federico riferendosi ad Aniuska, ma anche a tutto il resto.
Suo padre ripose la tazza ormai vuota sul comodino e lo strinse a sé.
«Non fa niente. Tutti noi abbiamo dei momenti no». Federico si rilassò mentre il padre lo accarezzava. «Hai avuto altre volte prima di oggi questi attacchi di panico?».
Era la stessa domanda del professore, ma Federico non si sentì di mentire anche al padre, così gli raccontò degli incubi e delle nottate trascorse nella paura e a fissare il soffitto.
Suo padre lo ascoltò continuando a cullarlo tra le braccia.
Come un fiume in piena gli raccontò di ciò che aveva visto quella mattina prima di avere l’attacco di panico; gli raccontò di Giulio, di quando era tornato a scuola e tutti volevano essere gentili con lui e di come lui non avesse rivolto più la parola a nessuno.
Alla fine la stanchezza e il sonno ebbero la meglio, l’ultima cosa che si sarebbe ricordato era suo padre che lo aiutava a sdraiarsi e lo ricopriva con le coperte. E il suo calore per tutta la notte. Nessun incubo lo tormentò per una volta.


La mattina dopo si svegliò ed era da solo nel letto, ma, uscendo il corridoio, percepì la voce del padre provenire dalla cucina e si rassicurò. Andò a vestirsi e recuperò lo zaino, poi scese a fare colazione. Stranamente aveva voglia di mangiare. Salutò timidamente memore del suo comportamento nei confronti di Aniuska, che in fondo non gli aveva fatto nulla.
«Buongiorno» ricambiò suo padre con un sorriso. «Ti avrei chiamato tra un po’».
«Ma sono quasi le sette e mezza, farò tardi a scuola».
«Vuoi andare a scuola?».
«Sì, perché?».
«Vorrei che andassimo dal pediatra per parlare degli attacchi di panico che hai avuto ieri».
Federico sedette, perdendo un po’ l’entusiasmo iniziale, poi annuì.
«Se vuoi, puoi entrare la seconda ora».
«Va bene».
Fece colazione e poi corse a lavarsi i denti, quando tornò in cucina suo padre stava ancora parlando con Aniuska.
«Andiamo?» chiese leggermente impaziente. Non gli piaceva per nulla andare dal pediatra, per cui voleva fare in fretta. Anche se a scuola poi avrebbe dovuto affrontare Samir e si vergognava.
«Sì, ma aspetta un attimo. Non c’è nulla che devi dire ad Aniuska?».
Federico si mordicchiò il labbro, sapendo dove il padre voleva andare a parare. «Sì» sospirò, poi si voltò verso la donna. «Mi dispiace di averti disobbedito in questi giorni».
«Tranquillo» disse Aniuska.
«Federico, è un brutto periodo per tutti e due, ma Aniuska è qui per aiutarci; in più quando non ci sono io, devi darle ascolto».
«Sì, l’avevo capito» ammise Federico.
«Bene, allora portale rispetto d’ora in avanti».
Il ragazzino annuì.
«Andiamo, forza. Ci vediamo a pranzo, Aniuska».
«Va bene, signor giudice».
 
 
Federico rispose alle domande del pediatra, anche se ne avrebbe fatto a meno e poi ascoltò distrattamente quello che il medico e il padre si dissero.
«Allora, che ne pensi?» gli chiese suo padre in macchina.
«Riguardo cosa?» replicò Federico giocando distrattamente con l’elastico della felpa.
«Di parlare con uno psicologo».
Erano in fila, la giornata era luminosa ed erano immersi nel solito caos cittadino, eppure dell’entusiasmo della mattina non era rimasto quasi niente nel ragazzino.
«Va bene, come vuoi».
«Ti ho chiesto che ne pensi» insisté pazientemente il padre.
Federico si strinse nelle spalle. «Non mi va».
«Non ti andrebbe di parlare con lui di quello che ti è successo ultimamente?».
«Mi basta parlarne con te» rispose il ragazzino buttando fuori quello che si teneva dentro da mesi.
Suo padre si voltò a fissarlo, colto di sorpresa dalle sue parole.
«Non parliamo molto ultimamente» si giustificò Federico, credendo che il padre non fosse d’accordo.
L’uomo sospirò e rimase in silenzio finché non trovò un posto dove parcheggiare.
«Ma se non puoi non fa niente» lo precedette Federico che proprio non aveva voglia di sorbirsi una lunga predica sull’importanza del dovere e dell’ottemperare ai propri compiti. «Lo so che il tuo lavoro è importante».
«Perdonami, sono stato egoista».
Federico lo fissò stranito: egoista era l’ultimo aggettivo che avrebbe mai associato al padre, che, in più, in quel momento aveva gli occhi lucidi.
«Tu non sei egoista!» protestò il ragazzino.
Suo padre scosse la testa. «Sì, che lo sono Federico. Ho considerato solo il mio dolore e non il tuo e ti ho lasciato da solo. Perdonami».
Federico si sporse verso il lato del guidatore e cercò di abbracciarlo nonostante fosse scomodo. «Non ce l’ho con te, ma mi sei mancato».
Sentì la stretta del padre farsi più forte.
«Sono qui, non scappo più» replicò suo padre con voce incerta.
Federico si scostò leggermente e vide che gli era sfuggita qualche lacrima. «Piangi?». Allungò la mano e gli toccò la guancia cercando di bloccare la corsa di una lacrima. «Gli adulti non piangono» mormorò dispiaciuto.
«E chi te l’ha detto?» chiese suo padre cercando di riprendere il controllo di sé.
«Costanza».
L’uomo ridacchiò leggermente e si sforzò di sorridere. «Si sbaglia».
«Dov’è?».
«Costanza? Mi ha risposto una volta sola da quando se n’è andata, ma non mi ha detto dove si trova. Lei dice di star bene. Ha voluto che le spedissi dei documenti, spero solo che decida di finire la scuola».
«Ma torna?».
«Non lo so».
«Tu sei arrabbiato con lei?».
«No, ho sbagliato io, spero che mi dia la possibilità di chiederle scusa».
«E con me sei arrabbiato?».
«No, perché dovrei?».
«Non mi sono comportato bene ultimamente».
«Alla tua età è lecito sbagliare, gli adulti al contrario dovrebbero essere più responsabili».
Federico annuì comprendendo in parte quanto il padre fosse severo con sé stesso. «Ti voglio bene» gli disse scoccandogli un bacio sulla guancia.
«Anch’io» replicò suo padre. «Forza, andiamo ad aiutare Samir».
 



 
Presente
 




«Gli attacchi di panico non ti sono passati, dico bene?».
«Marica, sei sempre molto delicata».
La ragazza si strinse nelle spalle.
«Comunque più o meno. Non ho avuto più attacchi così gravi, ma, quando assisto a scene violente, mi blocco lo stesso e non riesco a muovermi… mi sento male».
«Della serie, in caso di aggressione, saresti inutile».
Federico storse la bocca e non rispose, ma si limitò a riporre il ritaglio di giornale in tasca.
«Quindi tu e Samir siete amici da allora?».
«Già. Ho raccontato ai professori quello che era successo…».
«Il solito santarellino».
«… poi ho regalato il mio album delle figurine a Samir e ho diviso a metà i doppioni tra lui e Giulio. Il calcio proprio non mi piace».
«Sei tutto strano».
«Ancora non mi capacito di averlo raccontato a te».
In quel momento percepirono dei rumori e Marica urlò per farsi sentire.
Li aprì una signora delle pulizie. «E voi che fate qui?».
«Succedono molte cose strane» disse Marica forse rivolta più a Federico che alla signora.
«Ehi, voi due, che stavate combinando lì dentro?» insisté la donna.
«Lei cosa ne dice?» replicò Marica.
Federico avvampò mentre recuperava lo zaino.
«Signorina! Lo dirò al preside! Quali sono i vostri nomi?».
Marica le fece segno con la mano e uscì dal bagno con gli occhi fissi sul cellulare, che aveva recuperato.
«Non abbiamo fatto nulla» disse Federico quando gli occhi si puntarono su di lui.
«Nome, cognome e classe» sibilò la donna per nulla intenerita.
Federico si morse il labbro. Grazie Marica. Odiava essere messo sotto pressione in quel modo, alla fine optò per la verità. Non aveva fatto nulla in fondo, no? «Federico Mestri, III B».
«E la tua amica?».
«Non è mia amica» rispose Federico. Eppure le aveva raccontato qualcosa di molto importante su di sé. «Devo andare via, mi aspettano. Scusi. Buona giornata» svicolò prima che lo potesse fermare.
«Lo dirò al preside» gli urlò dietro lei.
«E faccia un po’ come vuole» borbottò il ragazzo quando fu abbastanza distante. Fuori trovò Marica con Samir.
«Eccoti!».
Marica scoppiò a ridere. «Ha smesso di urlare quella? Dev’essere una vecchia zitella».
Federico alzò gli occhi al cielo.
«Che succede? Mi ha chiamato tuo padre perché non gli rispondevi» disse Samir.
«Andiamo, poi ti spiego» sospirò Federico. Chiamò il padre per tranquillizzarlo, poi raccontò tutto all’amico. Fecero una corsa e arrivarono al Tribunale con il fiatone. Il processo era già iniziato.
«Sei sicuro?» gli chiese ancora Samir.
Federico non rispose e si avviò all’interno. Samir lo seguì. «Sicuro?».
«Certo».
Non ebbero troppe difficoltà a trovare l’aula giusta, era affollata e impiegarono un po’ a trovare il giudice Mestri, per fortuna seduto esternamente.
«Che fine avevi fatto?» chiese quest’ultimo al figlio.
«Poi ti spiego».
Federico era inquieto: aveva preteso di assistere al processo degli uomini che avevano assassinato sua madre, ma, solo ascoltando le prime battute, se ne pentì. Gli occhi gli caddero sui tre imputati in manette. Avevano già trascorso sei anni di carcere e quello era il processo di secondo grado. Gli osservò e vide solo degli uomini intristiti. Vicino a uno c’era persino una donna che tentava di parlargli, ma che fu allontanata prontamente dalla polizia giudiziaria.
Suo padre gli strinse un braccio. «Andate a farvi un giro tu e Samir».
Federico deglutì e poi annuì. Non aveva senso stare lì, suo padre aveva ragione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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